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Le coordinate della Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi: Le coordinate della Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi

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Diocesi di Milano – Formazione Permanente del Clero

Proposta di Formazione del Clero per l’anno 2007-2008
LA COMUNITÀ DEI SANTIFICATI E IL SUO APOSTOLO

(don Pierantonio Tremolada)

Prima traccia di meditazione

Le coordinate della Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi

   La Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi è un testo che impressiona. Essa ci pone davanti agli occhi anzitutto lo spaccato di una comunità cristiana tanto vivace quanto problematica. Ciò che di essa si racconta è in alcuni casi sconcertante. Veniamo a contato con una Chiesa reale, in carne ed ossa, calata dentro un contesto storico-culturale difficile, sorta dalla potenza santificante del Vangelo. Chiamata alla santità, questa comunità vive l’esperienza trasfigurante della fede e insieme è sottoposta all’attacco impietoso e senza tregua della tentazione. Paolo è l’apostolo a cui si deve l’esistenza di questa comunità. Egli è fratello, servo, padre di tutti nel nome di Cristo. È colui che ha piantato il seme della Parola di Dio e che è stato spettatore del suo misterioso germogliare, in mezzo a travagli di ogni genere. Il suo ministero prende luce dalla vita di grazia che la Chiesa di Corinto sperimenta, mentre lotta contro l’empietà e l’idolatria che costantemente la minacciano. Sentendo raccontare in questa lettera apostolica come prende corpo in una città come Corinto la novità di vita del Vangelo, noi capiamo meglio, fissando lo sguardo sulla figura di Paolo, che cosa significa essere ministri di Cristo a favore della sua Chiesa.

   Ci introduciamo alla lettura meditata della Prima Lettera ai Corinzi interrogandoci sulle circostanze e le ragioni della sua stesura. Quando, dove e perché Paolo decise di scrivere questa lettera? Entreremo così nel mondo di questo testo, cominceremo ad avvicinarci all’esperienza che lo ha generato. Non potremo naturalmente dimenticare che sia il testo della Prima Lettera ai Corinzi sia l’esperienza lo ha generato trovano la loro origine nell’azione misteriosa e vivificante dello Spirito di Cristo.

  Una lettera scritta ai Corinzi da Efeso
   Quando e dove Paolo scrive la Prima Lettera ai Corinzi? Non è difficile dare risposta a questa domanda. L’apostolo scrive questa lettera mentre si trova a Efeso, la città più importante della provincia romana di Asia. Leggiamo infatti in 1Cor 16,5-9:

« Verrò da voi dopo aver attraversato la Macedonia … Non voglio vedervi solo di passaggio, ma spero di trascorrere un po’ di tempo con voi, se il Signore lo permetterà. Mi fermerò tuttavia qui a Efeso fino a Pentecoste, perché mi si è aperta una porta grande e propizia, anche se gli avversari sono molti ».

   Il libro degli Atti degli Apostoli conferma il soggiorno di Paolo a Efeso e ne precisa anche la durata:

« Questo durò due anni con il risultato che tutti gli abitanti della provincia dell’Asia, Giudei e Greci, poterono ascoltare la parola del Signore » (At 19,10).

    Il testo di At 20,31 parla di tre anni. Siamo con ogni probabilità negli anni 54-57 d. C. Furono anni di intensa attività apostolica. La prolungata permanenza di Paolo a Efeso consentì a tutta la provincia di Asia, come dice appunto At 19,10, di ascoltare la parola di Dio. L’opera di evangelizzazione di Paolo era, come sempre, prorompente.

   Dunque Paolo scrive ai Corinzi mentre vive una intensa attività apostolica tra gli Efesini. Colpisce questa capacità dell’apostolo di rivolgersi liberamente e naturalmente a una comunità cristiana mentre si trova presso un’altra. È segno anzitutto dell’unità della Chiesa, che ritrova la sua radice nell’unico Vangelo. È anche segno di una vera capacità di amare da parte di Paolo, della sua reale paternità apostolica: ogni comunità è presente nel suo cuore, senza parzialità. Ognuna è cara nella stessa misura, seppure in modo necessariamente diverso.

  Vent’anni di ministero apostolico alle spalle
   In quale momento di vita si trova Paolo e quale esperienza di fede sta attraversando? Quando scrive la Prima Lettera ai Corinzi, cioè nel 54-57 d. C., Paolo ha circa cinquant’anni. Da circa vent’anni è cristiano e apostolo di Gesù Cristo, se, come sembra, la sua nascita va collocata intorno all’anno 6 d. C. e l’evento di Damasco intorno al 36 d. C. Egli sa bene di essere stato « chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio » (1Cor 1,1). Indimenticabile e ancora incomprensibile nelle sue ragioni più profonde è per lui l’esperienza della grazia di Dio a suo favore: 

« Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana … » (1Cor 15,9-10).

   Egli « ha visto il Signore » (cf. 1Cor 9,1) è stato « conquistato da lui » (Fil 3,12), è stato raggiunto dalla « rivelazione del Figlio di Dio » (cf. Gal 1,16). Da quel momento la sua vita e l’annuncio del Vangelo sono diventati una cosa sola. Impensabile per lui non proclamarlo e fare di questo annuncio lo scopo di tutta la sua vita:

« Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato » (1Cor 9,16-17).

   Da quel momento cruciale sono trascorsi ormai vent’anni. Un tempo considerevole, tutto dedicato al ministero pastorale. Un ministero intensissimo. Paolo ha cominciato infatti a predicare prima a Damasco e poi a Gerusalemme tra l’imbarazzo, il sospetto e la paura dei primi credenti e la rabbia furiosa dei suoi fratelli Giudei (At  9,19-30); ha predicato poi, chiamato da Barnaba, ad Antiochia di Siria, questa volta con grande successo (At 11,26); ha compiuto con lo stesso Barnaba il primo viaggio missionario in Asia minore dal 46 al 48 d. C. (cf. At 13-14) e il secondo viaggio missionario in Macedonia e Acaia, dal 50 al 52 (cf. At 15,36-18,22). Proprio nel corso di questo secondo viaggio apostolico Paolo giunge a Corinto, probabilmente alla fine dell’anno 50 d. C. (cf. At 18,1ss). Alle sue spalle, ancora fresca, l’esperienza fallimentare di Atene, la città della sapienza mondana (At 17,16-34), e nel suo cuore la preoccupazione per la giovane comunità di Tessalonica, da cui aveva dovuto forzatamente congedarsi dopo un periodo molto, troppo, breve di evangelizzazione (cf. At 17,1-9). Proprio da Corinto Paolo scriverà nel 51 d. C. la Prima Lettera ai Tessalonicesi. La testimonianza della comunità di Tessalonica lascerà in Paolo un’impronta indelebile: a fronte dello scacco subìto ad Atene, il perseverare gioioso di quella  comunità in mezzo alle persecuzioni farà intuire all’apostolo la grande potenza del Vangelo, una potenza che si manifesta attraverso la debolezza dei suoi stessi annunciatori (cf. 1Ts 1,4-7).

  Un paganesimo che attende la redenzione
   Che cosa incontra Paolo a Corinto? La città di Corinto è dal 27 d. C. capitale della Grecia, o meglio, della provincia romana dell’Acaia. Ha preso il posto della grande Atene, ormai in declino. Corinto è la città dell’istmo,  dei due mari (Egeo e Ionio) e dei due porti (Cencre e Leche). L’invenzione del diolkos, binario lungo il quale venivano fatte scorrere le navi per consentire loro di passare da un mare all’altro (oggi la cosa avviene percorrendo il canale che ha tagliato l’istmo), aveva portato grande prosperità, anche se non a tutti. La popolazione era fluttuante e cosmopolita, diremmo oggi: multietnica. Corinto era la città del benessere e delle grandi differenze sociali. Qui convivevano senza mai incontrarsi povertà e opulenza. Era inoltre la città immorale per eccellenza: vivere alla maniera dei Corinzi significava condurre una vita dissoluta, senza alcuna regola o principio. Sull’alto promontorio che dominava la città sorgeva l’Acrocorinto (535 m a picco) con il suo tempio ad Afrodite, la dea dell’amore, presso il quale era molto probabilmente praticata la prostituzione sacra.

   Corinto era dunque, almeno a prima vista, una città pagana a tutti gli effetti. La situazione sembrava indurre allo scetticismo più totale per quanto concerne la possibilità di un riscatto etico-religioso. Le sue credenziali non erano affatto confortanti: mentalità fortemente commerciale, massiccia circolazione di denaro e sua idolatria, disuguaglianze sociali evidenti, una concezione dell’amore sostanzialmente mercenaria, una visione della corporeità che induceva alla licenziosità. Come non pensare ad una città perduta, in preda al degrado dell’empietà? Ma chi conosce veramente la potenza della grazia e le vie che essa percorre? Come è vero che spesso l’apparenza non fornisce il vero quadro delle situazioni! Il luogo primario in cui Dio opera con la potenza del suo Spirito è la coscienza, il cuore umano, il mondo interiore di ciascuno. A Paolo il Cristo dirà:

« Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città » (At 18,9-11).

   Impressiona, comunque, il coraggio di Paolo. Egli non teme di entrare in questa città simbolo, agli antipodi della vita nuova che egli ha imparato a conoscere attraverso il Vangelo di Cristo. Merita meditare su questo coraggio. Esso si presenta come ansia di redenzione per una città alla deriva. Due sono i punti fermi che emergono: la fede nella potenza di Cristo e l’amore per l’umanità, l’una e l’altro derivanti dalla croce del Signore. Lo sguardo di Paolo sulla città di Corinto è quello di Cristo stesso. Non è importante la condotta pagana di questi uomini; è importante la loro umanità. Non esiste il pagano, ma l’uomo, il fratello, smarrito tra le tenebre e esposto alla morte. Quello dell’apostolo è lo sguardo di Dio stesso, il Padre della misericordia (cf. Lc 15,11-32). Egli « vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità » (1Tim 2,4).

  Una Chiesa che nasce dalla debolezza della predicazione
   Come nasce la Chiesa di Corinto? Paolo, giunto la prima volta a Corinto, vi rimane « un anno e mezzo » (cf. At 18,11). La sua presenza avrà, dal punto di vista della evangelizzazione, un peso incalcolabile. A lui si deve la fondazione della Chiesa di Corinto e il suo perseverare nella fede in mezzo a molte prove. La fondazione della Chiesa di Corinto è descritta in At 18,1-17. Nella Prima Lettera ai Corinzi Paolo stesso accenna all’inizio del suo ministero. Questo testo, molto bello, ci fa sapere con quali sentimenti e atteggiamenti l’apostolo di Cristo entrò nella grande Corinto e avviò la sua opera di annuncio; oggi diremmo, come avviò la sua pastorale missionaria:

« Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio » (1Cor 2,1-5).

   Umiltà sincera e fede incrollabile nella potenza della croce del Signore: sono questi i due pilastri del ministero di Paolo al suo esordio. Nessuna presunzione, bensì timore e trepidazione; consapevolezza che il frutto della missione apostolica non dipende dalle capacità umane, ma dalla manifestazione dello Spirito. Lo sguardo è rivolto prima di tutto alle persone, al mistero della loro interiorità, all’abisso imperscrutabile del loro cuore, che solo lo Spirito può raggiungere e conquistare. Solo a partire da qui si costruirà la Chiesa di Cristo, comunità di fratelli salvati per grazia e uniti nell’amore del Signore crocifisso e risorto.

  Una Chiesa da ammonire e da istruire
   Perché Paolo scrive la Prima Lettera ai Corinzi? L’occasione precisa per scrivere la Prima Lettera ai Corinzi è una visita che l’apostolo ha ricevuto a Efeso:

   « Mi rallegro della visita di Stefana, di Fortunato e di Acàico, i quali hanno supplito alla vostra assenza; essi hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro » (1Cor 16,17-18).

   Una delegazione è quindi andata a trovarlo e gli ha portato notizie buone e cattive. Dobbiamo presumere che queste stesse persone gli abbiano sottoposto delle domande legate a situazioni presenti all’interno della comunità. Queste notizie e queste domande inducono l’apostolo a scrivere. Ecco qui lo spaccato di vita della Chiesa di Corinto, con il suo travaglio, le sue ferite, le sue domande, ma soprattutto con la potenza santificante della grazia che si dimostra costantemente attiva.

   Qual è dunque il contenuto della nostra lettera? La Prima Lettera di Paolo ai Corinzi non ha un tema centrale. Centrale è la comunità con i suoi problemi e i suoi interrogativi. In linea generale, un poco semplificando, possiamo dire che i primi sei capitoli trattano dei disordini e degli scandali, mentre dal capitolo settimo in poi Paolo risponde a domande su problemi concreti. I problemi della comunità di Corinto sono seri: i primi quattro capitoli sono tutti dedicati al dramma delle fazioni che si sono create all’interno della comunità; nel capitolo quinto si parla del vergognoso caso di incesto; il terzo scandalo, di cui si tratta al capitolo sesto, è l’appello ai tribunali pagani da parte dei cristiani; il quarto scandalo è la fornicazione, che offende la santità del corpo. Il quadro è davvero impressionante. La Chiesa di Corinto così viva e luminosa agli inizi della sua storia, bella e irradiante, è oscurata da disordini laceranti e da comportamenti scandalosi. Le cinque domande poste a Paolo riguardano: il rapporto matrimonio e verginità (Cap. 7), il problema delle carni immolate agli idoli (Capp. 8-10), l’andamento delle assemblee religiose (Cap. 11), i doni spirituali e presenti nella comunità, cioè i carismi (Capp. 12-14) e infine l’interpretazione della resurrezione, tema fondamentale per la fede cristiana.

   Chiamato a misurarsi con un vissuto come questo, l’apostolo si fa maestro e padre. In questo scritto noi incontreremo, insieme con la sua passione per il Vangelo, la sua intelligenza spirituale e la sua carità pastorale.

Publié dans:DIOCESI (DALLE), Lettera ai Corinti - prima |on 10 novembre, 2009 |2 Commentaires »

Il Prigioniero del Signore – dell’Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

ancora una presentazione di Paolo, dall’Arcivescovo di una Diocesi, io non mi stanco mai di leggere queste presentazioni proposte dai Pastori delle nostre Diocesi, si coglie in esse, nella loro diversità, nell’unità dell’amore per Paolo, la grande ricchezza dell’Apostolo e della nostra Chiesa, dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/96/2008-07/11-167/Il%20prigioniero%20del%20Signore%20(S.%20Paolo).pdf

Il Prigioniero del Signore 

di Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

(11 luglio 2008, data presa dall’indirizzo web)

Introduzione
 

Queste brevi riflessioni (fatte soprattutto di citazioni degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di S. Paolo) solo dei piccoli squarci sulla straordinaria avventura umana e cristiana di colui che qualcuno ha chiamato il secondo fondatore del Cristianesimo (W. Wrede). Sono anche un invito a riprendere in mano gli Atti degli Apostoli e le Lettere di S. Paolo per entrare sempre di più nel mistero di quest’uomo che ha consegnato tutto se stesso al Signore Gesù Cristo. Fino a diventare “prigioniero del Signore”, come egli stesso si autodefinisce nella lettera ai cristiani di Efeso (Ef, 4,1). S. Bernardino da Siena (il cui corpo riposa nell’omonima Basilica della città dell’Aquila) ha scritto: “Quando la bocca di Paolo predicava ai popoli, come per il fragore di un gran tuono, o per l’avvampare irruente di un incendio o per il sorgere luminoso del sole, l’infedeltà era distrutta, la falsità periva, la verità splendeva, come cera liquefatta dalle fiamme di un fuoco veemente”. Possa l’Anno Paolino (28 giugno 2008-29 giugno 2009) far rinascere in ognuno di noi il desiderio di conoscere sempre meglio l’Apostolo Paolo, per imitarlo, per sentirlo vivo in mezzo a noi, come modello e guida per il cammino della nostra santificazione e per inventare gli itinerari più efficaci per la nuova evangelizzazione. 

+ Giuseppe Molinari

Arcivescovo Metropolita dell’Aquila

1. Il persecutore  

La prima notizia su Paolo nel Nuovo Testamento, la troviamo dopo il racconto della lapidazione di Stefano, il primo martire. Si dice che “i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane chiamato Saulo” (Atti 7,58). Successivamente si precisa che “Saulo era tra coloro che approvavano l’uccisone (di Stefano)” (Atti 8,1). Così all’inizio della sua storia Paolo viene presentato come il “persecutore”. Saulo (questo il nome con cui Paolo era conosciuto in mezzo agli Ebrei) è uno che ha perseguitato i cristiani. Lo confesserà egli stesso: “Ultimo fra tutti (Gesù) apparve anche a me come ad un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa” (1 Cor. 15,9).

Penso al mondo di oggi.

Penso alla gente di oggi.

Papa Benedetto XVI denuncia in modo vigoroso la dittatura del relativismo: non esistono più verità assolute, ogni uomo si crea la sua verità. e la conclusione è che aumentano gli uomini e le donne che non hanno una fede. Dilaga il relativismo e insieme l’indifferentismo. La fede non interessa più, Dio non interessa più; nasce quasi il rimpianto per i tempi in cui esistevano i cosiddetti “nemici della fede”. In verità ci sono ancora, e ci sono pure i persecutori. Ma sembra crescere in modo pauroso il numero di coloro che non si interrogano più sui problemi fondamentali dell’uomo. Sembra non esistano più coloro che combattano Dio e i cristiani, perché l’indifferenza ha bruciato nel cuore di tutti le domande più importanti. Saulo non era un indifferente. Credeva nel Dio d’Israele, nel Dio dei patriarchi e dei profeti. Nel Dio che aveva creato il cielo e la terra. e si era riservato un popolo, il popolo d’Israele, perché annunciasse le sue meraviglie tra le genti. Perché questo piccolo popolo ricordasse agli uomini di tutta la terra chi era il vero Dio. Racconta sempre il libro degli Atti degli Apostoli: “Saulo, frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati” (Atti 9,1-2). Saulo non è un uomo sanguinario, un sadico che gode di vedere i cristiani in galera. E’ un adoratore del vero Dio, il Dio d’Israele, quel Dio che non sopporta idoli. Come recita l’antica preghiera: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt. 6,4). Saulo, da perfetto israelita, viveva questa fede. Sapeva che il suo Dio era un Dio geloso, che non sopportava dai suoi adoratori altri amori verso altri dei, verso forme non autentiche di religiosità. E i discepoli di Gesù di Nazareth apparivano agli occhi di questo zelante ebreo come una pericolosa setta, che si allontanava dalla religione dei padri. Io credo che la disgrazia più grande dei nostri tempi è la schiera enorme di coloro che non credono più a nulla, non combattono più nessuna battaglia, non sono più capaci di opporsi a Dio, perché Dio per loro, è una parola vuota. Saulo non apparteneva a questa massa amorfa e triste. Egli credeva, amava, adorava il Dio d’Israele. E la sua fede ardente lo portava ad essere persecutore dei cristiani, gli “eretici”. Era un “fondamentalista”. Ma guai a chi non crede più a nulla, non lotta più per nessun ideale, si arrende alla cultura dell’indifferenza che regna nel mondo. Nell’Apocalisse c’è un giudizio terribile per chi è tiepido ed indifferente, per chi non sa decidersi: “All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: tu non sei né freddo né caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3,14-16). Saulo non ha mai appartenuto alla categoria dei tiepidi, degli indifferenti. E’ stato un persecutore convinto. Uno zelo indicibile lo spingeva a perseguitare i cristiani. Credeva di essere sulla strada giusta e questa strada la percorreva con una passione ed una dedizione inarrivabili. Ma Qualcuno lo attendeva lungo la via di Damasco. Per rivelargli un’altra verità, un’altra luce, un’altra passione. Una passione che avrebbe trasformato radicalmente e per sempre la sua vita. 

2. Il convertito 

Sentiamo il racconto degli Atti degli Apostoli: «E avvenne che, mentre (Saulo) era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?” Rispose “chi sei o Signore?” e la voce: “Io sono Gesù che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (Atti 9,3-6). Poi si racconta dello stupore dei compagni di viaggio, della cecità che colpisce Saulo, e dell’arrivo a Damasco. Qui c’è l’incontro di Saulo con Anania, che il Signore aveva incaricato di aiutare il persecutore dei cristiani ad aprirsi alla vera fede. Anania, che conosce Saulo e il suo odio verso i cristiani, si mostra perplesso e timoroso. Ma il Signore lo incoraggia: “Va’, perché egli è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele ed io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (Atti 9,15-16). Qualcuno ha scritto che dopo la risurrezione di Cristo la conversione di Saulo, che diventerà l’Apostolo Paolo, è il miracolo più grande che viene raccontato nel Nuovo Testamento. Umanamente parlando era impossibile che questo seguace dell’ebraismo diventasse cristiano. Gesù Risorto ha compiuto questo miracolo. Paolo sa che la sua conversione è puro dono di Dio. E lo riconosce chiaramente: “Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è in me” (1 Cor. 15,10). Scrivendo al giovane discepolo e vescovo Timoteo Paolo confessa con stupenda umiltà: “Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia, chiamandomi al ministero; io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1 Tm. 1,12-16). E’ bello e commovente sentire Paolo che fa queste confidenze. Ma, soprattutto, le sue parole sono una luce che porta chiarezza alla nostra vita. Il tema della conversione attraversa tutto il libro Sacro, la Bibbia. La conversione interessa ogni discepolo di Gesù. Con l’invito alla conversione si apre la predicazione di Gesù nel Vangelo. E viene spontaneo chiederci: ma noi siamo realmente convertiti? Per Paolo la conversione è stata una rinuncia totale al passato e un consegnarsi senza riserve nelle mani di Gesù Cristo: “Quello che poteva essere per
me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza del mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero una spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”. E ancora: “Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione: solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli io non ritengo di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil. 3,7-13).

Ma neppure per Paolo la conversione è stata facile.

Rileggiamo la Lettera ai Romani : “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo al peccato (…). Infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto (…). Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene! C’è in me il desiderio del bene; ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…) io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo alla legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,14-23). Ma ormai Paolo non ha più paura di questa lotta contro il male, per continuare a vivere ogni giorno la sua conversione. Infatti conclude con gioia: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7, 24-25). E ancora: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono di Gesù Cristo. Poiché la legge dello spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2). Paolo ci insegna che il nostro passato, anche se negativo, non può impedirci di aderire completamente a Cristo e al Suo Vangelo. Paolo ci insegna anche che convertirsi non significa essersi sottratti per sempre alla lotta spirituale contro il male. L’importante è credere con tutto il cuore che Gesù Cristo è dalla nostra parte e non ci lascerà soccombere. Soprattutto non permetterà che il nostro peccato ci appaia più importante e decisivo dell’amore di Dio per noi.

Convertirsi è avere trovato ciò che è più importante e decisivo.

Convertirsi è non volgersi più indietro.

Convertirsi è avere imparato ad amare e a sperare.

Convertirsi è sperimentare che ormai la nostra vita non ci appartiene più: dev’essere
donata totalmente a Dio e ai fratelli.

3. L’Apostolo 

Paolo, ormai “ghermito dal Signore” (Fil. 3,12), sente che la sua vita non gli appartiene più. Ma è una vita da donare completamente a Dio e ai fratelli. A questo del resto l’aveva chiaramente destinato lo stesso Gesù Risorto, che gli era apparso sulla via di Damasco. Abbiamo sentito ciò che il Signore risorto dice ad Anania: “Egli (Paolo) è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (At. 9,15). Tutte le lettere di Paolo sono attraversate da questa ansia missionaria, da questo struggente desiderio di portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo: “Guai a me se non evangelizzo”. Paolo sa, però, che nella sua missione di evangelizzatore non deve e non può confidare in se stesso, ma solo nel Signore. Non può annunciare se stesso, ma solo Gesù Cristo Crocifisso: “Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunciarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di
sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Cor. 2,1-5). In una delle sue lettere, per rispondere ad alcune accuse dei suoi aversari, Paolo si vede costretto a….fare il proprio elogio di Apostolo. E’ un piccolo saggio (prezioso) per aprire uno squarcio sulla sua incredibile e multiforme attività missionaria. Scrive Paolo: “Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio,veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non frema? (…) A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani” (2 Cor. 11, 21-29.32-33). Paolo, malgrado le prove che il Signore permette anche nella sua vita di Apostolo, non si scoraggia. Continua imperterrito la sua corsa per annunciare il Vangelo a tutti. Così scrive infatti ai Corinzi: “Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo; al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio” (2 Cor. 4,1-2). E ancora: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,5-6). Paolo è consapevole che la missione affidatagli da Cristo è sublime. Ma non dimentica mai la sua piccolezza, il suo niente. E, soprattutto, non dimentica che questa vita sulla terra è solo un prepararci a quella vita che durerà per tutta l’eternità, accanto al Signore Risorto. Ecco perché l’Apostolo riesce a trovare sempre la forza e la gioia per andare avanti: “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti noi che siamo vivi veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Animati, tuttavia, da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche voi con Gesù e ci porrà accanto a Lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perchè la grazia, ancor più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor. 4,7-18). Paolo è l’apostolo che può dichiarare con mite fermezza la sua purissima intenzione di essere al servizio di Dio e dei fratelli, con una dedizione immensa, una passione grande e una tenerezza incredibile: “Da parte nostra non siamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2Cor. 6,3-10). Sono tantissime le testimonianze che ci rivelano la gigantesca statura spirituale e morale dell’Apostolo Paolo. Ma ci piace concludere queste brevissime annotazioni con una scena che desta sempre tanta commozione nel cuore di chi la rilegge nel libro degli Atti degli Apostoli: l’addio agli anziani di Efeso. Sono le pagine che ci mostrano quanto amore e quanta dedizione sincera accompagnavano Polo nei suoi viaggi missionari. E veniamo anche a scoprire quali legami profondi si creavano tra l’apostolo, i responsabili delle varie comunità e i fedeli che aveva incontrati. Paolo, come ogni vero apostolo si rivolgeva alle persone, non alle masse, conosceva i volti dei suoi, non era interessato al numero degli adepti. Ed ecco il racconto degli Atti: «Da Mileto (Paolo) mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà(…). Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l`eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere! ». Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave» (Atti 20,17-37). In quegli abbracci e in quei baci è custodita una ricchezza di incontri, di sentimenti, di legami unici tra l’Apostolo e tutti i fratelli e sorelle della comunità di Efeso. Una storia che possiamo solo intuire ma che, per quel poco che riusciamo ad immaginare, testimonia in modo luminoso l’autenticità, l’intensità, la profonda umanità e l’altissimo profilo spirituale dell’avventura apostolica di Paolo di Tarso.

4. Il Testimone 

Gli Atti degli Apostoli ci presentano almeno tre grandi viaggi missionari di Paolo. Ma è difficile circoscrivere tutta l’attività missionaria dell’Apostolo. Sappiamo che dopo questi viaggi si era recato a Gerusalemme per portare le collette raccolte soprattutto in Macedonia e in Acaia. Sappiamo che in occasione di questa visita a Gerusalemme ci fu un subbuglio provocato contro l’Apostolo da alcuni giudei della provincia d’Asia che accusavano Paolo di aver violato l’area sacra del Tempio e di aver tentato di introdurre nel luogo sacro alcuni gentili. Il tribuno della coorte romana lo sottrasse al linciaggio della folla dei giudei. Paolo si difese sia in pubblico, di fronte ai giudei della città, sia di fronte al Sinedrio. Si difese anche a Cesarea Marittima, di fronte al procuratore romano Antonio Felice e davanti al suo successore Porcio Festo. Fu proprio di fronte a quest’ultimo che Paolo, cittadino romano, si appellò all’Imperatore e fu perciò deferito a Roma. E’ bello rileggere direttamente negli Atti il viaggio di Paolo a Roma, pieno di pericoli e drammatici imprevisti. Un viaggio che fu ugualmente una continua evangelizzazione (Atti 27 e 28). Giunto a Roma, Paolo vi trascorre, sotto custodia militare, due anni, nella casa che aveva preso a pigione: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. Si conclude così il racconto degli Atti degli Apostoli. Si era negli anni tra il 58 e il 63 (dopo Cristo). Dopo questo momento non abbiamo date e notizie sicure. Sappiamo però che la morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma, sotto l’Imperatore Nerone, e fu una morte violenta. Fu un martirio, con l’accusa, forse, di appartenere ad un gruppo sovversivo. Fu la morte di chi fino all’ultimo volle testimoniare la sua fede e il suo amore a Gesù Cristo. “Martirio”, secondo il termine greco da cui questa parola deriva, significa appunto testimonianza. Fino all’ultimo Paolo ha voluto testimoniare che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è il Messia promesso dai Profeti, è l’unico Salvatore del mondo. Ma possiamo meditare su altri aspetti della straordinaria testimonianza dell’Apostolo. Paolo ci testimonia che l’essenza della vita cristiana è aver trovato Gesù, amarlo e vivere di Lui e per Lui. Lo scrive nella lettera ai Galati: “In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,19-20). Paolo ci testimonia e ci ricorda che la vita cristiana è tutta qui, nel poter ripetere come lui: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Tutto il resto viene dopo. E nel resto c’è il cammino verso la santità, l’impegno personale nella vita spirituale, l’impegno sociale e politico, l’impegno per la pace, l’impegno nel custodire la creazione, l’impegno a fare di tutta l’umanità l’unica famiglia dei figlio di Dio. Un grande teologo del nostro tempo (Karl Rahner) ha scritto che il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà. Paolo lo aveva detto duemila anni fa. Paolo ci testimonia anche una fede rocciosa e sicura nel Cristo Risorto. Rileggiamo la lettera ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor. 15,12-20). Paolo ci testimonia anche la certezza che nel messaggio di Gesù e nella vita cristiana ciò che conta veramente è la carità, l’amore. I cristiani di Corinto, gli stessi a cui Paolo ricorderà che senza la fede nella risurrezione tutto il cristianesimo crolla, non sapevano fare buon uso dei carismi, cioè dei vari doni che lo Spirito dà abbondantemente a ogni membro della Chiesa, per il bene di tutti, l’Apostolo ricorda che c’è una “via migliore di tutte”: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor. 13,1-10). E Paolo conclude: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1Cor. 13,13). Ed infine Paolo ci testimonia che l’amore che Gesù ci ha rivelato è Egli stesso. E’ Cristo l’amore di Dio fattosi carne in mezzo a noi. e chi si affida totalmente a questo amore ha vinto ormai ogni paura. Quante paure, ogni giorno, vengono a turbare la nostra esistenza! Fra tutte la paura più brutta e pericolosa è quella che ci spinge a dubitare dell’amore di Dio. E’ anche la tentazione più terribile del cristiano. Paolo ci racconta come ha vinto questa paura: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall`amore di Cristo? Forse la tribolazione, l`angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun`altra creatura potrà mai separarci dall`amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm. 8,31-35.37-39). Non dimentichiamo mai questo grido gioioso di Paolo. E nessuno potrà mai rubarci la speranza e la salvezza. Nessuno potrà mai separarci da Gesù Cristo Signore nostro, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi

« Paolo Diamante di Dio » (è la lettera scritta dal Vescovo Mons. Bregantini agli studenti del Molise) (23 novembre 2008)

dal sito:

http://lascuolacresceconte.myblog.it/media/01/00/634493823.doc

« Paolo Diamante di Dio »

(è la lettera scritta dal Vescovo Mons. Bregantini agli studenti del Molise)

23 novembre 2008

Carissimi,
alcuni giorni fa, lungo le strade di una grande città, ho notato questo messaggio pubblicitario, ben scelto, che mi è subito piaciuto:
la vita ha il sapore che le dai!

Mi è piaciuto perché sento che la vita è il grande talento che la grazia ci ha posto in mano. Che è unico. Che è immenso. Che è tutto.
Un’espressione che mi ha suggerito quanto la vita sia chiamata all’incontro con lo stupore, in quel sapore immenso che abbraccia tutto ciò che è e che sarà.
La vita, che tu hai in mano, questa stessa vita, dipende anche da te, richiede tutto te stesso, coi difetti e virtù. Comprendi allora come il sapore che tu le dai trae origine dai tuoi sogni, dai tuoi aneliti, dalla tua stessa identità, da ciò che conosci, speri, ami, preghi. Proprio come ci ricorda un filosofo: sei ciò che gusti, perché il sapore è sapere.
Assapora la vita. E dalle sapore. Poiché più la assapori, più la conosci; più la gusti e più la ami. Perché il sapore è l’essenza della vita, la sua dolcezza o amarezza.
Il suo cuore.
Per questo, mi sembra di poter dire che la vita va riempita, come un’anfora alla fonte, come un programma di computer. Altrimenti, resta vuoto.
Hai l’hardware, ma non il software.
Hai il cuore, ma non hai l’amore.
Hai la rosa, ma non hai il profumo.
Hai gli occhi, ma non cogli la bellezza!
Così è la vita. Come … Altri esempi, bellissimi, li puoi tu stesso creare.
Magari con una poesia, fatta in classe, sul gusto della vita.
Da gustare poi insieme…
Perché quel sapore dipende da te. Tu le dai il gusto che vuoi.

Proprio per questo, intendo, carissimi,
inviare a ciascuno e a tutti voi,
all’inizio di questo nuovo anno scolastico,
un messaggio di augurio e di riflessione,
tratto dalla sapienza antica per farne spunto
per il cammino di oggi.
E’ infatti bello abituarsi, nella scuola e nella vita, al confronto, a leggere la storia dell’altro, a capire le differenze, sempre però in un clima di grande verità e chiarezza.
Saluto perciò con affetto tutti voi, carissimi bambini, fanciulli, ragazzi e giovani, cioè tutti gli studenti delle quattro fasce della scuola: infanzia, scuola primaria, media e  secondaria.
E con voi, saluto e ringrazio tutti i vostri dirigenti e docenti, con un pensiero di particolare gratitudine al personale ausiliario, preziosissimo.
Ai maestri e docenti, il mio pensiero di santa invidia. Fate un lavoro impegnativo, certo, specie oggi,  ma decisivo, poiché voi non plasmate cose, ma coscienze; non create prodotti, ma costruite uomini e donne nuove, capaci di sfidare il futuro.
Ciò che insegnate e trasmettete oggi, sappiate che la società lo ritroverà germogliato dopo. Seminate quindi con larghezza in queste coscienze che formate, seminatevi ciò che è vero, giusto, amabile, puro, alto e profondo e che può durare anche per il domani, per il bene di tutti. In una responsabilità che coinvolge il presente e il futuro.
Questo che avete in mano è il PRIMO MESSAGGIO che rivolgo alle Scuole dopo il mio arrivo in terra Molisana. E lo faccio con molta gratitudine, perché devo affermare di essere stato invitato con affetto ed accolto con gioia in tante scuole. In tante sono già stato. Nelle altre, attendo il vostro cortese invito e vi verrò con gioia. Come del resto, so che faceva volentieri il mio predecessore, mons. Armando Dini, cui va la mia gratitudine per un mucchio di cose belle che ho trovato e che spero di poter continuare.
Grazie del dialogo che è scaturito nelle classi. Grazie della cordialità manifestata. Ma grazie soprattutto delle incisive domande che mi avete posto,  perché sento che in esse c’è il vostro sogno sul mistero e sul fascino della vita. Sogno e mistero che è sempre bello condividere, perché non è solo vostro. E’ di chi ve l’ha posto nel cuore, quel Padre che nei cieli vi ha pensato e che oggi corre e cammina con voi lungo le strade, spesso incerte e precarie della vita.

Con questo mio messaggio intendo entrare nelle vostre scuole,
affacciarmi nelle aule con molto rispetto e semplicità,
prendere il gesso e scrivere sulla lavagna un titolo:
« a confronto con il giovane Paolo, diamante di Dio… ».

Vorrei infatti che questo mio messaggio non sia solo formale, un semplice augurio. Ma una riflessione fatta insieme, dalla quale poi possiate trarre tutta una serie di indicazioni pratiche, nel cammino educativo che state compiendo, tra gioie e fatiche. Nel cuore vostro e sui banchi di scuola. Nelle vostre famiglie, che saluto rispettosamente, con vera gratitudine e nelle strade e nei luoghi del gioco e dello svago. Ed anche nella vita sociale, alla quale vi state affacciando con molta trepidazione e tenerezza.
In questa dimensione, ecco la figura di san Paolo. Ve lo presento, perché sento che è un personaggio estremamente stimolante e vivace. Non è scontato. Non è uno scocciatore, che sta lì a farvi sbadigliare mentre vi fa una « pesante » lezione di vita. San Paolo viene a scommettere con voi! Viene affettuosamente a colorare i vostri sforzi, a puntare con voi verso l’alto. E a ciascuno chiede un confronto intenso e chiaro.
Così, in quest’anno dedicato a san Paolo, anche noi ci metteremo a leggerne le lettere, a sentirne quasi la voce, a ripercorrere gli itinerari sulle navi romane, a seguirne le orme tra le montagne della attuale Turchia, lungo i fiumi, nelle città greche, fino al martirio, alle porte di Roma, in un giorno di estrema solitudine, verso il 67 dopo Cristo.
Ma con voi, carissimi ragazzi e giovani, vorrei soprattutto dialogare sul come Saulo, un ragazzetto di una bella città antica, Tarso, sia potuto divenire Paolo. Di Paolo giovane, ecco, vorrei parlarvi. Presentarvelo con le sue ansie, le sue fatiche, i suoi sogni, il suo carattere, la sua spinta in avanti, il suo cuore appassionato.
Perché Paolo?
PERCHÉ LUI SÌ CHE HA SAPUTO DARE UN SAPORE PIENO ALLA SUA VITA! Perché l’ha riempita di un volto, di un cuore: il cuore ed il volto di Gesù di Nazaret.
Ed insegnerà anche a noi, perciò, a dare alla nostra vita un sapore vero, una gioia piena, una corsa compiuta, una meta raggiunta. Tutte espressioni che lui stesso ha coniato e sviluppato. Belle perché vere. Vere perché nel cuore mio e tuo.
Non so se ci riuscirò. Se l’intento andrà a buon fine, eccomi a dialogare con voi, per un riscontro nelle aule scolastiche, ogni volta che ne sarò invitato con la già sperimentata cordialità. Potremo così anche chiarire eventuali passaggi difficili o questioni non ben affrontate. E leggeremo insieme altre pagine della sua vita, qui non presenti.
Buon cammino, dunque … per tutti, ragazzi e giovani. Ed anche per i vostri docenti, cui auguro la stessa passione educativa che aveva Paolo. Specie per i docenti di Religione cattolica, che ringrazio di vero cuore e seguo con affetto particolare. E’ in modo speciale a loro che affido questo messaggio, perché con voi, carissimi, lo possano condividere, spiegare, attualizzare dentro il vissuto della classe, sentendone domande e offrendo spiegazioni, in un continuo approfondimento, di lezione in lezione. In simbiosi con gli altri docenti. Magari creando un recital od un momento teatrale, su certi passaggi della vita di questo santo.
  
E comincerei proprio così, come tutte le grandi storie, perchè, nella sua famiglia ebrea, rigidamente osservante della Legge dei padri,  a quel piccolo bimbo viene dato un nome molto bello, tanto amato: Saul, che viene poi reso, familiarmente, Saulo.
E’ un nome che ricorda un grande Re d’Israele, che ha cambiato la storia dei suo popolo. Un uomo forte, vigoroso, deciso. Ma anche interiormente inquieto, alla ricerca di spazi sempre nuovi.
E così sarà Saulo: forte di carattere, non alto di statura come il re antico, ma coraggioso e tenace come lui. Anzi, più ostinato e più deciso ancora. E’ un uomo passionale, dall’indole fiera ed impavida, che non teme di esprimere con tono il suo sentire. E’ un emotivo, che vive ed affronta tutto di petto, un tipo che non si arrende di fronte agli ostacoli. Ama la concretezza e aborrisce tutto ciò che è finto, ambiguo; parla senza mezzi termini, non tentenna, non rifugge. Ama le sfide della vita, fermo, dotato di fantasia accesa, di un’intelligenza acutissima, capace di gesti profondi e coraggiosi, ma bisognoso di comunicare i propri ideali. Un giovane appunto, che dà pieno sapore alla sua vita
Ma tiene nel cuore suo una spina di inquietudine, che lo mette sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di inedito, di più spazioso. Sperimenta così anche il suo fallimento e con chiarezza lo ammette, perché inconsapevolmente sente che qualcuno lo aspetta, oltre lo steccato della sua intrepidezza. E chiede affetto, comprensione, incoraggiamento; qualcuno che gli dica, anche a lui: non avere paura, vai avanti…! ». Come avviene per noi, grati di ogni gesto di dolcezza e di tenerezza degli amici.

In famiglia Saulo cresce con la LINGUA E LA CULTURA EBRAICA. E’ una famiglia seria, osservante, molto attenta alla tradizione. Fa circoncidere il piccolino dopo otto giorni, innestandolo così nella tribù di Beniamino, proprio quella di Saul. Era gente impegnata, obbediente alla legge di Mosè con lo scrupolo del fariseo, cioè di chi sa che osservando fedelmente la legge ne ottiene riconoscimenti e gratificazioni. Da Dio e dagli uomini.
Cresce così: chiaro, forte, tenace, deciso e preciso. Di tempra e di cuore.
Dicevamo di Tarso. E’ la città natale, dove Saulo corre lungo le strade e dove va a scuola nei suoi primi anni di vita. Ma Tarso, com’è noto, non è in Palestina. E’ nel sud di quella immensa provincia romana, che allora si chiamava Asia. Per noi, oggi, è il sud della Turchia, che ne conserva gelosamente il ricordo.
Tarso è una cittadina universitaria. Un po’ come tante delle nostre cittadine interne. Le sue scuole rivaleggiano con le grandi accademie di Atene e di Alessandria.
Tarso è un incrocio di civiltà. Vi insegna Atenodoro, il maestro e amico di Augusto e, un secolo prima, Cicerone fu governatore della provincia. Vi scorre il fiume Cnido, che quasi costò la vita al giovane Alessandro Magno, quando, madido di sudore, vi volle fare il bagno.  Il giovane Re rimase a Tarso il tempo necessario per guarire, ma la civiltà ellenica vi si impiantò saldamente.
Vi si parla GRECO come in tutto il Medio Oriente, una lingua che Saulo apprende nelle strade e a scuola e maneggia con facilità. E’ la « koinè », cioè il greco comune, pratico, chiaro, facile e bello. Anche la Bibbia in quel periodo fu tradotta dall’ebraico al greco nella stessa parlata della koinè, per renderla comprensibile a tutti.
Una parola che corre, un cuore che vibra, una mente che guarda lontano.  Così è il giovane Saulo.
Il porto di Tarso, infatti, guarda all’Egitto con Cleopatra, è aperto alla Grecia, a Roma, commercia anche con Marsiglia…
Ma Tarso resta sempre (e non lo dimenticherà mai!) una città semita, segnata da secoli di storia antica. Ruvida ed intensa.

E poi, Saulo entra, progressivamente, anche nella civiltà romana che domina Tarso da diversi decenni. E’ un mondo già globalizzato, quello romano, di forte socializzazione e di intensa urbanizzazione. L’impero romano con le sue agevoli strade terrestri e marine ne dà l’impronta: commercio, incontri, città nuove, scambi di idee, benessere.
E’ la realtà della città che caratterizza l’impero romano.
E per di più, Saulo è cittadino romano già dalla nascita. Per un privilegio molto raro. Che altri dovranno acquistare a caro prezzo. Lui, invece, lo è già nella culla. Mastica così anche una terza lingua: il latino. Forse non come le altre. Ma di certo la capisce. E sa usarla bene, quando occorre difendersi, affermando con fierezza, davanti ai capi militari: « Civis Romanus sum ».
Così Saulo è cittadino di tre mondi, di tre culture: ebraica, greca e romana. Proprio per questo cambierà il suo nome, per renderlo ancora più universale e comprensibile a tutti, DA SAULO A PAOLO. Perchè anche con questo stile, quel ragazzo e quel giovane aveva imparato che bisognava farsi tutto a tutti. (cfr. Atti 21, 37-40).
Potremmo dire, oggi, che veramente è stato preparato dal cielo alla sua nuova grande missione. Si è fatto tutto a tutti, per poter entrare nel cuore di ciascuno di noi, ieri ed oggi…(Cfr l Corinzi 9, 19-23).

Ma intanto, eccolo correre lungo le strade della sua città. Perché sente che la città è tutto: è incrocio di tutte e tre le sue culture. La città, infatti, è greca nella lingua, è ebraica per i suoi abitanti fieri e forti, è romana nelle istituzioni.
Paolo non è un rurale. Lo è invece Gesù, che prenderà tutte le sue immagini proprio dalla vita rurale, dal paese, dalla campagna e ne farà icone di rara bellezza e di immensi, dolcissimi orizzonti.
Saulo invece è figlio della città, dello sport, della lotta. Gesù è nato nell’ambiente dei « poveri ». Paolo è figlio di un rabbino benestante. Il primo era operaio rurale, il secondo teologo. E se lavora anche le tende, tessendole con fatica, lo fa con una dignità particolare. Non da schiavo, ma da artigiano, da maestro…da mastro.
PAOLO È COSÌ FIGLIO DELLA CITTÀ! Egli ne ha lo schema, la replica facile, l’abitudine alle folle. Ne conserva lo spirito disinvolto, aperto, pronto al confronto. Ne osserva abitudini e stile e, passando lungo le larghe vie romane, coglie sempre spunti nuovi, come fece un giorno ad Atene, capitale della cultura antica, dove notò subito un altare dedicato al « Dio Ignoto ». Lo vide, ne trasse ispirazione, ne fece il cuore del suo intervento, proclamando una frase bellissima ed immensa, tanto che nella mia vita di giovane, al Liceo, la scrissi subito sul mio diario e sui testi di filosofia: « Noi cerchiamo Dio e ci sforziamo di trovarlo, anche a tentoni, per poterlo trovare, benché non sia lontano da ciascuno di noi…! ».
La bellezza di Saulo-Paolo è proprio questa: ha sempre cercato, ha sempre amato, ha sempre desiderato.
Potrei ripetere anche a voi, nel leggere san Paolo, quella frase di un grande poeta francese, incisa a caratteri d’oro all’ingresso di un museo: « non entrare qui senza desiderio! ».
Paolo dunque appartiene a tre mondi e a tre culture, come dicevamo: ebraica, greca e romana. Tuttavia emerge da ciascuna di esse con il vigore della sua personalità. Non le cancella, ma le valorizza. Non le elude, ma le perfeziona. Non le racchiude in un livellamento piatto e ottuso. Ma lascia ciascuna con il suo colore, con la sua forza, con la sua ricchezza storica e propositiva.
Tutto questo, non per la sua sola preparazione, ma perché, sulla via di Damasco, ha incontrato il Cristo, luminoso ed esigente. Che lo ha gettato nella polvere, ma insieme lo ha ricostruito dentro.
Così l’incontro diretto con Cristo, oltre a cambiargli la vita, gli ha permesso di uscire dalle culture alle quali apparteneva, ma senza rinnegarle. Anzi, rivalorizzandole. Torneremo sull’incontro di Damasco. Perché quel momento è la strettoia attraverso la quale tutti dobbiamo, prima o dopo, passare.

Per intanto, colgo il primo immediato messaggio che san Paolo ci lascia. Il nostro è, oggi, un mondo che deve fare i conti con una società a più voci, una società dall’evidente pluralismo religioso. Ebbene, in questo contesto culturale e sociale, rischiamo di cadere in due estremismi opposti. Entrambi negativi e dannosi, per il cuore e per la mente.
IL PRIMO INGANNO È L’ESTREMISMO RELIGIOSO, il fondamentalismo, la difesa assoluta delle tradizioni dei padri. Lo stesso errore che ha fatto Saulo quando, furente, camminava verso Damasco per incatenare i suoi nemici religiosi, quella setta dei Cristiani che egli sentiva come una minaccia terribile. Poiché sono diversi – pensava – sono pericolosi e quindi vanno eliminati. Questo è l’estremismo religioso, che oggi serpeggia in molte religioni, anche tra di noi. A tratti, anche nel mondo cattolico…
L’ALTRO ERRORE, opposto, di fronte al pluralismo delle fedi, è quello di cadere in un RELATIVISMO DI PENSIERO E DI SPERANZA. E’ la nebbia dell’indifferenza. E’ il grigiore delle culture. E’ la scelta di eliminare tutti i simboli delle diverse fedi, per costruire un orizzonte senza identità. Tutti ammassati, tutti annullati, tutti omologati. Errore che la Francia ha fatto in diverse scelte, con conseguenze terribili. Perché le mancate identità creano poi rabbia e ribellione.
La sintesi, la via media, sta in un cuore nuovo. Non frutto di compromessi, di mediazioni diplomatiche esterne. No. Ma sta nel saper accogliere tutti e saper valorizzare tutti. E’ proprio quella strada  che san Paolo ci insegna: la strada del dialogo e dell’incontro. E’ di certo una strada difficile, richiede tempo, ha bisogno di molta pazienza, si riveste di attese e di sospiri. Ma crea coscienze vere. Perché non impone, ma propone. Non vince, ma convince. Non giudica, ma analizza.
Tre stili di vita che troviamo ed impariamo proprio dall’Apostolo Paolo, pur dentro un carattere difficile qual era il suo!

- Mi chiedo: siamo capaci oggi di dialogare?
Rispettiamo chi la pensa diversamente da noi?
Sono pronto al confronto?
Valorizzo il dialogo o elimino il mio avversario?

- E la scuola che frequentiamo, ci sta abituando
ad avere questo cuore nuovo?
Ci stimola ad allargare i nostri orizzonti?
Vedo nello studio delle lingue, della geografia e della storia
un prezioso aiuto per questa nuova cultura d’accoglienza?

L’università, Saulo la fa a Gerusalemme. Ritorna così, da Tarso, alle radici del suo popolo, nel cuore della Palestina. E’ quasi un master, un corso di perfezionamento. E gli è maestro un uomo molto saggio, un uomo dalla lunga barba, che tanto ha pregato, tanto ha studiato e tanto ha pensato: Gamaliele.
Sa valutare bene tutte le cose. Non ama prendere decisioni affrettate, sa calcolare con mitezza gli eventi. E lo è ancor di più di fronte ad un discepolo irruente com’era il giovane Saulo…
Rimase celebre la sua riflessione davanti ai discepoli del Cristo, che già operavano cose grandi, prodigi in mezzo al popolo. I capi ebrei li volevano eliminare. Erano troppo pericolosi. Allora Gamaliele si alzò e pronunziò questa sentenza, che resta luminosa ancora oggi, criterio di verità in molte questioni anche per me e per voi.
Disse: « Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine solamente umana, verrà distrutta, scomparirà da sè; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerla, perché Dio è dalla loro parte. Non correte il rischio di combattere contro Dio! » (Atti 5,34-39).
Con Dio non si scherza. La lezione della storia è chiarissima. Tanti che hanno perseguitato i cristiani o schiacciato i diritti umani, sono finiti nel nulla. Tante dittature che si credevano imbattibili, sono miseramente crollate. Tanti che pensavano di aver ragione e di poter fare i furbi, umiliando i poveri o imbrogliando, sono poi stati smascherati, con vergogna immensa.

Ma Saulo non ascolta molto il suo maestro. Purtroppo. Perché nell’impatto con la nuova fede, la fede dei discepoli di Gesù il Cristo, il Galileo, lui non la pensa come Gamaliele. Non sa aspettare.
Saulo è un fondamentalista. Un irruente. Vuole difendere la verità e la tradizione dei padri. Non sa dialogare. Ha paura. Perciò elimina l’avversario. Non lo vuol incontrare. Ma lo distrugge in modo implacabile.
C’è un episodio che lo definisce bene, nel suo carattere. Ma insieme lo segnerà profondamente. Perché è la storia che ci ammaestra sempre, specie quando non riusciamo ad ascoltare più i nostri maestri…e professori…
Un giorno fu condannato a morte un giovane cristiano, di nome Stefano (Atti 7,54-8,1). Mite e forte nella sua fede. Schietto e leale. Ma la sua luminosità faceva ombra a tanti, in Gerusalemme. Non si riusciva a resistere alla sua sapienza.
E venne condannato a morte, innocente, per lapidazione. I più grandi in età gli tirarono contro tanti di quei sassi da farlo morire. Schiacciato da una violenza inaudita.
Ma per avere le braccia libere, tutti quegli uomini maturi posarono i mantelli ai piedi di Saulo, perché ne facesse buona custodia. Lui non tirò i sassi, ma era complice di quel gesto di morte. Anzi, l’approvava in pieno.
Però restò conquistato dal volto sereno di Stefano, suo coetaneo, giovane come lui. Nel morire, non invocò vendetta. Anzi, chiese a Dio di perdonare i suoi uccisori. Pur morendo ingiustamente, non chiese giustizia contro di loro.
Saulo non capì. Non riuscì a darsi una spiegazione di quell’evidente eroismo.
Ma il volto di quel giovane gli resterà impresso per tutta la vita. La luce del Cristo, vincitore del male e della morte, si era riflessa su Stefano. Da Stefano a Saulo. Passando di volto in volto, di cuore in cuore.
E sarà quel volto a porre nel cuore di Saulo la prima scintilla di luce nuova nel buio della sua vita.

Perché, anche per noi, oggi, chi sa perdonare diviene un esempio immenso. Decisivo. Conquista, attrae. Non si dimentica mai una parola di scusa…chi chiede perdono ha sempre un volto luminoso. Chi offre le sue scuse, apre sempre feritoie di dolcezza nel nostro cuore. E’ il mite che conquista la terra, come dicono le Beatitudini (Matteo 5, 5).
Saulo si impegna a fondo contro la setta dei cristiani. con una decisione implacabile. Eccolo ora nei pressi di Damasco, pronto a ricondurre a Gerusalemme, in catene, i cristiani di quella città.
Ma è proprio lì che il Cristo l’attende…
Vi invito a leggere il racconto, che Paolo stesso fa di questo evento decisivo, nel capitolo 22 degli Atti. E’ vivacissimo, sembra di esservi presente, camminando con lui, abbagliati anche noi da quella luce immensa che lo fa cadere nella polvere. Lui, il perfetto, lui il sicuro, lui il persecutore, eccolo nella polvere.
Una domanda secca: « Ma chi sei? »
Ed una voce che cambia la sua vita: « Io sono Gesù di Nazaret, quello che tu stai perseguitando! ». E da quel cuore che odiava, ora esce una espressione commovente: « Signore, che vuoi che io faccia? ».
E la risposta, che guida ogni cammino di fede: Alzati, entra in Damasco: là qualcuno di dirà quello che Dio vuole da te! ».

Ecco i TRE PASSAGGI, che anche per me e per voi caratterizzano ogni cambiamento:
scendere da cavallo ed entrare nella polvere:
prendere cioè consapevolezza dei nostri limiti e difetti;
ammettere i nostri fallimenti; riconoscere di essere fragili e limitati…

Chi sei, Signore? cioè interrogarsi con lealtà su quella voce che nel nostro cuore e nella nostra coscienza ci morde, ci inquieta, ci pone domande nuove, ci stringe dentro, non ci lascia in pace, non ti fa dormire la notte…Voce che ti avvolge nei fatti che vivi, nelle parole dei genitori, di un prete, di un docente, o di un amico o di un’amica che ti legge dentro, di una poesia che ti affascina o di un tramonto  o di un bacio che t’incanta…
« Che vuoi che io faccia? »: cioè interrogarsi con chiarezza sulle scelte da fare, scelte tue, non imposte, ma maturate da te, solo da te. Fatte però non in modo capriccioso, ma leggendo nel cuore e nella tua storia, per riuscire a capire il tuo futuro.
E’ l’avventura più bella delle scuole superiori…!

E Saulo diviene Paolo.
Sperimenta vitalmente, a Damasco, la potenza della Parola di Dio. Inizia in città, con Ananìa che lo illumina. Poi, nel deserto, per lunghi anni, proseguirà la sua ricerca della Verità. Vede con chiarezza quanto la Parola di Dio ha compiuto nella sua vita. Era infatti un peccatore ed Essa lo ha purificato; era perduto ed Essa lo ha salvato; era un nemico di Dio ed Essa lo ha riconciliato; era morto nel peccato ed Essa lo ha risvegliato!
Cambia i suoi punti di riferimento. La valutazione delle sue cose. Quello che prima era prezioso, diviene ora vile e disprezzato. Quello invece che era da buttar via, ora si fa oro raffinato.
E’ il risveglio dell’Amore, in un mondo che sta morendo per mancanza d’Amore.
E’ l’incontro con Gesù, l’Amore!
Paolo ci svela così il segreto della vita, di ogni vita: solo nell’amore l’uomo si conquista alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la totale pienezza della sua essenza, della sua dignità. L’uomo è affermato nella sua irriducibilità di persona, interamente, solo se è PERSONALMENTE amato da Dio.
E Paolo lo  è stato! Ha visto e sentito un Dio che lo ama personalmente, che lo salva dalla perdita di se stesso, dalla perdita di ciò che in lui è. Paolo viene afferrato dal Mistero dell’amore che Dio ha mostrato di avere per tutti gli uomini in Cristo Gesù, morto e risorto. La sua fede è amore per Cristo Gesù. E l’amore rafforza la sua fede. Così tutto il suo cammino si farà speranza attualizzata.

 » Il resto della sua vita lo potrete seguire in altri testi.
O nelle lezioni di vita
durante il cammino scolastico….

A me, come vescovo, interessava ora darvi un assaggio. E l’abbiamo fatto, vedendo come Saulo è stato preparato per la sua missione. Come la sua famiglia, la sua città, la sua patria gli siano state cattedre di vita. Nelle tre lingue che lui parlava: ebraico, greco e latino. Nelle culture di cui egli era impregnato.
Ma tutto questo ha avuto in lui pienezza, perché Saulo ha incontrato, sulla via di Damasco, il Cristo Gesù, l’Amore della sua vita.

E la sua esistenza è cambiata. La sua vita ha ora un sapore preciso, inconfondibile: quello della carità e dell’amore gratuito. Le tre culture che lo avvolgevano rifioriscono in una sintesi nuova. Entra in dialogo con Dio e perciò sa amare ed incontrare ogni uomo. Ogni cultura. Non la vede più da fondamentalista, cioè da chi vuole distruggere l’altro, considerato come nemico. Ma nell’avversario riconosce ora un fratello, segno visibile di quel Cristo che egli pensava di perseguitare.
E’ la dolcezza della conquista  e la conquista di sé. E’ la gioia di partire con…e non più contro qualcuno. Grato al Signore, capisce che fin dall’inizio il suo palpito pulsava nel misterioso abisso della Sua presenza!
il diverso è un dono, da valorizzare, non da eliminare. LA DIVERSITÀ È RICCHEZZA. Le lingue nuove sono un mosaico di luce, dai mille colori, come le foglie delle querce in autunno…
Né fondamentalismo né relativismo, ma dialogo e incontro!

ma è questo sole d’autunno, mite e dolce, che rende belli tutti i colori. Non basta l’educazione stradale o civica. Occorre un incontro, una luce superiore. Una Luce nuova fa vedere nuove tutte le cose. E’ il Cristo, che ti auguro di poter incontrare sulla tua strada. Magari anche cadendo da cavallo, cioè dalle tue presunte sicurezze. E’ capitato anche a me, nella mia vita. Quante volte mi sono ritrovato nella polvere, con una spina nel fianco. Ma proprio allora mi sono sentito amato da quell’Amore che fa nuove tutte le cose e ringiovanisce ogni cuore…Rialzato dalla sua mano, ho ripreso a correre.

Ed è proprio la corsa lo stile più bello di san Paolo. Quello più affascinante. Anche per me. In un momento amaro della mia vita, incerto sul mio futuro, aprii a caso le lettere di Paolo e mi capitò proprio questo brano: « Io non sono ancora arrivato al traguardo, non sono ancora perfetto. Continuo però la mia corsa, per tentare di afferrare il premio, PERCHÉ ANCH’IO SONO STATO AFFERRATO DA CRISTO GESÙ…dimentico del passato, proteso verso il futuro, corro verso la meta, per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Filippesi 3,7-14). Capii che non ero io a scegliere. Ma che ero stato già scelto. Che non inseguivo il vuoto, ma ero attratto dietro il profumo di Colui che mi aveva già amato. Che mi afferra quando mi lancio nella vita. Niente paura. Niente rimpianti, niente rimorsi.
Allora, la fatica stessa nel cammino della vita viene valutata in modo diverso. Paolo paragona questa fatica al gemito. Il gemito del nascituro. Perché la vita non è uno sfascio, ma un parto, una rigenerazione. Geme anche la creazione, quando è violata, quando la inquiniamo, quando è bruciata. Avvolti dal fuoco anche i vecchi ulivi pare che emettano un forte gemito! Ma geme anche il tuo cuore, quando non ce la fai ad essere migliore, quando « scopri in te il desiderio del bene, ma non la capacità di compierlo. Perché non compi il bene che vuoi, ma ti ritrovi a fare il male che non vuoi »! (cfr Lettera ai Romani capitoli 7 e 8). Ma tutti e tre i gemiti (della vita, della creazione e del cuore) sono ascoltati dalla voce dello Spirito, che sa leggere nei nostri gemiti e li sa trasformare in poesia, in preghiera, in cuore attento, in fiducia, in Amore.

Ecco perché chiudo con una delle pagine più belle di san Paolo, che ha conquistato il cuore di tutti, lungo la storia. E’ la pagina sull’amore, che egli detta alla chiesa di Corinto (capitolo 13):

Chi ama, è paziente e premuroso.
Chi ama, non è geloso,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio.

Chi ama, è rispettoso,
non va in cerca del proprio interesse,
non conosce la collera,
dimentica i torti.

Chi ama, rifiuta l’ingiustizia,
la verità è la sua gioia.
Chi ama, tutto scusa,
di tutti ha fiducia, tutto sopporta,
non perde mai la speranza

La scienza ci dice che il carbonio può trasformarsi o nel nero carbone, pesante e rozzo, oppure, per un particolare processo di calore, in un magnifico diamante. Carbone e diamante hanno la stessa composizione chimica. Cambia solo la loro relazione di particelle. La loro finalizzazione.
Così è stato san Paolo: poteva essere un carbone scuro e cattivo, che sporca ed inquina. Ma con il calore dell’Amore di Dio, lui è divenuto un diamante purissimo e luminosissimo.
La vita veramente dipende da te. Ha il sapore che le dai.
Fanne un diamante, che riluce di bellezza immensa, perché anche tu, come Saulo, hai incontrato la Luce… 
Buon cammino, sulle strade del Molise,

tuo affezionatissimo  + padre GianCarlo, Vescovo

Forte nella debolezza (2Cor 12,7-10)

dal sito:

http://cattedrale.arcidiocesi.gorizia.it/parrocchia/spip.php?article155

Forte nella debolezza

Il 5 luglio 2009 par don Sinuhe Marotta

Che modo paradossale di sentire il proprio valore di uomo e di cristiano esprime oggi Paolo! La lunga discussione con i cristiani inquieti di Corinto lo ha appena visto rivelare, a fatica e con pudore, le sue eccezionali esperienze mistiche. È stato fatto entrare nel mondo di Dio. Cristo stesso gli ha parlato con parole indicibili. Paolo è presente su questa terra come uno appena tornato dal cielo.

Eppure… Non sono queste le esperienze di cui intende gloriarsi. “Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze”.Che cosa ci stai dicendo, Paolo? Che cos’è questa “spina nella carne”, questo inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarti e che, per ben tre volte, hai pregato il Signore che te ne liberi? È una malattia con effetti umilianti per il tuo corpo? È una tentazione sessuale dalla quale non sei in grado di preservarti? Ti riferisci alle incomprensioni e persecuzioni di cui sei costantemente oggetto e che ti rendono tutto più difficile? È una provocazione diretta del Maligno sulla tua persona?

È la tua debolezza, alla fine. Che sia causata da infermità, oltraggi, necessità o angosce non importa. Basta che sia vissuta per Cristo. Basta che sia vissuta in Cristo. Basta che la sua potenza si manifesti nella tua parola, che è debole, nel tuo corpo che è debole, nel riconoscimento sociale di cui godi che è debole.

Questo è il miracolo; di questo si vanta Paolo: che nella debolezza Cristo parla, che attraverso la debolezza Cristo agisce. Non solo nella salute, nella bravura o nella stima di cui gode il credente, ma nella mancanza di queste realtà il Signore è capace di agire ugualmente. Anzi, forse proprio in queste realtà di debolezza siamo capaci di contare solo sulla promessa e sulla grazia del Signore: “Ti basta la mia grazia”. Capita anche a noi. Le nostre forze, da sole, non ci sostengono.

Che cosa chiederemo allora al Signore, d’ora in poi? Di restare sempre in salute o di vivere sempre in grazia di Dio? Di riuscire bene in ogni cosa o di potergli restare fedeli in ogni cosa? Di morire il più tardi possibile o di saper vivere per Lui e secondo le sue parole il più a lungo possibile?

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Dalla seconda lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi 12,7-10

«Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.

A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».

Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte».

Lectio divina sull’epistolario paolino : Prima Lettera ai Tessalonicesi, ,6-13

posto questo studio, in realtà è una « lectio divina », a me personalmente la « lectio » non piace molto, tuttavia è ben proposta ed utile menre stiamo leggendo, nella messa, la 1 Tessalonicesi, dal sito:

http://www.diocesimazara.it/documenti/preghiere%20vescovo/lectio%20divina%20avvento%202008/Prima%20Lettera%20ai%20Tessalonicesi.pdf

Lectio divina sull’epistolario paolino
Mazara del Vallo –Basilica Cattedrale
Venerdì di Avvento 2008

Terzo incontro
[19 dicembre 2008]

« Prima Lettera ai Tessalonicesi

Capitolo 3,6-13

Timoteo porta buone notizie

6.Ma, ora che Timòteo è tornato, ci ha portato buone notizie e della vostra fede, della vostra carità e del ricordo sempre vivo che conservate di noi, desiderosi di vederci, come noi lo siamo  di vedere voi. 7.E perciò, fratelli, in mezzo a tutte le nostre necessità e tribolazioni, ci sentiamo consolati a vostro riguardo, a motivo della vostra fede. 8.Ora, sì, ci sentiamo rivivere, se rimanete saldi nel Signore. 9.Quale ringraziamento possiamo o rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la g gioia che proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio, 10.noi che con viva insistenza, notte e giorno, chiediamo di poter vedere e il vostro volto e completare ciò che manca alla vostra fede? 11.Voglia Dio stesso o, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù Cristo guidare il nostro cammino verso di voi! 12. II Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, 13.per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. »

Premessa

La città di Tessalonica, capitale della Macedonia, era uno dei più grandi porti del Mediterraneo e rivestiva, perciò un’importanza assai strategica nei rapporti tra occidente e oriente. Gli abitanti pativano forti contrasti sociali e politici e la città era divisa tra potenti armatori e ricchi commercianti, da una parte, e povera gente dedita alla manovalanza, affiancata da numerosi schiavi. Consistente era la fascia di popolazione che si dedicava alle retorica e alla filosofia. Sotto il profilo religioso i tessalonicesi coltivavano i culti più svariati, proprio come a Corinto, a motivo del flusso consistente di abitanti di altre nazionalità, interessati agli scambi commerciali. Paolo raggiunge Tessalonica durante il secondo viaggio missionario (49-52) e inizia la sua missione evangelizzatrice, dedicandosi sia ai giudei della diaspora che ai pagani; più fervida e incoraggiante fu, tuttavia, la risposta di questi ultimi. L’esperienza di questa comunità fu inizialmente molto felice e incoraggiò il dinamismo missionario di Paolo, anche se ben presto non mancarono le tribolazioni e le persecuzioni, che lo costrinsero a lasciare la città e a riparare a Corinto da dove indirizzò ai tessalonicesi le due Lettere.
La prima Lettera, che costituisce lo scritto più antico del Nuovo Testamento, è databile tra il 50 e il 51. Essa è una significativa testimonianza dello stile pastorale di Paolo e testimonia il buono stato di salute di una comunità che ha saputo superare bene le persecuzione a cui era stata sottoposta. Esisteva, tuttavia, un problema assai singolare, legato alla sorte dei cristiani defunti con particolare riferimento alla loro condizione al momento del giudizio, legato alla parusia; alcuni, infatti, ritenevano che quelli che erano già morti non avrebbero potuto beneficiare dei frutti del trionfo di Cristo. Paolo rassicura tutti, precisando che coloro che sono già morti saranno i primi a risorgere e, dunque, non avranno alcuno svantaggio rispetti a quelli che da vivi incontreranno il Signore, giudice del mondo, alla fine dei tempi.
In ogni caso, questa Lettera è fortemente caratterizzata dal particolare clima di ecclesialità che si sperimentava a Tessalonica, al punto che lo stesso Paolo, nell’indirizzo non può fare a meno di benedire l’Onnipotente per l’operosità della fede, la fatica della carità e la fermezza della speranza dei Tessalonicesi (cfr 1Ts 1,3), divenuti, perciò, « modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia » (1Ts 1,7).

1. Meditatio

Il brano di questa sera è ben circostanziato e si collega al ritorno di Timoteo, inviato da Paolo a Tessalonica da Corinto per rendersi conto di persona dell’andamento di quella Chiesa, sottoposta alla prova della persecuzione. L’Apostolo temeva che, sotto il peso della tribolazione, i tessalonicesi avrebbero potuto abbandonare la fede ed essere così liberati dalla persecuzione. Se grande era stato il timore, ancora più grande è, di conseguenza, il gaudio di Paolo nell’apprendere che la furia devastante della prova non solo non aveva annientato la giovane Chiesa, ma anzi l’aveva fortemente rafforzato. Nel testo si sottolinea, in particolare, che la verifica aveva riguardato la fede e la carità, con una piacevole sorpresa concernente il desiderio dei tessalonicesi di rivedere Paolo, desiderio condiviso, peraltro, dall’apostolo (3,6). Quest’ultimo dettaglio viene opportunamente sottolineato perché evidenzia la singolare relazione tra credenti e apostolo; relazione, certamente, non limitato al solo aspetto funzionale riferito alla fondazione della Chiesa, ma anche allo stretto legame di paternità instaurato tra Paolo e la comunità macedone. Non si tratta, tuttavia, di una relazione a forte valenza emotivo-sentimentale, ma del « ritratto di un apostolo che è tutto nella comunità e per la comunità, che vive con essa e per essa l’esperienza lacerante della tribolazione »1. Da qui la consolazione che a Paolo arrecano le buone notizie sulla fede dei tessalonicesi, talmente salda da non essere stata scalfita neanche dalle persecuzioni (cfr 3,7). Addirittura, in questo scambio di grande intensità spirituale, l’Apostolo confessa che il timore sulla tenuta della comunità di Tessalonica gli aveva procurato sofferenze indicibili, quasi un preannuncio di morte; al contrario, la testimonianza di Timoteo è stata come una ventata di risurrezione che fa rivivere Paolo e lo fa ben sperare per il futuro (cfr 3,8).
A questo punto il tono e il ritmo della Lettera diventano incalzanti e rafforzano ulteriormente il vincolo di reciprocità che si è instaurato tra l’Apostolo e la chiesa fondata a Tessalonica. Gli accenti sono coinvolgenti e commossi, al punto che ringraziamento e gioia entrano quasi in gara emulativa e crescono e si rafforzano in una dinamica rigenerante: la gratitudine è rivolta a Dio perché ha fatto incontrare a Paolo quella bella comunità; e quell’incontro è motivo di gioia grande davanti a Dio (cfr 3,9). L’intonazione teocentrica della riflessione aiuta a dare una corretta interpretazione del rapporto apostolo-comunità; non si tratta, infatti, di un nesso sbilanciato sul versante della dipendenza psico-affettiva, ma di un vincolo liberante che nasce e si illumina davanti a Dio. Il quadro che Paolo rapidamente delinea fa giustizia di tante meschinerie che tante volte sviliscono i legami che si instaurano all’interno delle nostre comunità, quando si cercano delle esclusività, ad esempio, nel rapporto presbitero-fedeli, che sono la negazione del dono di libertà guadagnatoci da Cristo Signore a prezzo del suo sangue.
Il v. 10 completa lo scandaglio dell’animo di Paolo che non ha alcun timore di confessare che chiede con insistenza, notte e giorno, di poter rivedere i volti dei fedeli tessalonicesi. Questa palese insoddisfazione del desiderio non è, però, assimilabile a un bisogno affettivo che gli fa pesare incredibilmente la lontananza come fosse un innamorato inconsolabile; al contrario egli nota che l’opera di evangelizzazione è incompleta e necessita, perciò, di un’integrazione perfezionante. Paolo non cerca gratificazioni presso una comunità sensibile e disponibile, ma intende riprendere il lavoro interrotto da una fuga precipitosa e dare l’ultima rifinitura a una fede che ha già superato esami seri, ma ha bisogno di diventare adulta per non soccombere al
prossimo, prevedibile, assalto delle potenze del male.

2. Oratio

Non finisci di sorprenderci, Signore. Chi avrebbe potuto immaginare che un uomo della tempra di Paolo, formato da una osservanza rigorosa e stretta della legge, pieno di zelo esasperato fino al furore persecutorio, potesse mostrarsi così vulnerabile di fronte alla consolazione derivante dalle buone notizie su una Chiesa che gli stava tanto cuore? Non è così scontato, Signore, trovare armonizzati in modo tanto equilibrato amore tenero e rispetto per la libertà dell’altro; desiderio di bene e accettazione del progetto di Dio che può aprire vie che portano lontano da coloro con i quali si è condivisa una vita e che mai si vorrebbe abbandonare. Così come stupisce e sorprende come i legami forti sul piano affettivo non sconvolgono la gerarchia dei valori e degli affetti: tutto è accolto da Dio e tutto si compie alla sua presenza; e in ogni caso l’altro non è guardato non per la gratificazione che ti può arrecare, ma per il bene che ancora attende da te. Non lo ami per farlo più tuo e meno di Dio, ma, al contrario, lo ami per avvicinarlo più strettamente a Dio e per farlo più suo su questa terra e, poi, nell’abbraccio della santa Trinità. Ti ringrazio, Signore, per la lezione di umanità e di amore che stasera ci hai impartito per bocca del tuo amico Paolo, che ci ha svelato un cuore puro e libero che ti chiediamo di concedere anche a noi.

3. Contemplatio

Il tema di questa sera ci rimanda a Paolo che, pur potendo rivendicare il mantenimento in quanto operaio del Vangelo, cercò sempre di non essere di peso ad alcuno, guadagnandosi da vivere lavorando personalmente (cfr 1Cor 4,12) come tessitore di tende (cfr At 18,1-3). Questa è una condizione che, pur gravosa talora, consente di vivere in assoluta libertà, senza dipendenza da alcuno: liberi di quella libertà guadagnataci da Cristo. Una libertà che è anche libertà della Chiesa da qualunque pastoia costituita dai lacci che possono derivare dai condizionamenti, a loro modo anche vantaggiosi, delle istituzioni e delle cose temporali.

4. Actio

L’impegno di questa sera ci mette sicuramente in sintonia con la colletta che è stata avviata domenica scorsa e che avrà compimento nella prossima. Siamo perfettamente in tema e ognuno può inquadrarla e motivarla nel modo più adeguato alla propria condizione e sensibilità. Ma in questo tempo di preparazione al Natale e nel tempo delle feste natalizie sarebbe bello che nessuno godesse egoisticamente del bene spirituale e di relazioni che sono tipiche di quei giorni, ma fosse capace di qualche privazione finalizzata alla condivisione, facendo qualcuno partecipe della propria ricchezza spirituale e, tenuto conto del tenore di vita che si può condurre, anche delle proprie disponibilità materiali. Sarebbe bello se, in questo tempo, non ci fosse alcuno in condizione di indigenza. Quanto ne sarebbe contento il povero per eccellenza, il Signore Gesù.

Arcidiocesi Metropolitana di Catanzaro, un commento a tutta la lettera agli Efesini

dal sito:

http://www.madonnadiporto.it/dati/schedaBiblicaLetteraEfesini.htm

Arcidiocesi Metropolitana di Catanzaro – Squillace

Ufficio Apostolato Biblico
 
 Lettera agli Efesini

INTRODUZIONE

1. L’enigma dell’Autore

Molto cara a Giovanni Crisostomo (V secolo), a s. Gerolamo (V secolo), a s. Tommaso d’Aquino (XIII secolo) ed a Calvino (XVI secolo), la Tradizione cristiana l’ha sempre attribuita a Paolo, ritenendola scritta durante la sua prigionia a Roma.
A partire dal 1792, un vivace dibattito si è acceso circa la paternità paolina della Lettera agli Efesini: da un lato i Protestanti, che non ammettevano l’origine paolina della lettera, perché il vocabolario presente in questo scritto è diverso da quello presente nelle altre lettere; dall’altro lato, i Cattolici che continuavano ad attribuire a Paolo la Lettera agli Efesini, preoccupati non solo di difendere l’apostolicità della lettera, ma anche il suo carattere di testo ispirato.
Ora il dibattito continua, non tanto tra protestanti e cattolici, ma tra posizioni diverse fra gli stessi cattolici.

2. L’enigma dei destinatari

E’ proprio vero che fu indirizzata agli Efesini? L’espressione “in Efeso” (1,1) manca nel Papiro 46 (il documento più antico degli scritti paolini di origine egiziana – 200), come anche nel Codice Vaticano ed in quello Sinaitico. Origene (III secolo) non riconosce come destinatari della lettera gli Efesini e Marcione, un eretico dei primi secoli dell’era cristiana, afferma che si tratta della lettera, inviata ai Laodicesi (cfr Col 4,16).
Al di là di queste osservazioni, si avverte nella lettera stessa un certo distacco tra Paolo ed i destinatari, Efesini (cfr Ef 1,15). Paolo non ha avuto una conoscenza diretta degli Efesini, dal momento che ad Efeso è rimasto due anni? E in 3,2-3?… Per questi motivi, alcuni suppongono che questa lettera sia stata originariamente una meditazione sapienziale inviata, come lettera circolare, alle varie comunità dell’Asia Minore, aggiungendovi, al momento della spedizione, il nome della comunità, alla quale veniva inviata.

3. I principali TEMI presenti nella Lettera agli Efesini.

- La giustificazione (la salvezza) è connessa con le opere buone. Contrariamente agli altri scritti di Paolo (Galati – Romani), qui l’accento non è più posto solo sulla fede, ma anche sulle opere buone. Resta chiaro che l’origine gratuita della salvezza si trova unicamente in Dio. Le nostre opere buone (osservanza dei comandamenti…) sono la maniera giusta del nostro aprirci all’accoglienza del dono salvifico di Dio; sono la nostra partecipazione concreta e riconoscente all’azione salvifica di Dio.
- La Cristologia è diversa da quella delle altre lettere: Cristo, secondo la Efesini, non è presente soltanto nella Chiesa, facendola diventare suo Corpo; è presente in maniera efficace, totale nell’intero cosmo. E’ presente come “pleroma”, cioè come pienezza; la pienezza della vita e della energia divina, che pervade tutte le cose. Ci troviamo di fronte ad una Cristologia di tipo cosmico.
- L’escatologia si presenta già come realizzata: cioè la salvezza non è solo futura, ma, come insegna anche Giovanni, nel IV Vangelo, è già presente in noi, ora.
- L’ecclesiologia: la Chiesa è il Corpo di Cristo; corpo visibile, storico del quale Cristo si serve per parlare e per agire; corpo del quale Cristo è il Capo; specificazione quest’ultima non presente in 1Cor 12.

4. La strutture della lettera

  a. L’indirizzo (1,1-2), che riproduce lo schema tipico della tradizione epistolare orientale, specialmente quella del mondo greco. Sono presenti: il mittente, i destinatari, il saluto cristiano.
    – Il Mittente unico è Paolo, che si autopresenta come “apostolo” inviato da Cristo, “per volontà di Dio”, per un progetto specifico di Dio. Se la Chiesa esiste per un piano di Dio e di essa il gruppo originario sono gli Apostoli; ebbene, dice Paolo, a questo gruppo sono associato anch’io, e di questo piano faccio parte anch’io.
    – I Destinatari, nello scritto come a noi è giunto, sono i cristiani di Efeso, chiamati “santi” (almeno 14 volte), perché membri del popolo santo di Dio, perché consacrati a Dio, per mezzo di Cristo, nel Battesimo.
    – Il saluto cristiano: ricorrono i termini charis (grazia – amore gratuito di Dio) e shalom (pace); questo secondo termine introduce un tema importante nella Efesini, ossia la salvezza, come pacificazione universale, che trova i suoi protagonisti in Dio Padre ed in Gesù Cristo.
  b. Il corpo della lettera. Costituita da 6 capitoli, rivela un progetto con due parti ben distinte da una linea di frontiera (3,20-21): infatti, giunto a questo punto, l’Autore abbandona la prosa, e, in uno slancio lirico, si orienta verso un canto, una dossologia che è resa come la conclusione della prima parte del suo discorso.
Subito dopo inizia il quarto capitolo con “vi esorto”. Siamo di fronte ad uno scritto formato da due parti: la prima parte di tipo teologico, una grandiosa riflessione sul mistero della Chiesa; la seconda parte di tipo esortativo, morale, che mette in evidenza l’impegno del cristiano, all’interno della Chiesa.
  c. Saluto e benedizione finali (6,21-24). Secondo il modello tradizionale, alla fine venivano offerte le notizie personali del mittente. Qui mancano, perché sarà Tichico a portarle (6,21). Questo Tichico in At 20,4 risulta un delegato delle chiese dell’Asia Minore, che facevano capo ad Efeso. Insieme, poi, ad altri cristiani, ha accompagnato Paolo a Gerusalemme, alla fine del terzo viaggio missionario, recandovi la colletta. E’ menzionato anche in Col 4,7 e nelle lettere pastorali (2Tm 4,12; Tt 3,12). Emerge l’aspetto comunionale della Chiesa.

LA CHIESA SECONDO LA LETTERA AGLI EFESINI

Nella prima parte della lettera, quella teologica, che abbraccia i primi tre capitoli, l’Apostolo presenta il mistero della Chiesa, che noi vedremo in tre aspetti:

  A. L’ASPETTO TEOLOGICO DELLA CHIESA

E’ presente soprattutto nell’inno che celebra il piano divino della salvezza (1,3-14). La Chiesa affonda le sue radici nell’infinito silenzio del pensiero di Dio, in uno sconfinato oceano di luce e di amore. Concepita prima della creazione del mondo essa fa parte di un indecifrabile ed immenso progetto di Dio, come una piccola area che si inserisce in un orizzonte più ampio e sconfinato.
Qual è questo immenso piano, all’interno del quale si colloca anche la Chiesa? E’ il disegno di riempire i tempi della storia, che scandiscono l’esistenza dell’umanità, della sua presenza efficace ed operativa (il plèroma); è il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra (v. 10). I libri di una volta erano rotoli; ed il rotolo aveva un’asta, detta in latino “capitulum”, attorno alla quale si avvolgeva e svolgeva tutto lo scritto. Paolo partendo da questa immagine ci dice che tutta la storia, tutte le parole ed i fatti dispersi nello spazio e nel tempo trovano la loro coesione ed unità in Cristo, “asse”, capitulum, che avvolge attorno a sé gli uomini, gli avvenimenti e le cose. All’interno di questo orizzonte cosmico, l’orizzonte più piccolo della Chiesa quale finalità ha?
  – Quella di farci diventare, in Cristo, figli adottivi di Dio (v. 5). L’accenno all’adozione non è per sminuire questa realtà, quasi per dirci che siamo figli di serie B; ma è per metterla in relazione con la figliolanza di Gesù, modello e fonte di quella di tutti gli altri figli di Dio. Nella stessa famiglia, che è la Chiesa, come figli siamo tutti amati da Dio con la stessa intensità, con cui Egli ama Gesù.
  – La finalità della Chiesa è anche quella di farci conseguire nel Figlio diletto, la redenzione, mediante il suo sangue, la remissione dei peccati (vv. 7 e 14). Il termine usato da Paolo, per dire “redenzione”, è lo stesso termine che i LXX usano per dire la liberazione dell’Egitto, “apolytrosis”; liberazione che era vista non soltanto come un atto socio – politico, ma come un atto di parentela, che scaturiva dall’obbligo del parente prossimo dello schiavo (padre, o fratello maggiore) di liberare il proprio famigliare dalla schiavitù. Era l’obbligo del cosiddetto go’el. Il parente prossimo, per liberare il proprio congiunto, doveva consumarsi, disfarsi di fatiche e di lavoro, pur di ricuperare la somma richiesta, altrimenti non era più degno di chiamarsi padre o fratello. Questa l’idea che Paolo ha della redenzione: Cristo, nostro fratello maggiore, per liberarci dal peccato, si è disfatto nella sua passione e croce.
Pietro nella sua prima lettera, così commenta questo evento: “Voi sapete che non a prezzo di cose corruttive, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetto e senza macchia” (1Pt 1,18-19). Questa liberazione conosce due tempi: ora Dio ci libera dal peccato, che è una grossa schiavitù; alla fine ci libererà anche dalla schiavitù più umiliante, che è la morte.
  – Una terza finalità della Chiesa è quella di farci diventare eredi: “in lui (Cristo) siamo stati fatti anche eredi” (v. 11). “In lui anche voi, dopo aver accolto il Vangelo, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo, il quale è caparra della nostra eredità” (v. 14).
Il termine eredità, ricorrente nei due versetti, ha due significati diversi: il primo significato è quello derivante dal termine “klèronomia” (che ha dato origine alla parola clero). Noi battezzati tutti (non soltanto i sacerdoti) siamo l’eredità di Dio, cioè la proprietà più preziosa di Dio. Nell’Antico Testamento si usava anche l’immagine, derivante dal termine segullah (quella piccola parte del gregge che un garzone aveva come propria, all’interno del gregge più grande, che era del suo padrone). L’attenzione del pastore – garzone era per tutto il gregge, ma l’amore era per quelle quattro o cinque pecorelle che gli appartenevano come piccola proprietà. Nell’A. T. Israele all’interno di tutti i popoli era definito come segullah , termine tradotto da Gerolamo con “peculium” proprietà peculiare di Dio (pecus è l’armento).
In mezzo a tutti i popoli, noi – chiesa siamo l’eredità, il possesso più prezioso di Dio.
Il secondo significato di eredità è quello che emerge dal verso 14, cioè un bene che erediteremo da Dio, in futuro, del quale lo Spirito Santo è caparra.
Concludo questa prima dimensione della Chiesa, quella teologica, riassumendo la finalità, che essa ha all’interno del progetto cosmico di Dio, con tre espressioni:
    – farci diventare figli adottivi;
    – farci diventare redenti, liberi;
    – farci diventare eredi.
Dopo la contemplazione di questo meraviglioso mistero, in 3,20-21 Paolo esplode in un canto di lode; è il canto corale della Chiesa.

  B. L’ASPETTO CRISTOLOGICO DELLA CHIESA

La Chiesa appartiene al grande progetto del Padre; ma ha la sua realizzazione in Cristo.
Esiste un rapporto particolarmente forte tra Cristo e la Chiesa, così da formare quasi un tutt’uno:
    1. Anzitutto un rapporto “somatico” (soma = corpo). Ef 1,22-23: come nella 1Cor 12, la Chiesa è il Corpo di Cristo, quindi una parte rilevante del suo esistere e del suo manifestarsi. Come l’uomo si manifesta attraverso il corpo, così Cristo, divenuto glorioso, invisibile, si manifesta attraverso e all’interno della Chiesa. La Chiesa è il Corpo con il quale Cristo parla, agisce, si comunica, salva, prega, piange, riceve colpi di ogni genere, compreso il martirio.
Ne deriva per noi credenti una gravissima responsabilità: guai essere un corpo spezzato o deforme.
Questo tema viene più volte ripreso: 2,16; 4,4; 5,23.30; e soprattutto in Ef 4,15-16, dove emerge l’idea di una Chiesa, Corpo ben compaginato, le cui membra sono armonicamente unite le une alle altre.
    2. Paolo aggiunge qui qualcosa di nuovo rispetto a ciò che insegna nella 1Cor 12: afferma che Cristo, all’interno della Chiesa, suo Corpo, è presente come pleroma, cioè come una energia vitale, vivificante e salvante che permea e riempie tutta la Chiesa al punto tale da diventare Egli stesso plerùmenos. E’ un concetto dinamico: Cristo, avendo in sé tutta la pienezza della vita divina, la porta dentro la Chiesa, senza nulla sottrarre alla creaturalità ed identità di ogni cosa. Nella Efesini il concetto di plèroma è ripetuto sovente: 3,19; 4,10; 5,18.
    3. Un ultimo elemento caratterizzante la Chiesa, in quanto Corpo di Cristo, è la kephalè (la testa). Cristo è presente nella sua Chiesa non semplicemente aggregandola a sé come suo Corpo, ma come Capo, cioè come principio vitale, unificante, costitutivo di tutto il pensare e l’agire della Chiesa (è il concetto greco della kephalè per rapporto all’uomo).

  C. L’ASPETTO ECUMENICO DELLA CHIESA

La Chiesa, in quanto aperta a tutti gli uomini e a tutte le realtà culturali e religiose, ha una dimensione universale. Il testo Ef 2,14-18 sottolinea due aspetti:
    1. Cristo entra in scena ed abbatte un muro, la barriera che divideva gli Ebrei dai pagani. Qui il riferimento assume una concretezza particolare che si capisce guardando la planimetria del Tempio, formata da più cortili: il cortile dei sacerdoti, quello degli uomini, quello delle donne ed infine il cortile dei Gentili, separati da muri bassi. In particolare sul muro che separava gli Ebrei dai Gentili c’erano delle targhe marmoree con scritto un avvertimento minaccioso: la pena di morte per i pagani che varcavano la soglia delle zone riservate agli Ebrei.
Paolo dice: Cristo è venuto per abbattere il muro di separazione ed invitare i due popoli Ebrei e Gentili ad incontrarsi nel dialogo e nel rispetto vicendevole.
    2. Il secondo aspetto è offerto dal verbo apokatallàsso (riconciliare); il verbo, che nel mondo greco era usato per dire il tentativo che il giudice faceva per riconciliare due sposi che stavano per separarsi.
Tentativo che ancora oggi il giudice normalmente fa prima di pronunciare una sentenza di divorzio.
Apokatallàsso è anche il verbo dell’annuncio del missionario che invita tutti a lasciarsi riconciliare con Dio, sottolineando che questa è soprattutto un’azione di Dio.
Il tema continua e s’allarga verso quell’orizzonte che preme alla Lettera agli Efesini.
In 2,5-6 c’è sempre la convinzione che i pagani devono entrare nella Chiesa. Israele deve sapere che l’essere diventato Popolo di Dio non è un privilegio, ma un impegno e un segno: l’impegno di annunciare la salvezza agli altri popoli; il segno che anche gli altri gruppi etnici possono diventare Popolo di Dio.
In 2,11-13.19, l’Apostolo afferma che anche i pagani, i lontani sono diventati vicini, grazie al Sangue di Cristo, così da sentirsi non più stranieri ed ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio. Ci sono due termini negativi: xènoi (stranieri) e pàroikoi ed un termine positivo sunpolìtai (concittadini).
 

In missione con san Paolo

dal sito:

http://www.popoli.info/index.html

In missione con san Paolo

Si chiude il 29 giugno l’anno dedicato all’Apostolo delle genti. In queste pagine una riflessione sulla sua eredità per chi è impegnato nell’annuncio del Vangelo al mondo di oggi

Davide Magni S.I.
 
San Paolo apostolo (1975), olio su tavola di Mario Venzo, artista gesuita (1900-1989)
Fra i molti stimoli che l’Anno paolino ha offerto alla Chiesa, uno tra i più significativi è stato l’invito a riflettere sull’atteggiamento che i cristiani devono avere nella relazione con le varie religioni. Al termine dell’anno dedicato al bimillenario della nascita del santo vorremmo riproporre questo stimolo attraverso la proposta di un «esercizio missiologico» per incontrare il Paolo missionario e «missionologo».
Oggi tendiamo a dare per scontato che, poiché ogni religione presenta differenze e particolarità specifiche, il cristiano si debba riferire a ciascuna di esse in maniera differenziata. In realtà, il primo a rendersi conto di questo, e a maturare tale modalità di approccio, fu proprio san Paolo. Egli, partendo dall’esperienza di Cristo che aveva segnato la sua vita e la sua visione del mondo, legge le realtà che incontra ed elabora una riflessione teologica. Questa teologia non è una costruzione astratta, non preesiste alla sua attività missionaria, viceversa ne è il ripensamento. Egli è anzitutto un missionario e poi un teologo.
Uno degli studiosi che hanno riflettuto in maniera particolare sulle forme del dialogo e della missione nell’Apostolo delle genti è stato Pietro Rossano (1923-1991), teologo, responsabile del Segretariato per i non credenti (l’attuale Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso) e rettore dell’Università Lateranense. Rossano spiega bene come, fin dalla prima generazione cristiana, si sia manifestata una pluralità e varietà di espressioni. Dovunque arriva, il messaggio cristiano ha la capacità di innestarsi sul patrimonio spirituale preesistente: questo perché i valori religiosi e umani presenti in ogni popolo vengono assunti, liberati ed elevati in Cristo. Rossano identifica così cinque differenti modelli di evangelizzazione sperimentati da Paolo: agli ebrei della sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,15-41); ai seguaci del politeismo cosmico di Listra (At 14,1-18); ai filosofi stoici ed epicurei di Atene (At 17,18-31); agli gnostici dell’Asia minore (Efesini e Colossesi) e ai culti politeisti di Corinto (1Cor 10,19-22). Un buon esercizio potrebbe consistere anzitutto nella lettura dei brani appena citati.
Rimanendo ai suggerimenti bibliografici, raccomandiamo un altro teologo prematuramente scomparso, il sudafricano David Bosch (1929-1992). Nel suo testo fondamentale, La trasformazione della missione. Mutamento di paradigma in missiologia (Queriniana, Brescia 2000), traccia una sintesi della missione in Paolo di grande limpidezza e acume. Estrapoliamo qui solo due aspetti di questa stimolante lettura che Bosch propone sulla teologia e la prassi missionaria di Paolo: le «motivazioni» e lo «scopo» della sua missione.

LE MOTIVAZIONI DI PAOLO

Nel più profondo della motivazione missionaria di Paolo c’è l’esperienza che egli ha fatto dell’amore di Dio in Cristo Gesù. Se va fino alle estremità della terra è perché è stato conquistato da Lui: «Il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore di Dio costituisce il vero movente della missione: «Avendo conosciuto (…) cerchiamo di convincere gli uomini» (5,11); «l’amore di Cristo ci spinge» (5,14).
Se, dunque, Paolo proclama il Vangelo a tutti, non è in primo luogo perché vuole salvare chi è perduto o perché ne sente l’obbligo. Il motivo di fondo è che ha coscienza che gli è stato fatto un privilegio: «ha ricevuto la grazia di essere apostolo» (Rm 1,5; 15,15). Privilegio, grazia, riconoscenza sono i concetti che Paolo usa quando parla del suo compito missionario. La coscienza di sapersi debitore si traduce immediatamente in un sentimento di riconoscenza. È facendosi missionario presso i giudei e i pagani, che Paolo esprime la sua riconoscenza per l’amore di Dio manifestato in Cristo. Un amore che «ci ha riconciliati con Dio mentre ancora gli eravamo nemici» (Rm 5,10): è questo amore incredibile e senza misura che Paolo e le sue comunità hanno scoperto e raccontano.
San Paolo ha una preoccupazione che lo spinge. Fuori di Cristo l’umanità perde assolutamente ogni speranza, è votata alla perdizione (1Cor 1,18; 2Cor 2,15). Essa ha un bisogno urgente di salvezza (Ef 2,12). Per tale ragione, deve essere proclamato a tutti che «Gesù ci libera dalla collera che viene». Si sente ambasciatore di Cristo: «In nome di Dio, ve ne supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Tuttavia la sua grande motivazione non è predicare questa «collera che viene», ma il messaggio positivo: la salvezza che viene attraverso Cristo e il trionfo imminente di Dio. Il Vangelo è una buona notizia, rivolta a gente che ha peccato volontariamente, che è senza scuse e che merita il giudizio di Dio (Rm 1,20-25), ma a cui Dio, nella sua bontà, offre la possibilità di pentirsi (Rm 2,4). La salvezza, per Paolo, è l’esperienza di una liberazione immeritata, grazie all’incontro con il Dio unico, Padre di Gesù Cristo. Paolo ha la missione di condurre gli uomini alla salvezza in Cristo. Ma il suo obiettivo finale non è centrato sull’uomo: è preparare il mondo in vista della gloria di Dio che viene (1Tess 1,9) e per il giorno in cui tutto l’universo lo loderà, nella comunione piena di vita con lui.
Secondo Bosch, per cogliere come Paolo sentiva la responsabilità missionaria è utile richiamare quanto egli scrive a proposito del comportamento dei credenti verso «quelli di fuori»: devono anzitutto prendere coscienza di costituire una comunità di natura speciale, differente. Egli definisce i cristiani «scelti», «amati», «santi» (cioè, «messi da parte per»), conosciuti da Dio. Inoltre, ricorda continuamente che la testimonianza verso «quelli di fuori» esige una condotta esemplare: una condotta di rispetto (1Tess 4,11) e di amore concreto verso tutti (1Tess 3,12), una condotta che non solo attiri stima e ammirazione, ma addirittura inviti a entrare nella comunità.
In altre parole, la caratteristica delle prime comunità cristiane è il comportamento missionario. Esso si esprime non tanto con un’attività missionaria specifica, quanto con lo stile di vita «attrattivo» delle piccole comunità in cui le relazioni umane sono trasformate. Sono relazioni reciproche di attenzione, solidarietà, ospitalità, intense e ricche di emotività, di integrazione sociale tra ricchi e poveri: esse mostrano l’opera di riconciliazione realizzata da Cristo; sono «un segno precursore» dell’alba del mondo nuovo.

LO SCOPO DELLA MISSIONE

Sulla base di queste ragioni che lo spingono, qual è dunque il fine dell’andare alle genti? Nelle prime righe della Lettera ai Romani, Paolo riassume l’obiettivo del suo apostolato. È stato «scelto per annunciare il Vangelo» e incaricato di proclamare che Dio ha effettuato la riconciliazione del mondo con Lui e anche fra di noi. Per questo percorre tutta l’area mediterranea. Dove arriva, fonda Chiese: saranno, spera, manifestazioni della nuova creazione, capaci di resistere alle potenze di questo mondo.
La missione di Paolo si fonda non su promesse incerte, ma su un dato di fatto: la salvezza è già offerta da Dio all’umanità. In retrospettiva, cioè alla luce dell’esperienza dell’amore senza condizioni di Dio, Paolo ha immaginato come sarebbe stata la sua vita senza Cristo: egli ha potuto rendersi conto del terribile abisso in cui sarebbe caduto.
Tuttavia, quando confessa di essere stato salvato grazie a Cristo, non pronuncia un verdetto su quelli che non credono. Paolo non si sofferma sulla sorte dei non credenti, preferisce insistere sulla liberazione che è già stata data. Ha fatto l’esperienza del Vangelo, dell’amore senza condizioni: il suo scopo, lo scopo della sua missione, è di proclamare la salvezza compiuta da Dio. Il suo Vangelo è un messaggio positivo.

EDUCAZIONE AL DISCERNIMENTO

Dicevamo all’inizio che questa «lettura spirituale» dei testi di Paolo diventa un esercizio missiologico. L’anno scorso papa Benedetto XVI ha ricordato ai gesuiti riuniti per la 35ª Congregazione generale che la loro missione si articola in quattro dimensioni: servizio della fede, promozione della giustizia, inculturazione del Vangelo, dialogo interreligioso. Questo, però, vale per tutti i cristiani. San Paolo è il modello di riferimento, o paradigma, fondamentale.
L’Apostolo ci aiuta a riflettere sull’obiettivo e le motivazioni della missione che noi abbiamo. Si tratta di un’educazione al discernimento delle modalità dell’annuncio del Vangelo nell’attuale contesto delle religioni e delle culture. La Chiesa, ricordava mons. Rossano, consapevole dei limiti e delle imperfezioni che hanno offuscato nella storia l’efficacia della sua testimonianza, si sforza di presentare il messaggio evangelico in tutta la sua pienezza e nella sua potenza liberatrice. Per essere il più vicino possibile allo spirito di Cristo e alle esigenze dell’uomo contemporaneo, essa si trova sempre impegnata in un rinnovamento interiore.
Se il Concilio Vaticano II ha rappresentato il massimo sforzo compiuto dalla Chiesa nei tempi moderni per rendersi più adatta a svolgere la missione che Cristo le ha affidato per tutti gli uomini, l’anno paolino ha senza dubbio reso evidenti alcuni bisogni e desideri. Ad esempio il bisogno di ritrovare la piena unità con i cristiani separati dell’Oriente e dell’Occidente, il desiderio di avere uno sguardo d’amore e fiducia verso i non cristiani, per i quali la Chiesa sa di dover essere come il lievito e il sale.
Pochi mesi prima dell’apertura dell’anno paolino, il 3 dicembre 2007, la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede, ha sollecitato i cristiani a una riflessione non scontata. La Nota induce a prendere consapevolezza di dove ci smarriamo nel nostro andare alle genti. Allo stesso tempo suggerisce che cosa possiamo migliorare, correggere, cambiare e ulteriormente fare nel nostro modo di annunciare (cioè vivere) il Vangelo. La Nota parla innanzitutto delle implicazioni antropologiche dell’evangelizzazione: è la dimensione del servizio, della carità vissuta nell’impegno per la giustizia e la pace, la salvaguardia del creato. Proseguendo, espone le implicazioni ecclesiologiche: ciò richiama la Chiesa a essere luogo di comunione, ovvero a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra i popoli e le culture; la comunità è luogo accogliente e riconciliante, attraente perché ci si sente amati e rispettati nella carità. Infine, richiama la dimensione ecumenica dell’evangelizzazione: c’è bisogno della testimonianza dei cristiani adulti nella vita secondo lo Spirito, pronti al dialogo e alla condivisione di doni che promuovono una più profonda conversione a Cristo; l’incontro tra le fedi, insomma.
Dall’incontro con san Paolo e raccogliendo le sollecitazioni della Nota possiamo capire che a nulla o a poco servono l’irrigidimento delle strutture ecclesiali o i discorsi sulla pastorale di tipo tattico-strategico, se si dimentica che il centro ispiratore di ogni azione è Gesù Cristo. Priva di grandi risorse umane, la Chiesa sa che deve contare unicamente sulla presenza di Cristo, il quale prima di congedarsi visibilmente dagli apostoli ha assicurato loro: «Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli».

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