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Filosofia estetica e teologia trinitaria
SPLENDORE E MISTERO DI UN SORRISO
di Enrico Maria Radaelli
Nel 1963 Harvey Ball, un disegnatore americano, con pochi tratti di penna ideò per un’azienda che aveva bisogno di risollevare il morale dei dipendenti uno smile – una faccina sorridente su fondo giallo – che fece il giro del mondo avendo saputo illustrare la più efficace rappresentazione della positività della vita e dell’allegra fiducia che ne segue: da allora lo smile di Harvey Ball – Monna Lisa è da sempre fuori concorso – resta tra le immagini più universali del sorriso. Un anno fa, Papa Benedetto XVI, nella sua omelia per la messa con i malati, sul sagrato della basilica di Notre-Dame du Rosaire a Lourdes, il 15 settembre 2008, pronunciò ventitré volte la parola « sorriso ». In particolare tenne a sottolineare come la Vergine Maria fosse apparsa alla giovane Bernadette per farle conoscere « innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero ». Che il sorriso sia un’eminente « porta d’accesso » non solo al mistero divino, ma, in generale, alla vita intelligente, lo constatiamo tutti i giorni anche noi con i nostri sorrisi e, più ancora, in quelli innocenti e aperti dei nostri bambini: gli occhi brillano, l’intelligenza lì celata palpita viva, e, messa da parte la profonda serietà con cui un bimbo segue le nostre parole con attenzione, quel « lume dell’intelletto » si irradia e straripa nella felicità di averle poi afferrate e comprese. Sì: il sorriso è una « porta d’accesso »: vi transita il mistero della vita, e vi transita in entrambi i sensi: aprendosi l’uscio del sorriso, « esce » dal volto e dagli occhi in tutta la sua purezza e luce l’intelletto che vi è dietro e vi « entra », in certo modo, il nostro, almeno per cogliere il profumo di quella cara vivezza che gli si è aperta davanti, il fiore della sua presenza. Il sorriso degli occhi è il sorriso del cuore. Dunque non si parla delle mille varietà che può assumere il sorriso allorché diviene strumentale a una qualsiasi delle tante seconde intenzioni di cui può ben essere latore suo malgrado: per scorrerne il pungente catalogo va goduto Il sorriso. Il sorriso degli dei e degli uomini nell’arte e nella letteratura di Christian de Bartillat (Vicenza, Colla, 2008), ma qui si vuole indicare precisamente, e solo, quella dolce, ineffabile espressione che, mossa persino nei suoi più impercettibili cambiamenti da ben quindici vigili muscoli intorno alle labbra, e ravvivata dal bagliore che si irraggia dai due soli, apre il volto nell’effluvio del suo misterioso, dolcissimo, anche impercettibile splendore: lo fa bello, e, come nota de Bartillat, moltiplicandolo nelle moltitudini lo fa addirittura divenire « la testimonianza essenziale della civiltà ». Il sorriso dunque. Ma come mai il sorriso è così importante? Dalle parole di de Bartillat parrebbe che davvero esso meriti di essere ritenuto l’espressione massima cui anelare, che sia dunque la manifestazione da raggiungere al sommo della vita: espressione di gioia e di esistenza da poter guadagnare, come non ritenevano affatto i Greci, con le loro tragiche « ombre ». E in verità è proprio così. Ma il motivo per cui questo è il fine dei nostri sforzi: riconsegnarci, col sorriso, nella più perfetta somiglianza raggiungibile, a quella divina Imago del Padre che è il suo Figlio diletto, ecco: il motivo profondo di ciò è che nel Figlio diletto questa divina Imago che ci attende è proprio sorridente. È gioiosamente ab æterno contemplante, nel seno del Padre, l’Essere infuocato d’amore che lo genera. Ma qui da un sorriso, da un semplice moto di muscoli, si è saliti a realtà somme; quasi imperscrutabili: si son tirate in ballo cose come « Trinità », « Figlio diletto », Imago, « somiglianza ». Ed è proprio questo che va fatto: va utilizzato il passaggio aperto da Benedetto XVI con la sua intuizione: il sorriso, « la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione » del mistero di Maria, è per ciò stesso « la porta d’accesso » al mistero della redenzione, e in ultimo quindi al mistero della Santissima Trinità. Sicché, magari con l’aiuto di dottori come Agostino, Bonaventura, Tommaso – per non dire di padri come Atanasio, del Nazianzeno, dell’Areopagita – sarà ben utile spingerci in qualche modo dal sorriso dei bambini fin nel seno stesso della Santissima Trinità: spesso nella Trinità si trovano chiarite le cose più importanti che ci circondano, e, come nota Nicola Bux sul rapporto tra noi e Dio, vi troviamo soprattutto questa verità: « Per capire qualsiasi cosa (della nostra natura) è necessario partecipare della sua natura » (La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, Milano, Piemme, 2008). Dal che si rivela conveniente utilizzare i concetti insegnati in quegli augusti De Trinitate: sono gradini sicuri per quel prudente scalatore che vuole accingersi a superare certe solo apparenti difficoltà e così giungere a importanti conclusioni, a splendidi panorami che proprio « per » e « dalla » loro bellezza gli ridaranno poi più vita. Nella Trinità, allora. Primo gradino. Come mai il Figlio – contemplando in Sé la perfezione paterna – è, se così si può dire, di una « serietà lieta e spiritualmente sorridente »? Lo è perché l’Essere essente che lo genera ab æterno è un Io personale e non un essere astratto: il Padre è una mente-persona che genera il proprio pensiero-persona perché il Padre è, insegnano i grandi dottori con efficace figura, una mente vivente che genera, nella propria spirazione-persona, il proprio eterno pensiero unigenito. Aggiunge Fulgenzio di Ruspe: « Il Verbo che nasce dalla Mente non ha nulla di meno di quanto c’è nella Mente in cui nasce, perché quanta è la Mente del generante, tanto pure è il Verbo (generato) » (Ad Monimum, 3, 7). Nella xii Lectio dell’Ingresso alla bellezza. Fondamenti a un’estetica trinitaria (Verona, Fede & Cultura, 2007) chi scrive illustra le sette più inclite cause per cui l’intelletto « è la letizia di Dio e degli uomini ». Esse provengono tutte dal fatto che « una mente che genera un pensiero è già di per sé qualcosa di lieto perché compie qualcosa per la quale è precisamente preposta », sicché la mente del Padre è da se stessa in immane letizia di vita in quanto semplicemente fa quel che deve fare una mente: genera. Per cui il sorriso, o meglio la letizia, anzi, più ancora, se mi si passa il termine, lo stato di regale « sorridenza », è lo stato d’essere proprissimo della Trinità, allietata di letizia da se stessa medesima nel compimento del proprio eterno, generativo, semplice Actus essendi: l’atto della Mente che pensa se stessa e, di Sé pensandosi, si diletta. Ma se è così, se effettivamente lo status trinitario è di per sé un tale positivo, lieto e ricco modo d’essere, la cosa ci riguarda moltissimo, giacché, come ci assicurano le Scritture, noi – secondo appiglio – siamo chiamati unicamente a somigliare alla Trinità; dunque a conformarci intimamente al suo status di beatitudine, alla « sorridenza » che si diceva. « Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, porteremo anche l’immagine dell’Uomo celeste » (1 Corinzi, 15, 49), porteremo cioè l’immagine di Cristo, il quale, essendo l’immagine del Padre (cfr. Giovanni, 14, 9b), permette a chi gli si conforma di essere immagine del Padre come lui. Infatti « saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è » (1 Giovanni, 3, 2). « E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno Specchio la gloria del Signore (ossia riflettendo nello Specchio che è in Cristo la gloria del Padre), veniamo trasformati in quella medesima Immagine (del Padre, attraverso l’Imago del Figlio) » (2 Corinzi, 3, 18), e così via. Ma se nel nostro sorridere siamo chiamati a uno « stato d’essere » per conformarci allo stato d’essere della vita divina, dobbiamo attuare tale stato già da ora qui sulla terra. Già cioè nella sua costruzione si realizzi il nostro status finale attraverso le pietre da squadrare « ora » per l’edificazione. Proviamo a salire allora un poco più in alto, per altre ardite e auree rampe di questa mirabile scala che entra nella divina « ebbrezza di letizia » toccata per un attimo. Il sorriso offre difatti proprio qualcosa di particolare: nella sua più intima profondità, nel cuore del suo bocciolo, è racchiusa una precisa e speciale qualità divina, che san Tommaso, come d’altronde san Bonaventura, indicano precisamente con uno dei quattro nomi sacri con cui si contraddistinguono aspetti sostanziali dell’Unigenito. Infatti, che cosa nasce dalla mente del Padre dell’essere? Nasce – primo nome – un Pensiero: non un pensiero astratto, alla Hegel; ma reale, sostanziale. Infatti con esso nasce anche – secondo nome – un’Immagine: nasce cioè lo specchio di ciò che il pensiero vede nel Padre, dunque il Pensiero è il Volto del Padre; e non solo nasce un pensiero reale con un suo volto, ma con esso nasce anche – terzo nome – uno Splendore: nasce la qualità che manifesta al Padre ciò che in lui vede e che Egli stesso è: lo Splendore è il canto levato dal Verbum al Padre; e come da uno scrigno aperto – la mente è uno scrigno – gli ori e le ricchezze sprigionano e irradiano luce, candore, chiarezza, fulgore, magnificenza, sfarzo, grandiosità, fasto, sontuosità, bellezza massimi, così pure il Pensiero, l’oro dello scrigno: non solo esso « è » oro, non solo « si vede » che esso è oro, ma anche « abbaglia e irraggia » da oro; infine, quarto e ultimo sacro nome, essendo tutto ciò non da se stesso, ma in quanto generato dal principio, dalla Mente (cfr. Giovanni, 1, 1), l’Unigenito ha nome « Figlio », e « Figlio diletto » perché il Padre si diletta dello splendore irradiato dal volto del proprio pensiero. Notiamo che se il Pensiero non fosse anche Splendore della propria Immagine, ma fosse un pensiero senza volto e senza bagliore (Verbum privo di Imago e privo di Splendor, come in tutte le dottrine gnostiche, hegeliane e orientali), non sarebbe affatto dilettevole, perché non lo si vedrebbe, né se ne potrebbe ricevere l’irradiazione di luce. Ora, qui la scala d’oro su cui ci troviamo si allarga in tre cerchi: utilizzando infatti tre dei quattro nomi (Verbum, Imago, Filius), vedremo che il quarto (Splendor) si fa passaggio, snodo, porta, per mostrare in essi tre somme qualità di Dio: verità, beltà e bontà. Il Padre infatti si diletta del suo Unigenito per tre motivi: « primo cerchio », perché il Verbum che nasce da lui è rilucente di Verità; « secondo cerchio », perché l’Imago che lo rispecchia è circonfuso di abbagliante beltà; « terzo cerchio », perché il Figlio che Egli genera risplende del « tutto sì » a lui Padre con la sua bontà. « È rilucente di verità », « è circonfuso di beltà », « risplende di bontà »: cosa meglio di tre somiglianze per tenere accostate eppur distinte tre qualità così compenetrate tra loro? E come non accorgersi che tutte e tre le somiglianze utilizzano la qualità specifica dello Splendore, che è, come nell’oro, il fatto appunto di comunque risplendere? Ecco perché, per i due dottori, i nomi dell’Unigenito sono Verbum, Imago, Splendor e Filius. E il sorriso, l’espressione della letizia, va associato a quello dei quattro che gli è più analogo: è il suo sostanziale, personale, naturale splendore. Detto ciò, e sapendo che poi si dovrebbero fare sul sorriso – sullo splendore, sulla ricchezza – chissà quante altre, e più alte riflessioni, salire per scale che portano a visioni inusitate, fermiamoci alla considerazione che dunque – già sfolgorante panorama – il sorriso può essere considerato quale prima e sicura fonte di quei tre aspetti che qualificano Dio – verità, beltà e bontà – e da qui qualificano poi il nostro piccolo essere di creature: sia in Dio che nelle sue creature il sorriso è l’uscio della « verità » (la irradia); è la fonte della « bontà » (ne è l’onda); è la sorgente della « bellezza » (ne è la luce). In altre parole il sorriso – ma, diciamo meglio: lo status di letizia o di « sorridenza » – essendo la manifestazione della luce spirituale dell’intelletto, del Lògos, si fa porta alla filosofia, si fa poi varco all’etica e si fa infine fonte dell’estetica: pensiero, condotta e arte fuoriescono tutti e tre da Splendore, sgorgano dal sorriso dell’Essere divino che nelle tre Persone si irraggia a se stesso e, così irraggiandosi e contemplandosi in Sé, vuole poi manifestarsi alle sue creature, generate intelligenti e libere proprio per parteciparle alla contemplazione di tale suo sostanziale vero, bello e buono status d’essere. Ed ecco qui mostrarsi i primi straordinari paesaggi. Attraverso il sorriso, sboccia nel mondo il Pensiero di verità che, disceso in Cristo sulla terra, è il vero Apollo, il Dio della sapienza, pastore e maestro (cfr. Giovanni, 10, 11 e Matteo, 23, 8) sicché, in Lui, possiamo anche tranquillizzarci non solo che « conoscere si può » – lo può Lui, dunque noi in Lui – ma anche che « conoscere si deve »: lui deve farci conoscere il Padre che lo ha inviato (Giovanni, 17, 4), e ancor più possiamo garantirci che « conoscere è bene » – è il nostro fine, a cui il divino Pellicano ci trasporta – perché la conoscenza porta a qualcosa di sicuro: al Padre. Infine possiamo rinfrancarci che « conoscere è bello » perché ciò a cui la conoscenza porta – la Mente-persona del Padre – è sovrabbondantemente dilettevole, ossia non solo la conoscenza non fa perdere il sorriso, come insegnano in ogni dove i relativisti, i maestri del dubbio, i teorici del problematico, ma lo incoraggia, lo irraggia e lo produce essa stessa al massimo. Che il sorriso, l’espressione dell’anima felice, dunque l’espressione con cui l’anima si esprime al massimo grado, sia un fatto così significativo, così ricco di luminose realtà, fa ritenere che anche la sua manifestazione storica e sociale debba essere pure altrettanto piena e ricca. Ciò si vede sfogliando l’arte della cristianità, ma anche le virtù e le opere dei popoli raccolti dalla Chiesa o a essa introduttivi: vi è uno straordinario e incessante spargimento di questo sorriso di « verità », e di « beltà », e di « bontà », nelle culture da cui poi è fiorito il Seme divino e che hanno fatto poi da dimora al Santo dei Santi. La Chiesa, continuazione di Cristo nella storia, sèguita la divina azione del vero Apollo musagete, del vero Conduttore delle leggiadre Muse, a significare la verità mai sufficientemente espressa che l’Arte sempre è condotta dalla Filosofia, buona o cattiva che sia, tanto che proprio nel ii secolo, ai suoi inizi, la Chiesa volle ritrarre il Lògos sia come Apollo giovane e imberbe, a significare l’immediatezza e la semplicità della sua Parola, sia come Filosofo maturo e dalla barba curata, a significare la sua provenienza ab æterno. Ma le muse, le arti con cui la conoscenza (il Lògos) si dona agli uomini, non danzano e avanzano da sole: come si vede dal sorriso nostro e dei nostri bambini, o, che è lo stesso, dalla figura del cristico Apollo che le conduce, si affiancano alla loro destra le ancelle della verità e a sinistra le virtù della bontà. Tutte: muse, ancelle e virtù, portano sul capo i fiori dell’armonia, tutte sono cinte dalla fascia d’oro dell’integrità, tutte sono coperte dai soavi veli della chiarezza. Armonia, integrità e chiarezza vestono anche sulla terra gli splendori della verità, della bellezza e della bontà elargite dalla Chiesa che avanza pacifica nei secoli. Da due millenni pace e bellezza si spargono sulla terra distribuendo il frutto di Dio, la buona Novella, la letizia e la sorridenza della pace con Dio portata da Cristo in ogni generazione. La Chiesa da duemila anni sparge sovrabbondante bellezza dalle fontane della verità, da duemila anni bontà e bontà zampilla dalla sua beltà. Ma quale il motivo per cui nella Chiesa è così profondo questo desiderio di elargizione di fragranza e di positività? Tutto questo armonioso tripudio di miracolosa ricchezza scaturisce unicamente in virtù della divina liturgia, nasce dall’esigenza intima e tutta necessitante della santa Madre di spiegare con amore ai suoi figli il non spiegabile, di dire con benevolenza ai suoi piccoli l’indicibile, di mostrare a tutti con benignità i cieli chiamati tutt’intorno al sacro mistero della presenza reale, nell’ostia consacrata nelle sue chiese. Sì: tutta questa elargizione di splendore soprannaturale ha portato bellezza anche nella civiltà; tutta questa bontà divina ha portato anche tra le nazioni amore, e quell’amore: il perfetto olocausto cruento e visibile compiuto da Cristo sulla croce e rinnovato in memoriam in ogni messa misteriosamente, ma realmente sugli altari ogni giorno nei secoli. Dall’ostia consacrata la virtù dello splendore, celata nella benignità del sorriso che di fondo ha la grazia di Dio verso gli uomini, ha irradiato nelle civiltà, essa solo, quella che Romano Amerio chiama « cristianesimo secondario »: ha irradiato la « verità », la « beltà » e la « bontà » di un sacro lievito che nei secoli ha spinto le nazioni a esprimersi nel sorriso di una religione in primo luogo, certo, divinizzante, ma poi anche portatore di civiltà. E tutto ciò, si badi, in mezzo sempre a percosse, barbarie, difficoltà di ogni tipo, in seno e fuori, similmente al famoso elenco paolino: « Cinque volte ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre fui battuto con le verghe; una lapidato; tre naufragato; una notte e un giorno nell’abisso; (…) e oltre tutti questi mali esteriori il cruccio quotidiano che su me incombe, la cura di tutte le Chiese » (2 Corinzi, 11, 24-25; 28), e ciò a ricordare che verità, beltà e bontà, in una parola il sorriso, non sono di questo mondo, ma si ottengono per grazia – da Paolo o dalla Chiesa – solo dalla divina elargizione posta nella croce. Anche nella nostra epoca, come già parve il fuoco di Alarico ad Agostino, sembra che bruttezza e barbarie abbiano corroso la conoscenza della bellezza, osteggiato la spinta all’adorazione, frantumato la pace della verità. Come già san Paolo, la Chiesa – e in essa la cristianità fin nei più indifesi e inermi suoi piccoli – sembra ancora una volta dover far fronte a forze superiori, accerchiata dalle espressioni più combattive di quella che Romano Amerio chiama « la dislocazione della divina Monotriade »: la precessione dell’amore, della tecnica, dell’azione, sulla conoscenza e sul Verbo. Nelle città, in quelli che oggi vengono chiamati burocraticamente « agglomerati urbani » – in verità prigioni al contrario – bruttezza chiama bruttezza, degrado e incuria moltiplicano degrado e incuria: i criminologi Wilson e Kelling dimostrano, con la teoria delle broken windows (finestre rotte), che insipidità e bruttezza materiali contagiano gli spiriti, straripano dai corpi alle anime, invadono non solo quartieri apocrifi e città, ma, col loro fascino drogato, con le loro contagiose perversioni, infettano i loro abitanti instillando nei cuori, con la trasformazione delle macerie in asocialità, disordine e dispersione morale. Dov’è più il sorriso sui volti dei ragazzi e dei muri lasciati in rovina? Dov’è mai la relazione, se nelle città sono infranti sotto tutti gli aspetti l’unità, l’armonia e lo splendore su cui si fonda ogni relazione? Se nelle cose viene rotta la possibilità di comunicare, il passaggio di questa frattura ai cuori – almeno ai più fragili – è, per i due criminologi, scontato. Però: tanto è vera la teosi funesta delle « finestre rotte », tanto più lo sarà, in forza della spinta alla positività impressa loro, come visto, dalla santissima Trinità, la sequenza contraria delle « finestre riparate », giacché armonia chiama armonia, levatrice della bontà è la bellezza, l’arte contagia l’etica. Per non dire poi quale motore sia (sarebbe, specie ora) allo sviluppo sociale ed economico, fare le cose belle invece che sciatte. La Chiesa è una madre che mai rigetta la sua natura di madre, e alle anime che, sparse per le strade e le piazze degli immensi « non luoghi » di Marc Augé, si ricordano di lei, essa risponde con amorosa sollecitudine come sempre ha risposto. E nemmeno attende che quelle anime, chiuse nei volti cosificanti delle periferie incasermate, si ricordino di lei, si volgano alla sua bontà di Madre, ma va ella stessa premurosa per prima a loro; e lei per prima chiama a sé chi sempre l’ha coadiuvata nella sua opera di evangelizzazione e nella sua spinta alla santificazione: letterati, artisti, teologi, architetti, filosofi, asceti, musicisti, educatori, poeti, accorrono tutti gli uomini che, vedendo l’invisibile irradiarsi potente dall’ostia consacrata, hanno imparato cosa dire su verità, bellezza e bontà.
(L’Osservatore Romano 30 settembre 2009)