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IL MONDO È « VESTIGIO DELLA SAPIENZA DI DIO » – BONAVENTURA DA BAGNOREGIO

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IL MONDO È « VESTIGIO DELLA SAPIENZA DI DIO » – BONAVENTURA DA BAGNOREGIO

Il libro della natura

Bonaventura da Bagnoregio
1273
da Collationes in Hexämeron, XII, 14-17 – XIII, 12

Rifacendosi implicitamente alla visione del libro in Ap 5,1 e forse di Ez 2,9, per Bonaventura la natura, ovvero la creatura sensibile, è un libro scritto fuori; le creature razionali, sono un libro scritto dentro, perché posseggono una coscienza; la Sacra Scrittura è un libro scritto sia dentro (significati impliciti da trarre), sia fuori (significati espliciti). Questi sono i tre “aiuti” mediante i quali la ragione e la fede ascendono alla contemplazione delle idee esemplari del Creatore

14. Sia la ragione sia la fede conducono alla considerazione di questi splendori esemplari, ma vi è anche un ulteriore triplice aiuto per raggiungere le ragioni esemplari; ed è l’aiuto della creatura sensibile, l’aiuto della creatura spirituale, e l’aiuto della Scrittura sacramentale, che contiene i misteri. Riguardo al mondo sensibile, tutto il mondo è ombra, via, vestigio; ed è il libro scritto di fuori. Infatti in ogni creatura rifulge l’esemplare divino; ma rifulge permisto alla tenebra; ed è come una certa opacità mista alla luminosità. Inoltre tutto il mondo è anche una viache conduce nell’esemplare. Come tu puoi osservare che un raggio di luce che entra attraverso una finestra viene diversamente colorato a seconda dei diversi colori delle diverse parti; così il raggio divino rifulge in modo diverso nelle singole creature e nelle diverse proprietà. È detto nella Sapienza: Nelle sue vie si manifesta [Sap 6,16]. Ancora, il mondo è vestigio della sapienza di Dio. Onde la creatura non è che un certo simulacro della sapienza di Dio, e quasi una certa scultura. E da tutto questo il mondo risulta come un libro scritto al di fuori.
15. Quando, dunque, l’anima mira queste cose, le sembra che si dovrebbe passare dall’ombra alla luce, dalla via alla meta, dal vestigio alla verità, dal libro alla vera scienza che è in Dio. Leggere questo libro è possibile solo agli uomini di altissima contemplazione; ma non è possibile ai filosofi naturali, che conoscono solo la natura delle cose; ma non la riconoscono come vestigio.
16. Altro aiuto per raggiungere l’esemplare eterno, è offerto dalla creatura spirituale, che è come lume, come specchio, come immagine, come libro scritto all’interno. Infatti, ogni creatura o sostanza spirituale è lume; onde è detto nel Salmo: Risplende su di noi, Signore, la luce del tuo volto [Sal 4,7]. Ma assieme a questo, la sostanza spirituale e anche specchio, perché accoglie e rappresenta in se stessa tutte le cose; ha poi anche la natura del lume, affinché giudichi anche intorno alle cose. Infatti tutto il mondo si descrive nell’anima. Inoltre, la sostanza spirituale è anche immagine dell’esemplare eterno; poiché, infatti, è lume e specchio che raccoglie le immagini delle cose, per questo è anche immagine. Infine, come conseguenza di tutto questo, la sostanza spirituale è anche il libro scritto all’interno. Onde nessuno e nessuna cosa può entrare nell’intimità dell’anima, tranne il semplice. Questo poi significa entrare nelle potenze dell’anima; perché, secondo Agostino [De Trinitate, XII, 1, 1], l’intimità dell’anima è la sua sommità; e quanto una potenza è più intima, tanto più è sublime. Questi aiuti li hanno anche i maghi del Faraone.
17, I maghi del Faraone non ebbero però il terzo aiuto, che è quello della Scrittura sacramentale. Ora, tutta la Scrittura è il cuore di Dio, la bocca di Dio, la penna di Dio, il libro scritto fuori e dentro. È detto nel Salmo: Effonde il mio cuore liete parole, io canto al re il mio poema. La mia lingua è stilo di scriba veloce [Sal 44,2]. Dove tutto viene indicato: il cuore è di Dio; la bocca è del Padre; la lingua è del Figlio; lo stilo è dello Spirito santo. Infatti, il Padre parla per mezzo del Verbo o della lingua; ma chi porta a compimento e lo affida alla memoria è lo stilo dello scriba. La Scrittura, dunque, è la bocca di Dio; onde Isaia rimprovera: Guai a voi!… Siete partiti per scendere in Egitto [Is 30,1-2]. Cioè, vi dedicate alle scienze mondane, e non avete interrogato la bocca di Dio [Is 30,2], cioè non interrogate la sacra Scrittura. Infatti, non deve taluno rifugiarsi e confidare nelle altre scienze per conoscere la verità con certezza, se non ha la testimonianza a monte; cioè la testimonianza di Cristo, di Elia, di Mosè; la testimonianza cioè del nuovo testamento, dei profeti e della Legge. Inoltre, la Scrittura è la lingua di Dio; onde si dice nel Cantico: C’è miele e latte sotto la tua lingua [Ct 4,11]; e nel Salmo: Quanto sono dolci al mio palato le tue parole; più del miele per la mia bocca [Sal 118,103]. Questa lingua dà sapore ai cibi, onde questa Scrittura è paragonata ai pani, che hanno sapore e ristorano. Ancora, la Scrittura è la penna di Dio, e questi è lo Spirito santo. Poiché, come chi scrive può attualmente scrivere le cose passate, le cose presenti, e le cose future; così sono contenute nella Scrittura le cose passate, le cose presenti e le cose future. Onde la Scrittura è il libro scritto al di fuori, perché contiene belle narrazioni storiche e ammaestramenti sulle proprietà delle cose. Ed è anche il libro scritto all’interno, perché contiene misteri e letture diverse.
È certo che l’uomo non decaduto aveva cognizione delle cose create, e, mediante la loro rappresentazione si portava in Dio per lodarlo, venerarlo, amarlo. Per questo sono appunto le creature, e pertanto così si riconducono in Dio. Ma l’uomo, decadendo a causa del peccato, perdette questa cognizione e non vi era più chi riconducesse le cose in Dio. Onde questo libro, cioè il mondo, era come morto e cancellato. Si rese pertanto necessario un altro libro, mediante il quale il libro del mondo fosse illuminato, e che accogliesse le metafore delle cose. Ora la Scrittura è proprio questo libro che pone le similitudini, le proprietà e le metafore delle cose, scritte nel libro del mondo. Pertanto, il libro della Scrittura è restauratore di tutto il mondo, per conoscere, lodare e amare Dio.

Bonavenutura da Bagnoregio, Collationes in Hexämeron, tr. it.: La sapienza cristiana. Le collationes in Hexaemeron, a cura di V. Cherubino Bigi e I. Biffi, Jaca Book, Milano 1985, pp. 175-177, 183-184

IL CRISTO-LOGOS VISTO DALLA FILOSOFIA

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IL CRISTO-LOGOS VISTO DALLA FILOSOFIA

Monza, 11 dicembre 2007

Prof. Roberta De Monticelli, docente di Filosofia della persona presso la Facoltà di Filosofia Vita-Salute san Raffaele di Milano.

Il tema che mi è stato proposto è certamente molto elevato rispetto al semplice piano della filosofia e quindi lo tratterò insieme a voi « contemplando e divagando », partendo dalla materia che insegno nella facoltà di filosofia del S.Raffaele di Cesano Maderno, « Filosofia della persona », che non è proprio molto vicina alla teologia. Anzi, mi permetto di segnalarvi un volume appena uscito di una collana che sto curando presso l’editore Bruno Mondatori: La religione della ragione (quindi del Logos) di Marco Tannini. Tannini è forse il più noto studioso in Italia di mistica, specie medievale (su Meister Eckhart, 1260-1327 ca.). Mi permetto anche di segnalarvi un mio libretto, che mi ha fatto conoscere e avvicinare tanti nuovi amici, Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani (Baldini Castaldi Dalai editore).
Comincerò la conversazione in maniera poco usuale per un tema così arduo come quello di questa sera, leggendo in maniera fedele (secondo le mie possibilità) il Cantico di Frate Sole di Francesco d’Assisi.

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione..
A Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu Te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et jocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore
et sostengo infermitate et tribulatione.

Beati quelli ke ‘l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’ mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.

Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

E’ il primo canto della natura della nostra letteratura, il canto della bellezza di tutte le creature – a cominciare dalle più umili come l’acqua, la terra -, della bellezza del paesaggio e degli elementi che lo compongono, che vengono contemplati e presentati attraverso aggettivi che li illustrano in maniera vivace come « robustoso », « forte », « umile », « preziosa », ecc. Aggettivi e qualità che mettono in luce « la bellezza » delle creature, il loro splendore, il loro « valore », per cui esse sussistono dinanzi a Dio. Un valore « gratuito », indipendente dalla loro utilità nei nostri confronti, dato per la nostra gioia, per la nostra felicità. Le cose belle rendono felici « gratuitamente », per se stesse, per la loro stessa bellezza.
E’ proprio questo valore, la bellezza, che, nel contemplare ciò che ci sta dinanzi, ci fa andare non « contro » ma « oltre la ragione ». Essa « fiorisce per fiorire, che tu la guardi o meno » (A. Silesio, 1624-1677). La bellezza fiorisce nelle cose « immotivatamente », senza dipendere dal nostro sguardo, « oltre ogni ragione e motivazione ». I primi biografi di Francesco notavano che egli era particolarmente felice quando poteva fare qualcosa « contro o al di là del buon senso » comune. Era la felicità gratuita, « oltre la ragione », quella « perfetta letizia » per la quale – notava Tommaso da Celano (ca.1190-ca.1260), suo primo biografo – i suoi frati non dovevano mai « mostrarsi tristi » in qualsiasi circostanza.
Tannini collega questa « perfetta letizia » alla « perfetta obbedienza », intesa sia come spoliazione del proprio egoismo, sia (e soprattutto) come « totale fiducia » nell’amore di Dio. Francesco ricorreva all’esempio del cadavere, che si lascia porre dappertutto senza fare alcuna osservazione, che sia coperto di porpora o di stracci non farà alcuna osservazione: « costui è il vero obbediente ». Come si vede, Francesco sa usare anche l’arma dell’ironia e del paradosso.

Un’intelligenza nuova
Che cosa c’entra tutto questo col Cristo-Logos, il tema di questa sera? Ovviamente il termine logos ci ricorda lo sviluppo della filosofia greca e il suo influsso nel formarsi della prima teologia cristiana, ma soprattutto ci ricorda il mistero del « Logos fatto carne », ricordato da Benedetto XVI nel celebre discorso di Ratisbona come punto di un incontro tra messaggio cristiano e cultura greca. Per inciso, questo accostamento non mi trova completamente d’accordo perché il logos della cultura greca si trova sviluppato nella teologia delle altre due religioni abramitiche, l’ebraica e l’islamica, a indicare « l’oltre » rispetto alla ragione, la « trascendenza assoluta ». Il « Logos cristiano » non è il logos di Aristotele, di Platone o dei neoplatonici. Già nei primi Padri viene affermata l’impossibilità di esprimere Dio con qualsiasi categoria razionale. Dio non può « essere compreso ». « Solo l’empio può dire: Dio è un ente » – afferma Meister Eckhart – appunto perché Dio è sempre « oltre » rispetto a qualsiasi ente.
La trascendenza di Dio da Platone ad Anselmo d’Aosta, a Tommaso d’Aquino, a Kant impedisce alla ragione di parlare di Lui in maniera esaustiva. Quando parliamo di Dio, praticamente parliamo di noi stessi, diceva Gabriel Marcel (1889-1973). Quando parliamo di Logos secondo il pensiero greco, attribuendolo a Dio, parliamo di un « Pensiero dell’impensabile » che si accorda più alla teologia ebraica e islamica che a quella cristiana. Per questo non sono tanto d’accordo col discorso di Ratisbona.
Il messaggio cristiano ci presenta, invece, un Logos che si manifesta, si rivela, anzi « si incarna », diventa un volto, una persona. Ma con questo non si può dire che la trascendenza e il mistero vengano superati o eliminati, anzi la ragione rimane ancora più spiazzata. Qui ci viene in aiuto Francesco col suo Cantico col quale abbiamo iniziato la nostra riflessione. Esso ci rivela « un’intelligenza nuova » che si accosta alla natura, all’esistenza, al senso della vita, al mistero, con una sensibilità nuova, attraverso « la bellezza » e la gratuità con cui si entra in comunione con la realtà in se stessa, compreso il mistero divino. La fenomenologia, la corrente filosofica entro la quale mi muovo più a mio agio, sottolinea come Francesco rappresenti « un’intelligenza nuova », una spiritualità capace di penetrare « l’intelligenza dell’incarnazione », che è lo specifico dell’intelligenza cristiana, chiamata a superare il dualismo tra spirito e carne, con quel disprezzo della carne proprio delle correnti gnostiche, anche contemporanee, che contrappongono l’uomo e lo spirito al mondo e alla materia con una svalutazione completa di questi ultimi. Buona parte della filosofia moderna non ha valutato pienamente o ha guardato con sospetto tutto ciò che « cade sotto i sensi » e, di conseguenza, ogni esperienza sensoriale. Da Cartesio al razionalismo è stato questo l’atteggiamento prevalente nella filosofia moderna. Ancora oggi sono quasi prevalenti gli atteggiamenti filosofici tendenti a svalutare « ciò che appare » anche a costo di andare contro il comune « buon senso ».

Bellezza e gratuità
Come fa un mistero a produrre « intelligenza nuova »? Come fa Francesco a guardare il mondo con « un’intelligenza nuova »? Questo tipo di intelligenza ancora oggi stenta a dare i suoi frutti; infatti, la cultura attuale ha difficoltà a superare i condizionamenti del « sospetto » nei confronti dell’esperienza della natura. Solo negli ultimi tempi si è affacciata nell’orizzonte della filosofia una corrente che intende valorizzare « ciò che appare ». Ciò che viene accostato attraverso l’esperienza ci rivela un aspetto, una sfumatura, una qualità della realtà, un valore. E’ quanto sostiene la fenomenologia contemporanea. Essa mette in evidenza la varietà e la complessità dei valori e delle qualità della nostra esperienza: alcuni utili e strumentali, altri completamente « gratuiti », fruibili per se stessi, come i valori estetici, legati alla « bellezza » della natura e degli esseri, che devono essere contemplati per se stessi, senza una motivazione razionale, che vanno, cioè, « oltre la ragione ». A questo punto ci si domanda se questi valori siano in grado di darci quella « intelligenza nuova » che ci faccia comprendere quanto di mistero comporti il mondo e la realtà. E’ la domanda che si poneva Simone Weil (1909-1943): « I misteri della fede non sono oggetto dell’intelligenza, non sono nell’ordine della verità, ma al di sopra di esso ». La facoltà che ce li fa accostare è « l’amore soprannaturale » allo stesso modo che « una musica particolarmente bella » impone silenzio e comunica l’intelligenza di una verità, un mistero, altrimenti incomunicabile. Sono silenzi che « permettono all’anima di afferrare delle verità, che altrimenti rimarrebbero per sempre nascoste ». « Ci sono delle verità che non possono essere accostate se non attraverso questo silenzio ». E’ quello che Simone Weil chiama « l’intelligenza dell’amore » che opera « oltre » (non contro) la ragione.
Max Scheler (1874-1928), parlando di Francesco, in Essenze e forme della simpatia scrive che questo chiamare « fratello » e « sorella » gli elementi della natura costituisce « un’espansione dell’amore di Dio » a tutta la natura attraverso l’amore dell’uomo, che a sua volta eleva la natura verso la luce del soprannaturale. Queste affermazioni, continua Scheler, potevano allora sembrare « un’eresia », in un contesto culturale, anche teologico, dominato ancora dal dualismo tra spirito e materia, tra natura e soprannatura. Nel Cantico di Francesco Scheler vede « l’intelligenza nuova » dell’Amore, di cui parla Dante e che in seguito diventerà, sia pure molto lentamente, intelligenza comune, senso comune, sensibilità simbolica, senza la quale la nostra vita quotidiana si ridurrebbe a ben misera cosa. Abbiamo la fortuna di vivere in un ambiente segnato dalla bellezza, viviamo in una « foresta di simboli » che arricchisce non la nostra intelligenza concettuale ma « l’intelligenza dei nostri sensi ». Con Francesco non c’è più bisogno di passare attraverso l’allegoria per dare valore al sensibile; la realtà sensibile manifesta per se stessa il soprannaturale: « de Te porta significatione » dice Francesco. Alano di Lilla (tra 1114 e 1128 – 1202), della scuola di Chartres diceva: « Omnis mundi creatura, quasi liber et pictura nobis est » (Ogni creatura del mondo per noi è come un libro e una pittura). Le creature costituiscono una continua « rivelazione ». Siamo dinanzi a un’espressione di quella « teologia simbolica » di cui parlava nell’Alto Medioevo lo pseudo-Dionigi, secondo il quale, vista l’impossibilità di concettualizzare il divino, esiste una conoscenza di Dio più alta e perfetta, ottenuta per mezzo della « teologia negativa » (o teologia apofatica).
Del resto è Dio stesso che si rivela « facendosi carne » e volto umano. L’esperienza sensoriale e, in maniera privilegiata, l’esperienza estetica ci rivelano in maniera immediata quello che per la ragione è « indicibile », impossibile da esprimere in concetti, quello che per la ragione si colloca « oltre ».
La fenomenologia contemporanea, la parte della filosofia che oggi cerca di studiare e valorizzare questa essenza, mi sembra il terreno nuovo in cui si cimenta la ragione e che può dare un contributo positivo anche alla teologia. Sono parecchi i teologi che vengono da questa scuola o che guardano ad essa con molto interesse. D’altra parte anche la teologia può arricchire con questa « intelligenza nuova » la filosofia contemporanea indipendentemente dalla fede e dalla sua accettazione.

Pensare a mani nude
L’ultima espressione del Cantico di Francesco è « humilitate ». La cultura del rispetto, la cultura dell’umiltà (che la filosofia, purtroppo, non ha mai avuto), quel delicato sentimento » che « prolunga ogni cosa nell’invisibile » (sono ancora espressioni di Max Scheler) fanno parte di quell’esperienza che ci mette direttamente in contatto con il divino, con « l’oltre », con l’indicibile. « L’umiltà apre l’occhio dello spirito a tutti i valori del mondo », ci fa vedere come « tutto è dono » e non semplicemente « un dato ». Per la filosofia si offre una nuova dimensione, quella della « estensione » sulla realtà, che la rispetta e la contempla prima di « parlarne ». Occorre che il filosofo vesta « i panni della povertà » e che « ricominci da capo » a « pensare a mani nude ». Ho iniziato con i versi di Francesco, termino con quelli di Dante su Francesco e madonna Povertà:

Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor concordia e i lor lieti sembianti
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno cagion di pensier santi.
(Paradiso, Canto X)*

* Testo non rivisto dall’autore. Ci scusiamo per eventuali errori ed omissioni.

 

LA “MALATTIA” DEL PLATONISMO NEI PADRI (anche Paolo)

http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/commentipadri/Platonismopadri1.htm

LA “MALATTIA” DEL PLATONISMO NEI PADRI (anche Paolo)

Il titolo è volutamente provocatorio. Il Platonismo è stato una grande filosofia che ha animato molte persone e ispirato generazioni di studiosi. Non si vuole criticare la dottrina platonica in sé, dunque, ma rivolgersi con un poco d’ironia a coloro che, sostenendo la soggiacenza del pensiero patristico al Platonismo, alla fine lo relegano in quest’ultimo come se ne fosse un’appendice. Oltre che contrario alla realtà dei fatti, questo modo di pensare è molto pericoloso per dei cristiani: il Platonismo e i Padri – non più visti come testimoni di fede ma come quasi prosecutori di una filosofia – verrebbero inevitabilmente relegati al passato, dal momento che il pensiero filosofico odierno è ben distante dal Platonismo. È ovvio che i fondamenti delle dottrine platoniche non sono conciliabili con quelle cristiane. Ritenere che vi siano dei cristiani-platonici significa, quindi, ritenere che il loro Cristianesimo sia in un certo senso “malato” di platonismo, data l’inconciliabilità delle due realtà. Si afferma ciò, nonostante l’esistenza di una certa sicura influenza platonica in qualche autore cristiano (influenza decisamente più evidente e corposa nei seguaci delle correnti ereticali). Per quanto riguarda i Padri in genere, si nota che, pur utilizzando il vocabolario platonico, essi non trasmetterebbero reali dottrine platoniche. I Padri vogliono portare i loro lettori in una direzione totalmente differente da quella dei platonici e il metodo argomentativo da loro adottato non è puramente filosofico ma spirituale. (Sarebbe necessario evidenziare la differenza tra questi due metodi ma, per il momento, la diamo per scontata). Facciamo un rapido ma attento excursus assumendo come termine di paragone per la nostra indagine, un tema antropologico (non si può scegliere simultaneamente altri temi altrimenti saremo obbligati a fare una tesi di laurea cosa che nessuno ci può chiedere!). Il tema di confronto prescelto è il modo di considerare il corpo e l’anima. Questo tema ci permette di delimitare il campo segnalando determinate problematicità e l’eventuale chiara influenza di concetti di ordine platonico. Data la sede siamo obbligati ad essere più sintetici possibile sapendo bene che questo comporta il rischio di una certa sommarietà.   CORPO E ANIMA NELLA DOTTRINA PLATONICA Nella dottrina platonica emerge evidente la superiorità dell’anima rispetto al corpo, realtà addirittura da disprezzare dal momento che è una distrazione per l’anima.  “E allora quand’è […] che l’anima tocca la verità? Che se mediante il corpo ella tenta qualche indagine, è chiaro che da quello è tratta in inganno. […] E dunque non è nel puro ragionamento, se mai in qualche modo, che si rivela all’anima la verità? – Sì. – E l’anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso, intende con ogni suo sforzo alla verità. – È così. – Non dunque anche in questa ricerca l’anima del filosofo ha in dispregio più di ogni altra cosa il corpo, e fugge da esso, e si sforza anzi di essere tutta sola raccolta in se stessa? – È chiaro” (Fedone, X).  Nel Fedone si sviluppa pure la linea del ‘corpo come prigione dell’anima’. Il corpo è la ‘vera prigione’: È dunque compito dell’anima liberarsi dal corpo, come da catene. La morte è lo ‘scioglimento’ dell’anima dalle sue catene.  “E quella parola che si ode pronunciare in certi misteri, che noi uomini siamo come in una specie di carcere, e che quindi non possiamo liberarcene da noi medesimi e tanto meno svignarcela” (Fedone, VI). Evidentemente non si può riassumere l’antropologia platonica solo in questi due elementi. Mi pare, però, corretto evidenziare che, in ciò, esistono profonde differenze con la primitiva dottrina cristiana, nonostante si riscontri in essa la presenza di risonanze platoniche (ma anche aristoteliche, stoiche, ecc.). Avremo modo di accennarvi rapidamente.   CORPO E ANIMA NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO Nell’epistola ai Romani (7, 24), san Paolo prorompe in un’incredibile domanda che s’imprime negli ascoltatori per la sua particolare forza:      “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”.  L’apostolo aveva appena affermato che con la sua interiorità segue il Vangelo di Cristo ma con il suo corpo la legge del peccato. Sembrerebbe che in quest’espressione esista una profonda parentela, se non un’identità, con quanto affermato nella dottrina platonica: il corpo è un peso, un ostacolo per l’anima! Sembrerebbe che vi sia un concetto duale di uomo, anima e corpo, in cui la prima viene oppressa dal secondo. Nonostante ciò le “somiglianze” non ci devono trarre in inganno. Infatti è celebre il famoso passo in cui san Paolo, predicando la resurrezione del corpo, viene dileggiato e abbandonato dagli uditori pagani (At 17,32). Per il mondo pagano, intriso di platonismo, un corpo che risorge e vive in eterno finisce per essere un’eterna prigione dell’anima! È viva, dunque, la differenza tra l’antropologia del Cristianesimo primitivo (di fatto erede del monismo antropologico semitico dove l’uomo è un’unità di corpo, anima e spirito) e quella pagana. “Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyché né al pneyma come ad una facoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica” (G.S. ROMANIDES, Il peccato originale secondo san Paolo).È evidente che per il Cristianesimo primitivo la carne non può essere un male, dal momento che il Figlio di Dio la assume e la strappa alla morte con la sua resurrezione. San Paolo, tuttavia, sa che è indebolita dal momento che in essa vi dimora parassitariamente il peccato (cfr. Rom 7, 17-18), l’inclinazione al male. Ma nel contesto paolino la malattia e la corruzione non riguarda solo la carne ma pure l’anima che non è una realtà sana in se stessa. Cristo giunge per l’una e l’altra portando la sanità nell’uomo intero. Questo è, ancora una volta, un fondamentale elemento di differenza con il mondo pagano.    CORPO E ANIMA IN AGOSTINO D’IPPONA Il vescovo d’Ippona, Aurelio Agostino, che così tanto ha influito nel pensiero occidentale nel corso dei secoli, evidentemente confessava con san Paolo la resurrezione della carne. Agostino in un primo tempo conobbe l’eresia dei manichei e un suo capo, il vescovo Fausto, contro il quale scrisse un trattato in difesa del Cristianesimo. È noto che i manichei avessero un’idea molto negativa del corpo considerandolo un male in sé. Essi evitavano accuratamente anche le relazioni sessuali. Agostino combatté i manichei ma la sua idea assai negativa della sessualità finì per allungare un’ombra anche sul senso e il valore del corpo. “Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce (1Gv 1,5), non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione?” (De Trinitate, 8,2). Dal passo citato è evidente che ci sono delle risonanze che riportano alla memoria le credenze platoniche. Quello che si nota in questo passo è l’insistenza sul corpo soggetto alla corruzione per il “glutine della passione?, mentre l’anima non pare essere luogo in cui vi può essere malattia. Essa, addirittura, sarebbe in grado di cogliere subitaneamente il concetto di “verità” ed è oscurata in questa sua capacità solo dai limiti che il corpo, con le sue pulsioni animali, le impone. In un altro passo la spiccata fobia per il sesso di Agostino porta il lettore a concludere che l’aspetto corporeo nell’uomo è una cosa negativa in sé: “Quanto a me, penso che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate. Penso che nulla avvilisca l’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio” (Soliloquia, 1, 10).  Le posizioni sul corpo in Agostino che questi due passi fanno intuire, sono mirabilmente sintetizzate nelle seguenti parole:  “L’impianto generale della filosofia agostiniana è quello platonico. Agostino stesso dichiara ripetutamente di appartenere alla ‘setta’ (scuola) dei platonici. Questo vale anche per l’antropologia, che rimane sostanzialmente di stampo platonico, anche se con qualche notevole variazione (rapporti tra anima e corpo, dottrina della illuminazione, importanza del fattore volitivo, ecc.). Agostino è contrario a ridurre – come fa Platone – l’uomo all’anima […]. Tuttavia nei confronti del corpo Agostino ha la stessa diffidenza e disprezzo che aveva manifestato Platone […]: ‘E affinché l’anima sia meno ostacolata nell’aderire tutta al tutto della verità, la morte è desiderata come definitiva ricompensa, in quanto fuga totale e liberazione dal corpo’ (De quantitate animæ 33, 76)” (B. MONDIN, L’uomo secondo il disegno di Dio, p. 51-52).  È evidente che, nonostante le molte precisazioni cristiane (come, ad esempio, quelle presenti nella polemica contro i platonici in La Città di Dio, XXII, 11), l’antropologia agostiniana alla fine subisce una pesante influenza di ordine platonico dove corpo e anima si contrappongono suggerendo che la salvezza cristiana si realizza solo con la fuga dell’anima dal corpo. Questo elemento si ripercuoterà portando ad un certo disprezzo della carne, cosa che caratterizzerà ogni ambiente cristiano che acriticamente si legherà al pensiero del vescovo ipponate esaltandone alcuni aspetti decisamente critici.   CORPO E ANIMA IN DIONIGI L’AREOPAGITA La visione dell’uomo che anima Dionigi è quella di un uomo totalmente trasfigurato (corpo e anima), “deificato”, termine che Agostino non usa mai. Per Dionigi questa visione teologica non è teoria, speculazione filosofica astratta o plagio da autori pagani. Per questo egli ammonisce severamente:  “Perciò coloro che temerariamente rivelano gli insegnamenti divini prima di avervi conformato la propria condotta e la propria vita, sono empi e completamente estranei alla santa legislazione” (DIONIGI AREOPAGITA , La Gerarchia ecclesiastica, III, 14).  In questo senso, è interessante osservare come Massimo il Confessore descriva Dionigi:  “Come uno specchio non offuscato da alcuna macchia di passioni, [le parole di Dionigi] avevano la forza di comprendere e di esporre chiaramente ciò che gli uditori non potevano neppure percepire”. (MASSIMO IL CONFESSORE, Mistagogia, Proemio).  Questo dimostra che le osservazioni di Dionigi attorno all’uomo e alla sua deificazione non sono il frutto di un’ardita operazione intellettuale, di un ingegnoso “incastro” tra Cristianesimo e Platonismo ma nascono prima di tutto da una percezione di tipo interiore, da un dono divino. Quello che sta al centro dell’opera di Dionigi, seppure vi siano risonanze di tipo platonico, è la realtà della Grazia che cambia la visione e i ragionamenti sull’uomo. In altri termini Dionigi non osserva l’uomo con gli occhiali dell’ideologia platonica ma dal pinnacolo della contemplazione divina. Questo aspetto per uno studioso di oggi può passare completamente inosservato ed è per questo che l’unica conclusione alla quale egli può giungere è quella di ritenere il lavoro di Dionigi un incontro più o meno riuscito tra concetti cristiani e concetti platonici.

Tuttavia, se si pone sul banco di prova la definizione di Dionigi come platonico, osservando i suoi scritti da un semplice punto di vista tematico, i “conti” non tornano.

Infatti, secondo la filosofia ellenistica, l’anima è illuminata dalla gnosi, con la quale è rimandata al suo stato originario. L’anima non necessita assolutamente di un rinnovamento ontologico o di una trasfigurazione operata da un Dio incarnato, né è necessario superare uno stato di “peccato”. Nella mentalità degli antichi filosofi ellenisti Dio e il “nuovo uomo” si raggiungevano tramite la gnosi, la conoscenza e la contemplazione intellettuale. Viceversa, nell’insegnamento cristiano Dio non è mai essenzialmente raggiungibile dall’intelletto e la rivelazione spirituale oltrepassa ogni capacità di conoscenza umana.  Se non si ha presente questi fondamenti, è facile equivocare ritenendo che il Cristianesimo patristico a cui Dionigi appartiene, soggiace a categorie platoniche. Ma possiamo anche fare una verifica diversa interrogando direttamente un autore cristiano dei primi secoli cristiani. Avremo una risposta inequivocabile. Giustino, il quale sempre per una pessima semplificazione viene denominato “il primo cristiano platonico”, confessa:  “Decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città, che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno facevo progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere divenuto un saggio e coltivavo la sciocca speranza di giungere alla immediata visione di Dio. Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone” (GIUSTINO, Dialogo con Trifone, II, 6, 91). La differenza sui fondamenti è evidente ed è proprio quella ad opporre Giustino ai Platonici. Anche per Dionigi possiamo trarre le medesime conclusioni: per quanto usi un linguaggio affine al mondo platonico, non aderisce al Platonismo ma al Cristianesimo. Per questo non lo si può definire “platonico”. D’altronde, la sua antropologia lo dimostra chiaramente, seppure non sia trattata in modo sistematico e si possa rinvenire qua e là all’interno delle sue opere. Un concetto di anima santa e di corpo puro non è assolutamente propria al platonismo eppure è fermamente confessata da Dionigi: “Le anime sante che in questa vita potevano lasciarsi andare all’inclinazione verso il peggio, nella resurrezione avranno uno stato divinissimo e immutabile; d’altra parte, i corpi puri che hanno la stessa condizione e le stesse vicissitudini delle anime sante, che sono stati arruolati insieme e insieme hanno combattuto in divine fatiche, riceveranno la propria risurrezione nella stabilità immutabile delle anime riguardo alla vita divina. Infatti, i corpi, dopo essersi uniti alle sante anime con le quali erano uniti durante questa vita, resi come membra di Cristo, riceveranno una quiete divina, incorruttibile, immortale e beata” (DIONIGI AREOPAGITA, Gerarchia Ecclesiastica, 1. 552D-B). Che Dionigi sia assolutamente contro coloro che, come pure gli gnostici, partono da una concezione negativa della materia, lo si nota qualche riga oltre:  “Altri, poi, attribuiscono alle anime la possibilità di congiungersi con altri corpi [non materiali], commettendo ingiustizia, io credo, per quanto sta in loro, verso i corpi che hanno sofferto con le loro divine anime e rifiutando empiamente le sacre ricompense ai corpi che sono giunti al termine delle corse divinissime” (Ib., 556C). In questi significavi passi Dionigi qualifica l’anima con il termine di “santa”, “divina” e il corpo con quello di “puro”. A monte di queste qualificazioni sta evidentemente la dottrina cristiana per la quale né il corpo né l’anima sono santi in sé ma vengono resi santi e puri dalla purificazione, illuminazione e divinizzazione per Grazia. Questo concetto di “redenzione totale” operata da Dio, redenzione dell’anima e del corpo, è chiara in Dionigi: “Se infatti il defunto nell’anima e nel corpo ha passato una vita cara a Dio, il suo corpo meriterà di essere associato agli onori dell’anima santa con cui ha diviso il combattimento e i santi sudori. Allora la divina giustizia dà in dono all’anima, insieme con il proprio corpo, un riposo adeguato ad esso, in quanto compagno e compartecipe della vita santa o di quella contraria. Perciò la legge divina dà in dono ad entrambi la partecipazione tearchica alle cose sante: all’anima nella pura contemplazione e nella scienza dei misteri, al corpo simbolicamente nell’unguento divinissimo e nei simboli molto sacri della santa comunione, santificando tutto l’uomo e santamente operando tutta la sua salvezza, e annunciando che la sua risurrezione sarà perfettissima con le purificazioni totali” (Ib. III, 565B-C).  Se si soppesano attentamente questi passi antropologici non v’è possibilità alcuna di ritenerli “platonici”, né di ritenere platonico il suo autore. Tra le opere dionisiane, quella su “I nomi divini” può parere la più “platonica”. Ma anche qui Dionigi tiene conto della rivelazione ricevuta dalla Chiesa, la quale si presenta notevolmente diversa dal pensiero dei neoplatonici suoi interlocutori. Per quanto riguarda il nostro tema, Dionigi tiene conto della realtà dell’Incarnazione, cioè del fatto che il Figlio di Dio si è unito personalmente, per sempre, ad una sostanza umana completa divenendo realmente uomo (Cfr. ID., Sui nomi divini, II, 10). Si è sempre sottolineato che nel Platonismo le realtà invisibili sono più elevate e importanti di quelle visibili, dal momento che viene posto un evidente dualismo nella spiegazione di tutta la realtà compresa quella umana. Ci chiediamo sinceramente se questa è pure l’idea di Dionigi. Notiamo che, invece, a Dionigi sta a cuore mostrare che Dio, posto al di sopra di tutto, non coincide con la semplice immaterialità in modo da poterla contrapporre alla materialità. Lo Spirito, per Dionigi, “sta al di sopra di ogni immaterialità e divinizzazione che si possa pensare” (Ib., II, 8). Così la vera distinzione non si ha tra “spiritualità” e “materialità”, tra “anima” e “corpo” ma tra quella che poi verrà definita come “realtà increata” (Dio) e “realtà creata” (il mondo spirituale e materiale).

CONCLUSIONE Agostino e Dionigi non sono rimasti lettera morta. Le loro impostazioni antropologiche hanno influito, seppur in modo diversificato, nel pensiero e nel cammino delle Chiese. Agostino, che si muove da un pensiero piuttosto pessimistico della natura umana e del corpo in particolare, sarà un autore al quale Tommaso d’Acquino ricorrerà molto spesso. Tommaso, a sua volta, è stato per secoli il riferimento principale della teologia latina e, in parte, lo è anche oggi. La Chiesa latina non mancherà di soffermarsi sul pessimismo antropologico agostiniano finendo a volte a illustrare una visione cupa della sessualità e del corpo. Non si può dimenticare che, per una consuetudine popolare spiritualista non ancora morta, la Salvezza operata da Cristo è stata spesso trattata come una questione di “salvezza dell’anima”, non di salvezza totale: “salvatevi l’anima”, ripetevano i predicatori fino a qualche tempo fa. In questo contesto il corpo pare evidentemente secondario e non si può non ravvedere in ciò un chiaro influsso antropologico agostiniano. Il pessimismo antropologico non mancherà d’impressionare l’animo tormentato e sensibile del monaco agostinano Lutero il quale perverrà a conclusioni ancor più estreme. Sul versante opposto, quello del Cristianesimo orientale, la dottrina spirituale di Dionigi sarà ripresa da Massimo il Confessore ma, prima di lui, quest’impostazione caratterizzerà anche autori come Gregorio di Nissa. Questa dottrina spirituale non trascura la realtà del corpo dal momento che conformemente alla Rivelazione cristiana, Cristo assume un corpo, risorge con un corpo, ascende al cielo con un corpo. Perciò l’appartenenza del corpo all’essenza dell’uomo e alla persona stessa fu fortemente sottolineata nei primi secoli dai Padri contro lo gnosticismo e, nuovamente, nel IV e V secolo contro l’origenismo e le differenti forme con il quale il platonismo si ripresentava (tra cui il neoplatonismo). Fu infine riaffermata nel XIV secolo nel quadro della difesa della spiritualità esicasta che accordava al corpo un posto fondamentale. Come Dionigi, i Padri greci sono stati definiti “platonici”. Dal poco che è stato accennato si comprende che tale aggettivo fa torto alla realtà dei fatti. D’altra parte secondo lo studioso greco Cavarnos:  “[I Padri] non avrebbero avuto alcuna obiezione ad essere chiamati semplicemente ‘filosofi’, a chiamare il Cristianesimo ‘filosofia’, ‘divina filosofia’ e a caratterizzare serie riflessioni su alcuni problemi o argomenti, come quelli da essi affrontati, con il termine ‘filosofare’. Ma nessuno di loro ha chiamato se stesso o qualche altro cristiano predecessore, dal quale avevano imparato, ‘platonico’, ‘aristotelico’, ‘cristiano platonico’ o ‘cristiano aristotelico’. Simili caratterizzazioni erano per loro impensabili” (C. CAVARNOS, The Hellenic-Christian Philosophical Tradition, p. 17).  Da questo quadro bisogna invece estrapolare come un caso a parte e singolare Agostino, dal momento che egli non è mai riuscito a superare completamente le posizioni dualistiche assimilate nel suo periodo pre-cristiano e il suo singolare disprezzo per la corporeità. Sulla base di ciò alcuni hanno coerentemente concluso che “così l’Occidente ricevette come cristiano un insegnamento che era in realtà pagano in molti dei suoi aspetti” (A. KALOMIROS, Il fiume di fuoco).   Chiaranz Pietro    

RICOEUR, LA VITA BUONA È AVER CURA DELL’ALTRO

 http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ricoeur1.htm

RICOEUR, LA VITA BUONA È AVER CURA DELL’ALTRO   

« »Discrimine » è la realizzazione di una comunità retta da istituzioni giuste, che nel loro operato pongano al centro l’idea che la » diseguaglianza » si vince dando « a ciascuno la sua parte »».

Paul Ricoeur (« Avvenire », 12/10/’07)

Definirei la prospettiva etica con questi tre termini: « auspicio della vita buona, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste ». Le tre componenti della definizione sono egualmente importanti. Parlando innanzitutto della vita buona, desidererei sottolineare il modo grammaticale di questa espressione tipicamente « aristotelica »: è ancora quello dell’ »ottativo » e non già quello dell’imperativo. È, nel senso più forte della parola, un auspicio (« souhait »): «Possa io, possa tu, possiamo noi vivere bene», e anticipiamo l’adempimento di questo auspicio con una esclamazione del tipo: «Felice colui che…!». Se la parola « auspicio » sembra troppo debole, parliamo – senza particolare fedeltà a Heidegger – di « cura »: cura di sé, cura dell’altro, cura delle istituzioni. Ma la cura di sé è un buon punto di partenza? Non sarebbe più opportuno partire dalla cura dell’altro? Se tuttavia insisto su questa prima componente, è proprio per sottolineare che il termine « sé » – che amerei associare a quello di « stima » sul piano etico fondamentale, riservando quello di « rispetto » al piano morale, « deontologico » della nostra ricerca – non si confonde affatto con l’io (« moi »), e quindi con una posizione « egologica » che dall’incontro con l’altro sarebbe necessariamente sovvertita. Sono due le cose fondamentalmente stimabili in sé: innanzitutto, la capacità di scegliere in base a delle ragioni, di preferire questo a quello – in breve, la capacità di agire « intenzionalmente »; poi, la capacità di introdurre cambiamenti nel corso delle cose, di cominciare qualcosa nel mondo, la capacità di « iniziativa ». In tal senso, la stima di sé è il momento riflessivo della « praxis »: apprezzando le nostre azioni apprezziamo noi stessi in quanto ne siamo autori, e quindi in quanto altra cosa da semplici forze della natura o semplici strumenti. Si dovrebbe sviluppare tutta una teoria dell’azione per mostrare come la stima di sé accompagni la « gerarchizzazione » delle nostre azioni. Passiamo al secondo momento: vivere bene « con e per gli altri ». In che modo la seconda componente della prospettiva etica, che designo con il bel nome di « sollecitudine », si connette con la prima? La stima di sé, con la quale abbiamo cominciato, non porta in sé, in ragione del suo carattere riflessivo, il pericolo di un ripiegamento sull’io, di una chiusura, di contro all’apertura sull’orizzonte della vita buona? Nonostante questo pericolo certo, la mia tesi è che la sollecitudine non si aggiunge dal di fuori alla stima di sé, ma ne « dispiega l’implicita dimensione dialogale ». Stima di sé e sollecitudine non possono viversi e pensarsi l’una senza l’altra. Dire « sé » non è dire « io ». « Sé » implica altro da sé, affinché possa dire di qualcuno che stima se stesso come un altro. In verità, solo per astrazione si può parlare della stima di sé senza metterla in coppia con una richiesta di reciprocità, secondo uno schema di stima incrociata, riassunta nell’esclamazione « anche tu »: anche tu sei un essere di iniziativa e di scelta, capace di agire secondo ragioni e « gerarchizzando » dei fini; e, stimando buoni gli oggetti della tua ricerca, sei capace di stimare te stesso. L’altro (« autrui ») è colui che può dire « io » al pari di me e, come me, considerarsi un agente, autore e responsabile dei suoi atti. Altrimenti, nessuna regola di reciprocità sarebbe possibile. Il miracolo della reciprocità sta nel fatto che le persone siano riconosciute come insostituibili nello scambio stesso. Questa « reciprocità degli insostituibili » è il segreto della sollecitudine. In apparenza, la reciprocità sembrerebbe completa solo nell’amicizia, ove l’uno stima l’altro « quanto » sé. Ma la reciprocità non esclude una certa inadeguatezza, come nella « sottomissione » del discepolo al maestro. L’ineguaglianza tuttavia è corretta dal « riconoscimento » della superiorità del maestro, riconoscimento che ristabilisce la reciprocità. Inversamente, l’ineguaglianza può provenire dalla debolezza dell’altro, dalla sua sofferenza. In questo caso è compito della compassione ristabilire la reciprocità, nella misura in cui, nella compassione, colui che pareva il solo a donare riceve, attraverso la gratitudine e la riconoscenza, più di quanto abbia donato. La sollecitudine ristabilisce l’eguaglianza là ove essa non è data, come invece nell’amicizia tra eguali. Vivere bene, con e per l’altro, « all’interno di istituzioni giuste ». Che la prospettiva del vivere bene comprenda in qualche modo il senso della giustizia, è implicato nella nozione stessa dell’altro. L’altro è tanto l’altro quanto il « tu ». « Correlativamente », la giustizia s’estende al di là del « faccia a faccia ». Sono qui in gioco due « asserzioni »: per la prima, il vivere bene non si limita alle relazioni interpersonali, ma s’estende alla vita nelle istituzioni; per la seconda, la giustizia presenta dei tratti etici non contenuti nella sollecitudine, essenzialmente un’esigenza di eguaglianza d’altro tipo rispetto a quello dell’amicizia. Riguardo al primo punto, come «istituzione» si deve intendere, a questo livello della ricerca, tutte le strutture del vivere insieme di una comunità « storica », irriducibili alle relazioni interpersonali e tuttavia connesse a esse in un senso significativo che la nozione di distribuzione – quale si ritrova nell’espressione « giustizia distributiva » – permette di chiarire. In effetti, si può intendere una istituzione come un sistema di divisione, di ripartizione, attinente a diritti e doveri, redditi e patrimoni, responsabilità e poteri – in breve, vantaggi e oneri. Proprio questo carattere « distributivo » – nel senso ampio della parola – pone un problema di giustizia. Una istituzione ha un’ampiezza più vasta del « faccia a faccia » dell’amicizia o dell’amore: nell’istituzione, e attraverso i processi di distribuzione, la prospettiva etica s’estende a tutti coloro che il « faccia a faccia » lascia fuori in quanto « terzi ». Si forma così la categoria del « ciascuno » – che non è affatto il « si » – ma il « partner » di un sistema di distribuzione. La giustizia consiste precisamente nell’attribuire « a ciascuno la sua parte ».

 

SPLENDORE E MISTERO DI UN SORRISO (O.R.)

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/225q04a1.html

Filosofia estetica e teologia trinitaria

SPLENDORE E MISTERO DI UN SORRISO

di Enrico Maria Radaelli

Nel 1963 Harvey Ball, un disegnatore americano, con pochi tratti di penna ideò per un’azienda che aveva bisogno di risollevare il morale dei dipendenti uno smile – una faccina sorridente su fondo giallo – che fece il giro del mondo avendo saputo illustrare la più efficace rappresentazione della positività della vita e dell’allegra fiducia che ne segue:  da allora lo smile di Harvey Ball – Monna Lisa è da sempre fuori concorso – resta tra le immagini più universali del sorriso. Un anno fa, Papa Benedetto XVI, nella sua omelia per la messa con i malati, sul sagrato della basilica di Notre-Dame du Rosaire a Lourdes, il 15 settembre 2008, pronunciò ventitré volte la parola « sorriso ». In particolare tenne a sottolineare come la Vergine Maria fosse apparsa alla giovane Bernadette per farle conoscere « innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero ». Che il sorriso sia un’eminente « porta d’accesso » non solo al mistero divino, ma, in generale, alla vita intelligente, lo constatiamo tutti i giorni anche noi con i nostri sorrisi e, più ancora, in quelli innocenti e aperti dei nostri bambini:  gli occhi brillano, l’intelligenza lì celata palpita viva, e, messa da parte la profonda serietà con cui un bimbo segue le nostre parole con attenzione, quel « lume dell’intelletto » si irradia e straripa nella felicità di averle poi afferrate e comprese. Sì:  il sorriso è una « porta d’accesso »:  vi transita il mistero della vita, e vi transita in entrambi i sensi:  aprendosi l’uscio del sorriso, « esce » dal volto e dagli occhi in tutta la sua purezza e luce l’intelletto che vi è dietro e vi « entra », in certo modo, il nostro, almeno per cogliere il profumo di quella cara vivezza che gli si è aperta davanti, il fiore della sua presenza. Il sorriso degli occhi è il sorriso del cuore. Dunque non si parla delle mille varietà che può assumere il sorriso allorché diviene strumentale a una qualsiasi delle tante seconde intenzioni di cui può ben essere latore suo malgrado:  per scorrerne il pungente catalogo va goduto Il sorriso. Il sorriso degli dei e degli uomini nell’arte e nella letteratura di Christian de Bartillat (Vicenza, Colla, 2008), ma qui si vuole indicare precisamente, e solo, quella dolce, ineffabile espressione che, mossa persino nei suoi più impercettibili cambiamenti da ben quindici vigili muscoli intorno alle labbra, e ravvivata dal bagliore che si irraggia dai due soli, apre il volto nell’effluvio del suo misterioso, dolcissimo, anche impercettibile splendore:  lo fa bello, e, come nota de Bartillat, moltiplicandolo nelle moltitudini lo fa addirittura divenire « la testimonianza essenziale della civiltà ». Il sorriso dunque. Ma come mai il sorriso è così importante? Dalle parole di de Bartillat parrebbe che davvero esso meriti di essere ritenuto l’espressione massima cui anelare, che sia dunque la manifestazione da raggiungere al sommo della vita:  espressione di gioia e di esistenza da poter guadagnare, come non ritenevano affatto i Greci, con le loro tragiche « ombre ». E in verità è proprio così. Ma il motivo per cui questo è il fine dei nostri sforzi:  riconsegnarci, col sorriso, nella più perfetta somiglianza raggiungibile, a quella divina Imago del Padre che è il suo Figlio diletto, ecco:  il motivo profondo di ciò è che nel Figlio diletto questa divina Imago che ci attende è proprio sorridente. È gioiosamente ab æterno contemplante, nel seno del Padre, l’Essere infuocato d’amore che lo genera. Ma qui da un sorriso, da un semplice moto di muscoli, si è saliti a realtà somme; quasi imperscrutabili:  si son tirate in ballo cose come « Trinità », « Figlio diletto », Imago, « somiglianza ». Ed è proprio questo che va fatto:  va utilizzato il passaggio aperto da Benedetto XVI con la sua intuizione:  il sorriso, « la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione » del mistero di Maria, è per ciò stesso « la porta d’accesso » al mistero della redenzione, e in ultimo quindi al mistero della Santissima Trinità. Sicché, magari con l’aiuto di dottori come Agostino, Bonaventura, Tommaso – per non dire di padri come Atanasio, del Nazianzeno, dell’Areopagita – sarà ben utile spingerci in qualche modo dal sorriso dei bambini fin nel seno stesso della Santissima Trinità:  spesso nella Trinità si trovano chiarite le cose più importanti che ci circondano, e, come nota Nicola Bux sul rapporto tra noi e Dio, vi troviamo soprattutto questa verità:  « Per capire qualsiasi cosa (della nostra natura) è necessario partecipare della sua natura » (La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, Milano, Piemme, 2008). Dal che si rivela conveniente utilizzare i concetti insegnati in quegli augusti De Trinitate:  sono gradini sicuri per quel prudente scalatore che vuole accingersi a superare certe solo apparenti difficoltà e così giungere a importanti conclusioni, a splendidi panorami che proprio « per » e « dalla » loro bellezza gli ridaranno poi più vita. Nella Trinità, allora. Primo gradino. Come mai il Figlio – contemplando in Sé la perfezione paterna – è, se così si può dire, di una « serietà lieta e spiritualmente sorridente »? Lo è perché l’Essere essente che lo genera ab æterno è un Io personale e non un essere astratto:  il Padre è una mente-persona che genera il proprio pensiero-persona perché il Padre è, insegnano i grandi dottori con efficace figura, una mente vivente che genera, nella propria spirazione-persona, il proprio eterno pensiero unigenito. Aggiunge Fulgenzio di Ruspe:  « Il Verbo che nasce dalla Mente non ha nulla di meno di quanto c’è nella Mente in cui nasce, perché quanta è la Mente del generante, tanto pure è il Verbo (generato) » (Ad Monimum, 3, 7). Nella xii Lectio dell’Ingresso alla bellezza. Fondamenti a un’estetica trinitaria (Verona, Fede & Cultura, 2007) chi scrive illustra le sette più inclite cause per cui l’intelletto « è la letizia di Dio e degli uomini ». Esse provengono tutte dal fatto che « una mente che genera un pensiero è già di per sé qualcosa di lieto perché compie qualcosa per la quale è precisamente preposta », sicché la mente del Padre è da se stessa in immane letizia di vita in quanto semplicemente fa quel che deve fare una mente:  genera. Per cui il sorriso, o meglio la letizia, anzi, più ancora, se mi si passa il termine, lo stato di regale « sorridenza », è lo stato d’essere proprissimo della Trinità, allietata di letizia da se stessa medesima nel compimento del proprio eterno, generativo, semplice Actus essendi:  l’atto della Mente che pensa se stessa e, di Sé pensandosi, si diletta. Ma se è così, se effettivamente lo status trinitario è di per sé un tale positivo, lieto e ricco modo d’essere, la cosa ci riguarda moltissimo, giacché, come ci assicurano le Scritture, noi – secondo appiglio – siamo chiamati unicamente a somigliare alla Trinità; dunque a conformarci intimamente al suo status di beatitudine, alla « sorridenza » che si diceva. « Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, porteremo anche l’immagine dell’Uomo celeste » (1 Corinzi, 15, 49), porteremo cioè l’immagine di Cristo, il quale, essendo l’immagine del Padre (cfr. Giovanni, 14, 9b), permette a chi gli si conforma di essere immagine del Padre come lui. Infatti « saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è » (1 Giovanni, 3, 2). « E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno Specchio la gloria del Signore (ossia riflettendo nello Specchio che è in Cristo la gloria del Padre), veniamo trasformati in quella medesima Immagine (del Padre, attraverso l’Imago del Figlio) » (2 Corinzi, 3, 18), e così via. Ma se nel nostro sorridere siamo chiamati a uno « stato d’essere » per conformarci allo stato d’essere della vita divina, dobbiamo attuare tale stato già da ora qui sulla terra. Già cioè nella sua costruzione si realizzi il nostro status finale attraverso le pietre da squadrare « ora » per l’edificazione. Proviamo a salire allora un poco più in alto, per altre ardite e auree rampe di questa mirabile scala che entra nella divina « ebbrezza di letizia » toccata per un attimo. Il sorriso offre difatti proprio qualcosa di particolare:  nella sua più intima profondità, nel cuore del suo bocciolo, è racchiusa una precisa e speciale qualità divina, che san Tommaso, come d’altronde san Bonaventura, indicano precisamente con uno dei quattro nomi sacri con cui si contraddistinguono aspetti sostanziali dell’Unigenito. Infatti, che cosa nasce dalla mente del Padre dell’essere? Nasce – primo nome – un Pensiero:  non un pensiero astratto, alla Hegel; ma reale, sostanziale. Infatti con esso nasce anche – secondo nome – un’Immagine:  nasce cioè lo specchio di ciò che il pensiero vede nel Padre, dunque il Pensiero è il Volto del Padre; e non solo nasce un pensiero reale con un suo volto, ma con esso nasce anche – terzo nome – uno Splendore:  nasce la qualità che manifesta al Padre ciò che in lui vede e che Egli stesso è:  lo Splendore è il canto levato dal Verbum al Padre; e come da uno scrigno aperto – la mente è uno scrigno – gli ori e le ricchezze sprigionano e irradiano luce, candore, chiarezza, fulgore, magnificenza, sfarzo, grandiosità, fasto, sontuosità, bellezza massimi, così pure il Pensiero, l’oro dello scrigno:  non solo esso « è » oro, non solo « si vede » che esso è oro, ma anche « abbaglia e irraggia » da oro; infine, quarto e ultimo sacro nome, essendo tutto ciò non da se stesso, ma in quanto generato dal principio, dalla Mente (cfr. Giovanni, 1, 1), l’Unigenito ha nome « Figlio », e « Figlio diletto » perché il Padre si diletta dello splendore irradiato dal volto del proprio pensiero. Notiamo che se il Pensiero non fosse anche Splendore della propria Immagine, ma fosse un pensiero senza volto e senza bagliore (Verbum privo di Imago e privo di Splendor, come in tutte le dottrine gnostiche, hegeliane e orientali), non sarebbe affatto dilettevole, perché non lo si vedrebbe, né se ne potrebbe ricevere l’irradiazione di luce. Ora, qui la scala d’oro su cui ci troviamo si allarga in tre cerchi:  utilizzando infatti tre dei quattro nomi (Verbum, Imago, Filius), vedremo che il quarto (Splendor) si fa passaggio, snodo, porta, per mostrare in essi tre somme qualità di Dio:  verità, beltà e bontà. Il Padre infatti si diletta del suo Unigenito per tre motivi:  « primo cerchio », perché il Verbum che nasce da lui è rilucente di Verità; « secondo cerchio », perché l’Imago che lo rispecchia è circonfuso di abbagliante beltà; « terzo cerchio », perché il Figlio che Egli genera risplende del « tutto sì » a lui Padre con la sua bontà. « È rilucente di verità », « è circonfuso di beltà », « risplende di bontà »:  cosa meglio di tre somiglianze per tenere accostate eppur distinte tre qualità così compenetrate tra loro? E come non accorgersi che tutte e tre le somiglianze utilizzano la qualità specifica dello Splendore, che è, come nell’oro, il fatto appunto di comunque risplendere? Ecco perché, per i due dottori, i nomi dell’Unigenito sono Verbum, Imago, Splendor e Filius. E il sorriso, l’espressione della letizia, va associato a quello dei quattro che gli è più analogo:  è il suo sostanziale, personale, naturale splendore. Detto ciò, e sapendo che poi si dovrebbero fare sul sorriso – sullo splendore, sulla ricchezza – chissà quante altre, e più alte riflessioni, salire per scale che portano a visioni inusitate, fermiamoci alla considerazione che dunque – già sfolgorante panorama – il sorriso può essere considerato quale prima e sicura fonte di quei tre aspetti che qualificano Dio – verità, beltà e bontà – e da qui qualificano poi il nostro piccolo essere di creature:  sia in Dio che nelle sue creature il sorriso è l’uscio della « verità » (la irradia); è la fonte della « bontà » (ne è l’onda); è la sorgente della « bellezza » (ne è la luce). In altre parole il sorriso – ma, diciamo meglio:  lo status di letizia o di « sorridenza » – essendo la manifestazione della luce spirituale dell’intelletto, del Lògos, si fa porta alla filosofia, si fa poi varco all’etica e si fa infine fonte dell’estetica:  pensiero, condotta e arte fuoriescono tutti e tre da Splendore, sgorgano dal sorriso dell’Essere divino che nelle tre Persone si irraggia a se stesso e, così irraggiandosi e contemplandosi in Sé, vuole poi manifestarsi alle sue creature, generate intelligenti e libere proprio per parteciparle alla contemplazione di tale suo sostanziale vero, bello e buono status d’essere. Ed ecco qui mostrarsi i primi straordinari paesaggi. Attraverso il sorriso, sboccia nel mondo il Pensiero di verità che, disceso in Cristo sulla terra, è il vero Apollo, il Dio della sapienza, pastore e maestro (cfr. Giovanni, 10, 11 e Matteo, 23, 8) sicché, in Lui, possiamo anche tranquillizzarci non solo che « conoscere si può » – lo può Lui, dunque noi in Lui – ma anche che « conoscere si deve »:  lui deve farci conoscere il Padre che lo ha inviato (Giovanni, 17, 4), e ancor più possiamo garantirci che « conoscere è bene » – è il nostro fine, a cui il divino Pellicano ci trasporta – perché la conoscenza porta a qualcosa di sicuro:  al Padre. Infine possiamo rinfrancarci che « conoscere è bello » perché ciò a cui la conoscenza porta – la Mente-persona del Padre – è sovrabbondantemente dilettevole, ossia non solo la conoscenza non fa perdere il sorriso, come insegnano in ogni dove i relativisti, i maestri del dubbio, i teorici del problematico, ma lo incoraggia, lo irraggia e lo produce essa stessa al massimo. Che il sorriso, l’espressione dell’anima felice, dunque l’espressione con cui l’anima si esprime al massimo grado, sia un fatto così significativo, così ricco di luminose realtà, fa ritenere che anche la sua manifestazione storica e sociale debba essere pure altrettanto piena e ricca. Ciò si vede sfogliando l’arte della cristianità, ma anche le virtù e le opere dei popoli raccolti dalla Chiesa o a essa introduttivi:  vi è uno straordinario e incessante spargimento di questo sorriso di « verità », e di « beltà », e di « bontà », nelle culture da cui poi è fiorito il Seme divino e che hanno fatto poi da dimora al Santo dei Santi. La Chiesa, continuazione di Cristo nella storia, sèguita la divina azione del vero Apollo musagete, del vero Conduttore delle leggiadre Muse, a significare la verità mai sufficientemente espressa che l’Arte sempre è condotta dalla Filosofia, buona o cattiva che sia, tanto che proprio nel ii secolo, ai suoi inizi, la Chiesa volle ritrarre il Lògos sia come Apollo giovane e imberbe, a significare l’immediatezza e la semplicità della sua Parola, sia come Filosofo maturo e dalla barba curata, a significare la sua provenienza ab æterno. Ma le muse, le arti con cui la conoscenza (il Lògos) si dona agli uomini, non danzano e avanzano da sole:  come si vede dal sorriso nostro e dei nostri bambini, o, che è lo stesso, dalla figura del cristico Apollo che le conduce, si affiancano alla loro destra le ancelle della verità e a sinistra le virtù della bontà. Tutte:  muse, ancelle e virtù, portano sul capo i fiori dell’armonia, tutte sono cinte dalla fascia d’oro dell’integrità, tutte sono coperte dai soavi veli della chiarezza. Armonia, integrità e chiarezza vestono anche sulla terra gli splendori della verità, della bellezza e della bontà elargite dalla Chiesa che avanza pacifica nei secoli. Da due millenni pace e bellezza si spargono sulla terra distribuendo il frutto di Dio, la buona Novella, la letizia e la sorridenza della pace con Dio portata da Cristo in ogni generazione. La Chiesa da duemila anni sparge sovrabbondante bellezza dalle fontane della verità, da duemila anni bontà e bontà zampilla dalla sua beltà. Ma quale il motivo per cui nella Chiesa è così profondo questo desiderio di elargizione di fragranza e di positività? Tutto questo armonioso tripudio di miracolosa ricchezza scaturisce unicamente in virtù della divina liturgia, nasce dall’esigenza intima e tutta necessitante della santa Madre di spiegare con amore ai suoi figli il non spiegabile, di dire con benevolenza ai suoi piccoli l’indicibile, di mostrare a tutti con benignità i cieli chiamati tutt’intorno al sacro mistero della presenza reale, nell’ostia consacrata nelle sue chiese. Sì:  tutta questa elargizione di splendore soprannaturale ha portato bellezza anche nella civiltà; tutta questa bontà divina ha portato anche tra le nazioni amore, e quell’amore:  il perfetto olocausto cruento e visibile compiuto da Cristo sulla croce e rinnovato in memoriam in ogni messa misteriosamente, ma realmente sugli altari ogni giorno nei secoli. Dall’ostia consacrata la virtù dello splendore, celata nella benignità del sorriso che di fondo ha la grazia di Dio verso gli uomini, ha irradiato nelle civiltà, essa solo, quella che Romano Amerio chiama « cristianesimo secondario »:  ha irradiato la « verità », la « beltà » e la « bontà » di un sacro lievito che nei secoli ha spinto le nazioni a esprimersi nel sorriso di una religione in primo luogo, certo, divinizzante, ma poi anche portatore di civiltà. E tutto ciò, si badi, in mezzo sempre a percosse, barbarie, difficoltà di ogni tipo, in seno e fuori, similmente al famoso elenco paolino:  « Cinque volte ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre fui battuto con le verghe; una lapidato; tre naufragato; una notte e un giorno nell’abisso; (…) e oltre tutti questi mali esteriori il cruccio quotidiano che su me incombe, la cura di tutte le Chiese » (2 Corinzi, 11, 24-25; 28), e ciò a ricordare che verità, beltà e bontà, in una parola il sorriso, non sono di questo mondo, ma si ottengono per grazia – da Paolo o dalla Chiesa – solo dalla divina elargizione posta nella croce. Anche nella nostra epoca, come già parve il fuoco di Alarico ad Agostino, sembra che bruttezza e barbarie abbiano corroso la conoscenza della bellezza, osteggiato la spinta all’adorazione, frantumato la pace della verità. Come già san Paolo, la Chiesa – e in essa la cristianità fin nei più indifesi e inermi suoi piccoli – sembra ancora una volta dover far fronte a forze superiori, accerchiata dalle espressioni più combattive di quella che Romano Amerio chiama « la dislocazione della divina Monotriade »:  la precessione dell’amore, della tecnica, dell’azione, sulla conoscenza e sul Verbo. Nelle città, in quelli che oggi vengono chiamati burocraticamente « agglomerati urbani » – in verità prigioni al contrario – bruttezza chiama bruttezza, degrado e incuria moltiplicano degrado e incuria:  i criminologi Wilson e Kelling dimostrano, con la teoria delle broken windows (finestre rotte), che insipidità e bruttezza materiali contagiano gli spiriti, straripano dai corpi alle anime, invadono non solo quartieri apocrifi e città, ma, col loro fascino drogato, con le loro contagiose perversioni, infettano i loro abitanti instillando nei cuori, con la trasformazione delle macerie in asocialità, disordine e dispersione morale. Dov’è più il sorriso sui volti dei ragazzi e dei muri lasciati in rovina? Dov’è mai la relazione, se nelle città sono infranti sotto tutti gli aspetti l’unità, l’armonia e lo splendore su cui si fonda ogni relazione? Se nelle cose viene rotta la possibilità di comunicare, il passaggio di questa frattura ai cuori – almeno ai più fragili – è, per i due criminologi, scontato. Però:  tanto è vera la teosi funesta delle « finestre rotte », tanto più lo sarà, in forza della spinta alla positività impressa loro, come visto, dalla santissima Trinità, la sequenza contraria delle « finestre riparate », giacché armonia chiama armonia, levatrice della bontà è la bellezza, l’arte contagia l’etica. Per non dire poi quale motore sia (sarebbe, specie ora) allo sviluppo sociale ed economico, fare le cose belle invece che sciatte. La Chiesa è una madre che mai rigetta la sua natura di madre, e alle anime che, sparse per le strade e le piazze degli immensi « non luoghi » di Marc Augé, si ricordano di lei, essa risponde con amorosa sollecitudine come sempre ha risposto. E nemmeno attende che quelle anime, chiuse nei volti cosificanti delle periferie incasermate, si ricordino di lei, si volgano alla sua bontà di Madre, ma va ella stessa premurosa per prima a loro; e lei per prima chiama a sé chi sempre l’ha coadiuvata nella sua opera di evangelizzazione e nella sua spinta alla santificazione:  letterati, artisti, teologi, architetti, filosofi, asceti, musicisti, educatori, poeti, accorrono tutti gli uomini che, vedendo l’invisibile irradiarsi potente dall’ostia consacrata, hanno imparato cosa dire su verità, bellezza e bontà.

(L’Osservatore Romano 30 settembre 2009)

BUONA NOVELLA COME MOSSA CONTRARIA AL TIMORE DI DIO – ERNST BLOCH,

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126277

BUONA NOVELLA COME MOSSA CONTRARIA AL TIMORE DI DIO

ERNST BLOCH,

Poiché se il mondo non fosse in pessime condizioni non vi sarebbe bisogno di alcun Messia. Molto ha indugiato Gesù prima di presentarsi come tale: egli si considerò dapprima un discepolo del Battista, e ricevette il battesimo, poiché si sentiva impuro.

Doveva infine giungere qualcuno in grado di rendere curva la retta. Da sempre fu atteso un uomo siffatto prima dall’alto, ma poi, quando non avvenne nulla, dal basso. L’eroe doveva venire dai giudei,ed essere un inviato, ma svolgere meglio il suo incarico di chi lo fa per necessità.
Poiché se il mondo non fosse in pessime condizioni non vi sarebbe bisogno di alcun Messia. Molto ha indugiato Gesù prima di presentarsi come tale: egli si considerò dapprima un discepolo del Battista, e ricevette il battesimo, poiché si sentiva impuro.
La storia della tentazione (Mt 4,3-6) mette in luce la convinzione di Gesù che sia proprio del diavolo il volersi chiamare figlio di Dio, e Pietro, il primo che lo chiama Cristo, viene perciò duramente attaccato (Mc 8,33). Sembra che in primo luogo siano state la «trasfigurazione» di sei giorni e la voce udita fuori delle nuvole (Mc 9,1-7) a portare Gesù alla coscienza della missione che tutto sorpassa. E già qui appare chiaro: la missione invero era dolce, ma per nulla intesa come un puro fatto interiore, quale si volle far apparire una volta che fallì. Infatti all’entrata in Gerusalemme Gesù accolse l’osanna che era pur sempre il vecchio grido del re del popolo. Esso era politicamente chiaro, perché si volgeva contro Roma: «Sia lodato il regno del nostro padre Davide» (Mc 11,10), «Osanna a colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele» (Gv 12,13).
Davanti al sommo sacerdote Gesù si professa senza esitare come il Messia non solo in senso spirituale e astratto, ma con tutti i segni di potenza tramandati ed attesi sin dai tempi di Daniele (Mc 14,62). Davanti a Pilato Gesù assume il titolo di re dei giudei; sotto il quale fu crocefisso poiché la croce era la punizione romana per la rivolta. Se fosse giusta l’idea che Gesù non volle essere l’atteso Messia giudeo, allora non si saprebbe come mai egli avesse esitato a dichiararsi il Messia, ed a che scopo avesse superato tale esitazione. Si sarebbe chiamato un uomo buono, un curatore d’anime e, al massimo, un seguace dei vecchi profeti; certo non, sarebbe stata necessaria alcuna allucinazione dal cielo per decidersi a questo rischio: Tu es Christus.
Gli illuministi in primo luogo, poi – con minore innocenza – i teologi liberali antisemiti hanno in tal modo staccato Gesù dal sogno giudeo del Messia, cioè a dire dalla escatologia anche politica. Ciò purtroppo inizia con la Vita di Gesù di Renan, fu scientificamente preparato da Holtzmann, Wellhausen, Harnack, e si concluse con il Cristo della pura interiorità.
Wellhausen ne tratta nel modo più ignobile dicendo a proposito del re dei giudei: «Il regno che egli aveva in mente non era quello in cui i giudei speravano. Egli riempiva la sua speranza e il suo desiderio rivolgendoli ad un altro ideale di ordine più alto. Solo in questo senso può essersi chiamato il Messia: che essi non dovevano aspettare nessun altro; egli non era colui che da loro era desiderato ma era il vero che essi dovevano desiderare. Se dunque si lascia alla parola il significato in cui essa fu generalmente intesa – cosa che realmente va fatta – allora Gesù non è stato il Messia e non ha voluto esserlo.
Il suo regno non era di questo mondo, cioè egli sostituiva qualcosa di totalmente diverso al posto della speranza del Messia» (Israelitische und judische Geschichte [Storia israelitica e giudea], 1895, p. 349). In questo modo viene gettata fuori dagli Evangeli l’escatologia, sebbene essa appartenga alle parti filo logicamente meglio testimoniate, e Gesù avrebbe annunciato un regno di Dio per così dire puramente etico, fuori del tutto dal sogno apocalittico, in cui fin da Daniele tutta la religiosità giudaica viveva.
È merito di Albert Schweitzer (Das Messianitäts- und Leidensgeheimnis [Il segreto della messianità e della passione], 1901) di avere ricollocato anche la teologia liberale nelle sue giuste proporzioni: Gesù ha posto l’etica (intesa come penitenza e preparazione al regno) all’interno dell’escatologia, non l’escatologia all’interno dell’etica. L’escatologico non è invero neppure da Schweitzer còlto nella sua realtà politica terrestre, ma esclusivamente in quella soprannaturale, troppo limitatamente soprannaturale, troppo lontana insieme dal nuovo cielo e dalla nuova terra; comunque è il regno che viene che in Gesù vale come elemento primario, non l’amore.
Il tendere verso l’amore consegue solo dal tendere verso il regno e il regno come evento cosmico catastrofico non è per nulla un evento della psicologia ma un evento del cosmo, che si apre verso la nuova Gerusalernme. Gesù vide in genere che nessun tempo rimaneva per un disfattismo della pura interiorità, poiché egli viveva totalmente ce nel senso migliore secondo l’annuncio pubblico profetico del Battista: «Fate penitenza, il regno dei cieli è giunto presso di voi». Egli invia (Mt 10) i suoi discepoli a due a due nelle città giudee, perché diffondano la notizia; e li prepara alla calamità messianica imminente in cui essi come gli altri eletti troveranno dura persecuzione e forse la morte.
Egli non si aspetta nemmeno che i superstiti tornino da lui dopo che se ne sono andati, talmente è prossima per lui la fine del mondo, e l’avvento del mondo nuovo: «Voi non farete il giro delle città di Israele prima che venga il figlio dell’uomo» (Mt 10,23). Lo stesso «padre nostro» contiene così un legame immediato con le calamità dell’éschaton incombente; solo una traduzione falsa vi può leggere mera interiorità. «E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male»: tentazione (peirasmós) non significa qui individuale seduzione al peccato, ma tribolazione, calamità escatologica, persecuzione attraverso l’Anticristo alla fine dei giorni.
Questa persecuzione deve essere eliminata, questo calice deve passare, il nuovo eone deve venire alla luce e la sua irruzione non deve lasciare tempo, troppo lungo tempo, ad una controrivoluzione. La fede di Gesù di essere il portatore del nuovo eone era così certa che lo abbandonò solo sulla croce nell’istante più terribile che mai un uomo abbia vissuto, insieme con il tormento della morte e più forte di esso, nel grido di disperazione tutto concreto: «Mio Dio perché mi hai abbandonato?». Così può gridare solo chi vede svanita la sua opera che abbisognava di una preparazione concreta; questo non è il grido di un semplice condottiero di anime e di un re celeste del puro sentimento.
L’annuncio agli oppressi ed ai miseri era pieno di un impulso sociale nazireo-profetico e non di brame di morte o di consolazione altamente spirituale. «Egli predicava come uno che ha forza e non come gli scribi» (Mt 7,29) e senz’altro non come il Cristo sublimato che riflette i semplici toni dell’anima, e quindi della spiritualità e dei sentimenti per così dire eterni. Il lógion (Mt 11,25-30) è un grido di giubilo politico e religioso, esso indica nella maniera più inequivocabile l’avvento del Messia-re, e la sua ultima frase è un condono: «Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero». Queste parole non volevano intendere di certo il giogo della croce, il meno soave e il meno leggero di tutti i pesi, che invero non avrebbe mai annunciato la buona novella.
Dal punto di vista soggettivo Gesù si ritenne il Messia nel senso assolutamente tradizionale, così come oggettivamente egli meno che mai appare un imboscato in una interiorità che non si manifesta o il furiere di un regno dei cieli affatto trascendente. Al contrario la salvezza annunciata come Canaan, come il compimento di ciò che era stato promesso ai padri, senza caducità, senza trivialità, senza perdita, un Canaan superato in quintessenza: «Nessuno avrà abbandonato casa, moglie, fratelli, parenti o bambini senza ricevere ben di più in questo tempo, e nell’eone futuro la vita eterna» (Lc 18,29 ss.).
Nella mera attesa del Messia v’era già interiorità a sufficienza, così come nel creduto al di là v’era cielo più che a sufficienza; era la terra che aveva bisogno del salvatore e dell’evangelo. E se ancora vi fosse un dubbio se Gesù – prima della catastrofe della croce – volesse apparire come reale salvatore, questo dubbio sarebbe eliminato dalla stessa parola evangelo. Gesù, che non sdegnò nemmeno di agire come medico taumaturgo, usa la parola evangelo significando una guarigione miracolosa in tutta la terra attraverso il regno di Dio (Mc 1,15). Egli invia al nazireo Giovanni in carcere la seguente definizione per nulla interiore: «I ciechi vedono e gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti e i sordi sentono, i morti risuscitano e la buona novella è annunciata ai poveri» (Mt 11,5).
Anche se dovesse apparire che alcuni passi – dove Gesù troppo parla dell’evangelo come di un’eredità da raccogliere (Mc 13,10; 14,9) siano stati semplicemente un’interpolazione successiva, nonostante ciò il termine stesso di evangelo non è di tarda formazione e non può apparire come dice John Weiss una «semplice espressione del linguaggio missionario», post crucem e dunque spirituale. Piuttosto tale espressione fiorì proprio nel tempo di Gesù inequivocabilmente come parola di salvezza politica e religiosa per la fine della concreta miseria, per l’inizio della concreta felicità.
E non solo i giudei oppressi, ma anche i restanti popoli dell’Oriente nutrirono allora una speranza o un sentimento d’avvento in contanti. Persino i sazi romani loro oppressori usarono la parola evangelo come parola di pace, come pubblica parola di felicità di stile sibillino (sullo sfondo della deserta insicurezza nell’ultimo secolo della repubblica); nota rimase la profezia di un divino fanciullo regale in Virgilio, nella quarta egloga, riferita ad Augusto: «Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo [...]redeunt Saturnia regna» cioè: gli aurei tempi di Saturno, i Saturnali, ritornano; questo e nessun altro è qui il significato dell’evangelo.
Una pietra d’altare nella Priene dell’ Asia Minore celebra la data di nascita di Augusto letteralmente come un inizio degli evangelia per il mondo, come se vigesse l’età dell’oro. Dunque la parola s’introdusse anche in Palestina, in un mondo che più che mai aveva posto per una buona novella, entrandovi come una parola di felicità di carattere politico-sociale non mercanteggiabile con tutto il resto. Si legò senza rotture con l’Olam-ha-Schalom, con il regno della pace del messianismo tradizionale nei profeti.
Non avrebbe potuto legarsi con l’interiorità fine a se stessa o con il culto dell’al di là; perciò nel linguaggio della missione si rese proprio necessaria quella generale inversione di significato a cui Gesù non ha mai messo mano. Sì, anche i cristiani delle catacombe che non si erano affatto rifugiati placidamente in un dualismo trascendente e neppure fecero pace con Nerone ed il suo regno: in caso contrario essi non sarebbero stati di certo gettati in pasto alle sue fiere. E questo impulso di Cristo, nient’affatto zoppo, non è stato certo il meno importante fra i motivi che hanno ispirato la guerra dei contadini, una guerra, non a caso, praticamente chiliastica.
Nella sua primitiva autenticità l’evangelo era identico con il senso reale che sovverte: «Il tempo è compiuto, e il regno di Dio è giunto vicino» (Mc 1,15). In summa sia l’evangelo sia il Messia stanno a significare che Gesù non ha inteso addolcire il suo ufficio relegandolo fuori dal mondo.

(L’autore) I filosofi e Cristo – autore: Ernst Bloch

Publié dans:FILOSOFIA (studi interessanti) |on 30 juillet, 2015 |1 Commentaire »

GUGLIELMO DI OCCAM, IL FILOSOFO DELLA SEMPLICITÀ FRANCESCANA

http://www.homolaicus.com/teorici/occam/occam3.htm

GUGLIELMO DI OCCAM, IL FILOSOFO DELLA SEMPLICITÀ FRANCESCANA

(I – II – III) – QUESTA È LA TERZA PARTE

Giuseppe Bailone

La realtà è semplice, ma l’uomo la complica. Nei rapporti sociali e politici, ma anche nell’attività conoscitiva, l’uomo complica le cose e crea molti enti ingiustificati e inutili, che la semplicità francescana aiuta a sfrondare.
Il sapere e la società sono oppressi da enti inutili e infondati. “Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora”. “Si fa inutilmente con molte cose ciò che si può fare con poche”.
Questo principio, detto il rasoio di Occam, promuove una visione chiara, semplice, della realtà e propone rapporti sociali ispirati al rispetto delle persone e alla semplicità dell’amore cristiano.
Molti elementi della metafisica tradizionale, come la sostanza, la causa, l’anima, la natura comune di Duns Scoto, vengono messi in discussione. Sotto l’azione del rasoio cadono anche i presunti fondamenti delle pretese teocratiche del papato.
Nella realtà esistono soltanto i singoli enti, persone e cose, e Dio onnipotente.
Il principio della libera onnipotenza divina, che Occam fa valere come e più di Duns Scoto, dissolve la selva di mediazioni ideali e di potere che la tradizione filosofica e teologica ha inutilmente costruito: Dio, nella sua onnipotenza, non ha bisogno di apparati di mediazione e di rappresentanza, di organizzazioni e di ordini gerarchici, di cui si servono invece i limitati sovrani di questo mondo.
Guglielmo di Occam nasce intorno al 1290 nei pressi di Londra, entra molto giovane nell’ordine francescano, studia e insegna ad Oxford. Nel 1324, accusato di eresia, si reca ad Avignone, allora sede del papa, per difendersi. Lì incontra Michele da Cesena, generale francescano, anche lui alle prese con accuse di eresia: nelle lotte all’interno dell’ordine si è, infatti, schierato con gli “spirituali”, i fraticelli che sostengono l’ideale della povertà rigorosa contro i “conventuali”, che riconoscono alla Chiesa il diritto alla proprietà. Nel 1328 Occam e il suo superiore fuggono da Avignone a Pisa presso Ludovico il Bavaro, l’imperatore in lotta con il papa. Lo seguono a Monaco di Baviera, dove Occam muore nel 1349 travolto dalla peste che sconvolge l’Europa.
Dopo la fuga da Avignone, la sua produzione intellettuale è tutta diretta a contestare le pretese teocratiche della Chiesa: l’ideale della povertà francescana, che già aveva ispirato la sua lotta contro gli inutili e ingiustificati enti della metafisica, orienta adesso le sue riflessioni sul potere, politico e spirituale.
Nel tempo delle grandiose costruzioni gotiche e delle grandi lotte fra il potere imperiale e quello papale, entrambi con la pretesa di avere valore universale, il francescano Occam smaschera il carattere artificioso, non giustificato, ingombrante, delle grandiose costruzioni metafisiche e delle pretese temporali della Chiesa. All’imperatore – si racconta – avrebbe detto: “Tu difendimi con la spada e io ti difenderò con la penna”.
Occam libera la ragione e la fede dai reciproci legami medievali. Supera l’alternativa tra il credo ut intelligam e l’intelligo ut credam, proponendo il credo et intelligo, in cui l’et elimina ogni rapporto di subordinazione e separa nettamente fede e scienza.
La scienza si basa sull’esperienza, la fede riguarda ciò che non può essere oggetto di esperienza. E’ l’esperienza a fare la differenza radicale di scienza e fede: mancando il fondamento dell’esperienza, le verità di fede non possono essere raggiunte con i mezzi della ragione naturale. Anche le tradizionali prove dell’esistenza di Dio mancano di valore dimostrativo, non avendo l’uomo su questa terra conoscenza intuitiva di Dio. Occam, infatti, non solo respinge la prova ontologica, ma smonta anche la prova cosmologica, quella che il pensiero medievale riteneva la più consistente: i due principi su cui si regge (1° tutto ciò che si muove è mosso da altro; 2° è impossibile risalire all’infinito nella serie dei movimenti) non sono per lui indiscutibili. Infatti, l’anima e l’angelo si muovono da sé e così pure il peso che tende al basso. E, a proposito del secondo principio, non si può escludere la possibilità di andare all’infinito nella serie dei movimenti. Solo l’idea di una causa prima che conserva l’esistenza degli enti creati, che non hanno il potere di conservarsi da sé, sembra convincerlo: di solito ci si interroga sull’origine delle cose, sull’origine del mondo, ma Occam trova ancor più sorprendente che il mondo, che non ha in sé la ragione del proprio essere, continui ad esistere. E’ questa la “meraviglia” che può portare la ragione a pensare all’esistenza di Dio.
La fede si fonda sulla rivelazione e riguarda il destino soprannaturale. La salvezza eterna, fine ultimo della fede, dipende, però, interamente dalla grazia divina, di cui Occam sottolinea il carattere assolutamente libero:
“Non è impossibile che Dio ordini che colui che vive secondo i dettami della retta ragione e non crede nulla che non gli sia dimostrato dalla ragione naturale, sia degno delle vita eterna. In tal caso può anche salvarsi chi nella vita non ebbe altra guida che la retta ragione”.
“E’ questa una parola – commenta Abbagnano – che pone Occam al di là del Medio Evo: la fede non è più condizione necessaria alla salvezza”.1
La sobrietà filosofica porta Occam ad approfondire la separazione di filosofia e teologia, ma l’esaltazione dell’onnipotenza divina lo porta a dire che ci si può salvare anche solo con la filosofia: dal cilindro della libera onnipotente e imperscrutabile volontà divina esce a sorpresa il valore dell’autonomia morale umana.

Publié dans:FILOSOFIA (studi interessanti) |on 10 septembre, 2014 |Pas de commentaires »
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