Il Prigioniero del Signore – dell’Arcivescovo Metropolita dell’Aquila
ancora una presentazione di Paolo, dall’Arcivescovo di una Diocesi, io non mi stanco mai di leggere queste presentazioni proposte dai Pastori delle nostre Diocesi, si coglie in esse, nella loro diversità, nell’unità dell’amore per Paolo, la grande ricchezza dell’Apostolo e della nostra Chiesa, dal sito:
Il Prigioniero del Signore
di Giuseppe Molinari
Arcivescovo Metropolita dell’Aquila
(11 luglio 2008, data presa dall’indirizzo web)
Introduzione
Queste brevi riflessioni (fatte soprattutto di citazioni degli Atti degli Apostoli e delle Lettere di S. Paolo) solo dei piccoli squarci sulla straordinaria avventura umana e cristiana di colui che qualcuno ha chiamato il secondo fondatore del Cristianesimo (W. Wrede). Sono anche un invito a riprendere in mano gli Atti degli Apostoli e le Lettere di S. Paolo per entrare sempre di più nel mistero di quest’uomo che ha consegnato tutto se stesso al Signore Gesù Cristo. Fino a diventare “prigioniero del Signore”, come egli stesso si autodefinisce nella lettera ai cristiani di Efeso (Ef, 4,1). S. Bernardino da Siena (il cui corpo riposa nell’omonima Basilica della città dell’Aquila) ha scritto: “Quando la bocca di Paolo predicava ai popoli, come per il fragore di un gran tuono, o per l’avvampare irruente di un incendio o per il sorgere luminoso del sole, l’infedeltà era distrutta, la falsità periva, la verità splendeva, come cera liquefatta dalle fiamme di un fuoco veemente”. Possa l’Anno Paolino (28 giugno 2008-29 giugno 2009) far rinascere in ognuno di noi il desiderio di conoscere sempre meglio l’Apostolo Paolo, per imitarlo, per sentirlo vivo in mezzo a noi, come modello e guida per il cammino della nostra santificazione e per inventare gli itinerari più efficaci per la nuova evangelizzazione.
+ Giuseppe Molinari
Arcivescovo Metropolita dell’Aquila
1. Il persecutore
La prima notizia su Paolo nel Nuovo Testamento, la troviamo dopo il racconto della lapidazione di Stefano, il primo martire. Si dice che “i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane chiamato Saulo” (Atti 7,58). Successivamente si precisa che “Saulo era tra coloro che approvavano l’uccisone (di Stefano)” (Atti 8,1). Così all’inizio della sua storia Paolo viene presentato come il “persecutore”. Saulo (questo il nome con cui Paolo era conosciuto in mezzo agli Ebrei) è uno che ha perseguitato i cristiani. Lo confesserà egli stesso: “Ultimo fra tutti (Gesù) apparve anche a me come ad un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa” (1 Cor. 15,9).
Penso al mondo di oggi.
Penso alla gente di oggi.
Papa Benedetto XVI denuncia in modo vigoroso la dittatura del relativismo: non esistono più verità assolute, ogni uomo si crea la sua verità. e la conclusione è che aumentano gli uomini e le donne che non hanno una fede. Dilaga il relativismo e insieme l’indifferentismo. La fede non interessa più, Dio non interessa più; nasce quasi il rimpianto per i tempi in cui esistevano i cosiddetti “nemici della fede”. In verità ci sono ancora, e ci sono pure i persecutori. Ma sembra crescere in modo pauroso il numero di coloro che non si interrogano più sui problemi fondamentali dell’uomo. Sembra non esistano più coloro che combattano Dio e i cristiani, perché l’indifferenza ha bruciato nel cuore di tutti le domande più importanti. Saulo non era un indifferente. Credeva nel Dio d’Israele, nel Dio dei patriarchi e dei profeti. Nel Dio che aveva creato il cielo e la terra. e si era riservato un popolo, il popolo d’Israele, perché annunciasse le sue meraviglie tra le genti. Perché questo piccolo popolo ricordasse agli uomini di tutta la terra chi era il vero Dio. Racconta sempre il libro degli Atti degli Apostoli: “Saulo, frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati” (Atti 9,1-2). Saulo non è un uomo sanguinario, un sadico che gode di vedere i cristiani in galera. E’ un adoratore del vero Dio, il Dio d’Israele, quel Dio che non sopporta idoli. Come recita l’antica preghiera: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore Tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt. 6,4). Saulo, da perfetto israelita, viveva questa fede. Sapeva che il suo Dio era un Dio geloso, che non sopportava dai suoi adoratori altri amori verso altri dei, verso forme non autentiche di religiosità. E i discepoli di Gesù di Nazareth apparivano agli occhi di questo zelante ebreo come una pericolosa setta, che si allontanava dalla religione dei padri. Io credo che la disgrazia più grande dei nostri tempi è la schiera enorme di coloro che non credono più a nulla, non combattono più nessuna battaglia, non sono più capaci di opporsi a Dio, perché Dio per loro, è una parola vuota. Saulo non apparteneva a questa massa amorfa e triste. Egli credeva, amava, adorava il Dio d’Israele. E la sua fede ardente lo portava ad essere persecutore dei cristiani, gli “eretici”. Era un “fondamentalista”. Ma guai a chi non crede più a nulla, non lotta più per nessun ideale, si arrende alla cultura dell’indifferenza che regna nel mondo. Nell’Apocalisse c’è un giudizio terribile per chi è tiepido ed indifferente, per chi non sa decidersi: “All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: tu non sei né freddo né caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3,14-16). Saulo non ha mai appartenuto alla categoria dei tiepidi, degli indifferenti. E’ stato un persecutore convinto. Uno zelo indicibile lo spingeva a perseguitare i cristiani. Credeva di essere sulla strada giusta e questa strada la percorreva con una passione ed una dedizione inarrivabili. Ma Qualcuno lo attendeva lungo la via di Damasco. Per rivelargli un’altra verità, un’altra luce, un’altra passione. Una passione che avrebbe trasformato radicalmente e per sempre la sua vita.
2. Il convertito
Sentiamo il racconto degli Atti degli Apostoli: «E avvenne che, mentre (Saulo) era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?” Rispose “chi sei o Signore?” e la voce: “Io sono Gesù che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (Atti 9,3-6). Poi si racconta dello stupore dei compagni di viaggio, della cecità che colpisce Saulo, e dell’arrivo a Damasco. Qui c’è l’incontro di Saulo con Anania, che il Signore aveva incaricato di aiutare il persecutore dei cristiani ad aprirsi alla vera fede. Anania, che conosce Saulo e il suo odio verso i cristiani, si mostra perplesso e timoroso. Ma il Signore lo incoraggia: “Va’, perché egli è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele ed io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (Atti 9,15-16). Qualcuno ha scritto che dopo la risurrezione di Cristo la conversione di Saulo, che diventerà l’Apostolo Paolo, è il miracolo più grande che viene raccontato nel Nuovo Testamento. Umanamente parlando era impossibile che questo seguace dell’ebraismo diventasse cristiano. Gesù Risorto ha compiuto questo miracolo. Paolo sa che la sua conversione è puro dono di Dio. E lo riconosce chiaramente: “Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è in me” (1 Cor. 15,10). Scrivendo al giovane discepolo e vescovo Timoteo Paolo confessa con stupenda umiltà: “Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia, chiamandomi al ministero; io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1 Tm. 1,12-16). E’ bello e commovente sentire Paolo che fa queste confidenze. Ma, soprattutto, le sue parole sono una luce che porta chiarezza alla nostra vita. Il tema della conversione attraversa tutto il libro Sacro, la Bibbia. La conversione interessa ogni discepolo di Gesù. Con l’invito alla conversione si apre la predicazione di Gesù nel Vangelo. E viene spontaneo chiederci: ma noi siamo realmente convertiti? Per Paolo la conversione è stata una rinuncia totale al passato e un consegnarsi senza riserve nelle mani di Gesù Cristo: “Quello che poteva essere per
me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza del mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero una spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”. E ancora: “Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione: solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli io non ritengo di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil. 3,7-13).
Ma neppure per Paolo la conversione è stata facile.
Rileggiamo la Lettera ai Romani : “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo al peccato (…). Infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto (…). Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene! C’è in me il desiderio del bene; ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…) io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo alla legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,14-23). Ma ormai Paolo non ha più paura di questa lotta contro il male, per continuare a vivere ogni giorno la sua conversione. Infatti conclude con gioia: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7, 24-25). E ancora: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono di Gesù Cristo. Poiché la legge dello spirito che dà la vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2). Paolo ci insegna che il nostro passato, anche se negativo, non può impedirci di aderire completamente a Cristo e al Suo Vangelo. Paolo ci insegna anche che convertirsi non significa essersi sottratti per sempre alla lotta spirituale contro il male. L’importante è credere con tutto il cuore che Gesù Cristo è dalla nostra parte e non ci lascerà soccombere. Soprattutto non permetterà che il nostro peccato ci appaia più importante e decisivo dell’amore di Dio per noi.
Convertirsi è avere trovato ciò che è più importante e decisivo.
Convertirsi è non volgersi più indietro.
Convertirsi è avere imparato ad amare e a sperare.
Convertirsi è sperimentare che ormai la nostra vita non ci appartiene più: dev’essere
donata totalmente a Dio e ai fratelli.
3. L’Apostolo
Paolo, ormai “ghermito dal Signore” (Fil. 3,12), sente che la sua vita non gli appartiene più. Ma è una vita da donare completamente a Dio e ai fratelli. A questo del resto l’aveva chiaramente destinato lo stesso Gesù Risorto, che gli era apparso sulla via di Damasco. Abbiamo sentito ciò che il Signore risorto dice ad Anania: “Egli (Paolo) è per me uno strumento eletto, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (At. 9,15). Tutte le lettere di Paolo sono attraversate da questa ansia missionaria, da questo struggente desiderio di portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo: “Guai a me se non evangelizzo”. Paolo sa, però, che nella sua missione di evangelizzatore non deve e non può confidare in se stesso, ma solo nel Signore. Non può annunciare se stesso, ma solo Gesù Cristo Crocifisso: “Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunciarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di
sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Cor. 2,1-5). In una delle sue lettere, per rispondere ad alcune accuse dei suoi aversari, Paolo si vede costretto a….fare il proprio elogio di Apostolo. E’ un piccolo saggio (prezioso) per aprire uno squarcio sulla sua incredibile e multiforme attività missionaria. Scrive Paolo: “Però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio,veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non frema? (…) A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani” (2 Cor. 11, 21-29.32-33). Paolo, malgrado le prove che il Signore permette anche nella sua vita di Apostolo, non si scoraggia. Continua imperterrito la sua corsa per annunciare il Vangelo a tutti. Così scrive infatti ai Corinzi: “Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo; al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio” (2 Cor. 4,1-2). E ancora: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,5-6). Paolo è consapevole che la missione affidatagli da Cristo è sublime. Ma non dimentica mai la sua piccolezza, il suo niente. E, soprattutto, non dimentica che questa vita sulla terra è solo un prepararci a quella vita che durerà per tutta l’eternità, accanto al Signore Risorto. Ecco perché l’Apostolo riesce a trovare sempre la forza e la gioia per andare avanti: “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti noi che siamo vivi veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita. Animati, tuttavia, da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche voi con Gesù e ci porrà accanto a Lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perchè la grazia, ancor più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor. 4,7-18). Paolo è l’apostolo che può dichiarare con mite fermezza la sua purissima intenzione di essere al servizio di Dio e dei fratelli, con una dedizione immensa, una passione grande e una tenerezza incredibile: “Da parte nostra non siamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2Cor. 6,3-10). Sono tantissime le testimonianze che ci rivelano la gigantesca statura spirituale e morale dell’Apostolo Paolo. Ma ci piace concludere queste brevissime annotazioni con una scena che desta sempre tanta commozione nel cuore di chi la rilegge nel libro degli Atti degli Apostoli: l’addio agli anziani di Efeso. Sono le pagine che ci mostrano quanto amore e quanta dedizione sincera accompagnavano Polo nei suoi viaggi missionari. E veniamo anche a scoprire quali legami profondi si creavano tra l’apostolo, i responsabili delle varie comunità e i fedeli che aveva incontrati. Paolo, come ogni vero apostolo si rivolgeva alle persone, non alle masse, conosceva i volti dei suoi, non era interessato al numero degli adepti. Ed ecco il racconto degli Atti: «Da Mileto (Paolo) mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà(…). Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi. Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l`eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere! ». Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave» (Atti 20,17-37). In quegli abbracci e in quei baci è custodita una ricchezza di incontri, di sentimenti, di legami unici tra l’Apostolo e tutti i fratelli e sorelle della comunità di Efeso. Una storia che possiamo solo intuire ma che, per quel poco che riusciamo ad immaginare, testimonia in modo luminoso l’autenticità, l’intensità, la profonda umanità e l’altissimo profilo spirituale dell’avventura apostolica di Paolo di Tarso.
4. Il Testimone
Gli Atti degli Apostoli ci presentano almeno tre grandi viaggi missionari di Paolo. Ma è difficile circoscrivere tutta l’attività missionaria dell’Apostolo. Sappiamo che dopo questi viaggi si era recato a Gerusalemme per portare le collette raccolte soprattutto in Macedonia e in Acaia. Sappiamo che in occasione di questa visita a Gerusalemme ci fu un subbuglio provocato contro l’Apostolo da alcuni giudei della provincia d’Asia che accusavano Paolo di aver violato l’area sacra del Tempio e di aver tentato di introdurre nel luogo sacro alcuni gentili. Il tribuno della coorte romana lo sottrasse al linciaggio della folla dei giudei. Paolo si difese sia in pubblico, di fronte ai giudei della città, sia di fronte al Sinedrio. Si difese anche a Cesarea Marittima, di fronte al procuratore romano Antonio Felice e davanti al suo successore Porcio Festo. Fu proprio di fronte a quest’ultimo che Paolo, cittadino romano, si appellò all’Imperatore e fu perciò deferito a Roma. E’ bello rileggere direttamente negli Atti il viaggio di Paolo a Roma, pieno di pericoli e drammatici imprevisti. Un viaggio che fu ugualmente una continua evangelizzazione (Atti 27 e 28). Giunto a Roma, Paolo vi trascorre, sotto custodia militare, due anni, nella casa che aveva preso a pigione: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”. Si conclude così il racconto degli Atti degli Apostoli. Si era negli anni tra il 58 e il 63 (dopo Cristo). Dopo questo momento non abbiamo date e notizie sicure. Sappiamo però che la morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma, sotto l’Imperatore Nerone, e fu una morte violenta. Fu un martirio, con l’accusa, forse, di appartenere ad un gruppo sovversivo. Fu la morte di chi fino all’ultimo volle testimoniare la sua fede e il suo amore a Gesù Cristo. “Martirio”, secondo il termine greco da cui questa parola deriva, significa appunto testimonianza. Fino all’ultimo Paolo ha voluto testimoniare che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è il Messia promesso dai Profeti, è l’unico Salvatore del mondo. Ma possiamo meditare su altri aspetti della straordinaria testimonianza dell’Apostolo. Paolo ci testimonia che l’essenza della vita cristiana è aver trovato Gesù, amarlo e vivere di Lui e per Lui. Lo scrive nella lettera ai Galati: “In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,19-20). Paolo ci testimonia e ci ricorda che la vita cristiana è tutta qui, nel poter ripetere come lui: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Tutto il resto viene dopo. E nel resto c’è il cammino verso la santità, l’impegno personale nella vita spirituale, l’impegno sociale e politico, l’impegno per la pace, l’impegno nel custodire la creazione, l’impegno a fare di tutta l’umanità l’unica famiglia dei figlio di Dio. Un grande teologo del nostro tempo (Karl Rahner) ha scritto che il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà. Paolo lo aveva detto duemila anni fa. Paolo ci testimonia anche una fede rocciosa e sicura nel Cristo Risorto. Rileggiamo la lettera ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor. 15,12-20). Paolo ci testimonia anche la certezza che nel messaggio di Gesù e nella vita cristiana ciò che conta veramente è la carità, l’amore. I cristiani di Corinto, gli stessi a cui Paolo ricorderà che senza la fede nella risurrezione tutto il cristianesimo crolla, non sapevano fare buon uso dei carismi, cioè dei vari doni che lo Spirito dà abbondantemente a ogni membro della Chiesa, per il bene di tutti, l’Apostolo ricorda che c’è una “via migliore di tutte”: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1Cor. 13,1-10). E Paolo conclude: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1Cor. 13,13). Ed infine Paolo ci testimonia che l’amore che Gesù ci ha rivelato è Egli stesso. E’ Cristo l’amore di Dio fattosi carne in mezzo a noi. e chi si affida totalmente a questo amore ha vinto ormai ogni paura. Quante paure, ogni giorno, vengono a turbare la nostra esistenza! Fra tutte la paura più brutta e pericolosa è quella che ci spinge a dubitare dell’amore di Dio. E’ anche la tentazione più terribile del cristiano. Paolo ci racconta come ha vinto questa paura: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall`amore di Cristo? Forse la tribolazione, l`angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun`altra creatura potrà mai separarci dall`amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm. 8,31-35.37-39). Non dimentichiamo mai questo grido gioioso di Paolo. E nessuno potrà mai rubarci la speranza e la salvezza. Nessuno potrà mai separarci da Gesù Cristo Signore nostro, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi.

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