Archive pour la catégorie 'NATALE 2017'

BENEDETTO XVI CI SPIEGA PERCHÉ LA TRADIZIONE HA “INSERITO” L’ASINO E IL BUE NELLA STALLA DI BETLEMME

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BENEDETTO XVI CI SPIEGA PERCHÉ LA TRADIZIONE HA “INSERITO” L’ASINO E IL BUE NELLA STALLA DI BETLEMME.

“Il bue e l’asino del presepe non sono semplici prodotti della pietà e della fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento.
n Isaia leggiamo: “il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”.
I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani. Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore.
Nelle rappresentazioni medioevali del Natale vediamo come i due animali abbiano quasi volti umani, come si inchinino consapevoli e rispettosi davanti al mistero del Bambino.
Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si chè ora riconoscono nella mangiatoia il loro Signore.
Ma lo riconosciamo realmente? Quando collochiamo nel presepio il bue e l’asino, dobbiamo rammentarci tutte le parole di Isaia, che non sono solo vangelo – cioè promessa della futura conoscenza -, bensì anche giudizio sull’accecamento attuale. Il bue e l’asino riconoscono, ma “Israele non conosce e il mio popolo non comprende”.
Chi sono oggi il bue e l’asino, chi “il mio popolo” che non comprende? Da che cosa si riconoscono il bue e l’asino, da che cosa si riconosce “il mio popolo”? Perché mai gli esseri privi di ragione riconoscono e la ragione è cieca? Per trovare una risposta dobbiamo tornare ancora una volta con i Padri della Chiesa al primo Natale.
Chi non riconobbe? Chi riconobbe? E perché ciò si verificò? Orbene, il primo a non riconoscere fu Erode.
Egli non comprese nulla quando gli parlarono del Bambino, anzi, fu ancora più accecato dalla sua sete di potere e dalla conseguente mania di persecuzione(Mt 2,3).
A non riconoscere fu poi “tutta Gerusalemme con lui” (ivi). A non riconoscere furono i dotti, i conoscitori delle Scritture, gli specialisti dell’interpretazione che conoscevano con esattezza il passo biblico giusto e tuttavia non compresero nulla (Mt 2,6).
A riconoscere furono invece “il bue e l’asino” – se paragonati con queste persone rinomate – i pastori, i magi, Maria e Giuseppe. Poteva mai essere diversamente? Nella stalla, dove è Lui, non abitano le persone raffinate, quelle che si sentono sapienti, lì sono di casa appunto il bue e l’asino.
E la nostra posizione qual è? Siamo tanto lontani dalla stalla appunto perché siamo troppo raffinati e intelligenti per questo?
Non ci perdiamo anche noi, troppo spesso, in una dotta esegesi biblica, nei tentativi di dimostrare l’inautenticità o l’autenticità storica di un certo passo, al punto da divenire ciechi nei confronti del Bambino e non percepire più nulla di Lui?
Non viviamo anche noi troppo in “Gerusalemme”, nel palazzo, racchiusi in noi, nella nostra autonomia, nella nostra paura di persecuzione, sì da non riuscire più a percepire di notte la voce degli angeli, unirci ad essa e adorare il Bambino?
In questa notte i volti del bue e dell’asino ci rivolgono perciò questa domanda: il mio popolo non comprende: comprendi tu la voce del tuo Signore?
Quando collochiamo le statuine nel presepio, dovremmo pregare Dio di concedere al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, come fece una volta San Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano, quasi con le stesse parole di San Luca relative ai pastori del primo Natale (Lc 2,20), dice dei partecipanti alla Messa di mezzanotte di Greccio: tutti se ne tornarono a casa pieni di gioia.”

(Joseph Ratzinger, “Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa”)

NATALE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO (25/12/2017)

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Pazienza nel guardare

dom Luigi Gioia

NATALE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO (25/12/2017)

L’atmosfera che avvolge la celebrazione eucaristica del giorno di Natale è quella di un calmo stupore dopo le tante emozioni della notte, una lenta ruminazione di quello che è avvenuto. Nella liturgia della notte tutto ruota intorno a un bambino, in quella del giorno le letture ci propongono una meditazione sulla identità del messia con termini che ci possono sembrare astratti: irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3), verbo, luce, vita. Ci sono voluti secoli di discernimento perché la comunità dei credenti penetrasse il senso di queste espressioni. Siamo giustificati dunque se ci sentiamo sprovveduti di fronte ad esse, se preferiamo l’immagine dei vangeli dell’infanzia rispetto a quella proposta dal prologo di Giovanni e dalla lettera agli Ebrei.
Eppure, la fede non può fare a meno di questo approfondimento, bisogna che gli occhi si aprano per vedere il ritorno del Signore a Sion (Is 52,7-8), per capire quale sia la pienezza dalla quale tutti abbiamo ricevuto, per contemplare la sua gloria (Gv 1,16).
Attraverso il suo silenzio, la sua vulnerabilità, questo bambino ci parla: è un messaggero che annuncia la pace (Is 52,7). Dio conversava con Adamo ed Eva nel giardino prima della loro trasgressione, ma non cessa di farlo anche dopo che si sono allontanati da lui. Tutto l’Antico Testamento testimonia della straordinaria inventiva dispiegata dal Signore per continuare a mantenere il dialogo con noi anche nel paese lontano nel quale ci eravamo smarriti: molte volte e in diversi modi nei tempi antichi Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti (Eb 1,1). Come un amante respinto ha continuato a credere alla possibilità di risvegliare il nostro primo amore per lui, ha cercato in tutti i modi di parlare al nostro cuore (Os 2,16).
Ha dovuto cominciare con l’incuterci timore, parlandoci da un roveto ardente (Es 3,4) o nel tuono e nel fulmine, al punto che abbiamo avuto paura di lui: Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!» (Es 20,18-19). Usava un linguaggio così terrificante perché era il solo che eravamo in grado di percepire allora. Ma senza che ce ne rendessimo conto, lentamente il Signore ci educava a percepire il vero suono della sua voce, come quando incontra Elia non nell’uragano, nel terremoto o nel fuoco, ma nel mormorio di una brezza leggera (1Re 19,12). Il senso di questa rivelazione era che per distinguere la vera voce di Dio occorre fermarsi, tacere e contemplare, come lo afferma Giovanni: E il Verbo si fece carne?e venne ad abitare in mezzo a noi;?e noi abbiamo contemplato la sua gloria (Gv 1,14). ‘Verbo’ qui vuol dire ‘parola’, ‘Dio che ci parla’ e potremmo dunque parafrasare questa frase affermando: “Nel suo desiderio di parlarci, di farci udire la sua voce Dio si è fatto uno di noi, è venuto da abitare in mezzo a noi e progressivamente ci ha insegnato a riconoscere la sua vera identità, a contemplare la sua bellezza”. Gesù è chiamato ‘verbo’ perché è colui che ‘dice’ il Padre, che lo fa conoscere, lo rivela: Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre,?è lui che lo ha rivelato (Gv 1,18).
Giovanni e l’autore della lettera agli Ebrei concordano poi nel parlare di Gesù usando l’immagine biblica della ‘gloria’. La lettera agli Ebrei paragona Dio al sole e Gesù ai raggi che scaturiscono da esso e ci raggiungono per riscaldarci ed illuminarci quando dice: Gesù è l’irradiazione della gloria del Padre (Eb 1,3). Questa gloria, questa bellezza, questa grandezza vanno ‘contemplate’ dice Giovanni: noi abbiamo contemplato la sua gloria (Gv 1,14), esattamente come va contemplato il sole: se lo guardessimo direttamente saremmo accecati. Occorrono filtri, un lento adattamento degli occhi alla intensità della sua luminosità. Giovanni usa la parola ‘contemplazione’ per indicare una maniera di guardare che richiede tempo, pazienza, amorevole e perseverante applicazione.
Il solo modo di accogliere Dio che ci parla, ci visita, pianta la sua tenda tra di noi è dunque ascoltarlo e contemplarlo. Solo lasciandoci istruire da lui, solo tenendo lo sguardo fisso su di lui, siamo trasformati a sua immagine, diventiamo simili a lui, come lui, figli di Dio: A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12). Per questo la liturgia di Natale ci fa percorrere prima i racconti dell’infanzia e poi l’elaborazione teologica della lettera agli Ebrei e di Giovanni. In questo modo, progressivamente, impariamo a riconoscere la grazia e la verità che il Figlio è venuto a condividere con noi: viene dal Padre pieno di grazia e di verità e la grazia e la verità vengono per mezzo di Gesù (Gv 1,14). Il Padre ci fa grazia non solo perdonandoci, ma rivelandosi e, di riflesso, facendoci conoscere la verità su noi stessi, sul senso della nostra esistenza e della storia. Per accedere a questa rivelazione basta continuare a contemplare il bambino nato per noi: il suo silenzio parla, la sua debolezza diventa pienezza dalla quale tutti riceviamo (Gv 1,16), in lui Dio compie la sua promessa di restare per sempre con noi.

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