Archive pour août, 2016

Saint Anthony Abbot Tempted by a Heap of Gold,

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Publié dans:immagini sacre |on 31 août, 2016 |Pas de commentaires »

BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

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BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (21/3/2009)

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano. Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo: «Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!» Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano. Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo. Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella chiamata in greco tõn Sechenõn (termine di non univoca interpretazione). Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C. La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere. Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano). Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi. Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa. Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la Chiesa di S. Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni. Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri. È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis. Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35). Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi. Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

Luke 14:1, 7-14

Luke 14:1, 7-14 dans immagini sacre lowest_place_at_feast

http://pericope.org/buls-notes/luke/luke_14_1_7_14.htm

Publié dans:immagini sacre |on 26 août, 2016 |Pas de commentaires »

28 AGOSTO 2016 | 22A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/2016/05-Ordinario_C/Omelie/22a-Domenica/14-22a-Domenica-C_2016-SC.htm

28 AGOSTO 2016 | 22A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Quando sei invitato, non metterti al primo posto » A Gesù tutto fornisce occasione di insegnamento: anche un invito a pranzo, come quello descrittoci oggi da Luca. Le due brevi parabole che leggiamo nel Vangelo (Lc 14,7-14), infatti, prendono spunto da certi atteggiamenti, o abitudini, o allusività simboliche implicate nel semplice gesto di un banchetto, per richiamare a realtà più alte, a valori più profondi e universali. C’è anche una terza parabola che segue immediatamente – quella degli invitati a cena che non accettano (14,15-24) – che si muove sullo stesso sfondo: il banchetto come espressione di amicizia, di rapporto umano, di incontro con gli altri. Tutto questo è importante non solo perché ci fa scoprire la finezza « pedagogica » di Gesù che sa prendere spunto da ogni cosa, ma soprattutto perché ci dice come non ci sia realtà che non sia aperta a un messaggio che la trascende: in tal modo per Gesù l’umano diventa « via » al divino, di cui è come un simbolo o una prefigurazione. E non per nulla egli assumerà proprio l’esperienza umana del mangiare insieme sia per esprimere il banchetto messianico escatologico (cf Lc 14,15-24), sia per donarci l’Eucaristia! Tenendo presenti queste considerazioni, potremo capire anche meglio il messaggio delle due parabole, che non vogliono certamente suggerirci delle regole di comportamento sociale per le rare o anche frequenti occasioni in cui possiamo essere invitati, o invitiamo altri « a pranzo », ma intendono piuttosto darci un ammaestramento per la nostra partecipazione di ogni giorno al « banchetto » della fede e della vita cristiana, che ha indubbiamente i suoi momenti forti nella celebrazione dell’Eucaristia.

« Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato » Gesù, dunque, essendo stato invitato a pranzo in casa di uno dei capi dei farisei, si mette a osservare, piuttosto incuriosito, l’atteggiamento degli altri invitati: tutti cercavano di piazzarsi ai primi posti! Uno strano modo, anche questo, di affermare la propria superiorità! Davanti alla miserabile fatuità di quella gente Gesù racconta la sua parabola: « Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato » (vv. 8-11). Anche nella tradizione rabbinica c’era una regola di « galateo conviviale » che suona quasi alla stessa maniera: « Tienti lontano di due o tre posti da quello che ti spetta e attendi che ti si dica: « Sali più su! Sali più su », piuttosto che sentirti dire: « Scendi, scendi! »". Del resto, tutto questo faceva parte dell’esperienza sapienziale dell’A. Testamento: « Non far pompa di te in presenza di un re e non collocarti al posto dei grandi, perché è meglio che ti si dica: « Sali quassù! », piuttosto che essere respinto indietro sotto gli occhi di un principe » (Prv 25,6-7). Tutto questo, però, non era altro che un suggerimento di condotta pratica per non rimanere coinvolti in situazioni imbarazzanti davanti agli altri. La « regola conviviale » data da Gesù, invece, è qualcosa di più che un invito a essere accorti per non fare brutta figura; è un’allegoria, che « scaturisce dai retroscena di quella bramosia di arraffare i primi posti. Essa esprime una verità che si riferisce al regno di Dio: chi vuole entrare in questo regno dev’essere piccolo o farsi tale, senza avanzare delle pretese false o presuntuose. La frase finale ne dà la spiegazione: Dio abbassa chi s’innalza e innalza chi si abbassa. Egli escluderà dal regno dei cieli colui che si vanta di essere giusto e sbandiera davanti a Dio i propri diritti; vi accoglierà invece l’umile che si reputa indegno dei doni divini. « Dio rivela il suo segreto agli umili » (Eccl 3,20). La piccolezza dell’umile è la prima condizione per essere ammessi nel regno di Dio (6,20) ». È una « regola di vita », dunque, che Gesù propone ai suoi: la regola dell’umiltà, per cui veramente ricerchiamo solo l’ultimo posto, che già di per sé è una « grazia » e un gesto d’amore da parte di Dio. Nella trasparenza della parabola, infatti, colui che invita ad andare « più avanti » (v. 10) è Dio: tutto il piano della salvezza e il nostro posto in quel piano sono esclusivo « dono » dell’amore del Padre. L’unico atteggiamento dei credenti, perciò, è quello di non pretendere nulla, ma di aspettarsi tutto da Dio: non siamo noi grandi, ma è lui che ci fa grandi, se ci rendiamo disponibili alla sua azione. E per questa via può anche porci al di sopra degli altri, se a lui piace. È quanto è capitato a Cristo che, pur essendo il primo, si è fatto il « servo » di tutti e « perciò Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome » (Fil 2,9). È quanto egli ribadisce con forza durante l’ultima Cena, quando gli Apostoli litigavano fra di loro per occupare i primi posti: « Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,26-27). Proprio perché nel regno di Dio l’unica grandezza è quella dell’umiltà e del servizio, dovremmo tutti sforzarci di essere gli ultimi, o fra gli ultimi: è certo allora che diventeremo i « primi ». La vacuità umana, però, è tanto grande che anche oggi i cristiani, e perfino gli « apostoli », continuano a contendere per il « primo posto »!

« Quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi e ciechi » Allargando poi il suo insegnamento e muovendosi sempre sul piano delle allusività a cui si prestava il banchetto al quale era stato invitato, Gesù insegna il disinteresse, l’abbandono di ogni calcolo anche in certi gesti che a prima vista possono apparire generosi, ma in fondo sono soltanto egoistici: « Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti… » (vv. 12-14). Di nuovo, Gesù non intende proporre una regola conviviale, estrosa e paradossale: vuol suggerire, invece, una regola di vita che valga per tutti i rapporti sociali, in cui debbono essere privilegiati coloro che normalmente gli uomini mettono al margine, se non al bando: « poveri, storpi, zoppi, ciechi ». È una semplice esemplificazione quella di Luca, che però abbraccia delle categorie di persone che nella società ebraica del tempo di Gesù erano perfino escluse dal servizio religioso nel tempio. Nella comunità di Qumran, ad esempio, non poteva essere ammesso chi avesse difetti ai piedi o alle mani, chi fosse mal formato, sordo o muto. Perché questo capovolgimento operato da Cristo nelle consuetudini sociali? Credo, fondamentalmente, per due motivi. Il primo è quello della « gratuità ». Se inviti a pranzo i tuoi amici, o i tuoi parenti, ecc., anch’essi a loro volta ti inviteranno e così tu hai già ricevuto il « contraccambio » (v. 12). Oltre tutto, questo rischia di non farti essere sincero nelle tue azioni, perché introduce l’ombra del calcolo, del secondo fine anche nelle cose più belle. Che cosa c’è di più bello, infatti, di un banchetto fraterno? Eppure anche in questo ci può essere l’insidia, dice Gesù. Se invece inviti i poveri, gli storpi, gli zoppi ecc., « sarai beato perché non hanno da ricambiarti » (v. 14). A questo punto è chiaro che la tua azione vale solamente per quello che di autentico, di semplice, di limpido e di buono contiene: seconde intenzioni non possono guastarla! L’unica « ricompensa » è quella che ti darà il Signore « alla risurrezione dei giusti » (v. 14). In tal modo l’uomo è riportato alla « nudità » della sua coscienza e del suo agire. Ma proprio allora la mia azione, nella sua umiltà, diventa grande: essa vale solo per se stessa, per la bontà che la pervade e la ispira. Il secondo motivo del capovolgimento operato da Cristo, al di là della mera « gratuità », è la « preferenza » che egli dà ai poveri e agli abbandonati in una società che li emargina. È un insegnamento che, forse, noi cristiani non abbiamo sempre preso sul serio. Già la lettera di S. Giacomo, che secondo alcuni sarebbe lo scritto più antico del cristianesimo, ci documenta su certe discriminazioni che i cristiani del tempo facevano perfino nelle assemblee liturgiche: « Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria. Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: « Tu siediti qui comodamente », e al povero dite: « Tu mettiti in piedi lì », oppure: « Siediti qui ai piedi del mio sgabello », non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi? » (2,14). Questa preferenza verso « i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi », che stanno a rappresentare tutti gli emarginati della società e che oggi potrebbero essere i vecchi, i bambini deformi e quelli non ancora nati, gli handicappati, i drogati, i carcerati, i profughi, ecc., è anch’essa un gesto di umiltà, la scelta dell’ultimo posto. Ma solo così saremo invitati a « passare più avanti » nella sala del banchetto. Pure trascesa all’infinito dal brano del Vangelo, è su questa strada che si muoveva già la « sapienza » dell’A. Testamento, riportatoci dalla prima lettura: « Quanto più sei grande, tanto più umiliati; così troverai grazia davanti al Signore, perché dagli umili egli è glorificato » (Sir 3,18-20).

Settimio CIPRIANI  (+

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 26 août, 2016 |Pas de commentaires »

Angels painting

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Publié dans:immagini sacre |on 22 août, 2016 |Pas de commentaires »

PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI – COMMENTO

http://www.homolaicus.com/nt/vangeli/lettere_tessalonicesi.htm

PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI – COMMENTO

(sul sito c’è il testo)

COMMENTO

La I lettera ai Tessalonicesi è la più antica (1) di quelle di Paolo di Tarso, essendo stata scritta tra il 51 e il 52, dopo che in quella località (Tessalonica, Salonicco) la chiesa fu fondata nel corso del secondo viaggio missionario dell’apostolo, avvenuto tra il 49 e il 53 (cfr At 17,1-10). Probabilmente Paolo si trovava a Corinto, dove aveva incontrato Gallione, fratello maggiore di Seneca, dopo il discorso all’Areopago di Atene, e prese la decisione di scriverla solo dopo aver ottenuto notizie da Timoteo che l’aveva raggiunto, insieme a Sila, proprio da Tessalonica. E sarà proprio Timoteo a consegnarla a quei neo-convertiti. La lettera evita i toni apologetici come quella ai Galati e la seconda ai Corinti, manca di temi dottrinali come quella ai Romani e agli Efesini e non costituisce neppure una risposta a quesiti precisi, come la prima ai Corinti. Il motivo di fondo è quello di precisare il tema della parusia e, in particolare, il rapporto che avrebbe dovuto esserci tra vivi e morti. Ma evidentemente il suo contenuto non fu capito granché, visto che ad essa Paolo fece seguire, dopo qualche mese, una seconda lettera. La città di Tessalonica, ai tempi di Paolo, viveva uno dei periodi di maggiore floridezza economica. Conquistata dai romani nel 168 a.C., era diventata, nel 146 a.C., capitale di uno dei quattro distretti romani di Macedonia, ed era governata da un proconsole. Veniva considerata la città più fiorente della Grecia, anche perché col suo porto dominava l’Egeo. Nel 42 a.C., dopo la battaglia di Filippi, s’era guadagnata il titolo di « città libera » (con un proprio dèmos, assemblea cittadina, una propria bulè, senato, e propri politarchi, magistrati), essendosi schierata a favore di Ottaviano e Antonio contro Cassio e Bruto. Durante la permanenza nella città, Paolo, insieme a Sila e Timoteo, predicò inizialmente (gli Atti parlano di tre sabati) nella sinagoga, la principale in quella parte di Macedonia, ma a causa dell’immediata e forte opposizione da parte degli ebrei, fu costretto ad andarsene soltanto dopo pochi mesi, trovando rifugio a Berea (Verria), a circa 80 km da Tessalonica. Il privilegio di « città libera » imponeva infatti l’obbligo morale di un lealismo oltre ogni sospetto, per cui si comprendeva bene l’allarme generale tra le autorità e la popolazione di fronte a un’accusa di insubordinazione politica e di alto tradimento. Il contenuto della sua predicazione ci è noto proprio attraverso gli Atti: secondo un’interpretazione (naturalmente distorta) delle Scritture, egli sosteneva, sulla scia di Pietro, che il messia, nella persona di Gesù, doveva necessariamente morire per poi risorgere (« essere ridestato da Dio »), al fine di liberare gli uomini dall’oppressione (dare loro « salvezza », soteriologia). Questa tesi (kerigma) fu accolta da pochi giudei, ma da molti greci, anche tra le donne aristocratiche. La cosa fece andare su tutte le furie gli ebrei, che vedevano perdere consensi e soprattutto perché non potevano accettare l’idea di una fine del primato storico-politico d’Israele. Decisero quindi di denunciarlo, dopo aver fatto irruzione nella casa di un loro concittadino, Giasone, che probabilmente costituiva la base della missione dell’apostolo. L’accusa era quella di agire contro i decreti dell’imperatore, in quanto veniva a questi contrapposto un nuovo sovrano, Gesù. I politarchi (giudici della città) rimasero molto turbati e decisero di espellere immediatamente tutti i missionari. In questa lettera, scritta per infondere fiducia ai neo-convertiti, che evidentemente avevano subìto vessazioni dopo la partenza forzata dell’apostolo, si usa, per la prima volta, il termine « Cristo » come nome proprio di persona e non più come « qualifica politica »(1,1.3). Lo stesso appellativo di « Signore », che i pagani usavano in senso « politico » e che i Settanta avevano dato solo a Jahvè, qui viene usato in un’accezione esclusivamente « religiosa », essendo associato all’idea di « dio-padre », e attribuito unicamente al Cristo. Paolo tuttavia, provenendo da un ambiente intriso profondamente di aspettative politiche, quale quello giudeo-farisaico, pur compiacendosi che i tessalonicesi abbiano abbandonato i loro « idoli »(1,9), non si accontenta di anteporre alla loro religione (2) una nuova religione, ma è convinto che la sua nuova religione abbia un contenuto anche politico, in quanto il Cristo risorto, in virtù appunto della propria resurrezione, dovrà liberare coloro che credono in lui « dall’ira imminente »(1,10). Se è vero quel che dice Pietro, e cioè che Cristo è risorto, allora deve apparire del tutto normale un suo « imminente » ritorno, altrimenti non avrebbe avuto senso morire in croce: sarebbe stato sufficiente morire di vecchiaia, di morte naturale, semplicemente per far credere nell’esistenza di un aldilà. Viceversa, un uomo che pretende di porsi come « liberatore nazionale », che si fa uccidere senza poter dimostrare che aveva politicamente e umanamente ragione, quando in realtà avrebbe potuto farlo tranquillamente, avendo fatto capire, con la resurrezione, ch’era più che un uomo, non può non tornare, a tempi brevi, in maniera trionfale, facendo giustizia dei propri nemici. Questa convinzione non l’aveva solo Paolo, ma anche Pietro e altri apostoli ancora, con la differenza che mentre per Pietro e gli altri discepoli, presenti a Gerusalemme, Cristo sarebbe dovuto tornare per liberare la Palestina dai romani e costruire un nuovo regno davidico, per Paolo invece Cristo avrebbe dovuto abbattere l’intero impero romano, creando un nuovo regno in cui la differenza tra ebreo e pagano sarebbe scomparsa. Paolo in sostanza era convinto che se davvero il Cristo era risorto, non avrebbe avuto alcun senso che un avvenimento così straordinario dovesse restare circoscritto entro gli angusti confini di Israele, anche perché erano stati proprio i giudei a giustiziarlo. Cioè, in sostanza, ed è in questa alternativa radicale che sta racchiusa tutta la biografia politica dell’apostolo Paolo, o i cristiani andavano perseguitati, poiché demotivavano la resistenza armata da parte degli ebrei, con la loro idea di attendere passivamente la parusia del Cristo, oppure, se avevano davvero ragione, non potevano averla solo per i destini di Israele, in quanto l’avvenimento che andavano predicando doveva per forza riguardare l’intero genere umano. Paolo è assolutamente convinto che la seconda strada, da lui scelta negli anni 34-36, sia quella più giusta, quella più logica e naturale, quella più conseguente alla tesi petrina della « morte necessaria », e si serve delle persecuzioni subite a titolo dimostrativo (2,2): a Filippi fu addirittura incarcerato e fustigato. Sostiene, non senza una certa fanatica autoesaltazione, di essere non solo un « inviato di Dio »(2,9.13), ma anche un « apostolo di Cristo »(2,6), non meno degli altri discepoli più vicini al messia, anche se questa sua qualifica gli verrà sempre contestata dalla comunità di Gerusalemme, la quale però, vedendo il suo grande zelo a favore dell’idea di resurrezione, sarà anche disposta a cercare dei compromessi per favorirlo nella sua predicazione, che in teoria avrebbe dovuto essere rivolta esclusivamente ai « gentili » o ai « non circoncisi », ma che nella realtà si rivolgeva anche ai giudeo-ellenisti, agli ebrei della diaspora. In quanto giudeo predicava anzitutto ai giudei, nelle loro sinagoghe, ma, essendo convinto che non l’avrebbero ascoltato, approfittava subito del loro diniego per rivolgersi ai pagani, più sensibili a credere in fatti miracolosi e straordinari o in concezioni spiritualistiche, come appunto la resurrezione e l’aldilà. La sconfitta culturale che subirà ad Atene, in mezzo a un consesso di intellettuali, sarà tutto sommato un fatto isolato, che lo indurrà a rivolgersi unicamente a un uditorio più popolare. Quando scrive questa epistola Paolo ha già rotto definitivamente con l’ebraismo classico, al punto che arriva a dichiarare ch’egli non farà nulla per il suo paese nel caso in cui venga distrutto da Roma (2,16): i giudei sono « nemici di tutti gli uomini »(2,15). La rottura è non solo politica, avendo essi ucciso il messia e i profeti, ma anche ideologica, poiché i giudei non hanno più alcun titolo per ritenersi migliori degli altri popoli. Infatti, se possono essere migliori di quei pagani dediti ai piaceri e alla cupidigia (4,5s.), non sono certo migliori dei neo-cristiani di origine pagana, che sul piano etico si sforzano di condurre una vita irreprensibile, anzi sono « modello » per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. Paolo stesso aveva cercato di dar loro il buon esempio, alternando la predicazione al lavoro manuale (2,9), per non essere a nessuno di peso e per distinguersi dai filosofi e predicatori girovaghi, che spesso agivano a scopo di lucro. Qui il suo antisemitismo e antigiudaismo è così forte che si sente in dovere di affermare che la generazione dei tessalonicesi a lui coeva vedrà il ritorno trionfale del Cristo (2,19) « con tutti i suoi santi » (3,13). E’ quasi fuori di sé. E’ convinto che prima risorgeranno quelli che sono già morti (come primo segno della parusia), poi sarà la volta dei viventi (tra cui lui stesso), che però, non essendo ancora morti, saranno « rapiti insieme con loro [coi defunti], sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria »(4,16ss.). Una sorta di spiritualizzazione della politica ai limiti del patologico. Cristo doveva tornare per dimostrare che senza di lui i giudei non sarebbero mai stati in grado di liberarsi dei romani e per dimostrare che, avendolo ingiustamente ucciso, sotto la denominazione di « nemico » non andava messo solo il romano oppressore e l’ebreo collaborazionista, ma anche il giudeo qua talis, fanaticamente legato alle proprie leggi e tradizioni. Il loro primato di « nazione santa », di « popolo eletto » era finito: ora il nuovo regno sarebbe stato « universale », « cosmico ». Come Pietro aveva ingannato i soli ebrei, così Paolo stava ingannando ebrei e pagani. Questi due apostoli, della prima e dell’ultima ora, erano così convinti della verità del loro nuovo vangelo, pur nella disperazione d’essere usciti politicamente sconfitti dagli eventi, che non s’accorgevano neppure di apparire seguaci di idee irrazionalistiche. Paolo, come già i sinottici, si rende conto, in questa lettera, della difficoltà di precisare il momento esatto della parusia, per cui si limita soltanto ad affermare che quando ufficialmente si proclamerà « pace e sicurezza »(5,3), allora avverrà d’improvviso il ritorno trionfale del Cristo, paragonabile al furto di un ladro notturno, alle doglie di una donna incinta. Vuole a tutti i costi porre delle antitesi paradossali, per meglio indurre il lettore a stare sempre vigile, a non fidarsi mai di quello che vede. Per « vigilanza » non si deve intendere una preparazione politico-militare attiva, come chiedeva Giovanni nella sua Apocalisse, scritta nell’imminenza dello scoppio della guerra giudaica. Le armi dei cristiani al seguito di Paolo sono semplicemente « spirituali »: la corazza della fede e dell’amore, l’elmo della speranza nella salvezza (5,8). Si tratta di attendere con pazienza, senza far nulla di violento; anzi, qualunque forma di persecuzione subìta va considerata come un segno favorevole alla parusia. La liberazione non può essere compiuta che da Cristo risorto, poiché s’egli non ha potuto compierla da vivo, usando gli strumenti della democrazia, è stato solo per dimostrare che il primato d’Israele era finito, ovvero che la società ebraica non era in grado di far valere un maggior senso della libertà e della giustizia sociale rispetto alle altre nazioni. I giudei, il popolo politico più irriducibile della storia, non sapendo riconoscere il valore dei propri liberatori nazionali, arrivando persino a consegnarli al peggiore nemico, hanno fatto il loro tempo, sono giunti al collasso storico-nazionale, non hanno titoli per opporsi legittimamente all’imperialismo romano. E’ dunque giusto che vengano spazzati via dalla parusia del messia redivivo (3). Non si può transigere con loro: o si pentono di quello che hanno fatto e credono nella resurrezione, che apre la strada all’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a dio; o è meglio rivolgersi esclusivamente ai pagani, considerando finita la pretesa specificità ebraica. In questo Paolo era molto più risoluto di Pietro, e se in tutto quello ch’egli scrisse in questa lettera ci sarà qualcosa di « imminente », sarà soltanto la rottura tra i due, almeno finché Pietro non si deciderà di abbandonare per sempre Gerusalemme.

(1) Secondo alcuni esegeti la più antica è quella dei Galati, che risalirebbe alla fine del primo viaggio missionario. (2) Nella cosmopolitica Tessalonica, punto d’incontro tra oriente e occidente, dominava il più ampio sincretismo religioso, coi culti pagani di Serapis, Cibele, Dioniso, Cabiro, ma anche di Roma e di Augusto, ivi incluse varie divinità greco-italiche, quali Diana, Atena, Afrodite, i XII Dèi… La scelta a favore di questa città doveva apparire, agli occhi di Paolo, di natura strategica, in quanto da qui facilmente la predicazione si sarebbe irradiata nelle province orientali dell’impero. (3) Si noti in tal senso che il termine « parusia » non ha lo stesso significato che aveva nel mondo pagano, ove s’intendeva l’arrivo solenne di un esercito, guidato da un generale o da un sovrano, cui faceva seguito l’accoglienza festosa da parte degli alti dignitari della città. Qui il significato è più bellicoso: è una resa dei conti nei confronti dei propri nemici. Ogniqualvolta si parla nelle lettere paoline di « giorno del Signore », di « quel giorno » o semplicemente « il giorno », di « giorno dell’ira », « giorno del giudizio », « giorno della rivelazione », s’intende sempre qualcosa attinente a un evento di tipo escatologico, in uno scenario di catastrofe cosmica. Tuttavia, col passare degli anni, Paolo sarà costretto a trasformare il suo concetto di « parusia imminente » in « parusia ritardata » (a tale scopo, tra i segni premonitori, si sentirà indotto ad aggiungere, nella lettera ai Romani e nella seconda ai Corinti, anche quello della conversione degli ebrei al cristianesimo!). In particolare, proprio dalla seconda lettera ai Corinti, accanto all’escatologia di carattere schiettamente apocalittico e collettivo, Paolo inserirà con insistenza l’idea di una escatologia più individuale, in cui diventava possibile incontrarsi col Cristo dopo morti. Il termine « parusia » ricorre quattro volte nel cap. 24 del vangelo di Matteo e due volte nella lettera di Giacomo. Anche alcuni scrittori latini parlavano di « imminenza della fine »: Lucrezio, Livio, Ovidio, Seneca ecc. L’allontanarsi sempre più netto della parusia obbligherà i Padri della chiesa a concentrarsi sui destini dell’anima nell’aldilà.

 

Jesus praying with his mother Mary

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Publié dans:immagini sacre |on 21 août, 2016 |Pas de commentaires »
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