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HANUKKAH – FESTA DELLE LUCI (12 sera 20 dicembre)

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HANUKKAH – FESTA DELLE LUCI (12 sera 20 dicembre)

Hanukkah è una festa ebraica stabilita dai Maestri del Talmud e ricorda un avvenimento accaduto in terra di Israele, nel 167 a.C. Le mire di ellenizzazione di Antioco Epifane di Siria – ottavo re della dinastia seleucide, erede di una piccola parte dell’Impero appartenuto ad Alessandro Magno – furono contrastate e impedite da Mattatia, un sacerdote della famiglia degli Asmonei che insieme ai suoi sette figli, diede avvio alla rivolta.
Si narra che al momento di riconsacrare il Tempio profanato, quando i sacerdoti si apprestarono ad accendere il lume, si accorsero che la quantità di olio puro in loro possesso non sarebbe stata sufficiente. A quel punto avvenne il miracolo e la piccola ampolla bastò per otto giorni.
Ancora oggi nelle case ebraiche, da Tel Aviv a New York a Torino, per la gioia di tutta la famiglia, al calare del sole vengono accese le luci del candelabro a nove bracci per otto giorni.
I bambini giocano con il dreidel – la trottola – di ogni tipo, colore e forma, su cui sono riportate le lettere ebraiche nun, ghimel, he e shin (“Nes, Gadol, Haya, Sham”, ovvero “Un grande miracolo è avvenuto là”) e le donne portano in cucina il “miracolo dell’olio”, preparando gustose ciambelle e frittelle salate e dolci.Gli ebrei italiani usano preparare le frittelle di mele, nell’est Europa si cucinano frittelle di patate salate e dolci, accompagnate da panna acida o marmellata, mentre gli ebrei dell’Europa centrale preparano i soffici Krapfen ripieni di crema, marmellata o cioccolata calda con un tocco di panna montata e lungo le coste del mediterraneo, i sefarditi mangiano latticini per ricordare l’eroina Giuditta che sconfisse Oloferne.

La musica di Hanukkah
Come tutte le feste ebraiche anche Hanukkah risuona di canti in famiglia. I più conosciuti e diffusi sono Mi yemallel, scritto, verso gli anni Trenta, da un personaggio abbastanza noto, Menashe Rabina. Nato nel 1899 in Ucraina, fece studi tradizionali nelle yeshivot ma anche studi laici e soprattutto musicali; dal 1924 si insediò a Tel Aviv; morì nel 1968. Musicista e musicologo impegnato, dette un grande impulso all’educazione musicale in Eretz Israel e alla crescita delle sue musiche, che contribuirono a creare l’atmosfera del paese. È stato autore di testi e melodie famose ma nel caso del Mi yemallel ha composto solo il testo, mentre la musica è “popolare”, sembra di origine inglese. Le prime parole sono legate al Salmo 106:2, solo che nel Salmo le prodezze sono quelle del Signore, mentre qui sono quelle di Israele.
È un canto legato a Eretz Israel e al sionismo, ma il canto stranamente si è diffuso, dopo la guerra anche a Roma e addirittura è stato eseguito nel Tempio pur non essendo un canto religioso. Fino a quel momento l’uso dei sefarditi e degli italiani si limitava al canto del Salmo 30, Mizmor shir chanukkat habayt leDavid.
Gli ashkenaziti invece hanno dal medioevo il famoso Ma’oz Tzur, che è un inno religioso, in quanto è preghiera di redenzione rivolta alla “Fortezza, roccia della mia salvezza”; un canto che riassume le storie di salvezza, che tra le righe contiene allusioni piuttosto dure alla fine dei nemici, e che conserva un certo carattere militaresco sottolineato dall’antica marcetta tedesca che tutti conoscono (ne esiste anche una variante italiana forse un po’ più dolce).
Nel secolo scorso i canti si sono moltiplicati, con testi nuovi e melodie talvolta nuove, talvolta riciclate (fino allo Judas Maccabaeus di Handel).
In Yemè haChanukkà il ritornello parla dei “miracoli e prodigi che hanno realizzato i Maccabei”.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 13 décembre, 2017 |Pas de commentaires »

HANUKKAH – IL MIRACOLO NEGATO – RAV RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA – 2015: 7-14 DICEMBRE

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HANUKKAH – IL MIRACOLO NEGATO – RAV RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA – 2015: 7-14 DICEMBRE

La recente scomparsa del dottor Marco Spizzichino, che prima di esercitare per molti anni a tempo pieno la professione medica era stato insegnante di materie ebraiche alle scuole elementari di Roma, ha evocato, proprio alla vigilia di Hanukkah, l’immagine del morè Spizzichino che dirigeva il coro dei bambini nella tradizionale festa delle scuole che si svolgeva al Tempio Maggiore (e ancora vi si svolge). Ricordo i suoi gesti decisi e ritmati che guidavano i bambini a cantare Mi yemallel gvurot Israel… Uno dei tanti canti per Hanukkah, che ancora oggi circola nelle nostre scuole e nelle riunioni pubbliche festive. Sollecitato da questo ricordo, ho provato a cercare qualche notizia su questo canto e mi si è aperto davanti un mondo intero. Che va riscoperto e spiegato perché è una chiave di comprensione (o di incomprensione) dei significati contraddittori della festa di Hanukkah. Ogni canto è fatto di un testo e di una melodia. Il testo del Mi yemallel è stato scritto, verso gli anni Trenta, da un personaggio abbastanza noto, Menashe Rabina. Nato nel 1899 in Ucraina, fece studi laici, tradizionali in yeshivòth e soprattutto musicali; dal 1924 si insediò a Tel Aviv; morì nel 1968. Musicista e musicologo impegnato, dette un grande impulso all’educazione musicale in Erez Israel e alla crescita delle sue musiche, che contribuirono a creare l’atmosfera del paese. Fu autore di testi e melodie famose. Nel caso del Mi yemallel, del solo testo, mentre la musica è “popolare”, sembra di origine inglese. Uno strano miscuglio, che diventa ancora più enigmatico quando si riflette al significato dei pochi versi della canzone. In italiano: “Chi potrà dire le prodezze di Israele, chi potrà enumerarle?/ Ecco in ogni generazione sorgera l’eroe redentore del popolo./ Ascolta: in quei giorni, in questo tempo/ il Maccabeo salva e riscatta/ E nei nostri giorni tutto Israele/ Si unirà, sorgerà e sarà redento”. A parte la retorica, comune in molti inni del genere, l’esame del testo, che cita espressioni antiche e tradizionali, a un esame appena più approfondito è rivelatore di una rivoluzione. Perché l’espressione iniziale, Mi yemallel gvurot, è presa dalla Bibbia, dal Salmo 106:2, solo che nel Salmo le prodezze sono quelle del Signore, mentre qui sono quelle di Israele. Nello spirito tradizionale il “redentore” non sorge da solo, ma viene fatto sorgere, e chi “salva e riscatta” è il Signore stesso, talora per mezzo degli uomini, ma mai gli uomini per conto proprio. Dunque la poesia rivela uno spirito a-religioso se non antireligioso, in cui si sostituisce, all’opera redentrice divina che guida la storia, l’autonoma rivolta umana. L’autore lo fa usando il vocabolario della tradizione, persino quello liturgico (“ascolta”; “in quei giorni in questo tempo”) che viene però stravolto. E’ un’operazione tipica di un certo periodo e di una certa anima del movimento sionistico, che predicava il risorgimento del popolo ebraico in contrasto con i gruppi più religiosi che vedevano in questo un sovvertimento della storia e del destino diasporico segnato dall’alto. In terra d’Israele questo contrasto veniva perfettamente notato, e quindi accettato polemicamente da ampie fasce sioniste e rigettato dagli antisionisti o dai sionisti religiosi. Stupisce un po’ la diffusione di questo canto nella Roma ebraica, che non sappiamo quando sia arrivato, probabilmente dopo la guerra, e passi per i sionisti non religiosi, ma non si capisce molto l’uso comune e accettato dentro al Tempio Maggiore, dove molti l’hanno sentito cantare e anche imparato. Se si pensa al repertorio comune dei canti di Hanukkah, la contraddizione è notevole. L’uso dei sefarditi e degli italiani si limitava al canto del Salmo 30, Mizmor shir chanukkat habayt leDavid. Gli ashkenaziti invece hanno dal medioevo il famoso Ma’oz Tzur, che è un inno religioso, in quanto è preghiera di redenzione rivolta alla “Fortezza, roccia della mia salvezza”; un canto che riassume le storie di salvezza, che tra le righe contiene allusioni piuttosto dure alla fine dei nemici, e che conserva un certo carattere militaresco sottolineato dall’antica marcetta tedesca che tutti conoscono (ne esiste anche una variante italiana forse un po’ più dolce). Nel secolo scorso i canti si sono moltiplicati, con testi nuovi e melodie talvolta nuove, talvolta riciclate (fino allo Judas Maccabaeus di Handel). Mi yemallel nasce nell’atmosfera sionista rivoluzionaria, in cui tutto è rivolto alla capacità e alla volontà del popolo ebraico di scriversi da solo il proprio destino. E non è l’unico canto che rivisita le concezioni tradizionali. In Yemè haChanukkà il ritornello parla dei “miracoli e prodigi che hanno realizzato i Maccabei”, per intendersi, i Maccabei da soli hanno fatto il miracolo. In altri testi si nega direttamente il miracolo dell’olio. Prima di Yom ha’atzmaut, il giorno dell’Indipendenza, la festa più adatta per segnare lo spirito di rivolta ebraica era proprio quella di Hanukkah, di cui veniva esaltato il ricordo di un pugno di uomini che si ribellarono all’oppressione e crearono uno stato indipendente. Che poi i ribelli fossero sacerdoti, e lo facessero non tanto per l’indipendenza quanto per la libertà religiosa e in opposizione all’assimilazione all’ellenismo, contava meno nella rielaborazione mitica proto-sionista. Ma a ben vedere questa opposizione di significati accompagna Hanukkah fin dalla sua istituzione. Il tema della luce e del miracolo, sottolineato dai maestri, è in chiara opposizione allo spirito rivoluzionario e militaresco della festa. I Farisei erano stati vittime della casa regnante degli Asmonei, gli eredi dei sacerdoti vittoriosi di Hanukkah, che erano diventati re. I Farisei consideravano questa regalità un’usurpazione (il re legittimo di Israele può essere solo un discendente da David), e pagarono a duro prezzo questa loro opposizione. Se Hanukkah doveva essere la celebrazione dell’insediamento di una monarchia illegittima, non c’era motivo di celebrarla. Ma Hanukkah era anche la vittoria contro l’ellenismo, la restaurazione del Tempio; questa era l’anima di cui i Rabbini non potevano fare a meno. E da qui la centralità della storia del miracolo e la sua importanza centrale nella celebrazione. Hanukkah riassume in questo modo una delle più importanti contraddizioni dell’ebraismo, tra anima laica e libertaria e tra anima religiosa permeata alla fede. Non è che la contraddizione sia così semplicistica. Esistono cento modi di viverla e ricombinare le cose insieme. Ma il risorgimento ebraico ha esaltato questa contraddizione. Oggi che viviamo nell’era definita “post-sionista” alcune di queste durezze si sono un poco attenuate. Ma solo poco. Tra chi vede la storia universale e quella ebraica in particolare come un prodotto umano e chi la vede invece come provvidenziale, tra chi privilegia un’identità ebraica statale e chi la vuole antistatale (se lo stato è quello ebraico non religioso), tra chi teorizza il diritto all’autodifesa militare (e all’attacco quando necessario) e chi considera la violenza sostanzialmente estranea all’anima ebraica, il dibattito, e spesso la polemica feroce, è estremamente attuale. E tutto questo si nasconde dietro le fiammelle di questa festa, che continuiamo ad accendere in segno unificante, anche se al segno attribuiamo tanti significati differenti. Tra i messaggi nascosti nella storia del miracolo dell’olio c’è quello della permanenza nel tempo (x 8) dell’energia, che si verifica in un nucleo di “duri e puri”, contro ogni regola razionale e naturale, energia che consente a tutti di sopravvivere anche nei momenti più drammatici. Erano così energici anche i sionisti che ricostruivano la terra e lo stato, anche se molti di loro, con la loro ideologia, negavano proprio il simbolo che li rappresentava.

 

IL «CAPRO ESPIATORIO» DEGLI EBREI PREFIGURA IL SACRIFICIO DI GESÙ? (YOM KIPPUR 2015 IL 23 SETTEMBRE)

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IL «CAPRO ESPIATORIO» DEGLI EBREI PREFIGURA IL SACRIFICIO DI GESÙ? (YOM KIPPUR 2015 IL 23 SETTEMBRE)

Una domanda a partire dalla festa ebraica dello «yom kippur» (dell’espiazione). Risponde Giovanni Ibba, docente di ebraismo alla facoltà Teologica dell’Italia centrale.

La festa ebraica dello «yom kippur» (dell’espiazione) nella quale il capro espiatorio prende su di sè i peccati di Israele e morendo redime tutto il popolo, poteva essere un riferimento per Gesù che offre la sua vita per la salvezza dell’uomo?

Daniela Nucci

Lo yom kippur si riferisce a un giorno dell’anno che Dio ha comandato di dedicare all’espiazione per i peccati del popolo, come si vede nel capitolo 16 del Levitico. In questa sezione del testo biblico si legge che due capri verranno presi da Aronne e posti davanti alla tenda del convegno.
Dopo aver tirato la sorte sui due animali, viene deciso quale dei due sarà sacrificato al Signore (YHWH) e quale ad Azazèl, forse un demone che si credeva vivesse nel deserto. Quello destinato al Signore verrà scannato come sacrificio per il peccato del popolo e poi seguiranno complessi riti di aspersione del sangue dell’animale; poi, finiti tutti i gesti purificatori, Aronne prenderà tutti i peccati purificati dal primo capro e li porrà, con l’imposizione delle mani, sul secondo animale. Il capro verrà condotto nel deserto e lì lasciato. Il testo spiega che «così porterà sopra di sé tutte le (…) colpe in una regione remota». Collocare le colpe degli israeliti su un capro che dovrà andare nel deserto, quindi un luogo lontano da quello in cui vive il popolo, è indubbiamente una sorta di esorcismo, un allontanamento del male al di fuori.
Entrambi i capri hanno una funzione importante rispetto alla questione dell’espiazione. Ora, rispetto a Gesù, la questione va affrontata premettendo che il problema del peccato nel pensiero ebraico è fondamentale e complesso e che, al tempo di Gesù, la questione era molto sentita. La funzione sacerdotale (Aronne) nell’adempiere il comando del sacrificio espiatorio è stata a volte messa in relazione con il ministero di Gesù che, oltre ad essere lui stesso visto come sacerdote (vedi lettera agli Ebrei, ma si parla di un sacerdozio che difficilmente è collegabile con quello aronitico di cui sopra) è stato visto anche come vittima sacrificale (vedi l’ecce Agnus Dei, ma anche in questo caso ci sono problemi a collegarlo col capro espiatorio, come si vedrà più avanti) per i peccati dell’uomo.
Le prime comunità cristiane ravvedevano una correlazione tra il capro espiatorio (quale?) di Levitico 16 e la vicenda di Gesù, morto per i peccati dell’uomo? È bene rilevare che la questione è molto più articolata di quanto si possa pensare. Innanzitutto, è da capire se per espiazione dei peccati s’intende la stessa cosa del perdono dei peccati di cui parla Gesù. Detto in parole semplici, l’espiazione dev’essere intesa come un atto mediante cui il popolo può ricominciare a vivere senza il peso di peccati, spesso involontari, che impedirebbero una conduzione di vita adeguata e alla presenza del Signore. L’espiazione riguarda qualcosa che è stato commesso e confessato. Il perdono di cui parla Gesù invece è invece un’azione più radicale, simile a quella sperata da profeti come Isaia, Ezechiele o Geremia e il cui soggetto dell’azione del perdonare è Dio stesso e non un intermediatore come il sacerdote, anche se esso opera in nome suo.
Il perdono si esplica nel cristianesimo soprattutto nel momento del battesimo, dove il catecumeno fa l’esperienza di una purificazione mediante lo Spirito che lo rende nuovo in un modo sostanziale. Tale purificazione può essere intesa come un perdono, ma non solo nel senso di una rimozione delle tracce dei peccati, come appunto poteva avvenire durante lo yom kippur, ma anche e soprattutto come rimozione della causa stessa dei peccati. Gesù, dopo il battesimo, opera con lo Spirito una purificazione interiore dell’uomo, un perdono che precede il peccato stesso, se così si può dire.
La risposta di Pietro, riportata in tre modi differenti nei sinottici, alla domanda di Gesù sulla propria identità è al riguardo significativa: Gesù è il Figlio del Dio vivente (Mt 16,13-20); è il Cristo (Mc 8,27-30); è il Cristo di Dio (Lc 9,18-21). Tutti i tre titolo attribuiti a Gesù riguardano un personaggio che non è né sacerdote nel senso del Levitico, né vittima sacrificale come s’intende nel testo biblico. Se Gesù fosse visto come capro espiatorio, allora i romani che lo crocifiggono sono sacerdoti. I titoli espressi dai sinottici indicano indiscutibilmente, soprattutto Matteo e Luca, che Gesù non ha la stessa funzione del sacerdote nel rito dell’espiazione, e nemmeno di quello del capro espiatorio, in quanto il sacrificio di quest’ultimo è destinato ad estinguersi in un certo tempo. Ciò che fa Gesù riguarda il perdono, e questo era una cosa che solo Dio si pensava potesse fare. Gesù è un uomo, ma è anche Figlio del Dio vivente o Cristo di Dio. Il senso è che, come Figlio o Cristo di Dio, egli ha le caratteristiche, mediante lo Spirito, per poter operare quello che solo Dio può fare. Con l’espiazione, in qualche modo, il problema del peccato non è risolto in modo definitivo; con Gesù il perdono avviene con la sua vita e il suo insegnamento una volta per sempre.
Vorrei infine sottolineare che non si deve parlare di un «superamento» dell’espiazione con il perdono di Gesù. Il primo rimane sempre valido nella misura in cui esso rende cosciente l’uomo della sua natura e, quindi, della sua totale dipendenza dal suo Creatore; il secondo, pur operando alla radice della natura umana, non esclude il continuo richiamo che Israele fa nel ricordare che l’uomo dipende dal Signore. Sul piano dei segni vorrei anche dire che la vicenda di Gesù termina con la crocifissione e questo, almeno sul piano simbolico, non ha nulla a che vedere né con lo sgozzamento del primo capro, né con l’allontanamento del secondo nel deserto. 

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 5 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

CHANUKKAH – INIZIA IL 25 DICEMBRE (IL 25 DI KISLEV) E DURA 8 GIORNI – GAVRIEL LEVI

http://www.nostreradici.it/chanukkah.htm

CHANUKKAH – INIZIA IL 17 DICEMBRE (IL 25 DI KISLEV) E DURA 8 GIORNI – GAVRIEL LEVI

(altre notizie su questa pagina: http://www.nostreradici.it/hanukkah05.htm )

Nel giorno di chanukkà che capita di shabbath, i lumi di chanukkà si accendono assieme con quelli dello shabbath e, la sera dopo assieme con quello dell’avdalà1. La vigilia di shabbath si accende prima la chanukkà e dopo i lumi dello shabbath; alla fine dello shabbath si accende prima la torcia dell’avdalà e dopo i lumi della chanukkà.
È evidente che questa regola è collegata con il divieto di accendere il fuoco durante lo shabbath: non si può accendere nessun fuoco dopo che è cominciato lo shabbath; non si può accendere nessun fuoco finché lo shabbath non è veramente finito. Tuttavia, se ci riflettiamo sopra, questa regola collega, con un significato più ampio e più profondo, i tre fuochi e le tre luci che accendiamo nelle nostre case e che, in modi diversi, rappresentano la forza creativa dell’uomo e la vita di Israele.

Solo se si è acceso il lume di chanukkà si può accendere il lume dello shabbath; solo se si è acceso il lume dell’avdalà si può accendere il lume di chanukkà.

Se si è lottato per rimanere ebrei, se ci si è conquistati il miracolo, allora si può rinunciare ad accendere ogni fuoco e si può godere del lume che deriva direttamente dai giorni della creazione e che riassume, già in sé, la luce del Mashiach.

Se si è acceso il fuoco che permette di accendere ogni fuoco nella settimana, che è stato regalato da Dio al primo uomo e che ci aiuta a distinguere, con i nostri mezzi, la luce dal buio, allora si può accendere, senza più divieti, il fuoco del miracolo.

Le luci della chanukkià devono rimanere divise e distinguibili l’una dall’altra: ogni giorno è un giorno completo di vita; ogni generazione è completa in se stessa ed è necessaria perché la generazione precedente possa vivere nella successiva.

Le luci dell’avdalà devono essere unite e indistinguibili l’una dall’altra: ogni giorno, anche il più banale, è parte del giorno completo che è tutto shabbath.

La luce dell’avdalà è la luce di un fuoco che si accende dopo lo shabbath; la sua benedizione è centrata nella creazione delle « luci » del fuoco e sulla nostra azione di guardarsi le mani, nel buio e alla luce.

La luce di chanukkà è la luce che si accende per rendere manifesto il miracolo; la sua benedizione riguarda l’obbligo di ripetere il miracolo e di preparare la luce di un giorno per farla ardere otto giorni.

Non può esistere la festa di chanukkà senza dentro una vigilia di shabbath, senza uno shabbath e senza un’uscita di shabbath.

Il miracolo di chanukkà (e cioè la luce di un giorno che deve durare fino al termine dei giorni, ed ancora un giorno di più) contiene dentro di sé: a) la luce del fuoco che esiste quando nessun fuoco può essere acceso dall’uomo; b) la luce di un fuoco che deve essere ricreato, per dividere il giorno umano dalla notte umana; il giorno di shabbath dai sei giorni dell’azione; le mani dell’uomo dalla creazione di Dio.

Il miracolo di chanukkà contiene anche due luci: la luce di un fuoco che non esiste (perché è stato acceso prima); la luce di un fuoco creato da D-o (ma acceso dagli uomini) perché l’uomo possa uscire, senza paura, nel mondo degli uomini.

Tra l’inizio di chanukkà e l’inizio dello shabbath esiste un momento di intervallo: noi ebrei abbiamo compiuto il nostro miracolo, quando il sole non è ancora calato; a D-o viene lasciato il tempo per compiere il suo miracolo, finire la creazione e portare il Mashiach.

Tra la fine dello shabbath e l’inizio di chanukkà esiste un altro momento di intervallo: la storia di tutti i giorni si è ripetuta; l’ebreo può accettare il dono del fuoco direttamente da D-o e, ancora una volta, ripetere il miracolo.

Se noi riusciamo a conservare l’olio per un giorno, anche quando ci sembra che il buio durerà più a lungo e quando ci sembra che non ci sia nessun posto per accendere una luce, D-o vedrà questa luce per otto giorni.

Se non conserviamo l’olio nel buio (ma questo è impossibile perché in fondo lo conserviamo anche senza saperlo) allora D-o dovrà fare il miracolo da solo e dovrà riprendere il fuoco di chanukkà da quello donatoci per l’avdalà.

Un cieco adempie al precetto di chanukkià partecipando, se ne ha la possibilità, con una perutà, all’accensione di un altro ebreo e, se non può perché è solo, accendendo la chanukkià, con qualunque aiuto, da solo.

Per quale luce accende la chanukkià, un cieco?
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Fonte: morasha.it

La giornata dello Shabbat si apre e si chiude con un’ accensione di lumi. All’imbrunire del venerdì si accendono due candele (in teoria ne basterebbe una) recitando la benedizione che termina con « e ci hai comandato di accendere il lume dello Shabbat ». Al termine dello Shabbat, nella cerimonia dell’Avdalà, la separazione tra il giorno di festa e quello feriale si accende una torcia formata da più luci che intrecciandosi formano un’unica fiamma. Su questo lume si benedice il Signore « creatore dei luminari di fuoco ». Nel Talmud Jeruscialmì (citato anche dal compendio « Torà Temimà » ai primi versi della Genesi) si ricerca la fonte del fatto che nella Avdalà si dice la benedizione sul lume solo dopo che il lume è acceso. Questo lascia supporre che nell’altro caso, l’accensione dei lumi dello Shabbat, prima si dica la benedizione e poi si accenda. In effetti ciò avviene quasi esclusivamente secondo il rito di Roma (quasi tutti gli altri oggi prima accendono e poi dicono la benedizione).

Publié dans:EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 17 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

Rav Alberto Funaro suona lo Shofar al Tempio Maggiore di Roma

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Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 24 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

IN ARRIVO ROSH HASHANAH, IL CAPODANNO EBRAICO

http://www.evangelici.net/notizie/1411382376.html

IN ARRIVO ROSH HASHANAH, IL CAPODANNO EBRAICO

Notizia inserita il 22/9/2014

Al tramonto del 24 settembre in tutte le comunità ebraiche prenderanno il via le celebrazioni dello Rosh Hashanah, il capodanno ebraico: la festa dura due giorni ed è anche occasione di introspezione, bilancio e propositi di miglioramento nel rapporto con il prossimo
La celebrazione di Rosh Hashanah, assieme a Yom Kippur, è parte di uno dei due giorni solenni del calendario biblico. Il termine letteralmente significa « capo dell’anno » e avviene tra il primo ed il secondo giorno del mese di tishrì (settembre-ottobre). Quest’anno esso viene celebrato tra il 24 e il 26 settembre.
Secondo la tradizione ebraica, questo giorno coincide con l’anniversario della creazione di Adamo ed Eva e viene chiamato, perciò, anche Giorno del Ricordo, enfatizzando la particolare relazione tra il Dio Creatore e l’umanità.
Nel Talmud è scritto che «a Rosh Ha-Shanà tutte le creature sono esaminate davanti al Signore». Non a caso tale giorno, nella tradizione ebraica, è chiamato anche « Yom Ha Din », il giorno del giudizio. Il giudizio divino verrà sigillato nel giorno di Kippur, il giorno dell’espiazione. Tra queste due date corrono sette giorni che sommati ai due di Rosh Ha-Shanà e a quello di Kippur vengono detti i « dieci giorni penitenziali ».
Il giorno di Rosh Hashanah pone una certa attenzione sul rapporto di ogni uomo con il proprio prossimo e con Dio, come anche sui propositi di miglioramento.
LO SHOFAR – L’osservanza centrale di Rosh Hashanah è il suono dello shofar, il corno di montone, che rappresenta il suono di tromba eseguito in occasione dell’incoronazione di un re da parte del suo popolo. Il suono dello Shofar rappresenta una chiamata al pentimento (teshuvà), che è altresì connessa al peccato del primo uomo e al pentimento per esso. Lo shofar rammenta, inoltre, il dono della Torah nel Sinai, che fu proprio accompagnato da questo suono e allude anche al passaggio escatologico di Isaia 27:13, che annuncia i tempi messianici e descrive un grande shofar, una « grande tromba ».
Il corno di montone è anche un simbolo connesso al sacrificio di Isacco e alla prontezza di Abrahamo nell’ubbidire al proprio Dio.
Israele, per Rosh Hashanah, supplica Dio che «il merito di Abrahamo possa stare sopra l’intero popolo» sicché Dio, nella sua compassione e misericordia, provveda un anno di vita, salute e prosperità. Durante il servizio del Capodanno, il popolo assiste al suono congiunto di cento shofar. Questo suono, biblicamente, serviva da segno per l’annuncio della santa convocazione, per cui Rosh Hashanah è detta anche la Festa delle Trombe.
I passaggi della Bibbia che descrivono questa celebrazione sono Levitico 23:23-25 e Numeri 29:1-6.

LA CELEBRAZIONE – Per Rosh Hashanah vengono consumati alcuni cibi dolci come una fetta di mela immersa nel miele (simbolo del desiderio di un anno dolce), i chicchi di un melograno (simbolo della richiesta che il popolo possa essere numeroso proprio come i chicchi di questo frutto) e altre pietanze tipiche. Inoltre, vengono recitate delle benedizioni vicendevoli utilizzando le parole Leshanah tovah tikateiv veteichateim (« che tu possa essere iscritto e sigillato per un buon anno ») e ha luogo l’enunciazione del Tashlich, una particolare preghiera recitata in prossimità di una fonte d’acqua (mare, fiume, stagno ecc.), dopo essersi svuotati le tasche, a simboleggiare il disfarsi delle colpe commesse e un impegno simbolico a rigettare ogni cattivo comportamento, evocando il versetto biblico di Michea 7:19 («Getterai i nostri peccati nelle profondità del mare»).
In questo giorno vengono altresì svolte le consuete azioni dei giorni festivi che includono il Kiddush e la benedizione sulla Challah (pane intrecciato tipico del sabato ebraico, lo shabbat).

(a cura di Ambra Marchese)

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: LE FESTIVITÀ |on 24 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

SHAVUOT E PENTECOSTE

http://www.nostreradici.it/sephirath-ha-omer.htm

SHAVUOT E PENTECOSTE

Ariel Di Porto, su shalom.it di aprile 2003 (note a cura di LnR)

(*) L’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali. Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica.

:: Shavuot e Pentecoste
Il periodo che va da Pesach a Shavuot è caratterizzato dalla mitzwà della sefirath ha-’omer = conta dell’Omer [1] (in questa circostanza dell’orzo), che è basata sulla considerazione che il fondamento dell’esistenza del popolo d’Israele risiede nella Torà. L’uscita dall’Egitto, che viene celebrata attraverso la festa di Pesach, chiamata nella Tefillà zeman cherutenu (tempo della nostra libertà), acquisisce significato solamente in relazione alla ricezione della Torà, che ricordiamo con la festa di Shavuot, zeman matan toratenu (tempo del dono della nostra Torà). [2] Nel libro di Shemot (3,12) troviamo un accenno a tale idea: « Io sarò con te, e la riprova che Io ti ho dato l’incarico, sarà che una volta avvenuta l’uscita del popolo dall’Egitto, questi adorerà il Signore su questo monte ».
L’uscita dall’Egitto, e tutti i miracoli che il Signore ha compiuto per liberare i figli d’Israele, non sono altro che un segno che deve portare al servizio del Signore. D.o mostra ai figli d’Israele lo scopo della redenzione dalla schiavitù egiziana prima ancora di liberarli.
Contiamo i giorni dell’Omer poiché da sola la liberazione dalla schiavitù ha un valore relativo, ed acquisisce veramente senso solamente se sfocia nell’accettazione della Torà, che costituisce il suo scopo reale. Il legame tra Pesach e Shavuot è talmente tanto stretto che la Torà, a differenza delle altre festività, non indica una data specifica per la festa di Shavout, che cade nel cinquantesimo giorno dall’inizio della conta dell’Omer.
Nel linguaggio dei maestri la festa di Shavuot è chiamata ‘atzeret (chiusura), termine che richiama immediatamente Sheminì ‘atzeret, il giorno successivo a quelli di mezza festa di Sukkot. Anche per questa festività la Torà non ci fornisce una data, ma la lega a Sukkot; Shavuot è per Pesach ciò che Sheminì ‘atzeret è per Sukkot, e tutti i giorni dell’Omer sono paragonabili ai giorni di mezza festa di Sukkot. La stessa idea del contare richiede una spiegazione: alcuni hanno sostenuto che si dovevano contare i giorni che vanno da Pesach a Shavuot poiché le persone erano occupate nel lavoro nei campi, e forse non sarebbe arrivata loro notizia dell’imminenza di Shavuot.
Se così fosse, la Torà avrebbe potuto ordinarci di comprarci un calendario e tenerlo con noi, e non sarebbe servito contare. In realtà la conta ha un significato diverso, e mostra la nostra insoddisfazione nei confronti della situazione attuale, ed in generale la precarietà del presente. Il conteggio dei giorni che separano un evento dall’altro è simile a quello dello schiavo che deve essere liberato.
Secondo un’altra bellissima immagine è come se si dicesse ad un carcerato che sarà liberato e sposerà la figlia del re. Il carcerato inizialmente è incredulo, ma quando vede che la prima insperata cosa si avvera, inizia a credere che si verificherà anche la seconda, e conta il tempo che lo separa dalla sua realizzazione. Quando viene detto ai figli di Israele che usciranno dall’Egitto e riceveranno la Torà, non ci credono; quando vedono realizzata la prima cosa, attendono con fervore anche la seconda, contando il tempo che li separa dal suo ottenimento. Troviamo un accenno a ciò proprio nel verso di Shemot citato sopra: la parola ta’avdun (adorerete) ha una nun di troppo. Il valore numerico di questa lettera è proprio 50, quanti sono i giorni che separano l’uscita dall’Egitto dal matan Torà.
Perché dal secondo giorno e non dal primo? Se la conta dell’Omer unisce concettualmente Pesach e Shavuot bisogna spiegare un’altra apparente stranezza: perchè si inizia a contare dal secondo giorno di Pesach e non dal primo? In base ad un principio generale, che a volte s’incontra nella Halachà, non si mescolano delle gioie fra loro.
Il primo giorno di Pesach è legato ad un certo tipo di gioia, quella dell’uscita dall’Egitto, che costituisce una prova « forte » della creazione del mondo da parte di D.o e della provvidenza che esercita nei confronti degli uomini. Avvenimenti come le dieci piaghe, l’apertura del Mar Rosso, la caduta della manna sono eventi che sconvolgono profondamente le leggi naturali. I figli di Israele che hanno assistito all’uscita dall’Egitto sono arrivati ad una fede completa nel Signore (prestò piena fede al Signore e a Mosè suo servo), determinata proprio da tali eventi miracolosi. Questo caposaldo della fede ebraica, che D.o abbia creato il mondo ed eserciti la propria provvidenza sulle creature, non può essere mescolato con nessun’altra cosa. Per questo la conta dell’Omer non inizia dal primo giorno di Pesach, ma dal secondo, che, quando c’era il Bet ha-Miqdash, era caratterizzato da una particolare offerta, chiamata appunto ‘Omer. [3]
Il midrash percepisce dietro quest’offerta un messaggio diverso da quello che ci viene dato dal primo giorno di Pesach, un altro tipo di fede: la mano di D.o è presente anche negli eventi che a noi sembrano perfettamente naturali.
Quando un uomo prepara una qualsiasi pietanza deve compiere diverse operazioni che gli comportano fatica. Se al contrario si tratta di operazioni agricole non è proprio così: anche quando il contadino sta a letto, D.o in qualche modo lavora per lui, facendo splendere il sole, scendere la pioggia, soffiare il vento, ecc.
Attraverso l’offerta dell’Omer gli uomini riconoscono questa « collaborazione » divina, e mostrano di avere una fede basata non solo sugli interventi divini più manifesti, ma anche su quelli apparentemente nascosti.
Nachmanide sostiene persino che un tipo di miracolo sia funzionale all’altro: lo scopo dei miracoli manifesti è mostrare che ci sono miracoli nascosti, ed il fondamento della fede è nei miracoli nascosti.
Nella penultima berachà della ‘amidà (modim anachnu) parliamo dei miracoli che il Signore quotidianamente compie per noi, in ogni momento della giornata. In questo caso non si tratta dei miracoli manifesti, dei quali molti di noi probabilmente non sono stati testimoni, ma di quelli nascosti, che dobbiamo scovare continuamente. Questa continua ricerca del nascosto costituisce una grossa prova per la nostra fede: tante e tante cose ci sussurrano continuamente che tutto quello che ci succede è completamente naturale, tutti gli eventi della nostra vita sembrano essere determinati dal caso, ogni nostro risultato sembra essere solo farina del nostro sacco. Non sempre è così. Basta solamente guardare le cose con un occhio diverso e cercare come si manifesta il continuo intervento di D.o nella natura, nella storia, nella nostra vita.

Shavuot e Pentecoste
Le radici ebraiche del cristianesimo sono riconoscibili anche nella strettissima corrispondenza tra la festa di Pentecoste ebraica (Shavuot), dove si ricorda il dono della Legge, e la Pentecoste cristiana, in cui – cinquanta giorni dopo la Pasqua – celebriamo la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa radunata nel cenacolo. Sì, perché possiamo dire che nella Pentecoste gli apostoli salgono con Maria al piano superiore, come Mosè sale sulle pendici del Sinai; Dio effonde lo Spirito sulla Chiesa, nuova Legge, lo Spirito del Signore Risorto, iscritta nei cuori dei credenti; così Mosè sulla cima del monte riceve le mizwot Adonai, i precetti della Torah. Lo Spirito con i suoi doni porta la Chiesa alla missione ed all’evangelizzazione, la voce di Dio sull’Horeb rinvigorisce la missione del profeta Elia e gli dona quello slancio definitivo contro l’idolatria dei falsi profeti. Mosè parla faccia a faccia con Dio, lo Spirito ci permette di invocare Dio nei nostri cuori con l’appellativo di Abbà, l’affettuoso “Papà” del fanciullo che si rivolge al proprio padre, perché l’incarnazione, passione, morte e risurrezione del nostro Signore, Gesù, ci ha introdotti nella « famiglia » del Padre.
Abramo non merita Eretz Israel fino a che non mette in pratica la mizvà dell’Omer; gli ebrei non entrano nella Terra Promessa se non nel momento in cui sostituiscono l’Omer di Manna con l’Omer del frumento di Eretz Israel. Noi non entriamo nella vita nuova della Risurrezione se non partecipiamo all’Eucaristia, che è il nuovo Pane disceso dal cielo… e se non ci lasciamo purificare e vivificare dal fuoco dello Spirito che ha raggiunto gli Apostoli nel Cenacolo il giorno di Pentecoste. Come gli Ebrei si riconoscono Popolo al momento dell’accoglimento della Torah, così i Cristiani divengono anch’essi Popolo dell’Alleanza e si riconoscono Chiesa proprio a partire da quella Pentecoste che si rinnova per ogni credente.
Anche noi quindi in questo periodo dell’anno contiamo i giorni della nostra gioia, perché «  »il periodo dell’Omer ha delle diverse e ben più profonde implicazioni. Si tratta del periodo che intercorre tra la festa di Pesach e quella che nella Torah si chiama Azeret, ossia conclusione (stupenda l’idea di compimento), che prende poi il nome di Shavuot o Settimane. Tale definizione è però parziale. Sarebbe corretta se la data di Shavuot fosse esplicitamente fissata. In realtà non è così. Il periodo dell’Omer non è un riempitivo per lo spazio che intercorre tra le due feste, ma è piuttosto una scala che piantata sulla festa di Pesach sale fino a Shavuot. La Torah non dà la data di Shavuot, la festa che commemora il dono della Torah perchè essa è subordinata al conteggio dei giorni/scalini che abbiamo effettuato in direzione della Torah.
Ed in effetti il percorso Pesach-Omer-Shavuot è un percorso che serve a rieducare sia sotto l’aspetto materiale sia sotto quello spirituale. Se è vero che gli ebrei erano prossimi ad oltrepassare la cinquantesima definitiva porta dell’impurità allorché Iddio li trasse fuori dall’Egitto, il periodo del conteggio dell’Omer deve far loro risalire queste cinquanta tappe fino a giungere alla Torah. La Torah non si riceve in eredità, ma la si conquista giorno per giorno. La festa del dono della Torah è quindi senza data, accessibile a coloro che quotidianamente contano i propri successi in direzione della Legge. »" [Tratto dalla Parashat Emor]
Così è anche per noi, che viviamo il « già e non ancora » del Regno e, ogni giorno, compiamo un passo verso la Risurrezione definitiva, il « mondo a venire » (‘olam ha-ba), che inizia già in questo mondo, per poi sfociare nella pienezza della gloria futura.
Anche la Pentecoste cristiana è connessa strettamente con la Rivelazione di Dio sul Sinai. La omonima festa ebraica, infatti, ricorda la teofania mosaica di nel roveto che arde senza bruciare. Esattamente come arde senza bruciare lo Spirito Santo, in forma di lingue di fuoco, disceso su Maria e gli Apostoli: lo stesso Spirito che feconda e edifica la Chiesa. Noi vediamo dunque il Sinai come evento storico tipologico dell’effusione dello Spirito dopo l’Ascensione.
Allora è possibile comprendere che la Promessa di Dio rimane immutata nel corso della Storia della Salvezza, perché la Sua Alleanza è irrevocabile: ciò vale tanto per i nostri fratelli ebrei, quanto per noi cristiani che ci diciamo figli della Nuova Alleanza, che non annulla la precedente, ma la porta a compimento.
(M.G.)
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(*) L’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali.
Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica. Le tre feste « del pellegrinaggio » o « feste del raccolto » (Pesach, Shavuot e Sukkoth) associate all’esodo dell’Egitto e le due « feste penitenziali » (Rosh HaShanan e Yom Kippur). Pesach (Pasqua) è la festa più importante del calendario ebraico. Si celebra tra marzo e aprile e ricorda la liberazione dalla schiavitù egiziana. Shavuot (pentecoste) si celebra nel periodo della mietitura, cinquanta giorni dopo la Pasqua. Ricorda il dono della legge (Torah) sul monte Sinai, che trasformò gli schiavi fuggiti dall’Egitto in un vero « popolo ».
Altre occasioni come il Purim sono invece feste minori e non hanno una diretta origine biblica.
Lo scopo di un Yom Tov, cioè di un giorno buono è quello di gioire dei piaceri del mondo dati da Dio e di concentrarsi della preghiera e nello studio.
[1] L’ ‘omer è una unità di misura che, nella toràh e nel talmùd, viene utilizzata per quantità alimentari. Come primo significato indica un manipolo di spighe; come secondo significato indica una quantità di grano o cereali e, indirettamente, la farina che se ne può ricavare. In ogni caso è una misura di volume e non di peso. Tra queste diverse definizioni esiste una certa incoerenza: non tutte le spighe hanno lo stesso numero di chicchi; non tutti i chicchi hanno la stessa grandezza; la stessa quantità di farina può derivare da un diverso numero di spighe e di chicchi (cfr. M.Peàh 6:6). Vale a dire: l’ ‘omer è una unità di misura discontinua; inevitabilmente dalle spighe al grano, dal grano alla farina e dalla farina al pane esistono dei salti qualitativi e quantitativi, tanto sicuri quanto imprevedibili. In altri termini: i passaggi e le trasformazioni da frutto della terra a prodotto agricolo ed a manufatto alimentare contrappongono la qualità e la quantità; il lavoro umano modifica la sostanza e le misure del prodotto naturale; molte spighe immangiabili diventano poco pane mangiabile.
[2] La seconda sera di Pesach, la pasqua ebraica, secondo il dettato della Torah, si doveva fare un’offerta delle primizie del raccolto; offerta che doveva essere ripetuta sette settimane dopo, in relazione alla festa di Shavuot. I grani di orzo del nuovo raccolto, fino a che esisteva il Santuario, non potevano essere consumati se non dopo l’offerta; dopo la distruzione del Santuario è rimasto il precetto di contare i giorni che separano Pesach da Shavuot. Tale periodo si chiama “periodo dell’Omer”. È un periodo che viene considerato di lutto, durante il quale non si celebrano matrimoni. In origine la parola Omer indicava un covone, ma viene inteso come unità di misura.
Il trentatreesimo giorno del periodo viene festeggiato Lag Ba-Omer, una festa allegra, che spezza il lutto. Secondo un’interpretazione segna l’inizio in cui la manna iniziò a cadere nel deserto, secondo altri la fine di una epidemia che aveva colpito i discepoli di Rabbì Akiva o un successo durante la rivolta in epoca romana. A Lag Ba-Omer viene venerata la tomba di Shimon Bar Yochai, a cui fu attribuito lo Zohar, il più importante testo di mistica ebraica.
Il 5 del mese di Iyar, durante il periodo dell’Omer, si celebra la ricorrenza della fondazione dello Stato di Israele, in ebraico Yom Ha’hazmaut. In questo giorno nel 1948 fu firmata la dichiarazione d’Indipendenza. Dopo duemila anni di esilio, si è realizzata l’aspirazione degli ebrei di avere uno Stato proprio. È giorno di festa sia in Israele che nella Diaspora.
[3] Il testo dice semplicemente che all’indomani del primo giorno di Pesach (dal testo indicato come « Sabato ») va eseguito un sacrificio denominato « omer » (misura che equivale a circa 43,2 uova medie di farina di orzo), si devono poi contare sette settimane (49 giorni) ed il cinquantesimo si deve presentare l’offerta di due pani (fatti di farina di grano). Quel giorno è la festa di Shavuot. Fino all’offerta dell’omer è proibito usare il nuovo prodotto di uno dei cinque cereali. Nonostante ciò la prima offerta di farina di grano del nuovo prodotto sono i due pani di Shavuot. Risulta quindi che la seconda delle Tre Feste di pellegrinaggio viene fissata secondo l’offerta di due sacrifici farinacei.
Esiste una differenza sostanziale tra le due offerte: l’omer è un offerta di orzo laddove i due pani di Shavuot sono di grano. Il Talmud (TB Pesachim 3b) asserisce che l’orzo è per eccellenza il cibo degli animali mentre il grano è il cibo dell’uomo. L’offerta dell’omer, appena successiva all’uscita dall’Egitto sembrerebbe quindi legata ad un livello « animale » mentre il grano dei due pani di Shavuot andrebbe legato ad un livello umano.
Ed ecco che la differenza sostanziale tra l’uomo e l’animale è la capacità di parlare (cfr. Targum Onkelos su Genesi II,7). Questa capacità, dibbur in ebraico, è talmente caratteristica dell’uomo che soffre con esso per le sue esperienze. Lo Zoar (Parashat Bo 125b) sostiene che il dibbur, la capacità di parlare, in Egitto si trovava in esilio. In effetti fino a che Israele non raggiunge il Sinai e riceve la Torà Mosè stesso è balbuziente, quasi a testimoniare la precaria condizione della umana capacità di parlare in assoluto. La redenzione del « parlare » avviene quando il Signore dona la Torà ad Israele (il decalogo è preceduto da un verso introduttivo nel quale si dice che D-o « parlò tutte queste parole ») Da lì in poi anche Mosè impara a parlare. Rabbi Izchak sostiene nel Talmud (TB Chulin 89a) che il compito dell’uomo in questo mondo è di imparare ad essere muto. L’unica cosa di cui dovrebbe parlare sono « divrè Torah », parole di Torah.

 

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