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IL MAGISTERO DEL NATALE – DON ALBERIONE E EDITH STEIN: CONVERGENZE

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IL MAGISTERO DEL NATALE – DON ALBERIONE E EDITH STEIN: CONVERGENZE

di ROSARIO F. ESPOSITO

La prima cattedra di Gesù Maestro è la mangiatoia: il nostro fondatore e la filosofa ebreo-tedesca fondamentalmente concordano in questa teoria. G.D.P.H. è una sigla a prima vista complicata: essa è fissata nello stemma originario della Società San Paolo ed appare in testa a molte delle nostre prime pubblicazioni. In latino significa Gloria Deo Pax Hominibus, ed è il coro che gli angeli eseguirono sulla grotta di Betlemme, cioè Gloria a Dio e pace agli uomini. Presenta la dimensione verticale e quella orizzontale della vita e dell’apostolato della Famiglia Paolina in tutte le sue componenti.
UN TEMPO la sigla GDPH era familiare nei diversi gruppi della Famiglia Paolina. Chi ha memoria dello stemma tradizionale disegnato negli anni 30 ed accuratamente commentato dal Primo Maestro nel Carissimi in S. Paolo (p. 207) sa che l’iscrizione delle parole di Betlemme nel cartiglio dello stemma è da lui così illustrato: « Gloria a Dio Pace agli uomini: sono le finalità per cui Gesù Cristo venne a salvarci. Per la Famiglia Paolina non vi sono altri fini ». È difficile aspirare ad una maggiore dignità: si tratta del proposito di totale identificazione con il Divin Maestro. Non a caso in molte circostanze don Alberione promosse l’impegno della cristificazione del battezzato, e tanto più del consacrato.
Nell’Apostolato dell’edizione (2 ed., 1950, ora in corso di ristampa) alle pp. 15-16 egli nell’abituale stile scheletrico scrive: « Fine: la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Ecco il fine specifico dell’apostolato dell’edizione. Quello stesso programma lo cantarono gli angeli sulla capanna di Betlemme: Gloria Deo Pax Hominibus: il programma di Gesù Cristo e della sua vita perenne nella Chiesa. Fine altissimo dunque, fine divino. L’apostolato dell’edizione ha perciò un solo ideale: far regnare Dio nelle anime, ravvivando in esse la fede, se occorre instillandovela: sottomettere a Dio le volontà, portandole all’osservanza della sua legge ».
Nell’Ut perfectus sit homo Dei (vol. I, 375) attesta:  » La nostra vita è sempre iniziata in Gesù Cristo e come Gesù Cristo nel presepio: Gloria ecc. Posso accertare tutti che tutto, solo, sempre è stato fatto alla luce del Tabernacolo ed in obbedienza. Le approvazioni sono buone e possono portare alla santità, e sono conformi ai bisogni dei tempi ».
Un collegamento spirituale salta agli occhi: Gesù volle nascere a Betlemme, che significa Casa del pane; anche nel Tabernacolo il Cristo è stabilmente presente tra gli uomini sotto la specie del pane consacrato.
In questa impostazione della vita e della testimonianza cristiana mi sembra interessante mettere in evidenza la vicinanza del messaggio di don Alberione con quello di santa Edith Stein, la martire di Auschwitz canonizzata lo scorso 11 ottobre. Lei è famosa per l’impostazione della sua teologia sulla scienza della croce, e su questa spiritualità gli studiosi sono molto ricchi di apporti e riflessioni. In questo caso vogliamo invece sostare sulla sua spiritualità natalizia, che è incredibilmente ricca e profonda.
Il Natale della filosofa è in intima correlazione con tutto il mistero cristologico, particolarmente col Calvario e col Tabernacolo, e questo mette in evidenza un’intima concordanza col messaggio di don Alberione, il cui pensiero è ben noto nella Famiglia Paolina, della quale i Cooperatori costituiscono una componente essenziale. Intendiamo rinfrescare questa memoria richiamando alcuni testi particolarmente significativi che evidenziano la dimensione magisteriale del Natale. Dedico anzitutto un po’ di spazio a quello di Santa Edith di Auschwitz.

Farsi piccoli per diventare grandi
Parecchi anni dopo la morte di Edith Stein fu pubblicato un saggio della martire dedicato al mistero del Natale (Rivista di vita spirituale, novembre 1987, p. 565). Vi si legge: « Il Divino Bambino si è fatto maestro e ci ha detto ciò che dobbiamo fare… Bisogna vivere l’intera vita in quotidiana comunicazione con Dio, ascoltare le sue parole e seguirle ». Nei Cammini verso la tranquillità interiore la martire dice: « L’infanzia spirituale consiste nel farsi piccoli e, nello stesso tempo, nel diventare grandi. La vita eucaristica consiste nell’uscire totalmente dalla meschinità della propria esistenza personale per nascere all’immensità della vita di Cristo… Il cammino di Betlemme ci porta immancabilmente al Golgota. Quando la Vergine ha presentato il Bambino al Tempio, le viene annunciato che una spada le avrebbe trapassato l’anima… È l’annuncio dei dolori e della lotta tra la luce e le tenebre, la quale inizia già nella mangiatoia ».
E al momento in cui congedava alcuni amici che le avevano fatto visita mentre era sul punto di salire sul treno che l’avrebbe portata alla camera a gas, disse loro: « Qualunque cosa accada, sono pronta a tutto. Il Bambino Gesù è anche qui in mezzo a noi ».
In una lettera del 2 febbraio 1942, santa Edith esprime alcune considerazioni relative al S. Bambino di Praga. Collega il messaggio natalizio con quello del Regno di Dio, che convive felicemente con la dottrina della sua consorella carmelitana S. Teresa di Lisieux, recentemente dichiarata Dottore della Chiesa: la « piccola via » convive ed opera in armonia con la filosofia e l’intellettualità, ed accentua la dimensione « politica » della sequela del Cristo. « Ieri meditavo davanti al quadro del Gesù Bambino di Praga e mi è venuto da pensare che lui porta le insegne imperiali e non a caso avrà voluto agire proprio a Praga, che per secoli è stata la sede degli imperatori tedeschi, cioè del S. R. Impero… Il Bambino Gesù è venuto proprio quando il dominio politico di Praga stava per finire. Non è lui l’Imperatore segreto che un giorno porrà fine a tutte le guerre? È lui che tiene in mano le redini, anche quando sembra che regnino gli uomini ».

Una parentela teologica e ascetica
È ben chiaro che tra la filosofa ebrea giunta all’onore degli altari ed il fondatore della Famiglia Paolina non c’è stato nessun contatto diretto, né risulta che don Alberione abbia letto qualche opera della Stein, ma la parentela teologica ed ascetica tra i due personaggi è profonda e ricca di testimonianze. Si tratta solo di esplorarne i cammini e di proporli all’attenzione degli studiosi e degli ammiratori così numerosi nel mondo. In don Alberione il richiamo al magistero di Betlemme si può dire che costituisca un fatto di ordinaria amministrazione. Il riferimento a questo mistero gaudioso però non è isolato in sé stesso, ma è strutturalmente impegnato ad evidenziare l’interazione con tutti gli altri misteri della vita del Cristo, come pure il collegamento tra i vari trattati della teologia, in maniera che non si affermi nemmeno l’ombra della settorializzazione o della frammentazione, ma si pongano le basi della sospirata unificazione delle scienze, cominciando da quelle sacre. Lo stesso impegno di interdisciplinarità è presente nel pensiero della filosofa di Auschwitz.
Nelle prime righe dell’Abundantes divitiae gratiae suae (art. 1), tracciando le scaturigini della sua vita spirituale e dello spirito della Famiglia Paolina, don Alberione si riferisce a due testi biblici fondamentali. Il primo è appunto il canto degli angeli, che possiamo permetterci di citare anche solo in sigla: GDPH. L’altro è il salmo 50, cioè il Miserere. In una predica ciclostilata del 1933 egli diceva: « Il presepio per noi è Via, Verità e Vita, come il Crocifisso e l’Ultima Cena. Il Divino Maestro dalla sua cattedra della greppia ci ammaestri, ci renda docili e piccoli discepoli ». Poco più oltre afferma: « Dal presepio parte tutta la luce, quindi tutta la teologia mistica, ascetica, pastorale, morale, dogmatica. Il vero Maestro è Gesù Cristo ».
A suo modo di vedere, la predicazione fatta attraverso gli strumenti tecnologici ed elettronici della comunicazione sociale deve modellarsi sullo schema comunicativo di Betlemme. Nella già citata predica del 1933 diceva ancora: « Il regno di Dio incomincia sempre come il granello di senapa. Così pure tutte le opere che sono soprannaturali e che sono destinate a durare. Beato chi parte dal presepio ». Soggiungeva poi: l’umanità brancolava nel buio, ma « è venuto a visitarci un sole dall’alto per illuminare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte… noi conosciamo la via, è il presepio ».
L’argomento di base nella sua riflessione teologica ed apostolica è questo: Gesù prima di parlare, agì. Come dicono i Ss. Padri, cominciò a fare, nei trent’anni della vita nascosta, poi insegnò nei tre anni della via pubblica attraverso la predicazione ed i miracoli.

Una scuola aperta a Betlemme

Il magistero natalizio del Primo Maestro esige di essere illustrato con molto impegno. Dovendo rimanere in limiti ristretti, ricordo che esso trova un’occasione particolarmente favorevole negli auguri natalizi contenuti in tratti rapidi e vigorosi. Essi sono riprodotti nella raccolta Carissimi in San Paolo (p. 1472-1480). Nel 1952 scriveva: « Il Bambino Gesù ci accolga tutti benignamente nella scuola aperta a Betlemme, perché nell’anno liturgico possiamo meglio conoscerlo, amarlo più intimamente e imitarlo nelle virtù religiose ».

La missione di Maria
Nel 1955 metteva in relazione questo mistero con l’opera della Madonna, emblema di quella di tutti i comunicatori, che in realtà perpetuano nel tempo la missione della Madre di Dio: « Maria nostra madre e maestra dal presepio compie il suo sublime apostolato offrendo all’umanità Gesù Maestro divino. Che tutti lo accolgano, che tutti siano arricchiti dei frutti dell’incarnazione e della redenzione ».
In altra occasione accentuò il fatto che Cristo non volle annunciare direttamente il programma redentivo, ma ne affidò l’incarico agli angeli nella notte della sua nascita. I comunicatori trovano in Maria e in questi celesti messaggeri i loro maestri ed i loro modelli. Devono calcare le loro orme nelle diverse situazioni di spazio e di tempo.
Nell’augurio del 1957 la visione magisteriale del Natale è inquadrata in maniera ancora più articolata, nella cornice della vita e della predicazione del Cristo: « La pace tra gli uomini si realizza a misura che l’umanità entra nella scuola di Gesù Maestro, il quale questa scuola l’ha aperta nella grotta di Betlemme, l’ha continuata a Nazareth, nella vita pubblica, nella vita dolorosa, nella vita gloriosa, e la continua nel Tabernacolo. La medesima scuola si perpetua visibilmente nella Chiesa, che è maestra di fede, di morale, di liturgia. Chi fedelmente la segue si trova certamente sulla via della pace e della felicità eterna ».

Publié dans:BEATO GIACOMO ALBERIONE, EDITH STEIN |on 22 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

26 NOVEMBRE: GIACOMO ALBERIONE (1884-1971)

http://www.vatican.va/news_services/liturgy/saints/ns_lit_doc_20030427_alberione_it.html

26 NOVEMBRE: GIACOMO ALBERIONE (1884-1971)

Omelia di Papa Giovanni Paolo II:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/2003/documents/hf_jp-ii_hom_20030427_beatification_it.html

Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, fu uno dei più creativi apostoli del XX secolo. Nato a San Lorenzo di Fossano (Cuneo) il 4 aprile 1884, ricevette il Battesimo il giorno successivo. La famiglia Alberione, composta da Michele e Teresa Allocco e da sei figli, era di condizione contadina, profondamente cristiana e laboriosa.
Il piccolo Giacomo, quartogenito, avverte presto la chiamata di Dio: in prima elementare, interrogato dalla maestra su cosa farà da grande, egli risponde: “Mi farò prete!”. Gli anni della fanciullezza si orientano in questa direzione.
Trasferita la famiglia nel comune di Cherasco, parrocchia San Martino, diocesi di Alba, il parroco don Montersino aiuta l’adolescente a prendere coscienza e a rispondere alla chiamata. A 16 anni Giacomo è accolto nel Seminario di Alba e subito si incontra con colui che gli sarà padre, guida, amico, consigliere per 46 anni: il canonico Francesco Chiesa.
Al termine dell’Anno Santo 1900, già interpellato dall’enciclica di Leone XIII “Tametsi futura”, Giacomo vive l’esperienza determinante della sua esistenza. Nella notte del 31 dicembre 1900, che divide i due secoli, prega per quattro ore davanti al Santissimo Sacramento. Una “particolare luce” gli viene dall’Ostia, e da quel momento si sente “profondamente obbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo”: “obbligato a servire la Chiesa” con i mezzi nuovi offerti dall’ingegno umano.
L’itinerario del giovane Alberione prosegue intensamente negli anni dello studio della filosofia e teologia. Il 29 giugno 1907 viene ordinato sacerdote. Segue una breve ma decisiva esperienza pastorale in Narzole (Cuneo), in qualità di vice parroco. Là incontra il giovinetto Giuseppe Giaccardo, che per lui sarà ciò che fu Timoteo per l’Apostolo Paolo. E sempre a Narzole don Alberione matura la comprensione di ciò che può fare la donna coinvolta nell’apostolato.
Nel Seminario di Alba svolge il compito di Padre Spirituale dei seminaristi maggiori e minori, e di insegnante in varie materie. Si presta per predicazione, catechesi, conferenze nelle parrocchie della diocesi. Dedica pure molto tempo allo studio sulla situazione della società civile ed ecclesiale del suo tempo e sulle nuove necessità che si prospettano.
Comprende che il Signore lo guida ad una missione nuova: predicare il Vangelo a tutti i popoli, nello spirito dell’Apostolo Paolo, utilizzando i mezzi moderni di comunicazione. Testimoniano tale orientamento due suoi libri: Appunti di teologia pastorale (1912) e La donna associata allo zelo sacerdotale (1911-1915).
Tale missione, per avere efficacia e continuità, deve essere assunta da persone consacrate, poiché “le opere di Dio si fanno con gli uomini di Dio”. Così il 20 agosto 1914, mentre a Roma muore il Santo Pontefice Pio X, ad Alba Don Alberione dà inizio alla “Famiglia Paolina” con la fondazione della Pia Società San Paolo. L’inizio è poverissimo, secondo la pedagogia divina: “iniziare sempre da un presepio”.
La famiglia umana — alla quale don Alberione si ispira — è composta di fratelli e sorelle. La prima donna che segue don Alberione è una ragazza ventenne di Castagnito (Cuneo): Teresa Merlo. Con il suo contributo, Alberione dà inizio alla Congregazione delle Figlie di San Paolo (1915). Lentamente la “Famiglia” si sviluppa, le vocazioni maschili e femminili aumentano, l’apostolato si delinea e prende forma.
Nel dicembre 1918 avviene una prima partenza di “Figlie” verso Susa: inizia una coraggiosa storia di fede e di intraprendenza, che genera anche uno stile caratteristico, denominato “alla paolina”. Questo cammino sembra interrompersi nel 1923, quando Don Alberione si ammala gravemente e il responso dei medici non lascia speranze. Ma il Fondatore riprende miracolosamente il cammino: “San Paolo mi ha guarito” commenterà in seguito. Da quel periodo appare nelle cappelle Paoline la scritta che in sogno o in rivelazione il Divin Maestro rivolge al Fondatore: “Non temete — Io sono con voi — Di qui voglio illuminare – Abbiate il dolore dei peccati”.
L’anno successivo prende vita la seconda congregazione femminile: le Pie Discepole del Divin Maestro, per l’apostolato eucaristico, sacerdotale, liturgico. A guidarle nella nuova vocazione Don Alberione chiama la giovane Suor M. Scolastica Rivata, che morirà novantenne in concetto di santità.
Sul piano apostolico, Don Alberione promuove la stampa di edizioni popolari dei Libri Sacri e punta sulle forme più rapide per far giungere il messaggio di Cristo ai lontani: i periodici. Nel 1912 era già nata la rivista Vita Pastorale destinata ai parroci; nel 1921 nasce il foglio liturgico-catechetico La Domenica; nel 1931 nasce Famiglia Cristiana, rivista settimanale con lo scopo di alimentare la vita cristiana delle famiglie. Seguiranno: La Madre di Dio (1933), “per svelare alle anime le bellezze e le grandezze di Maria”; Pastor bonus (1937), rivista mensile in lingua latina; Via, Verità e Vita (1952), rivista mensile per la conoscenza e l’insegnamento della dottrina cristiana; La Vita in Cristo e nella Chiesa (1952), con lo scopo di far “conoscere i tesori della Liturgia, diffondere tutto quello che serve alla Liturgia, vivere la Liturgia secondo la Chiesa”. Don Alberione pensa anche ai ragazzi: per loro fa pubblicare Il Giornalino.
Si pone pure mano alla costruzione del grande tempio a San Paolo in Alba. Seguiranno i due templi a Gesù Maestro (Alba e Roma) e il santuario alla Regina degli Apostoli (Roma). Soprattutto si mira ad uscire dai confini locali e nazionali. Nel 1926 nasce la prima Casa filiale a Roma, seguita negli anni successivi da molte fondazioni in Italia e all’estero.
Intanto cresce l’edificio spirituale: il Fondatore inculca lo spirito di dedizione mediante “devozioni” di forte carica apostolica: a Gesù Maestro e Pastore “Via e Verità e Vita”, a Maria Madre, Maestra e Regina degli Apostoli; a San Paolo Apostolo. È proprio il riferimento all’Apostolo che qualifica nella Chiesa le nuove istituzioni come “Famiglia Paolina”. La meta che il Fondatore vuole sia assunta come il primo impegno, è la conformazione piena a Cristo: accogliere tutto il Cristo Via, Verità e Vita in tutta la persona, mente, volontà, cuore, forze fisiche. Orientamento codificato in un volumetto: Donec formetur Christus in vobis (1932).
Nell’ottobre 1938 don Alberione fonda la terza Congregazione femminile: le Suore di Gesù Buon Pastore o “Pastorelle”, destinate all’apostolato pastorale diretto in ausilio ai Pastori.
Durante la sosta forzata della seconda guerra mondiale (1940-1945), il Fondatore non si arresta nel suo itinerario spirituale. Egli va accogliendo in misura crescente la luce di Dio in un clima di adorazione e contemplazione. Ne sono testimonianza i Taccuini spirituali, nei quali Don Alberione annota le ispirazioni, i mezzi da adottare per rispondere al progetto di Dio. E in questa atmosfera spirituale nascono le meditazioni che ogni giorno detta ai figli e alle figlie, le direttive per l’apostolato, la predicazione di innumerevoli ritiri e corsi di esercizi (raccolti in altrettanti volumetti). La premura del Fondatore è sempre la stessa: far comprendere a tutti che “la prima cura nella Famiglia Paolina sarà la santità della vita, la seconda la santità della dottrina”. In questa luce va inteso il suo Progetto di un’enciclopedia su Gesù Maestro (1959).
Nel 1954, ricordando il 40° di fondazione, Don Alberione accettò per la prima volta che si scrivesse di lui nel volume Mi protendo in avanti, ed esaudì la richiesta di avere alcuni suoi appunti sulle origini della fondazione. Nacque così il volumetto Abundantes divitiæ gratiæ suæ, che viene considerato come la “storia carismatica della Famiglia Paolina”. Famiglia che andò completandosi fra il 1957 e il 1960, con la fondazione della quarta congregazione femminile, l’Istituto Regina Apostolorum per le vocazioni (Suore Apostoline), e degli Istituti di vita secolare consacrata: San Gabriele Arcangelo, Maria Santissima Annunziata, Gesù Sacerdote e Santa Famiglia. Dieci istituzioni (inclusi i Cooperatori Paolini), unite tra loro dallo stesso ideale di santità e di apostolato: l’avvento di Cristo “Via, Verità e Vita” nel mondo, mediante gli strumenti della comunicazione sociale.
Negli anni 1962-1965 don Alberione è protagonista silenzioso ma attento del Concilio Vaticano II, alle cui sessioni partecipa quotidianamente. Nel frattempo non mancano tribolazioni e sofferenze: la morte prematura dei suoi primi collaboratori, Timoteo Giaccardo e Tecla Merlo; l’assillo per le comunità estere in difficoltà e, personalmente, una crocifiggente scoliosi, che lo tormenta giorno e notte.
Egli visse 87 anni. Compiuta l’opera che Dio gli aveva affidata, il 26 novembre 1971 lasciò la terra per prendere il suo posto nella Casa del Padre. Le sue ultime ore furono confortate dalla visita e dalla benedizione del Papa Paolo VI, che mai nascose la sua ammirazione e venerazione per Don Alberione. Rimane commovente la testimonianza che volle darne nella Udienza concessa alla Famiglia Paolina il 28 giugno 1969, quando il Fondatore aveva 85 anni:
“Eccolo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all’opera, sempre intento a scrutare i “segni dei tempi”, cioè le più geniali forme di arrivare alle anime, il nostro Don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni. Lasci, caro Don Alberione, che il Papa goda di codesta lunga, fedele e indefessa fatica e dei frutti da essa prodotti a gloria di Dio ed a bene della Chiesa”.

Il 25 giugno 1996 Papa Giovanni Paolo II firmò il Decreto con il quale venivano riconosciute le virtù eroiche del futuro Beato.

 

Publié dans:BEATO GIACOMO ALBERIONE |on 25 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA (Alberione)

http://www.zenit.org/it/articles/san-paolo-l-unita-interiore-segreto-di-santita-e-fecondita-apostolica

SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA

IL BEATO GIACOMO ALBERIONE, INTERPRETE ATTUALE DELL’APOSTOLO DELLE GENTI

04 Luglio 2012

di padre José Antonio Pérez, ssp

ROMA, mercoledì, 4 luglio 2012 (ZENIT.org).- Una persona si realizza nella misura in cui ha un principio interiore che si rivela in tutto il suo modo di essere, donandogli una fisionomia inconfon­dibile e un’unità d’azione. Nel credente, l’unità inte­riore dipende da un principio dinamico ricevuto da Dio stesso, vissuto in tutta la sua esigenza e portato alle ultime conseguenze. Tutto ciò che egli realizza, porterà il sigillo della sorgente profonda da cui pro­viene.
Coscienza e affermazione dell’unità personale
La scoperta dell’apostolo Paolo da parte del beato Giacomo Alberione risale al primo contatto con gli studi teologici. San Paolo sapeva che in Gesù Cristo abita corporalmente la pienezza della divini­tà e che tutto abbiamo pienamente in lui (cf. Col 2,9-10); di conseguenza, non si può servire Gesù Cristo se non con una risposta di grande «pie­nezza» e sforzandosi perché tutti acquistino la piena intelligenza del mistero di Dio, che è Cristo (cf. Col 2,2-3); e in questo ministero impegnò tutte le risorse personali di natura e di grazia (cf. Col 1,28-29). Tutto questo colpì profondamente l’animo delgiovane ed inquieto Alberione.
«L’ammirazione e la devozione – scriveva nel 1954 – cominciarono specialmente dallo studio e dalla meditazione della Lettera ai Romani. Da allora la personalità, la santità, il cuore, l’intimità con Gesù, la sua opera nella dogmatica e nella morale, l’impronta lasciata nell’organizzazione della Chiesa, il suo zelo per tutti i popoli, furono soggetti di meditazione. Egli parve veramente l’Apostolo: dunque ogni apostolo ed ogni apostolato potevano prendere da lui». Da allora la conoscenza andò sviluppandosi e divenne «devozione», con tutta la carica che questa parola comporta: conoscenza sempre più approfondita, amore e volontà di identificazione, confronto continuo sul piano del pensare e dell’agire, decisione di far conoscere, amare, seguire e imitare l’Apostolo.
Questa «devozione» andò intensificandosi quando la figura dell’Apostolo fu associata alla nuova forma di apostolato che il giovane Alberione avviava con le sue fondazioni. «Tutte le anime che presero gusto agli scritti di San Paolo, divennero anime robuste», affermava. Ed esortava: «Preghiamo san Paolo che formi anche noi persone di carattere, che non si scoraggiano…, che sanno dare un valore giusto alle cose. Gente pratica che sa giocare il “tutto per tutto”, cioè dando tutto a Dio per riceve in cambio Dio stesso. E questo avviene quando vi è un grande amore, la convinzione che aveva san Paolo da farlo esclamare: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”».

L’unità in Gesù Cristo, ricevuto da san Paolo
Per garantire l’unità di ispi­razione e di azione, Don Alberione si riporta sempre al punto essenziale, e così lo offre alla sua Famiglia: «L’unio­ne di spirito: questa è la parte sostanziale… vivere nel Divin Mae­stro in quanto egli è via, verità e vita; viverlo come lo ha compreso ilsuo discepolo san Paolo. Questo spirito forma l’anima della Famiglia Paolina, nonostante che i membri sia­no diversi ed operanti variamente… “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”», diceva nel 1960.
L’unità si trova dunque in Gesù Cristo, ricevuto da san Paolo. Per dono di Dio, don Alberione ha sentito a fondo la Parola rivela­ta circa la pienezza apostolica di san Paolo ed è stato mosso dallo Spiri­to all’impegno di riprodurlo, oggi, nella totalità del suo carisma aposto­lico. È questa la sorgente e l’unità profonda della Famiglia Paolina. È di qui che emanano le differenti fisionomie dei dieci gruppi che la costitui­scono.
Afferma don Silvio Sassi, Superiore generale della Società San Paolo, nella sua lettera annuale, “Ravviva il dono che hai ricevuto”, che per essere fedeli oggi in modo creativo a Don Alberione, occorre interpretare san Paolo per le urgenze della nuova evangelizzazione del nostro tempo: una profonda esperienza di Cristo, che si trasforma in fede missionaria nella comunicazione attuale, in contemplazione nella liturgia, in laboriosità nella pastorale parrocchiale, nel suscitare vocazioni, nel vivere lo stato di vita laicale in stile paolino e nella cooperazione alle opere di bene paoline. Sono questi, appunto, i vari raggruppamenti che debbo­no trovare in san Paolo il loro vincolo di unità e il loro dinamismo contemplativo-attivo verso Dio e verso gli uomini.

Unità, santità e fecondità apostolica
Il beato Giacomo Alberione considera san Paolo non solo padre e ispiratore, ma addirittura «fondatore», «forma» sulla quale la Famiglia Paolina deve riprodurre Gesù Cristo per essere «san Paolo vivo oggi»: «Gesù Cristo è il perfetto originale. Paolo fu fatto e si fece per noi forma: onde in lui veniamo forgiati, per riprodurre Gesù Cristo. San Paolo è forma non per una riproduzione fisica di sembianze corporali, ma per comunicare al massimo la sua personalità… tutto. La Famiglia Paolina, composta da molti membri, sia Paolo-vivente in un corpo sociale».
Il motivo dell’elezione di san Paolo è stata la sintesi che l’Apostolo ha saputo realizzare in se stesso di tutte le dimensioni della sua personalità:
Santità e apostolato: «Si voleva un santo che eccellesse in santità e nello stesso tempo fosse esempio di apostolato. San Paolo ha unito in se la santità e l’apostolato».
Amore a Dio e amore alle anime: «Se san Paolo oggi vivesse… adempirebbe i due grandi precetti come ha saputo adempierli: amare Iddio con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la mente; e amare il prossimo senza nulla risparmiarsi».
Attività e preghiera: «Sovente si dà risalto all’attività di san Paolo; ma prima bisogna mettere in risalto la sua pietà».
Il segreto: la vita interiore: «Perché san Paolo è così grande? Perché compì tante opere meravigliose? Perché anno per anno la sua dottrina, il suo apostolato, la sua missione nella Chiesa di Gesù Cristo vengono sempre più conosciuti, ammirati e celebrati?… Il perché va ricercato nella sua vita interiore. È qui il segreto», affermava il Fondatore.
E concludeva costatando come la santità consiste appunto nella sintesi dello sviluppo armonico di tutte le dimensioni umane: «Per san Paolo la santità è la maturità piena dell’uomo, l’uomo perfetto. Il santo non si involve, ma si svolge… La santità è vita, movimento, nobiltà, effervescenza… Ma lo sarà solo e sempre in proporzione dello spirito di fede e della buona volontà».
Segreto per raggiungere la realizzazione personale, la santità, e la fecondità apostolica è dunque l’unità interiore. San Paolo ne è il maestro.

*Postulatore generale della Famiglia Paolina

L’APOSTOLO PAOLO, ALBERIONE E LA FAMIGLIA PAOLINA (1Cor 9,16) (Gal 2,2)

http://www.alberione.org/beatificazione/beatificazione/programma/anno/26-06bosetti.htm

L’APOSTOLO PAOLO, ALBERIONE E LA FAMIGLIA PAOLINA

“Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16) ma in comunione “per non correre invano” (Gal 2,2)

di sr. Elena Bosetti sgbp – Roma 26 giugno 2003

Cosa dice alla Famiglia Paolina di oggi il fascino che l’apostolo Paolo ha esercitato su don Giacomo Alberione? Cosa significa e comporta per la nostra spiritualità apostolica? E come entrare a nostra volta in questo fascino, come lasciarci coinvolgere dai sentimenti del beato Giacomo Alberione? Parlo di fascino perché a mio avviso si tratta di un singolare incanto, che rapisce il cuore prima ancora della mente. Non si può certo dire che il nostro fondatore fosse un romantico… ma indubbiamente rimase affascinato dall’a­more di Paolo per Gesù Cristo. Che cosa lo avvinceva di san Paolo? Direi il mistico e l’apostolo in massimo grado e in modo reversibile: Paolo mistico e dunque apostolo, apostolo perché mistico. Ecco cosa dice alle Figlie di San Paolo nel 1931: “L’anima apostola della buona stampa è colei che prima di tutto è innamorata di  Dio. E’ quella  che ha lungamente meditato, è un’anima che ha fatto come San Paolo che si è  ritirato per tre  anni nel deserto e ha meditato le cose sante, la vita di Gesù, e fu istruito da Gesù  Cristo stesso… E’ quella che riempie il proprio cuore di fede, di tanta speranza dei beni  eterni; è un’anima  che esercita la povertà, la castità, che esercita l’obbedienza alla Chiesa, ai suoi  pastori; è  un’anima che prima di tutto ha purificato se stessa; è un’anima che riempie il  proprio cuore di  Dio, e poi riempirà il cuore degli altri e otterrà per gli altri la benedizione e  le grazie di  cui ha pieno il cuore. In secondo luogo, l’anima apostola è quella che ama gli altri uomini (…). Vorrebbe  allora  mettersi sulla strada che percorrono tutti e gridare: « non per la via storta, non per  la via larga  che conduce all’inferno; tutti per la via stretta ma che è la via diritta che conduce  al cielo ».  L’anima apostola vorrebbe vuotare l’inferno e riempire il paradiso; vorrebbe  aiutare tutti i  moribondi, vorrebbe aiutare anche tutte le anime che sono in purgatorio, vorrebbe  uscire di  casa, andare per le vie della città, passare per le spiagge, cercare tutti gli uomini  nelle montagne, nelle grotte, andare in Africa, nell’America, nell’Asia e nell’Oceania e  poter dire a tutti: “O uomini, Dio vi attende in cielo…”. Articolo questa riflessione in tre passaggi seguendo il racconto di Paolo nella lettera ai Galati. Lo schema che vorrei sviluppare è il seguente:

1.          Conquistato da Gesù Cristo, Paolo vive di Lui: è tutto preso dalla passione di comunicare il Vangelo. 2.          Paolo non si considera però un libero battitore, né intende “correre invano” nella predicazione del Vangelo. A tale scopo sale due volte a Gerusalemme per incontrare Cefa. La prima volta passa con lui 15 giorni (Gal 1,18): è più che una visita di cortesia! Vi ritorna una seconda volta con Barnaba dopo 14 anni e partecipa all’assemblea di Gerusalemme, il primo concilio della Chiesa. 3.          Il riconoscimento del ministero di Pietro non impedisce in alcun modo l’evangelica franchezza: Paolo ad Antiochia contesta apertamente Cefa, perché “aveva torto” (Gal 2,11-14). Chiedo al beato Giacomo Alberione, nostro padre e maestro, di aiutarmi nell’interpretare il testo biblico in accordo con la sua lettura sapienziale e di concedere a tutti noi la grazia di vivere ciò che lo Spirito ci darà di comprendere. 1. “Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16) Il Paolo che affascina don Alberione è indubbiamente l’apostolo innamorato di Gesù Cristo, che non si preoccupa di consultare nessuno in prima istanza, ma semplicemente di rispondere con tutto l’ardore a Colui che liberamente e gratuitamente gli si è fatto incontro. Ecco cosa dice l’Apostolo nel primo capitolo della lettera ai Galati: “Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore” (Gal 1,13-19). Fermiamoci un attimo sulla dinamica spirituale sottesa al comportamento di Paolo, così come egli si racconta. Qual è il suo primo atteggiamento quando Dio si compiacque di rivelargli Gesù Cristo? Lo dice chiaramente: non si preoccupò di consultare la gerarchia ecclesiastica, non sentì affatto bisogno o dovere di salire a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di lui… Conquistato dal Cristo, Paolo non si preoccupa di tutelarsi presso gli uomini. Pensa semplicemente a seguire – meglio, a “correre” – dietro Colui che lo ha chiamato. Per conquistarlo a sua volta con piena risposta d’amore. Dalla frequentazione delle Scritture egli ha appreso che bisogna giocare fino in fondo, in maniera diretta e personale il rapporto con Dio che si rivela. Le mediazioni umane hanno indubbiamente il loro valore, ma stanno al secondo posto e lì vanno lasciate. Con buona pace. Il primo passo di Paolo non è di andare da Pietro o da altri, ma di continuare la sua corsa dietro il Cristo che lo conduce anzitutto nel deserto (in Arabia) e poi ancora a Damasco. Gli interessa Gesù Cristo e il suo vangelo. Dunque dalla contemplazione alla missione. Primo e imbattibile nella missione perché primo e imbattibile nella contemplazione. Paolo proteso in avanti, lanciatissimo nella missione perché innamorato, conquistato dal fascino di Gesù Cristo. Paolo si è lasciato trasformare dall’incontro dinamico con il Crocifisso risorto. Gli diventa conforme nei pensieri e sentimenti. Il mistero del Cristo trova così prolungamento nella vita dell’Apostolo che si lascia crocifiggere al mondo e alla sua logica di vanità: “Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,7-8). Paolo entra decisamente nella kenosi del Cristo che da ricco che era si fece povero (2Cor 8,9). Anche lui si impoverisce liberamente e gioiosamente, stimando futilità e spazzatura tutto ciò che non concorre alla conoscenza amante di Gesù Cristo: “che io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11). L’appassionato apostolo di Gesù Cristo scrive ai Corinzi: “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il Vangelo” (1Cor 9,16). E non credo pensasse al “guai” del castigo divino, come a dire: se non predico sarò rimproverato dal Cristo! Non è in questo senso. E’ questione di amore. Un innamorato non può tacere, gli parlano gli occhi! Dilexit me et tradidit semetipsum pro me: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Per san Paolo è un insopprimibile bisogno dell’amore comunicare Gesù Cristo. Deve aver sperimentato qualcosa di simile il giovane Alberione in quella prolungata adorazione eucaristica nella notte tra i due secoli. Egli scrive di sé in terza persona: “Si sentì profondamente obbligato a prepararsi a far qualcosa per il Signore e gli uomini del nuovo secolo con cui sarebbe vissuto” (AD 15). Non un vanto, ma un obbligo apostolico: l’amante non si rassegna a tacere dell’Amato! Come Paolo anche don Alberione è stato afferrato dall’amore del Cristo che rende “apostoli”, felici di comunicare agli altri la gioia del grande amore che abbiamo sperimentato. Felici di vivere e dare al mondo Gesù Cristo via, verità e vita (Gv 14,7). Da innamorato di Gesù Cristo don Alberione capì che non servono invettive e lamenti. Non servono geremiadi: la gente non viene più in Chiesa, le famiglie si sfasciano, i giovani disertano la catechesi… Anziché sciupare il tempo in sterili lamenti bisogna investire tutti i talenti: i mezzi, le scienze e nuove tecnologie… per fare “a tutti la carità della Verità”,  dove Verità è sinonimo di Vangelo, di Gesù Cristo Maestro e Pastore. Come Paolo don Alberione si sente “debitore” di tutti, in particolare di chi cerca la Verità nel buio e come a tentoni, nei moderni areopaghi della cultura che parla di comunicazione ma rischia di moltiplicare solitudine e povertà… Entra con umiltà e coraggio don Alberione in questa nuova via, con l’ardire di chi vuole comunicare il bene più grande: la bella notizia che Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio suo Gesù! “Guai a me se non evangelizzo, se non predico il vangelo!”. Su questo punto credo siamo tutti d’accordo, pur sentendoci personalmente e come Famiglia Paolina assai distanti. Tiepidi e distanti dalla passione evangelizzatrice di Paolo e del nostro Fondatore che ha saputo trascinare e coinvolgere nel suo entusiasmo per il Vangelo schiere di ragazzi e di giovani donne. Non possiamo tuttavia rassegnarci. La coscienza della distanza personale e comunitaria – i nostri limiti, povertà e peccati di Famiglia Paolina – lungi dal farci tirare i remi in barca lasciando spazio a ripiegamenti di vario tipo, devono spronarci nel “mi protendo in avanti” sul duplice versante della spiritualità e della missione: donec formetur Christus, in noi e in coloro a cui siamo inviati! 2. In comunione “per non correre invano” (Gal 2,1-10) Non c’è dubbio che nella concezione del nostro Fondatore, e dunque nella genesi spirituale e pastorale della Famiglia Paolina, Paolo e Pietro vanno insieme. La cosa non riguarda solo le Pastorelle che invocano entrambi gli Apostoli e celebrano come festa patronale della loro Congregazione la solennità liturgica di Pietro e Paolo il 29 giugno. Direi piuttosto: alle Pastorelle don Alberione affida in termini di esemplarità quell’istanza di comunione che è dimensione fondamentale dell’intera Famiglia Paolina. Lo suggeriscono diversi indizi. Ad esempio, il capitolo di Abundantes Divitiae intitolato: “La ricchezza della romanità”. Nel 1925 al termine del pellegrinaggio per l’anno santo don Alberione matura la decisione di aprire a Roma la prima Casa filiale, e il senso è evidente: Paolo con Pietro, la Famiglia Paolina a servizio della Chiesa, in comunione col Papa. Un altro indizio è il quarto voto che vincola i membri della Società San Paolo: obbedienza al Papa per quanto concerne l’apostolato. Riguarda solo la Società San Paolo o in qualche modo tutti? Sappiamo che nella mente del Fondatore la prima Congregazione ha funzione di altrice nei confronti delle sorelle e dei fratelli (= congregazioni e istituti) nati dopo. Dunque quel loro voto e impegno di obbedienza tocca implicitamente l’intera Famiglia. Sarebbe assurdo che i Paolini debbano obbedienza al Papa per quanto concerne l’apostolato e le Paoline siano invece libere di fare come vogliono! E’ decisamente impensabile per don Alberione. In Abundantes Divitiae egli afferma che la “romanità” – ovvero la comunione della Famiglia Paolina con Pietro – è un dono che sgorga come gli altri dall’Eucarestia. Non è questa la sede per analisi dettagliate. Ma leggendo i nn. 49-55 di Abundantes Divitiae si coglie facilmente il filo rosso del discorso. In momenti di forti contrapposizioni politiche, sociali e culturali, come quelle in cui è nata la Famiglia Paolina, e di fronte all’urgenza di non restare indietro sui tempi, di “essere all’altezza dei nuovi compiti”, il Fondatore esprime un criterio di comportamento: attenersi alle indicazioni del Romano Pontefice. In AD 56 dichiara: “sempre, solo ed in tutto, la romanità”. Una frase che mi sembra vada decodificata in questo senso: sempre, solo e in tutto il bene della Chiesa nella piena comunione con Pietro. Non comunione di retorica e sterile adulazione del primato, quanto di operosa dedizione a servizio del Vangelo. In altre parole, nell’apostolato la carta vincente è la comunione che esige anche obbedienza. Non la caricatura dell’obbedienza, ma l’obbedienza umile e coraggiosa del vangelo. Vorrei approfondire questo tema sulla falsariga del comportamento di Paolo, come lui stesso si racconta nella lettera ai Galati. Tra parentesi ricordo che l’esegesi contemporanea ci ha resi più attenti alle discordanze narrative, ad esempio tra la verità di Paolo (lettera ai Galati) e la verità di Luca (Atti degli Apostoli). Dal confronto di Galati con Atti appare evidente che la verità di Paolo non collima con quella di Luca, redattore degli Atti. Secondo quest’ultimo la porta del vangelo ai Pagani l’avrebbe aperta suo malgrado lo stesso san Pietro, il quale con grande umiltà si rese conto che lo Spirito santo lo aveva preceduto in casa di Cornelio centurione romano. Poteva lui opporsi negando il battesimo di acqua a chi già mostrava di essere stato battezzato nello Spirito? E’ decisamente “umile” il primo Papa, nel senso migliore del termine: non si sente al governo come talora intendiamo noi, ma docilmente al seguito dello Spirito che secondo la promessa di Gesù guida verso la verità tutta intera (Gv 16,13). I primi a rimproverare Pietro sono i giudei cristiani tradizionalisti, per niente intenzionati ad aprire le porte ai gentili: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!». Allora Pietro raccontò per ordine come erano andate le cose” (At 11,2-3). Nell’assemblea di Gerusalemme Pietro ha un ruolo di primo piano secondo Luca, se non proprio come uomo punta, certamente come uomo ponte. E’ lui che “dopo una lunga discussione”, prende per primo la parola raccontando la propria esperienza in difesa della predicazione del vangelo ai pagani (At 15,7ss). Direi che Luca offre fondamento agli iconografi per il fraterno abbraccio dei due Apostoli. Anche in senso teologico perché qui il discorso di Pietro si sposa in pieno con la teologia di Paolo. Basti questa frase: “Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore (= dei pagani) concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare?” (At 15,8-10). Qui Pietro dice parole che siamo abituati a sentire da Paolo. Ma veniamo alla lettera ai Galati dove emergono tre momenti della relazione tra i due Apostoli:

-  Paolo da Pietro: Gal 1,18 -  Paolo con Pietro: Gal 2,1-10 -  Paolo contesta Pietro: Gal 2,11-20

2.1 Paolo da Pietro: fraterna conoscenza Il primo incontro ha luogo tre anni dopo l’esperienza travolgente sulla via di Damasco dove Paolo incontra Gesù (o meglio, dove Gesù viene incontro a Paolo). “Dopo tre anni – scrive l’Apostolo – andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni” (Gal 1,18). Dicevo in apertura: è più che una visita di cortesia! Dopo il suo personalissimo cammino con il Dio di Gesù Cristo, Paolo si reca da Cefa, non semplicemente per fare la conoscenza, ma per “consultarlo”. Una visita che non può prescindere da ciò che profondamente li unisce: la dedizione all’evangelo di Gesù Cristo. 2.2 Paolo con Pietro: uniti nel Vangelo Il secondo incontro avviene 14 anni dopo (dalla conversione o dal primo incontro?). Il viaggio è comunque il medesimo di cui riferisce Atti 15 e Paolo ne precisa la motivazione: per non rischiare “di correre o di aver corso invano”. La narrazione di questa seconda salita a  Gerusalemme è assai più articolata rispetto alla prima e più ricca di particolari. Nuovi personaggi entrano in scena a fianco di Paolo che non è più un evangelizzatore solitario (vedi anche Gal 1,2). E’ accompagnato da Barnaba e Tito, decisamente importanti in ordine allo scopo del viaggio. Inoltre non è più solo Pietro l’interlocutore di Paolo, ma i “notabili” della comunità gerosolimitana, le persone più ragguardevoli: Giacomo, Cefa e Giovanni, “ritenuti le colonne”. Come si comporta Paolo in questa circostanza? Direi con grande cautela e diplomazia: è in gioco infatti il bene più prezioso, la libertà in Cristo. – Paolo “diplomatico” e il codice di compagnia Osserviamo come Paolo, che siamo abituati a definire libero e franco, proceda qui con cautela. Non parla subito a tutta la comunità, non espone a tutti ciò che pensa e predica, non svuota il sacco ai quattro venti. Come si comporta invece? Ecco cosa scrive a Galati: “Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli” (2,2). Questa davvero è politica, è autentica capacità diplomatica! Paolo non può permettersi di perdere la battaglia: non per se stesso ma per la causa in gioco, la libertà cristiana! E dunque studia bene come muoversi. Comincia con le persone più ragguardevoli. Se guadagna il loro consenso, il resto sarà più facile. Non sarà solo contro tutti. Potrà contrastare i “falsi fratelli” – gli intrusi conservatori – avvalendosi del conquistato appoggio dei tre uomini più influenti: Giacomo, Cefa e Giovanni. È l’inizio di un consenso che culminerà in una bella stretta di mano, segno di comunione e di unità.

-Per non correre invano Il verbo “correre” appartiene al linguaggio agonistico: con l’idea di progresso esprime anche faticoso impegno e dispendio di energie. Paolo ama questo verbo per descrivere la propria esperienza spirituale e apostolica. Il correre di Paolo è strettamente unito al correre delle sue comunità. Ai cristiani di Filippi scrive di essere irreprensibili e semplici, tenendo alta la parola di vita. “Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato” (Fil 2,16). Nel contesto dell’assemblea gerosolimitana il timore di aver corso invano riguardava il destino delle comunità cristiane provenienti dal paganesimo. Ma proprio il caso di Tito mostra che Paolo non ha corso invano. Se Tito non è obbligato a circoncidersi, significa che ciò che vale per lui è valido come principio per tutti.

Il codice di compagnia comincia a mostrare i suoi buoni frutti! – Il vangelo affidato a Paolo e a Pietro Paolo e Pietro sono accomunati da una medesima responsabilità, poichè ad entrambi è stato affidato il vangelo. Si registra un notevole sguardo di fede nell’assemblea di Gerusalemme. L’esperienza di Pietro, per quanto importante per la prima comunità cristiana, non esaurisce il manifestarsi dell’agire divino. Le persone più ragguardevoli vedono (con sguardo credente) che a Paolo è stato affidato il vangelo per i non circoncisi come a Pietro quello per i circoncisi (Gal 2,7-8). Non si tratta di privilegi ma di un incarico, di una missione. È il vangelo il criterio sommo di valutazione: per Paolo e anche per i responsabili di Gerusalemme. Nessuno ne è proprietario, perché il vangelo è affidato da Dio e l’evangelizzatore è solo un ministro (cf. 1Cor 3,5). 2.3 Paolo contesta Pietro: per amore del Vangelo La narrazione dell’evento di Antiochia ha un tono certamente più duro rispetto all’episodio precedente. Anzi, sembra perfino contraddire quell’armonia appena ricordata tra Paolo e le «colonne» di Gerusalemme. Ad Antiochia, capitale della provincia romana di Siria e terza città dell’impero dopo Roma e Alessandria d’Egitto, era nata una delle comunità cristiane più vivaci. A portare il vangelo erano stati i credenti costretti a lasciare Gerusalemme in seguito alla persecuzione scoppiata al tempo del martirio di Stefano. Essi si erano rivolti anzitutto ai Giudei, ma ben presto in quella città multirazziale “la buona novella del Signore Gesù” fu annunciata anche ai Greci, e un gran numero credette e si convertì al Signore (vedi Atti 11,19-21). A guidare questa giovane comunità aperta, che vedeva riuniti nella fede in Cristo credenti provenienti dal giudaismo e dal mondo greco, la Chiesa di Gerusalemme aveva inviato Barnaba, “uomo pieno di Spirito Santo e di fede” che davanti a tanta grazia del Signore non poté che rallegrarsi. Ma si premurò anche di trovare collaboratori. Andò infatti a Tarso in cerca di Saulo / Paolo e lo coinvolse nell’animazione della comunità di Antiochia. Cosa avviene in seguito e perché Paolo si sente in dovere di richiamare alla coerenza il primo Papa? Non mi piace chiamarlo “incidente di Antiochia”, è qualcosa di più. Attenzione però che nella lettera ai Galati noi sentiamo solo una campana, quella di Paolo. Le “ragioni” di Pietro non vengono dette (il che non significa che non ne abbia avute). La lettura degli eventi è «paolina» e non di un terzo situato in posizione neutrale (gli Atti non raccontano questo episodio).

Ecco dunque cosa scrive l’Apostolo: “Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?” (Gal 2,11-14). Paolo era preoccupato che la comunità di Antiochia venisse disorientata dal comportamento mutevole di Pietro, il quale probabilmente cercava di mediare tra i diversi gruppi, in particolare dopo l’arrivo dei giudeo-cristiani di Gerusalemme che avevano difficoltà ad accettare la comunione di mensa così come era praticata nella comunità mista di Antiochia. Qui l’uomo punta (Paolo) si scontra con l’uomo ponte (Pietro). D’altro canto il silenzio di Pietro lascia supporre che egli abbia accolto la critica di Paolo. Essa non distrugge la comunione tra i due apostoli. Le divergenze concrete sono evidenti all’intera comunità coinvolta nel diverbio, ma non fanno scadere il rapporto in mancanza di rispetto o in separazione. Trovo bello che Paolo e Pietro siano menzionati insieme non solo quando mostrano di condividere gli stessi principi (vedi At 15), ma anche quando sperimentano la possibilità di attuazioni pratiche diverse. La tensione dialettica tra il principio di fede attorno a cui si converge e la realizzazione pratica, è una tensione inerente alla pastorale di ogni tempo. E allora? Chiediamo anche per intercessione del beato Giacomo Alberione la grazia di cercare umilmente insieme la verità che libera, coniugando alla maniera di Paolo parresia evangelica e koinonia.

Conclusione Per stare a quanto citavo sopra del Fondatore che esortava ad attenersi alle indicazioni del Papa, vorrei concludere con l’invito a prendere il largo che ci viene da Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte. “Occorre riaccendere in noi – scrive il Papa – lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: Guai a me se non predicassi il Vangelo! (1Cor 9,16).” (NMI, 40). E la Famiglia Paolina si propone appunto di vivere san Paolo oggi: “pensando, zelando, pregando e santificandosi come farebbe San Paolo, se oggi vivesse”, afferma don Alberione. “Se san Paolo vivesse oggi, continuerebbe ad ardere di quella duplice fiamma, di un  medesimo  incendio, lo zelo per Dio ed il suo Cristo, e per gli uomini d’ogni paese. E per farsi sentire  salirebbe sui pulpiti più elevati e moltiplicherebbe la sua parola con i mezzi del  progresso  attuale: stampa, cine, radio, televisione. Non sarebbe, la sua dottrina, fredda ed  astratta. Quando egli arrivava, non compariva per una conferenza occasionale: ma si fermava e formava…” (Ottobre 1954; Carissimi in San Paolo, 1151-1152). Dunque: entusiasmo per il Vangelo, passione di vivere e comunicare Gesù Cristo via verità e vita. E vivere questa passione per il Vangelo in modo tale che la Famiglia Paolina appaia “casa e scuola della comunione” (vedi NMI, 43-45). Preghiamo perché lo Spirito santo ci doni anche di realizzare qualcosa come Famiglia in quest’anno alberioniano: penso a una realtà inter-congregazionale, a un’oasi di vita per la nostra affascinante spiritualità paolina. Don Alberione diceva: “Le nostre Case vanno bene quando si fa  un centro Paolino in cui siano rappresentate tutte le Famiglie e vi sia la comprensione e lo  scambievole  aiuto spirituale non solo di preghiere, ma anche di buon esempio e di santa emulazione nello zelo” (alle Figlie di San Paolo nel 1954). Che lo Spirito illumini in particolare chi ha il compito di governare le nostre Congregazioni e Istituti, perché non abbiano paura di aprire strade nuove, e possano farlo in comunione: per non correre invano.  

26 NOVEMBRE: BEATO GIACOMO ALBERIONE SACERDOTE

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BEATO GIACOMO ALBERIONE SACERDOTE

26 NOVEMBRE

San Lorenzo di Fossano, Cuneo, 4 aprile 1884 – Roma, 26 novembre 1971

Giacomo Alberione nacque il 4 aprile 1884 a San Lorenzo di Fossano (Cuneo), da una povera e laboriosa famiglia di contadini. A sette anni sentì la vocazione al sacerdozio. Entrò nel seminario di Bra, ma dopo quattro anni di permanenza una crisi gli fece lasciare il seminario. Nell’autunno del 1900 tornò a indossare l’abito del seminarista, questa volta nel collegio di Alba. Nella notte che segnava il passaggio al nuovo secolo, durante la veglia di adorazione solenne nel Duomo, mentre era inginocchiato a pregare una particolare luce gli venne dall’Ostia, l’invito di Gesù: “Venite ad me omnes…”(Mt 11, 28) lo incitò a fare qualcosa per gli uomini e le donne del nuovo secolo. Il 20 agosto 1914 diede inizio a quella che dapprima si chiamò “Scuola Tipografica Piccolo Operaio”, e successivamente “Pia Società San Paolo”, il primo dei dieci rami della Famiglia Paolina. La morte lo colse a Roma, all’età di 87 anni, il 26 novembre 1971. Il 26 giugno 1996 Giovanni Paolo II ne ha riconosciuto le virtù eroiche dichiarandolo Venerabile.

Martirologio Romano: A Roma, beato Giacomo Alberione, sacerdote, che, sommamente sollecito per l’evangelizzazione, si dedicò con ogni mezzo a volgere gli strumenti della comunicazione sociale al bene della società, facendo dei sussidi per annunciare più efficacemente la verità di Cristo al mondo, e fondò per questo la Congregazione della Pia Società di San Paolo Apostolo.
 Paolo VI lo ha definito «una meraviglia del nostro secolo», altri un «industriale del Vangelo». Sicuramente è stato un grande personaggio della storia sociale italiana  e della storia della Chiesa. Grazie a lui il mondo cattolico si è affacciato sul mercato dei mass media con strumenti e prodotti culturali competitivi. Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, è stato un genio organizzativo nella caotica e insidiosa giungla della comunicazione sociale.
Alberione fu uomo solo, senza amici. La sua vita fu avvolta da un alone di mistero. Nessuno, credo, è mai riuscito a sollevare tutto il velo che coprì l’identità di quest’uomo, così alieno alle confessioni intime e dalle effusioni spontanee. Anche per questo egli non conobbe amici nel senso comune della parola. Eppure fu sempre ammirato e  un suo sorriso era cercato come quello della mamma, così come «le sue lavate di capo, che regalava qualche volta, assumevano il tono di un Savonarola in formato tascabile», come scrisse di lui un suo scomodo quanto appassionato figlio paolino.
Don Alberione nasce, figlio di contadini, in uno squallido stanzone di un rustico a San Lorenzo di Fossano (Cuneo). È il 4 aprile 1884. E morirà il 26 novembre 1971, in una semplice stanzetta dai gusti francescani nella Casa generalizia della Pia Società San Paolo di Roma senza aver riconosciuto il Papa. Paolo VI si era infatti recato al suo capezzale per rendere l’ultimo omaggio a chi aveva fondato, a soli 30 anni, una congregazione religiosa ed ora ne lasciava ben cinque, più quattro istituti aggregati all’Unione Cooperatori Paolini. Nessuno ha ancora lasciato, nella millenaria storia delle congregazioni e degli ordini religiosi, un così alto numero di fondazioni.
Il 26 novembre del 1904 rimane orfano di padre: lo stesso giorno in cui lui morirà. Tra padre e figlio non c’era mai stata intesa, come d’altra parte con il resto della famiglia. Sull’immaginetta stampata in occasione della sua ordinazione sacerdotale fece scrivere: «Quoniam pater meus dereliquit me… Dominus autem suscepit me» («Il padre mi ha abbandonato ma il Signore si è preso cura di me»).
Don Alberione è stato anche uno dei fondatori più longevi della storia della Chiesa. È vissuto 87 anni costantemente proteso a diffondere la Parola. Giacomo  preferiva il libro al gioco, così come preferiva il libro alla zappa, con le conseguenti lamentele e i rimbrotti del padre. Leggiamo in un suo scritto di quando aveva vent’anni e già aveva inteso l’essenza della sua missione: «La vera forza reggitrice degli affetti del cuore, motrice del regno invisibile del pensiero, nell’unione intellettuale e morale, individuale e sociale, che scorre in tutti i secoli, che si dilata in tutte le nazioni è la potenza della parola. Parla l’uomo e parla Dio; quello con pochi mezzi manifesta i suoi verbi mentali, questi con mezzi infiniti, come infinito è Egli stesso. Ei parlò stampando il suo verbo nella natura; onde l’uomo studiando la natura studia il Verbo di Dio».
La sua attività pubblicistica inizia nel 1913 con la direzione della «Gazzetta d’Alba». L’anno dopo nasce la Scuola Tipografica Piccolo Operaio, primo nucleo della futura Pia Società San Paolo. Nel 1915 don Alberione dà vita alla prima comunità femminile della Pia Società Figlie di San Paolo.
Gracile nel fisico, don Alberione aveva una volontà granitica. Si svegliava fra le 3 e le 3,15; alle 4,45 celebrava la messa. Verso le 7 raggiungeva il tavolo di lavoro, rispondendo personalmente alle molte lettere che giungevano da tutte le parti del mondo. Antesignano della comunicazione globale, veniva interrotto dalle visite, per le quali, generalmente, non era necessario fissare un appuntamento: si bussava alla sua porta e si entrava. Lavoratore infaticabile, ma anche organizzatore perfetto e manager d’eccezione. Ha scritto «Famiglia Cristiana», sua straordinaria creatura che nacque il 25 dicembre 1931: «L’intuizione di don Alberione non sta tanto nell’aver utilizzato i mezzi più celeri ed efficaci della comunicazione sociale come strumenti di apostolato, quanto nell’aver adottato integralmente il metodo industriale, che si tira dietro, per sua natura, l’obbligo di aggiornamento continuo e la complementarità di molti settori. È l’industria al servizio della Chiesa; è la rinunzia definitiva a un certo tipo di artigianato; è soprattutto la rinunzia all’arrangiamento. Libri, giornali, ecc., oltre che fatti a scopo di bene, devono essere fatti secondo tutte le regole». La professionalità a dispetto del pressappochismo che molta parte della cosiddetta «buona stampa» perseguiva. Ma tali risultati don Alberione li pagò a caro prezzo. Le travagliate vicende sono ampiamente registrate e documentate negli atti della causa di beatificazione che si è aperta nel 1981 e che lo ha già portato, nel 1996, al titolo di venerabile.
Nel 1931 invia i primi missionari all’estero: Brasile, Argentina, Stati Uniti, India, Cina, Giappone e Isole Filippine. Pur maneggiando molto denaro, fra pretese di creditori e saldi di debiti, don Alberione rimane ben ancorato al voto di povertà. Fra le tante definizioni che gli sono state date c’è anche quella di «manager di Dio». Questo piccolo e fragile uomo ha fondato un impero editoriale di dimensioni intercontinentali, sempre con il rosario alla mano e contro tutti. «L’unica sconfitta nella vita», lascia scritto, «è cedere alle difficoltà, anzi l’abbandono della lotta. L’uomo se muore lottando, vince, se abbandona la lotta è un vinto».

Autore: Cristina Siccardi

Giacomo Alberione nasce il 4 aprile 1884 nella cascina delle « Nuove Peschiere » a San Lorenzo di Fossano (Cuneo). Presso la cappella dedicata a San Lorenzo riceve il Battesimo il giorno successivo, 5 aprile. La famiglia Alberione è guidata da papà Michele e benevolmente curata da mamma Teresa Allocco. Ci sono già i fratelli: Giovenale, Francesco, Giovanni; seguiranno la sorellina che morirà entro un anno e l’ultimo fratello Tommaso. Famiglia di poveri contadini, profondamente cristiana e laboriosa, che trasmette ai figli con la fede una forte educazione al lavoro e una fiducia incrollabile nella Provvidenza.
Il progetto di Dio su Giacomo comincia ad evidenziarsi molto presto: in prima elementare, interrogato dalla maestra Rosa Cardona su cosa farà da grande, egli risponde con chiarezza: « Mi farò prete! ».
Seguono gli anni della fanciullezza orientati in questa direzione.
Nella nuova abitazione della famiglia nella regione di Cherasco, parrocchia San Martino, diocesi di Alba, il parroco don Montersino aiuta l’adolescente a prendere coscienza e a rispondere alla chiamata del Signore. A 16 anni Giacomo è accolto nel Seminario di Alba e subito si incontra con colui che gli sarà padre, guida, amico, consigliere per 46 anni: il can. Francesco Chiesa.
Fare « qualcosa » per il Signore e gli uomini del nuovo secolo
Al termine dell’Anno Santo 1900, già fortemente interpellato dall’enciclica di Papa Leone XIII « Tametsi futura », Giacomo asseconda l’invito potente della grazia divina: nella notte del 31 dicembre 1900, che divide i due secoli, sosta per quattro ore in adorazione davanti al SS. mo Sacramento solennemente esposto nella Cattedrale di Alba. Una « particolare luce », come testimonia egli stesso, gli viene dall’Ostia e da quel giorno si sente « profondamente obbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo », « obbligato a servire la Chiesa », con i mezzi nuovi offerti dall’ingegno umano.
E’ in seguito a tale esperienza che don Alberione ricorda senza fine a tutti i suoi figli e figlie: « Siete nati dall’Ostia, dal Tabernacolo! ».
L’itinerario del giovane Alberione prosegue molto intensamente negli anni dello studio della filosofìa e teologia. Il 29 giugno 1907 viene ordinato sacerdote. Segue una breve ma decisiva esperienza pastorale in Narzole (Cuneo), nella parrocchia di S. Bernardo, in qualità di vice parroco. Nei pochi mesi di apostolato pastorale diretto incontra il giovinetto Giuseppe Giaccardo che per lui sarà ciò che fu Timoteo per l’Apostolo Paolo. E sempre a Narzole don Alberione matura una maggior comprensione di ciò che può fare la donna coinvolta nell’apostolato.
Seguono gli anni vissuti nel Seminario ad Alba, dove svolge il compito di Padre Spirituale dei seminaristi maggiori e minori, e d’insegnante in varie materie.
Il giovanissimo sacerdote prega molto, studia, si presta per predicazione, catechesi, conferenze nelle parrocchie della diocesi. Dedica pure molto tempo allo studio, approfondendo particolarmente testi che lo illuminano e lo aggiornano sulla situazione della società civile ed ecclesiale del suo tempo e sulle necessità dell’uomo d’oggi: verso dove cammina questa umanità?
Ma il Signore lo vuole e lo guida in una missione nuova, multiforme nei mezzi e nelle strutture, per predicare il Vangelo a tutti i popoli, nello spirito dell’Apostolo San Paolo: portare gli uomini a Dio e Dio agli uomini, utilizzando i mezzi moderni di comunicazione. Testimoniano tale orientamento due libri di notevole importanza, maturati in quegli anni: « Appunti di teologia pastorale » (1912) e « La donna associata allo zelo sacerdotale » (iniziato nel 1911 e pubblicato nel 1915).
Maggior luce e maggior comprensione per un nuovo passo avviene nel 1910, quando don Alberione prende coscienza che la missione di dare Gesù Cristo al mondo deve essere assunta e realizzata da persone consacrate: « Le opere di Dio si fanno con gli uomini di Dio », amerà ripetere spesso.
La missione si concretizza: evangelizzare con i mezzi moderni
Per obbedire a Dio e alla Chiesa, il 20 agosto 1914, mentre a Roma muore il santo pontefice Pio X, ad Alba don Alberione dà inizio alla « Famiglia Paolina » con la fondazione della Pia Società San Paolo. Tutto avviene in forma semplice e dimessa: don Alberione si sente strumento di Dio, mosso dalla pedagogia divina che ama « iniziare sempre da un presepio », nel silenzio e nel nascondimento.
La famiglia umana – alla quale don Alberione si ispira – è composta di… fratelli e sorelle. Don Alberione è ben consapevole del ruolo importante che la donna, esercita nel « fare del bene » a gloria di Dio e per la salvezza dei fratelli. La prima donna che segue don Alberione è una ragazza ventenne di Castagnito (Cuneo): Teresa Merlo. Con il suo contributo, Alberione dà inizio alla congregazione delle Figlie di San Paolo (1915). Lentamente, ma decisamente, tra difficoltà di ogni genere, la « Famiglia » si sviluppa, le vocazioni maschili e femminili aumentano, l’apostolato si delinea e prende forma.
Nel 1918 (dicembre) avviene una prima partenza (quante ne seguiranno?) di « figlie » verso Susa: inizia una coraggiosa storia ricca di fede e di giovanile entusiasmo, che genera anche uno stile caratteristico, denominato « alla paolina ».
È abbastanza semplice seguire la cronologia di questi anni: ma quanto cammino, quanto progresso! Dio è presente e dà segni evidenti che è Lui solo a volere la Famiglia Paolina.
Però, nel luglio 1923 una nube oscura sembra troncare sul nascere tutti i sogni. Don Alberione si ammala gravemente; e il responso dei medici non lascia speranze. Ma ecco che, contrariamente ad ogni previsione, don Alberione riprende miracolosamente il cammino: « San Paolo mi ha guarito », commenterà in seguito. Da quel periodo appare nelle cappelle Paoline la scritta che in sogno o in rivelazione il Divin Maestro rivolge al Fondatore: « Non temete – Io sono con voi – Di qui voglio illuminare – Abbiate il dolore dei peccati ».
Nel 1924 prende vita la seconda congregazione femminile: le Pie Discepole del Divin Maestro, per l’apostolato eucaristico, sacerdotale, liturgico. A guidarle nella nuova vocazione don Alberione chiama la giovane Orsola Rivata.
Intanto don Alberione, sempre bruciato dallo « zelo » per le anime, va individuando le forme più rapide per raggiungere con il messaggio evangelico ogni uomo, soprattutto i lontani e le masse. Intuendo che, accanto ai libri, un mezzo molto efficace poteva risultare la pubblicazione di periodici, eccolo …buttarsi massicciamente in questa forma di apostolato. Nel 1912 era già nata la rivista Vita Pastorale destinata ai parroci, al fine « che ogni pastore sia un Pastor Bonus, modellato sopra Gesù Cristo… »; adesso (1931) nasce Famiglia Cristiana, rivista settimanale con lo scopo di alimentare la vita cristiana delle famiglie. Seguiranno: La Madre di Dio (1933), « per svelare alle anime le bellezze e le grandezze di Maria »; Pastor bonus (1937), rivista mensile in lingua latina, nella quale si trattavano problemi di cura pastorale e venivano offerte profonde meditazioni biblico-teologiche; Via, Verità e Vita (1952), rivista mensile per la conoscenza e l’insegnamento della dottrina cristiana; La Vita in Cristo e nella Chiesa (1952), con lo scopo di far « conoscere i tesori della Liturgia, diffondere tutto quello che serve alla Liturgia, vivere la Liturgia secondo la Chiesa… ». Don Alberione pensa anche ai ragazzi: per loro fa pubblicare Il Giornalino.
Si pone pure mano alla costruzione del grandioso Tempio a San Paolo, prima chiesa dedicata a una delle devozioni fondamentali della Famiglia Paolina. Seguiranno i due Templi a Gesù Maestro (Alba e Roma) e il Santuario alla Regina degli Apostoli (Roma).
Don Alberione si preoccupa di guidare, formare, orientare fratelli e sorelle precedendoli nella vita – vocazione – missione paolina.
Da Alba al mondo: come Paolo sempre in cammino
Nel 1926 si concretizza la fondazione della prima Casa « filiale » a Roma, seguita negli anni successivi da molte fondazioni in Italia e all’Estero.
Intanto cresce l’edificio spirituale: si segue con una maggiore comprensione e quindi più facilmente l’insegnamento del « Primo Maestro » sulla « devozione » fondamentale e qualificante: « Gesù Maestro e Pastore, Via e Verità e Vita », sulla devozione a Maria Madre, Maestra e Regina degli Apostoli; e sulla devozione a San Paolo, che ci specifica nella Chiesa e per cui siamo « i Paolini ».
La meta che il Fondatore indica a tutti e che vuole sia assunta come il primo « impegno » è la conformazione piena a Cristo: accogliere tutto il Cristo Via e Verità e Vita in tutta la persona, mente, volontà, cuore, forze fisiche. Orientamento codificato in un volumetto composto intorno agli anni ’30 e al quale dà il titolo paolino: « Donec formetur Christus in vobis ».
Nell’ottobre 1938 don Alberione fonda la terza congregazione femminile: le Suore di Gesù Buon Pastore o « Pastorelle », destinate all’apostolato pastorale diretto in ausilio ai Pastori.
La seconda guerra mondiale (1940-1945) segna una battuta d’arresto; ma il Primo Maestro, forzatamente fermo a Roma, non si arresta nel suo itinerario spirituale. Mentre attende il ritorno di condizioni migliori per operare, egli va accogliendo in misura sempre più radicale la luce di Dio in un clima di adorazione e contemplazione ogni giorno crescente.
Frutto di tale attitudine adorante sono gli scritti che il Fondatore continua a regalare ai suoi figli, tutti di grande rilievo per la Famiglia Paolina. Ricordiamo solo la « Via humanitatis » (1947), altissima rilettura del cammino dell’umanità in ottica mariana (« per Mariam, in Christo et in Ecclesia »), e quello che è il suo sogno incompiuto: il Progetto di un’enciclopedia su Gesù Maestro (1959).
Per don Alberione l’attività piena riprende alla fine del 1945, con i grandi viaggi intorno al mondo, allo scopo di incontrare e confermare fratelli e sorelle. Rimane « folgorato » dall’Oriente (India, Cina, Filippine…): le moltitudini, i miliardi di persone… Ma quanti conoscono Gesù Cristo? « Mi protendo in avanti! Non pensare a quel che si è fatto, ma piuttosto a quanto rimane da fare ».
Gli anni 1950-1960 sono gli anni d’oro del consolidamento della Famiglia Paolina: tutto fiorisce con vocazioni, fondazioni, edizioni, iniziative molteplici, impegno nella formazione, nello studio, nella povertà.
Nel 1954 si celebra il quarantesimo di fondazione, documentato in un volume pubblicato nella circostanza: « Mi protendo in avanti ». E’ esattamente in questa occasione che don Alberione riesce a vincere la sua naturale ritrosia nel parlare di se stesso e consegna ai suoi figli lo scritto che sarà pubblicato con il titolo: « Abundantes divitiae gratiae suae » e che viene considerato ora come la « storia carismatica della Famiglia Paolina ».
Con la fondazione della quarta congregazione femminile: l’Istituto Regina degli Apostoli per le vocazioni (Suore Apostoline), dedite all’apostolato vocazionale (1959) e con gli Istituti aggregati: San Gabriele Arcangelo, Maria SS.ma Annunziata, Gesù Sacerdote, Santa Famiglia, si completa il grande « albero » della Famiglia Paolina, pensata e voluta da Dio.
Don Alberione è ora la guida di circa diecimila persone, inclusi pure i Cooperatori Paolini, tutte unite tra loro dallo stesso ideale di santità e di apostolato: l’avvento di Cristo, Via, Verità, Vita, nelle anime e nel mondo, mediante gli strumenti della comunicazione sociale.
Dalla Chiesa del Concilio a quella celeste
Negli anni 1962-1965 il Primo Maestro è protagonista silenzioso, ma molto attento del Concilio Vaticano II, alle cui quattro « sessioni » partecipa quotidianamente con vivo impegno. Giorno di particolare giubilo è il 4 dicembre 1963, in cui viene emanato il Decreto conciliare « Inter Mirifica » sugli strumenti della comunicazione sociale da assumersi come mezzi di evangelizzazione. Egli così commentò: « Ora non potete più avere dubbi. La Chiesa ha parlato ». E ancora: « Vi ho dato il meglio. Se avessi trovato qualcos’altro di meglio, ve lo darei ora, ma non l’ho trovato ».
Nel frattempo, non mancano tribolazioni e sofferenze al padre comune. Tra le più acute, la morte dei suoi primi figli e figlie. Il 24 gennaio 1948 torna al padre don Timoteo Giaccardo, che egli considera « fedelissimo tra i fedeli ». Quindi, il 5 febbraio 1964, don Alberione è colpito da un nuovo, profondo dolore per la morte della Prima Maestra Teda (Teresa Merlo), la donna che non dubitò mai e vide in Lui l’Uomo trasmettitore della Volontà di Dio. In quell’occasione don Alberione non si preoccupò di nascondere le lacrime.
Ormai verso la fine del cammino terreno, si può affermare che il segreto di tanta multiforme attività fu la sua vita interiore, per la quale egli realizzò l’adesione totale alla Volontà di Dio, e compì in sé la parola dell’Apostolo San Paolo: « La mia vita è Cristo ». Il Cristo Gesù, in particolare il Cristo Eucaristico, fu la grande, l’unica passione di don Alberione: « La nostra pietà è in primo luogo eucaristica. Tutto nasce, come da fonte vitale, dal Maestro Divino. Così è nata dal tabernacolo la Famiglia Paolina, così si alimenta, così vive, così opera, così si santifica. Dalla Messa, dalla Comunione, dalla Visita, tutto: santità e apostolato ».
Il Venerabile don Giacomo Alberione rimase sulla terra 87 anni. Compiuta l’opera che il Padre Celeste gli aveva dato da fare, il 26 novembre 1971, lasciò la terra per prendere il suo posto nella Casa del Padre. Le ultime ore di don Alberione furono confortate dalla visita e dalla benedizione del Papa Paolo VI, che non nascose mai la sua ammirazione e venerazione per don Alberione. Ad ogni membro della Famiglia Paolina è oltremodo cara la testimonianza che volle lasciare il Papa Paolo VI, nella memorabile Udienza concessa al Primo Maestro e a una folta rappresentanza di membri della Famiglia Paolina, il 28 giugno 1969 (il Primo Maestro aveva 85 anni): « Eccolo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all’opera, sempre intento a scrutare i « segni dei tempi », cioè le più geniali forme di arrivare alle anime, il nostro Don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni. Lasci, caro Don Alberione, che il Papa goda di codesta lunga, fedele e indefessa fatica e dei frutti da essa prodotti a gloria di Dio ed a bene della Chiesa ».
Il 25 giugno 1996 il Santo Padre Giovanni Paolo II firma il Decreto con il quale vengono riconosciute le virtù eroiche e il conseguente titolo di Venerabile.
E’ stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II a Roma il 27 aprile 2003.

Autore: Don Luigi Valtorta, ssp – Postulatore Generale

SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA – IL BEATO GIACOMO ALBERIONE

http://www.zenit.org/it/articles/san-paolo-l-unita-interiore-segreto-di-santita-e-fecondita-apostolica

SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA

IL BEATO GIACOMO ALBERIONE, INTERPRETE ATTUALE DELL’APOSTOLO DELLE GENTI

04 LUGLIO 2012

DI PADRE JOSÉ ANTONIO PÉREZ, SSP

ROMA, mercoledì, 4 luglio 2012 (ZENIT.org).- Una persona si realizza nella misura in cui ha un principio interiore che si rivela in tutto il suo modo di essere, donandogli una fisionomia inconfon­dibile e un’unità d’azione. Nel credente, l’unità inte­riore dipende da un principio dinamico ricevuto da Dio stesso, vissuto in tutta la sua esigenza e portato alle ultime conseguenze. Tutto ciò che egli realizza, porterà il sigillo della sorgente profonda da cui pro­viene.

COSCIENZA E AFFERMAZIONE DELL’UNITÀ PERSONALE
La scoperta dell’apostolo Paolo da parte del beato Giacomo Alberione risale al primo contatto con gli studi teologici. San Paolo sapeva che in Gesù Cristo abita corporalmente la pienezza della divini­tà e che tutto abbiamo pienamente in lui (cf. Col 2,9-10); di conseguenza, non si può servire Gesù Cristo se non con una risposta di grande «pie­nezza» e sforzandosi perché tutti acquistino la piena intelligenza del mistero di Dio, che è Cristo (cf. Col 2,2-3); e in questo ministero impegnò tutte le risorse personali di natura e di grazia (cf. Col 1,28-29). Tutto questo colpì profondamente l’animo delgiovane ed inquieto Alberione.
«L’ammirazione e la devozione – scriveva nel 1954 – cominciarono specialmente dallo studio e dalla meditazione della Lettera ai Romani. Da allora la personalità, la santità, il cuore, l’intimità con Gesù, la sua opera nella dogmatica e nella morale, l’impronta lasciata nell’organizzazione della Chiesa, il suo zelo per tutti i popoli, furono soggetti di meditazione. Egli parve veramente l’Apostolo: dunque ogni apostolo ed ogni apostolato potevano prendere da lui». Da allora la conoscenza andò sviluppandosi e divenne «devozione», con tutta la carica che questa parola comporta: conoscenza sempre più approfondita, amore e volontà di identificazione, confronto continuo sul piano del pensare e dell’agire, decisione di far conoscere, amare, seguire e imitare l’Apostolo.
Questa «devozione» andò intensificandosi quando la figura dell’Apostolo fu associata alla nuova forma di apostolato che il giovane Alberione avviava con le sue fondazioni. «Tutte le anime che presero gusto agli scritti di San Paolo, divennero anime robuste», affermava. Ed esortava: «Preghiamo san Paolo che formi anche noi persone di carattere, che non si scoraggiano…, che sanno dare un valore giusto alle cose. Gente pratica che sa giocare il “tutto per tutto”, cioè dando tutto a Dio per riceve in cambio Dio stesso. E questo avviene quando vi è un grande amore, la convinzione che aveva san Paolo da farlo esclamare: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”».

L’UNITÀ IN GESÙ CRISTO, RICEVUTO DA SAN PAOLO
Per garantire l’unità di ispi­razione e di azione, Don Alberione si riporta sempre al punto essenziale, e così lo offre alla sua Famiglia: «L’unio­ne di spirito: questa è la parte sostanziale… vivere nel Divin Mae­stro in quanto egli è via, verità e vita; viverlo come lo ha compreso ilsuo discepolo san Paolo. Questo spirito forma l’anima della Famiglia Paolina, nonostante che i membri sia­no diversi ed operanti variamente… “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”», diceva nel 1960.
L’unità si trova dunque in Gesù Cristo, ricevuto da san Paolo. Per dono di Dio, don Alberione ha sentito a fondo la Parola rivela­ta circa la pienezza apostolica di san Paolo ed è stato mosso dallo Spiri­to all’impegno di riprodurlo, oggi, nella totalità del suo carisma aposto­lico. È questa la sorgente e l’unità profonda della Famiglia Paolina. È di qui che emanano le differenti fisionomie dei dieci gruppi che la costitui­scono.
Afferma don Silvio Sassi, Superiore generale della Società San Paolo, nella sua lettera annuale, “Ravviva il dono che hai ricevuto”, che per essere fedeli oggi in modo creativo a Don Alberione, occorre interpretare san Paolo per le urgenze della nuova evangelizzazione del nostro tempo: una profonda esperienza di Cristo, che si trasforma in fede missionaria nella comunicazione attuale, in contemplazione nella liturgia, in laboriosità nella pastorale parrocchiale, nel suscitare vocazioni, nel vivere lo stato di vita laicale in stile paolino e nella cooperazione alle opere di bene paoline. Sono questi, appunto, i vari raggruppamenti che debbo­no trovare in san Paolo il loro vincolo di unità e il loro dinamismo contemplativo-attivo verso Dio e verso gli uomini.

UNITÀ, SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA
Il beato Giacomo Alberione considera san Paolo non solo padre e ispiratore, ma addirittura «fondatore», «forma» sulla quale la Famiglia Paolina deve riprodurre Gesù Cristo per essere «san Paolo vivo oggi»: «Gesù Cristo è il perfetto originale. Paolo fu fatto e si fece per noi forma: onde in lui veniamo forgiati, per riprodurre Gesù Cristo. San Paolo è forma non per una riproduzione fisica di sembianze corporali, ma per comunicare al massimo la sua personalità… tutto. La Famiglia Paolina, composta da molti membri, sia Paolo-vivente in un corpo sociale».
Il motivo dell’elezione di san Paolo è stata la sintesi che l’Apostolo ha saputo realizzare in se stesso di tutte le dimensioni della sua personalità:
Santità e apostolato: «Si voleva un santo che eccellesse in santità e nello stesso tempo fosse esempio di apostolato. San Paolo ha unito in se la santità e l’apostolato».
Amore a Dio e amore alle anime: «Se san Paolo oggi vivesse… adempirebbe i due grandi precetti come ha saputo adempierli: amare Iddio con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la mente; e amare il prossimo senza nulla risparmiarsi».
Attività e preghiera: «Sovente si dà risalto all’attività di san Paolo; ma prima bisogna mettere in risalto la sua pietà».
Il segreto: la vita interiore: «Perché san Paolo è così grande? Perché compì tante opere meravigliose? Perché anno per anno la sua dottrina, il suo apostolato, la sua missione nella Chiesa di Gesù Cristo vengono sempre più conosciuti, ammirati e celebrati?… Il perché va ricercato nella sua vita interiore. È qui il segreto», affermava il Fondatore.
E concludeva costatando come la santità consiste appunto nella sintesi dello sviluppo armonico di tutte le dimensioni umane: «Per san Paolo la santità è la maturità piena dell’uomo, l’uomo perfetto. Il santo non si involve, ma si svolge… La santità è vita, movimento, nobiltà, effervescenza… Ma lo sarà solo e sempre in proporzione dello spirito di fede e della buona volontà».
Segreto per raggiungere la realizzazione personale, la santità, e la fecondità apostolica è dunque l’unità interiore. San Paolo ne è il maestro.

*Postulatore generale della Famiglia Paolina

Don Giacomo Alberione – (mf) Festa per la Famiglia Paolina – la storia si trova nella « Pages »…ho messo anche la liturgia del giorno ed uno scritto sul suo carisma

Don Giacomo Alberione - (mf) Festa per la Famiglia Paolina - la storia si trova nella

http://www.santiebeati.it/

la storia si trova nella Pages:

http://lapaginadisanpaolo.unblog.fr/giacomo-alberione-sacerdote-beato-fondatore-della-famiglia-paolina/

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