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LA CROCE DI GESÙ È IL « NUOVO ALBERO DELLA VITA » – BENEDETTO XVI RIFLETTE SULLA NATURA DELLA CREAZIONE DI DIO

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LA CROCE DI GESÙ È IL « NUOVO ALBERO DELLA VITA »

DURANTE L’UDIENZA GENERALE, BENEDETTO XVI RIFLETTE SULLA NATURA DELLA CREAZIONE DI DIO

Citta’ del Vaticano, 06 Febbraio 2013 (Zenit.org) Luca Marcolivio

Dio in quanto “Padre nella creazione”, è stato oggetto della Catechesi di papa Benedetto XVI, in occasione dell’Udienza Generale di stamattina. Il Credo, ha ricordato il Santo Padre, richiama innanzitutto alla Sacra Scrittura (cfr. Gen 1,1). Dio è quindi “l’origine di tutte le cose e nella bellezza della creazione si dispiega la sua onnipotenza di Padre che ama”.
“Egli, come un Padre buono e potente, si prende cura di ciò che ha creato con un amore e una fedeltà che non vengono mai meno”, ha proseguito il Papa.
Come sottolinea San Paolo (cfr. Eb 11,3), essendo stato il mondo creato da Dio, è dall’invisibile che trae forma il visibile, quindi la fede, ha commentato il Pontefice, implica “di saper riconoscere l’invisibile individuandone la traccia nel mondo visibile”.
È nella Bibbia che l’intelligenza umana può trovare, alla luce della fede, “la chiave di interpretazione per comprendere il mondo”. Infatti, i primi sei giorni dell’opera della creazione divina del mondo, vengono tutti scanditi dall’affermazione “Dio vide che era cosa buona” (Gen 1,4.10.12.18.21.25).
Al settimo giorno, momento della creazione dell’uomo, l’affermazione dell’autore biblico viene rafforzata: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31).
“Tutto ciò che Dio crea è bello e buono, intriso di sapienza e di amore; l’azione creatrice di Dio porta ordine, immette armonia, dona bellezza”, ha commentato a tal proposito il Papa.
Che senso ha, tuttavia, “nell’epoca della scienza e della tecnica, parlare ancora di creazione?”, si è interrogato Benedetto XVI. “La Bibbia – ha spiegato – non vuole essere un manuale di scienze naturali; vuole invece far comprendere la verità autentica e profonda delle cose”.
Dalla Genesi, quindi, si evince che “il mondo non è un insieme di forze tra loro contrastanti, ma ha la sua origine e la sua stabilità nel Logos, nella Ragione eterna di Dio, che continua a sorreggere l’universo”.
Credere che, alla base della creazione, ci sia l’intervento razionale di Dio “illumina ogni aspetto dell’esistenza e dà il coraggio di affrontare con fiducia e con speranza l’avventura della vita”, ha aggiunto il Santo Padre.
L’essere umano, a sua volta, nella sua piccolezza e limitatezza, è “capace di conoscere e di amare il suo Creatore” (Cost. past. Gaudium et spes, 12). La caducità umana, ha sottolineato il Papa, convive con “la grandezza di ciò che l’amore eterno di Dio ha voluto per noi”.
La Genesi afferma anche che l’uomo è stato creato da Dio per mezzo della “polvere della terra” (cfr. Gen 2,7), che accomuna tutti noi, senza distinzioni culturali o sociali. L’uomo, quindi, non è Dio, né si è creato da sé, ma ha origine “dalla terra buona, per opera del Creatore buono”.
Ogni uomo, poi, è creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 2,7), del quale portiamo “l’alito vitale”, godendo della sua protezione. “Questa è la ragione più profonda dell’inviolabilità della dignità umana contro ogni tentazione di valutare la persona secondo criteri utilitaristici e di potere”, ha sottolineato a tal proposito il Pontefice.
Dalla Genesi, ha proseguito Benedetto XVI, emergono due immagini significative. La prima è “l’albero della conoscenza del bene e del male” (cfr. Gen 2,15), ovvero il punto di riferimento in Dio da parte dell’uomo, che è tenuto a “riconoscere il mondo non come proprietà da saccheggiare e da sfruttare, ma come dono del Creatore”.
C’è poi l’immagine del serpente demoniaco (cfr. Gen 2,8-15) che insinua nell’uomo “il sospetto che l’alleanza con Dio sia come una catena che lega, che priva della libertà e delle cose più belle e preziose della vita”. Da qui nascono tutte le tentazioni, a partire dalla pretesa di “costruirsi da soli il mondo in cui vivere, di non accettare i limiti dell’essere creatura, i limiti del bene e del male, della moralità”.
Se l’uomo “falsa il rapporto con Dio con una menzogna, mettendosi al suo posto, tutti gli altri rapporti vengono alterati” e l’altro “diventa un rivale, una minaccia”, al punto che “l’invidia e l’odio verso l’altro entrano nel cuore dell’uomo” e Caino arriva a uccidere il proprio fratello Abele (cfr. Gen 4,39).
Cadendo nel peccato originale, l’uomo si mette non solo contro Dio ma “contro se stesso”: in tal modo hanno origine “tutti i peccati della storia”. Il peccato è innanzitutto la distruzione della “relazione con Dio”, che assieme alle relazioni umane, è il punto di partenza per l’uomo, per essere se stesso.
L’uomo non può “redimersi da solo” e soltanto Dio può ripristinare le “giuste relazioni”. Se Adamo si era illuso di mettersi al posto di Dio, Gesù Cristo ricostruisce la “relazione filiale perfetta con il Padre”, abbassandosi, diventando “servo” e percorrendo “la via dell’amore umiliandosi fino alla morte di croce”; quella stessa croce che diventa così “il nuovo albero della vita”.
Vivere di fede, ha poi concluso Benedetto XVI, vuol dire, quindi, “riconoscere la grandezza di Dio e accettare la nostra piccolezza, la nostra condizione di creature lasciando che il Signore la ricolmi del suo amore”.

LA DOTTRINA DELLA CREAZIONE COSTITUISCE…

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LA DOTTRINA DELLA CREAZIONE COSTITUISCE LA PRIMA RISPOSTA AGLI INTERROGATIVI FONDAMENTALI SULLA NOSTRA ORIGINE E IL NOSTRO FINE.

OPUS DEI – TEMA 6. LA CREAZIONE

Introduzione
L’importanza della verità della creazione è dovuta al fatto che è «il fondamento di tutti i divini progetti di salvezza; è l’inizio della storia della salvezza culminante in Cristo» (Compendio, 51). Sia la Bibbia (Gn 1, 1) che il Credo hanno inizio con la confessione di fede nel Dio Creatore.
A differenza degli altri grandi misteri della nostra fede (la Trinità e l’Incarnazione), la creazione «è una prima risposta agli interrogativi fondamentali dell’uomo circa la propria origine e il proprio fine» (Compendio, 51), che lo spirito umano si pone e ai quali, in parte, può anche rispondere, come dimostra la riflessione filosofica. Nonostante i racconti delle origini che fanno parte della cultura religiosa di tanti popoli (cfr. Catechismo, 285), la specificità della nozione di creazione in realtà è stata colta solo con la rivelazione giudaico-cristiana.
La creazione, dunque, è un mistero di fede e allo stesso tempo è una verità accessibile alla ragione naturale (cfr. Catechismo, 286). Questa posizione peculiare tra fede e ragione fa della creazione un buon punto di partenza per il compito di evangelizzazione e di dialogo che i cristiani sono sempre chiamati a realizzare – in modo particolare ai nostri giorni[1] – così come aveva fatto San Paolo nell’Aeropago di Atene (At 17, 16-34).
Si è soliti distinguere l’atto creatore di Dio (la creazione active sumpta) e la realtà creata, che è effetto di tale azione divina (la creazione passive sumpta)[2]. Seguendo questo schema, si espongono di seguito i principali aspetti dogmatici della creazione.

1. L’atto creatore 1.1. «La creazione è l’opera comune della Santissima Trinità» (Catechismo, 292)
La Rivelazione presenta l’azione creativa di Dio come frutto della sua onnipotenza, della sua sapienza e del suo amore. Di solito si attribuisce la creazione in modo particolare al Padre (cfr. Compendio, 52), così come la redenzione al Figlio e la santificazione allo Spirito Santo. Nello stesso tempo le opere ad extra della Trinità (la prima di esse, la creazione) sono comuni alle tre Persone, ci si può pertanto interrogare sul ruolo specifico di ognuna delle tre Persone nella creazione, in quanto «ogni Persona divina compie l’operazione comune secondo la sua personale proprietà» (Catechismo, 258). Si tratta della “appropriazione” degli attributi essenziali: onnipotenza, sapienza e amore, rispettivamente, all’operare creativo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Nel Simbolo niceno-costantinopolitano confessiamo la nostra fede «in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra»; «in un solo Signore, Gesù Cristo […]; per mezzo di lui tutte le cose sono state create»; e nello Spirito Santo «che è Signore e dà la vita» (DS 150). La fede cristiana, pertanto, parla non solo di una creazione ex nihilo, dal nulla, che indica l’onnipotenza di Dio Padre, ma anche di una creazione fatta con intelligenza, con la sapienza di Dio – il Logos per mezzo del quale tutto è stato fatto (Gv 1, 3) – e di una creazione ex amore (GS 19), frutto della libertà e dell’amore che è Dio stesso, lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio. Di conseguenza, le processioni eterne delle Persone stanno alla base del loro operare creativo[3].
Poiché non c’è contraddizione tra l’unicità di Dio e le sue tre Persone, analogamente l’unicità del principio creativo non si contrappone alla diversità dei modi di operare di ognuna delle Persone.

«Creatore del cielo e della terra»
«“In principio, Dio creò il cielo e la terra”. Queste prime parole della Scrittura contengono tre affermazioni: il Dio eterno ha dato un inizio a tutto ciò che esiste fuori di lui. Egli solo è Creatore (il verbo “creare” – in ebraico “bara” – ha sempre come soggetto Dio). La totalità di ciò che esiste (espressa nella formula “il cielo e la terra”) dipende da colui che gli dà di essere» (Catechismo, 290).
Solo Dio può creare in senso proprio[4], e questo significa dare origine alle cose dal nulla (ex nihilo) e non a partire da qualcosa di preesistente; perciò si richiede una potenza attiva infinita che solo Dio possiede (cfr. Catechismo, 296-298). È, dunque, coerente attribuire l’onnipotenza creativa al Padre, perché Egli è nella Trinità – secondo un’espressione classica – fons et origo, vale a dire, la Persona da cui procedono le altre due, principio senza principio.
La fede cristiana afferma che la distinzione fondamentale, in realtà, è quella che c’è tra Dio e le sue creature. Questo costituì una novità nei primi secoli, nei quali la polarità fra materia e spirito dava adito a visioni inconciliabili tra loro (materialismo e spiritualismo, dualismo e monismo). Il cristianesimo infranse questi modelli, soprattutto con l’affermare che anche la materia (così come lo spirito) è creata dall’unico Dio trascendente. Più avanti San Tommaso sviluppò una metafisica della creazione che descrive Dio come lo stesso Essere sussistente (Ipsum Esse Subsistens). In quanto causa prima, è assolutamente trascendente al mondo; e, allo stesso tempo, in virtù della partecipazione del suo essere alle creature, è presente intimamente in esse, che dipendono in tutto da Colui che è la sorgente dell’essere. Dio è superior summo meo e, allo stesso tempo, intimior intimo meo (Sant’Agostino, Le confessioni, 3, 6, 11; cfr. Catechismo, 300).
«Tutto è stato fatto per mezzo di Lui»
L’Antico Testamento presenta il mondo come frutto della sapienza di Dio (cfr. Sap 9, 9). «Non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso» (Catechismo, 295), ma ha una intelligibilità che la ragione umana, partecipando della luce dell’Intelletto divino, può cogliere, non senza sforzo e con spirito di umiltà e di rispetto davanti al Creatore e alla sua opera (cfr. Gb 42, 3; cfr. Catechismo, 299). Questo sviluppo raggiunge la sua espressione piena nel NT: nell’identificare il Figlio, Gesù Cristo, con il Logos (cfr. Gv 1, 1ss), afferma che la sapienza di Dio è una Persona, il Verbo incarnato, per mezzo del quale tutto è stato fatto (cfr. Gv 1, 3). San Paolo formula questa relazione del creato con Cristo, spiegando che tutte le cose sono state create in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui (cfr. Col 1, 16-17).
C’è, dunque, una ragione creatrice all’origine del cosmo (cfr. Catechismo, 284)[5]. Il cristianesimo ha sin dall’inizio una grande fiducia nella capacità della ragione umana di conoscere e la straordinaria certezza che mai la ragione (scientifica, filosofica, ecc.) potrà arrivare a conclusioni contrarie alla fede, perché entrambe provengono da una stessa origine.
Non è raro imbattersi in alcuni che pongono falsi dilemmi; per esempio, fra creazione ed evoluzione. In realtà, un’adeguata epistemologia non solo distingue gli ambiti propri delle scienze naturali e della fede, ma inoltre riconosce nella filosofia un necessario elemento di mediazione, perché le scienze, con i loro metodi e con gli obiettivi che le sono propri, non coprono tutto l’ambito della ragione umana; e la fede, che si riferisce allo stesso mondo di cui parlano le scienze, ha bisogno per esprimersi di entrare in dialogo con la razionalità umana delle categorie filosofiche[6].
È logico, dunque, che la Chiesa fin dall’inizio abbia cercato il dialogo con la ragione: una ragione cosciente del suo carattere creato, perché non ha dato a se stessa l’esistenza, né dispone in modo completo del proprio futuro; una ragione aperta a ciò che la trascende, vale a dire, alla Ragione originaria. Paradossalmente, una ragione ripiegata su se stessa, che crede di poter trovare in sé la risposta ai suoi quesiti più profondi, finisce con l’affermare l’assurdità dell’esistenza e col non riconoscere l’intelligibilità di ciò che è reale (nichilismo, irrazionalismo, ecc.).

«È Signore e dà la vita»
«Noi crediamo che il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà: “Tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono” (Ap 4, 11). […] “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 145, 9)» (Catechismo, 295). Di conseguenza, «scaturita dalla bontà divina, la creazione partecipa di questa bontà (“E Dio vide che era cosa buona… cosa molto buona”: Gn 1, 4.10.12.18.21.31). La creazione, infatti, è voluta da Dio come un dono» (Catechismo, 299).
Questo carattere di bontà e di dono libero permette di scoprire nella creazione l’azione dello Spirito – che «aleggiava sulle acque» (Gn 1, 2) -, la Persona-Dono nella Trinità, Amore sussistente tra il Padre e il Figlio. La Chiesa confessa la sua fede nell’opera creatrice dello Spirito Santo, datore di vita e sorgente di ogni bene[7].
L’affermazione cristiana della libertà divina di creare permette di superare le ristrettezze di altre visioni che, ponendo in Dio una necessità, finiscono con il sostenere il fatalismo o il determinismo. Non c’è nulla, né “dentro” né “fuori” di Dio, che lo obblighi a creare. Qual è allora il fine che lo muove? Che cosa si è proposto nel crearci?

1.2. «Il mondo è stato creato per la gloria di Dio» (Concilio Vaticano I)
Dio ha creato tutto «non per aumentare la sua gloria, ma per manifestarla e comunicarla» (San Bonaventura, Sent. 2, 1, 2, 2, 1). Il Concilio Vaticano I (1870) insegna che «nella sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per aumentare la sua beatitudine, né per acquistare perfezione, ma per manifestarla attraverso i beni che concede alle sue creature, questo solo vero Dio ha, con la più libera delle decisioni, insieme, dall’inizio dei tempi, creato dal nulla l’una e l’altra creatura, la spirituale e la corporale» (DS 3002; cfr. Catechismo, 293).
«La gloria di Dio è che si realizzi la manifestazione e la comunicazione della sua bontà, in vista delle quali il mondo è stato creato. Fare di noi i suoi “figli adottivi per opera di Gesù Cristo” è il benevolo disegno “della sua volontà… a lode e gloria della sua grazia” (Ef 1, 5-6). Infatti la gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio” (Sant’Ireneo, Adversus haereses,4, 20, 7)» (Catechismo, 294).
Lungi da una dialettica di principi contrapposti (come accade nel dualismo di tipo manicheo e nell’idealismo monista hegeliano), affermare la gloria di Dio come fine della creazione non comporta una negazione dell’uomo, ma un presupposto indispensabile per la sua realizzazione. L’ottimismo cristiano affonda le sue radici nella esaltazione di Dio e dell’uomo insieme: «l’uomo è grande solo se Dio è grande»[8]. Si tratta di un ottimismo e di una logica che affermano l’assoluta priorità del bene, ma che non per questo sono ciechi davanti alla presenza del male nel mondo e nella storia.

1.3. Conservazione e provvidenza. Il male
La creazione non è terminata con quella all’inizio dei tempi; «dopo averla creata, Dio non abbandona a se stessa la sua creatura. Non le dona soltanto di essere e di esistere: la conserva in ogni istante nell’essere, le dà la facoltà di agire e la conduce al suo termine» (Catechismo, 301). La Sacra Scrittura paragona questa azione di Dio nella storia all’azione creatrice (cfr. Is 44, 24; 45, 8; 51, 13). La letteratura sapienziale esplicita l’azione di Dio che mantiene nell’esistenza le sue creature. «Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?» (Sap 11, 25). San Paolo va oltre ed attribuisce questa azione di conservazione a Cristo: «Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (Col 1, 17).
Il Dio cristiano non è un orologiaio o un architetto che, dopo aver compiuto la sua opera, se ne disinteressa. Queste immagini sono proprie di una concezione deista, secondo la quale Dio non si intromette nelle faccende di questo mondo. Ma questa sarebbe una falsa visione dell’autentico Dio creatore, perché separa drasticamente la creazione dalla conservazione e dal governo divino del mondo[9].
La nozione di conservazione “fa da ponte” tra l’azione creativa e il governo divino del mondo (provvidenza). Dio non solo crea il mondo e lo mantiene nell’esistenza, ma inoltre «conduce le sue creature verso la perfezione ultima, alla quale Egli le ha chiamate» (Compendio, 55). La Sacra Scrittura presenta la sovranità assoluta di Dio e testimonia continuamente la sua cura paterna, sia nelle cose più piccole sia nei grandi eventi della storia (cfr. Catechismo, 303). In un tale contesto Gesù si rivela come la provvidenza “incarnata” di Dio, che soddisfa come Buon Pastore le necessità materiali e spirituali degli uomini (Gv 10, 11.14-15; Mt 14, 13-14, ecc.) e ci insegna ad abbandonarci alla sua sollecitudine (Mt 6, 31-33).
Se Dio crea, sostiene e dirige tutto con bontà, da dove proviene il male? «A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna rapida risposta potrà bastare. È l’insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione […]. Non c’è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema del male» (Catechismo, 309).
La creazione non si è conclusa all’inizio, ma Dio l’ha fatta in statu viae, vale a dire, in vista di una meta ultima ancora da raggiungere. Per la realizzare i suoi disegni, Dio si serve del concorso delle sue creature e concede agli uomini una partecipazione alla sua provvidenza, rispettando la loro libertà anche quando agiscono male (cfr. Catechismo, 302, 307, 311). È davvero sorprendente che Dio «nella sua Provvidenza onnipotente può trarre un bene dalle conseguenze di un male» (Catechismo, 312). È una misteriosa ma grandissima verità che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28)[10].
L’esperienza del male sembra manifestare una tensione fra l’onnipotenza e la bontà di Dio nel suo intervenire nella storia. Quella riceve risposta, certamente misteriosa, nell’evento della Croce di Cristo, che rivela il “modo di essere” di Dio, e pertanto è per l’uomo sorgente di sapienza (sapientia crucis).

1.4. Creazione e salvezza
La creazione è «il primo passo verso l’Alleanza dell’unico Dio con il suo popolo» (Compendio, 51). Nella Bibbia la creazione è aperta all’azione salvifica di Dio nella storia, che raggiunge la pienezza nel mistero pasquale di Cristo e che raggiungerà la sua perfezione finale alla fine dei tempi. La creazione è fatta in vista del sabato, il settimo giorno in cui il Signore riposò, giorno in cui culmina la prima creazione e che si apre all’ottavo giorno in cui comincia un’opera ancora più meravigliosa: la Redenzione, la nuova creazione in Cristo (2 Cor 5, 7; cfr. Catechismo, 345-349).
Appare così evidente la continuità e l’unità del disegno divino di creazione e di redenzione. Fra le due non c’è nessuno iato, perché il peccato degli uomini non ha corrotto totalmente l’opera di Dio, ma un vincolo. La relazione fra le due – creazione e salvezza – può essere espressa dicendo che, da una parte, la creazione è il primo avvenimento salvifico e, d’altra parte, la salvezza redentrice ha le caratteristiche di una nuova creazione. Questa relazione illumina importanti aspetti della fede cristiana, come l’ordinamento della natura alla grazia o l’esistenza di un unico fine soprannaturale dell’uomo.

2. La realtà creata
L’effetto dell’azione creatrice di Dio è la totalità del mondo creato, “cielo e terra” (Gn 1, 1). Dio è «creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali; che con la sua forza onnipotente fin dal principio del tempo creò dal nulla l’uno e l’altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo terrestre, e poi l’uomo, quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e di corpo»[11].
Il cristianesimo supera sia il monismo (che afferma che la materia e lo spirito si confondono e che la realtà di Dio e del mondo si identificano) che il dualismo (secondo il quale materia e spirito sono principi originari opposti).
L’azione creatrice appartiene all’eternità di Dio, ma l’effetto di tale azione è marcato dalla temporalità. La Rivelazione afferma che il mondo è stato creato come mondo con un inizio temporale[12], vale a dire, che il mondo è stato creato insieme con il tempo, cosa che si mostra assai coerente con l’unità del disegno divino di rivelarsi nella storia della salvezza.

2.1. Il mondo spirituale: gli angeli
«L’esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è tanto chiara quanto l’unanimità della Tradizione» (Catechismo, 328). Entrambi li mostrano nella loro duplice funzione di dare lode a Dio e di essere messaggeri del suo disegno salvifico. Il Nuovo Testamento presenta gli angeli in relazione con Cristo: “creati per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16), sono presenti nella vita di Cristo dalla nascita fino all’Ascensione, annunciatori della sua seconda venuta gloriosa (cfr. Catechismo, 333).
Nello stesso modo, essi sono presenti anche all’inizio della vita della Chiesa, la quale trae beneficio dal loro aiuto potente, e nella liturgia si unisce a loro nell’adorazione a Dio. La vita di ogni uomo è accompagnata sin dalla nascita da un angelo che lo protegge e lo guida verso la Vita (cfr. Catechismo, 334-336).
La teologia (e specialmente San Tommaso d’Aquino, il Dottore Angelico) e il magistero della Chiesa hanno approfondito la natura di questi esseri puramente spirituali, dotati di intelligenza e volontà, affermando che sono creature personali e immortali, che superano in perfezione tutte le creature visibili (cfr. Catechismo, 330).
Gli angeli furono creati e sottoposti a una prova. Alcuni si opposero irrevocabilmente a Dio. Caduti nel peccato, Satana e gli altri demoni – che, creati buoni, da se stessi si erano fatti cattivi – istigarono i nostri progenitori a peccare (cfr. Catechismo, 391-395).

2.2. Il mondo materiale
Dio «ha creato il mondo visibile in tutta la sua ricchezza, la sua varietà e il suo ordine. La Sacra Scrittura presenta simbolicamente l’opera del Creatore come un susseguirsi di sei giorni di “lavoro” divino, che termina nel “riposo” del settimo giorno (Gn 1, 1-2,4)» (Catechismo, 337). «La Chiesa, a più riprese, ha dovuto difendere la bontà della creazione, compresa quella del mondo materiale (cfr. DS 286; 455-463; 800; 1333; 3002)» Catechismo, 299).
«È dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine» (GS 36, 2). La verità e bontà del creato procedono dall’unico Dio Creatore, che allo stesso tempo è Trino. Così il mondo creato è un certo riflesso dell’azione delle Persone divine: «in tutte le creature si trova una rappresentazione della Trinità a mo’ di vestigio»[13].
Il cosmo possiede bellezza e dignità in quanto è opera di Dio. C’è una solidarietà e una gerarchia tra gli esseri, e questo deve indurre ad un atteggiamento contemplativo di rispetto verso il creato e le leggi naturali che lo reggono (cfr. Catechismo, 339, 340, 342, 354). Certamente il cosmo è stato creato per l’uomo, che ha ricevuto da Dio il mandato di dominare la terra (cfr. Gn 1, 28). Questo mandato non è un invito allo sfruttamento dispotico della natura, ma a partecipare al potere creatore di Dio: mediante il suo lavoro, l’uomo collabora al perfezionamento della creazione.
Il cristiano condivide le esigenze di rispettare l’ambiente naturale, che la sensibilità ecologica ha messo in evidenza negli ultimi decenni, ma senza cadere in una vaga divinizzazione del mondo, e affermando la superiorità dell’uomo sul resto degli esseri come «vertice dell’opera della Creazione » (Catechismo, 343).

2.3. L’uomo
Le persone umane godono di una posizione particolare nell’opera creatrice di Dio, perché partecipano allo stesso tempo della realtà materiale e di quella spirituale. Solo di lui la Scrittura dice che Dio lo creò «a sua immagine e somiglianza» (Gn 1, 26). È stato messo da Dio a capo della realtà visibile e gode di una dignità speciale perché «di tutte le creature visibili, solo l’uomo è capace di conoscere e di amare il proprio Creatore; è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa; soltanto l’uomo è chiamato a condividere, nella conoscenza e nell’amore, la vita di Dio. A questo fine è stato creato ed è questa la ragione fondamentale della sua dignità» (Catechismo, 356; ibidem, 1701-1703).
Uomo e donna, nello loro diversità e complementarietà, volute da Dio, godono della stessa dignità di persone (cfr. Catechismo, 357, 369, 372). In entrambi c’è un’unione sostanziale di corpo e anima, essendo questa la forma del corpo. Dato che è spirituale, l’anima umana è creata direttamente da Dio (non è “prodotta” dai genitori, e neppure è preesistente), ed è immortale (cfr. (Catechismo, 366). I due punti (spiritualità e immortalità) possono essere dimostrati filosoficamente. Pertanto, è un riduzionismo affermare che l’uomo procede esclusivamente dall’evoluzione biologica (evoluzionismo assoluto). Nella realtà esistono salti ontologici che non si possono spiegare solo con l’evoluzione. La coscienza morale e la libertà dell’uomo, per esempio, manifestano la sua superiorità sul mondo materiale e dimostrano la sua particolare dignità.
La verità della creazione aiuta a superare sia la negazione della libertà (determinismo) che il suo opposto della sopravvalutazione della stessa: la libertà umana è creata, non assoluta, ed esiste in rapporto con la verità e con il bene. Il sogno della libertà come puro potere ed arbitrarietà corrisponde a un’immagine deformata non solo dell’uomo, ma anche di Dio.
Mediante la sua attività e il suo lavoro, l’uomo partecipa del potere creatore di Dio[14]. Inoltre, la sua intelligenza e la sua volontà sono una partecipazione, una briciola, della sapienza e dell’amore di Dio. Mentre il resto del mondo visibile è una semplice impronta della Trinità, l’essere umano costituisce un’autentica imago Trinitatis.

3. Alcune conseguenze pratiche della verità sulla creazione
La radicalità dell’azione creatrice e salvifica divina esige dall’uomo una risposta che abbia lo stesso carattere di totalità: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 5; cfr. Mt 22, 37; Mc 12, 30; Lc 10, 27). In questa corrispondenza si trova la vera felicità, l’unica cosa capace di perfezionare la sua libertà.
Nello stesso tempo, l’universalità dell’azione divina ha un significato sia intensivo che estensivo: Dio crea e salva ogni uomo e tutti gli uomini. Corrispondere alla chiamata di Dio e amarlo con tutto il nostro essere va inseparabilmente unito al compito di portare il suo amore a tutto il mondo[15].
La conoscenza e l’ammirazione del potere, della sapienza e dell’amore di Dio conducono l’uomo a una disposizione di riverenza, adorazione e umiltà, a vivere alla presenza di Dio sapendo di essere suoi figli. Allo stesso tempo, la fede nella Provvidenza porta il cristiano ad un atteggiamento di fiducia filiale in Dio in tutte le circostanze: con gratitudine per i beni ricevuti e con abbandono davanti a ciò che può sembrare cattivo, perché Dio sa trarre dai mali beni più grandi.
Cosciente che tutto è stato creato per la gloria di Dio, il cristiano si adopera per comportarsi in tutte le sue azioni cercando il fine autentico che riempia la sua vita di felicità: la gloria di Dio, non la vanagloria personale. Si sforza di rettificare l’intenzione delle proprie azioni, in modo che si possa dire che l’unico fine della sua vita è questo: Deo omnis gloria[16].
Dio ha voluto mettere l’uomo al vertice della sua creazione dandogli il dominio sul mondo, in modo che lo perfezioni con il suo lavoro. L’attività umana, dunque, può essere considerata come una partecipazione all’opera creatrice di Dio.
La grandezza e la bellezza delle creature suscita nell’uomo ammirazione, risveglia in lui l’interrogativo circa l’origine e il fine suo e del mondo, e gli fa intravedere la realtà del loro Creatore. Il cristiano, nel suo dialogo con i non credenti, può suscitare questi interrogativi in modo che le intelligenze e i cuori si aprano alla luce del Creatore. Nello stesso modo, nel suo dialogo con i seguaci di altre religioni, il cristiano trova nella verità della creazione un eccellente punto di partenza, in quanto si tratta di una verità condivisa da molti e che costituisce la base per il consolidamento di alcuni valori morali fondamentali della persona.

Santiago Sanz

L’IMPORTANZA DELLA STORIA NATURALE E DELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE (1691) (commemorare le opere della creazione)

http://www.disf.org/Documentazione/66.asp

JOHN RAY, L’IMPORTANZA DELLA STORIA NATURALE E DELLA FILOSOFIA SPERIMENTALE (1691)

(commemorare le opere della creazione)

Ci accontentiamo della conoscenza delle lingue, e di alcune nozioni di filologia, di storia, e dimentichiamo ciò che a me sembra più importante, cioè la storia naturale e le opere della creazione. Io non disapprovo gli altri campi di studio; se lo facessi tradirei solo la mia ignoranza e debolezza. Vorrei solamente che essi non escludessero la storia naturale, e che anzi la storia naturale fosse portata in auge fra di noi. Vorrei che gli uomini fossero così civili da non disprezzare, deridere e svilire questi studi solo per il fatto di non avere con essi una sufficiente dimestichezza. Nessuno studio può essere più piacevole di questo, nessuno come questo soddisfa e nutre lo spirito; in confronto, lo studio delle parole e delle frasi sembra insipido e sterile. Questa erudizione, che (come dice un prelato saggio e osservante) consiste unicamente nella forma e nella pedagogia delle arti, o nelle nozioni critiche sulle parole e sulle frasi, ha in sé una tale imperfezione che è difficile stimare come possa condurre alla conoscenza delle cose, non essendo altro che una sorta di pedanteria capace solo di infondere nell’uomo un eccesso di orgoglio, affettazione e curiosità, sì da renderlo inidoneo a grandi occupazioni. Le parole non sono che immagini della materia, abbandonate al loro studio. Pigmalione si innamorò di un’immagine. L’oratoria, che è l’arte del miglior uso delle parole, è stimata da alcuni uomini saggi come un’arte voluttuaria, come la cucina, che rovina i cibi e li rende insalubri con la varietà di salse che servono più al piacere della gola che la salute del corpo.
Potrebbe far parte (come ha pensato qualche teologo) delle nostre occupazioni contemplare in eterno le parole di Dio, glorificare la sua sapienza, potenza e bontà manifestate nella loro creazione. Sono certo che queste pratiche debbano far parte delle occupazioni della domenica, che è un simbolo dell’eterno riposo. La domenica pare sia stata istituita originariamente per commemorare le opere della creazione, poiché sta scritto che Dio si fermò il settimo giorno.
Non ci basti apprendere dai libri, né leggere ciò che altri hanno scritto, e non accordiamo più fiducia al falso che al vero. Esaminiamo noi stessi le cose che ci capita di incontrare e accostiamoci alla natura come ai libri. Cerchiamo di incrementare e promuovere questo sapere, di fare nuove scoperte, senza diffidare delle nostre membra e delle nostre abilità come faremmo se credessimo che il nostro industriarci non possa aggiungere nulla alle invenzioni degli antichi o non possa correggere i loro errori. Non pensiamo che i confini della scienza siano fissati come le colonne d’Ercole e che portino l’iscrizione Non plus ultra . Non pensiamo, una volta che li abbiamo conosciuti, di interrompere le nostre ricerche. I tesori della natura sono inesauribili. C’è lavoro sufficiente per tutti noi, per gli zelanti, infaticabili e per gli indolenti più indisturbati. Molto si potrebbe fare per tentativi e nulla resiste alla pazienza. Io so che di primo acchito un nuovo campo di studio appare sempre molto vasto, intricato e difficile; ma dopo un piccolo progresso, quando s’inizia ad averne qualche piccola conoscenza, l’intelletto viene meravigliosamente rischiarato, le difficoltà svaniscono e le cose divengono facili e familiari. Come incoraggiamento in questo studio si veda il Salmo 111, 2: «Grandiose sono le opere del Signore, degne d’esser meditate da quanti le amano». Queste parole, che si riferiscono alle opere della provvidenza, possono essere verificate anche rispetto alle opere della creazione. Mi dispiace che in questa università si dia così poca importanza alla filosofia sperimentale e che si neghino le ingegnose scienze matematiche. Esorto ardentemente i giovani, e specialmente i laureandi, a coltivare questi studi. Essi potrebbero inventare o scoprire qualcosa di molto utile e vantaggioso per il mondo. Una sola di queste scoperte giustificherebbe e ricompenserebbe il lavoro di tutta una vita. Comunque, sarebbe sufficiente conservare e continuare quello che già c’è; né vedo a quale migliore impiego si possa volgere l’ingegnosa attività umana; la storia naturale, infatti, tende alla soddisfazione della mente e alla rappresentazione della gloria di Dio, il quale è meraviglioso in tutte le sue opere.
Non c’è uomo che abbia scavalcato le sue inclinazioni o che abbia intrapreso un metodo di studio cui non era adatto, o contrastante con i fini che gli sono stati attribuiti dai suoi amici dopo matura riflessione. Ma chi ha agio e naturale disposizione per questi studi, sia questo dovuto alla forza o alla grandezza del suo corpo, sarà in grado di concepire e comprendere l’intera estensione del sapere.
Né coloro che sono designati per la teologia debbono temere questi studi o pensare che essi possano essere sterili se non vi si dedica un’attenzione esclusiva. La nostra vita è sufficientemente lunga e possiamo trovare in essa abbastanza tempo se lo amministriamo come si conviene: «non accipimus brevem vitam sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus» come ha detto Seneca [De brevitate vitae, I, 1: «Non riceviamo una vita breve ma l’abbiamo fatta tale e non ne siamo sprovvisti, ma spreconi». Se i giovani non trascorressero tutta la loro vita in questi studi, che incombono e gravano su di loro e li assillano sul modo del loro trapasso, si potrebbe fare molto. Non c’è niente di meglio dello studio della vera fisica come vera propaideia, o preparazione, alla teologia.

da La sapienza di Dio manifestata nelle opere della creazione, tr. it. a cura di Andrea Balzarini, Marietti 1820, Genova-Milano 2004, pp. 146-148.

La creazione e l’escatologia in S. Paolo: Le domande dell’uomo tra natura e storia e le risposte in Paolo (prima parte)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=57

Incontri di « Fine Settimana »
percorsi su fede e cultura
anno 32° – 2010/2011

La creazione e l’escatologia in S. Paolo (prima parte)

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 13-14 gennaio 1990

Le domande dell’uomo tra natura e storia e le risposte in Paolo

Il problema essenziale è il rapporto tra noi e il mondo. Il mondo è natura, ma anche storia e gli attori della storia sono gli uomini. Mentre la natura è il regno della necessità, la storia è il regno della libertà.
C’è però anche la cultura che sta tra natura e storia: l’uomo , collocandosi nella natura e nella storia, produce le istituzioni del suo vivere (familiari e sociali), modi di pensare e di essere. Quale senso ha la nostra vita, la nostra storia, la nostra natura, dato che apparteniamo ad entrambe? Gestiamo la storia ma apparteniamo anche alla natura. Mentre gli animali sono totalmente assorbiti nella natura l’uomo, oltre che nella natura, ha una presenza significativa nella storia.
Lo gnosticismo ha posto il problema con tre interrogativi fondamentali: donde veniamo? chi siamo? dove andiamo? E’ un problema ineludibile per l’uomo di ogni generazione che pensa e riflette, a differenza degli animali. La ricerca di risposte rispecchia situazioni specifiche. Noi ci poniamo le stesse domande degli gnostici, ma in situazioni nuove e perciò dobbiamo cercare nuove risposte adeguate alla situazione in cui viviamo. C’è un problema ecologico che riguarda tutti, c’è la novità del dialogo tra le religioni, c’è la presenza di movimenti pacifisti, c’è la crescente disparità di ricchezze nel mondo, c’è una sfrenata ricerca del profitto che mette il silenziatore alle grandi domande di senso.
Cercheremo di trovare delle risposte in Paolo, delle risposte certamente datate. Anche Paolo, come del resto anche Gesù e i profeti, non sfuggiva al criterio della storicità.
Paolo è una voce che, pur essendo datata come Cristo e i profeti, noi riconosciamo come espressiva della fede cristiana. Ci indica un cammino consono alla fede cristiana anche se in una cultura particolare.
1 Corinzi 8,4-6: un solo Dio e Signore
E’ un testo molto significativo che Paolo trae dalla tradizione e lo fa suo, rielaborandolo, per esprimere la fede nei suo tratti essenziali: la fede creazionistica e la fede soteriologica della salvezza. Dice Paolo a proposito delle carni immolate agli dei pagani, che la tradizione giudaica vietava di mangiare non solo nei luoghi di culto dove si sacrificavano gli animali ma anche quando venivano vendute al mercato.
« Quanto poi al cibarsi delle carni immolate agli idoli sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo (l’idolo è una nullità), e non c’è dio se non uno solo. Infatti anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo sia in terra, come di fatto ci sono molti dei e signori… » Sembra una contraddizione, m a prosegue: « per noi invece c’è un solo Dio, il Padre,
dal quale tutto (la totalità del mondo) viene e noi esistiamo per lui,
e c’è un solo Signore, Gesù Cristo,
mediante il quale tutto è, e noi siamo mediante lui ».
Paolo dice che se vogliamo considerare la situazione concreta guardandoci intorno, vediamo che molti sono gli dei, molti i signori. A quel tempo, ma non solo a quel tempo, c’era uno spreco di dei e signori. L’imperatore era Dio, Cesare Augusto era un titolo divino, Adriano si faceva lodare come il salvatore del mondo, gli dei orientali erano « signori », gli eroi erano i figli di Dio.
Anche il mondo di oggi è pieno di dei e signori, perché è pieno di servi. Se non ci fossero i servi non ci sarebbero i signori. Sono i servi che creano l’altro come signore di se stessi. « ma per noi », per le nostre soggettività, dice Paolo, « non ci sono dei e signori perché c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo » . E’ un credo costruito su di un motivo creazionale.
Colossesi 1,15-20
E’ un testo straordinariamente bello. E’ da notare che questi testi della chiesa primitiva, giunti a noi attraverso la testimonianza di Paolo e della sua scuola, usano un poco la enfasi, esprimono la lode, sono poetici. Non c’è grande precisazione teologica, e molti termini esprimono l’emozione dei credenti che professano in quel modo la loro fede. Non bisogna insistere molto sui particolari.
« Gesù Cristo – dice Colossesi – è l’immagine e l’icona del Dio invisibile ».
Paolo rilegge l’affermazione creazionale dell’uomo a immagine di Dio in senso cristologico, « primogenito di ogni creatura ». C’è un rapporto molto stretto tra Gesù e la creazione in Paolo. « Poiché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che stanno nei cieli che sulla terra, sia quelle visibili che quelle invisibili, sia i troni, sia le signorie, sia i principati, si le potestà ». Si tratta del quadro cosmologico di allora, soprattutto degli ambienti dell’Asia Minore legati ad una pregnosi, in cui tra Dio e l’umanità c’erano esseri intermedi che dominavano la storia, gli eoni. In questa concezione si dice che Cristo ha vinto gli eoni e quindi ogni dominatore è messo fuori gioco.
« Tutte le cose sono state create » Si tratta di un perfetto che indica qualcosa che è avvenuto e che perdura, cioè tutto è stato creato dal primo giorno e resta creato.
« Egli è prima di tutte le cose e la totalità delle cose ha consistenza in lui; Lui è la testa del corpo della chiesa, lui che è l’arché, il principio, il prototipo di ogni creazione e di ogni risurrezione, affinché abbia il primato in tutte le cose, poiché in lui piacque a Dio di fare abitare tutta la pienezza e mediante lui riconciliare tutte le cose, facendo pace mediante il sangue della sua croce e mediante lui sia le cose che ci sono sulla terra, come quelle che sono nel cielo ».
Il motivo centrale è la correlazione tra la totalità e l’unità di Gesù. Tutto è mediante lui, verso lui e consistente in lui; le preposizioni « en », « dia », « eis » stanno ad indicare un rapporto molto forte di comunità essenziale tra l’universo e l’unità singolare, che è Gesù. Tutto (ta panta) è stato creato e tutto è stato riconciliato. Il beneficiario della riconciliazione è lo stesso di quella della creazione, la totalità della realtà, noi e il mondo
2Corinzi 5,17 e Galati 6,15
I due testi sono carichi di significati.
Dice 2Corinzi 5,17:
« Cosicché se uno è in Cristo è una creatura nuova di zecca ». Si usa l’aggettivo « kainé » che a differenza di « neos » indica novità qualitativa, non ripetitiva.
Il tema della creatura nuova ha una lunga storia alle spalle. E’ presente nel Deuteroisaia e in Isaia: l’escatologia è una proiezione nel futuro della creazione. L’originalità in Paolo sta nel dire che la « creatura nuova » si realizza nella storia se uno è in Cristo. Non c’è « verranno i cieli e terra nuova », ma la « creatura nuova » è già qui.
Paolo, così diverso da Gesù, in questa intuizione profondissima è suo discepolo contro ogni concezione apocalittica.
Due sono i motivi presenti in questi testi: la dimensione cristologica della creazione e la dimensione escatologica della creatura nuova. Tutto, l’uomo e il mondo, è stato creato, è creatura (ktisis) di fronte al creante (ktisas). La Bibbia offre qui una prima fondamentale risposta alle domande su chi siamo, donde veniamo e dove andiamo.
Il rapporto tra la totalità come creatura e il creante è un rapporto strutturale. Non può esistere creatura senza creante. Non è un rapporto che è stato all’inizio per poi interrompersi, ma persiste. Noi siamo stati, siamo e saremo creatura di fronte al creante. E’ un rapporto costitutivo del nostro essere nei confronti di Dio e di Dio nei nostri confronti. Ci definiamo, gli uni e gli altri, su questa linea della creazione.
sdivinizzazione dell’uomo e del mondo

di Gianfranco Ravasi: Come vite feconda (Salmo 128) (anche sull’ulivo)

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmo128.htm

I SALMI   CANTI SUI SENTIERI DI DIO

di  GIANFRANCO RAVASI

Come vite feconda (Salmo 128)

Mille e mille sono le vocazioni tante quante sono le persone, create da Dio in una gamma infinità di qualità, di tipi, di sentimenti, di fisionomie interiori ed esteriori. Esistono, però, alcune scelte fondamentali che ognuno vive poi con le sue caratteristiche personali. Una di queste strade della vita è quella del matrimonio e della famiglia. E i Salmi la cantano in una pagina deliziosa, divenuta il cantico nuziale per eccellenza. Si tratta del Salmo 128 che ora leggiamo. 

Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie!

« Della fatica delle tue mani certamente mangerai;
beato te: avrai ogni bene!

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa,
i tuoi figli come virgulti d’olivo
intorno alla tua mensa ». 

Ecco come è benedetto l’uomo
che teme il Signore:

« Ti benedica il Signore da Sion!
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
per tutti i giorni della tua vita!

Possa tu vedere i figli dei tuoi figli! »
Pace su Israele!

Due sono i quadretti che il salmo ci presenta. Essi affondano le loro radici nella realtà umana dell’amore, della vita e del lavoro, cercando di scoprire in essi i segni dell’amore divino e della benedizione. Il primo quadro contiene una « beatitudine » (vv. 1-3) ed è colmo di immagini vegetali classiche  (la vite e l’olivo); il secondo, invece, è una benedizione (vv. 4-6) ed apre la famiglia alla più ampia comunità familiare di ogni ebreo, quella di Gerusalemme e di Israele. 

Dopo una proclamazione iniziale di felicità del giusto (v.1) , si apre la porta di questa famiglia ideale. Appare subito il padre lavoratore, colmo di beni, che da Dio non riceve solo il pane quotidiano, ma anche una mensa sovrabbondante. Ecco poi avanzare la sposa e i figli che evocano simbolicamente i due alberi emblematici di Israele, la vite e l’olivo.

La vite, infatti, è lo stemma di Israele come comunità « piantata e coltivata » dal Signore e chiamata a produrre frutti nel dialogo dell’alleanza. Qui l’immagine è applicata alla donna in quanto generatrice. Come una vigna lussureggiante, appesantita da grossi grappoli e dall’abbondante fogliame, è indizio di prosperità e di vita, così la donna feconda circondata dai suoi figli numerosi è espressione di felicità e di benessere. Nel Cantico l’ebbrezza dell’amore è comparata a quella del vino. Anche l’olivo nella Bibbia è emblema di Israele, del Signore stesso, della prosperità e della gioia, della giustizia e dalla sapienza.  L’olivo sopravvive al diluvio (Genesi 8,11) e secondo la tradizione rabbinica non si concepisce un’epoca della storia del nostro pianeta in cui non sia coltivato l’olivo. Qui, invece, è applicato ai figli numerosi e densi di linfa come un albero maestoso di ulivo.  Già il poeta greco Euripide nella Medea (v.1908) affermava che « i figli sono nella casa come piccoli germogli ».

Questo ritratto idilliaco presenta, perciò, la sposa fresca, seducente, tenera e soprattutto feconda secondo la tipica visione orientale, in particolare ai fini di una continuazione « immortale » della famiglia e della memoria del patriarca. La sua funzione è squisitamente « materna », la sua attività è essenzialmente familiare, i figli e la casa sono lo sbocco naturale e la radice stessa del suo esistere. La vite ricca di grappoli ne è, quindi, la raffigurazione ideale, come i figli sani e vigorosi riuniti attorno alla mensa sono da pensare come un oliveto denso di virgulti che promettono ruscelli di olio per i futuri raccolti.

Alla scena « mediterranea » e naturale della vite e dell’olivo subentra nella seconda parte del salmo un’atmosfera più spirituale e religiosa con la benedizione dei vv. 4-6, formulata secondo i canoni del benessere visto come premio del giusto. Bene e male sono già giudicati qui sulla terra e la prosperità si effonde subito sul fedele come segno visibile della sua giustizia e della sua onestà. La benedizione viene da Sion, cioè dal tempio, e non scende solo sul singolo fedele ma sull’intera comunità incarnata da Gerusalemme. Il carme ci congeda col saluto ebraico di stampo messianico shalom, pace e gioia, allusivo nei confronti del nome della città santa, Gerusalemme, « città della pace », ma destinato soprattutto ad ogni famiglia.

C’è, quindi, una vocazione al matrimonio che Dio benedice e che diventa fonte di felicità. Anche se la più comune, essa non è per tutti e dev’essere vissuta con intensità e serietà, con amore e gioia.  Possiamo concludere con dei bei pensieri sul matrimonio, che il poeta libanese K. Gibran ha scritto nella sua opera Il profeta:

« Sarete insieme in eterno; sarete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni, sarete insieme anche nella silenziosa memoria di Dio. Ma lasciate che vi sia spazio nel vostro essere insieme, lasciate che i venti del paradiso danzino tra voi.

Amatevi l’un l’altro ma non fate dell’amore una catena: lasciate invece che vi sia un mare in movimento tra i lidi delle vostre anime. Cantate, ballate insieme e siate gioiosi, ma lasciate che ognuno sia solo. Anche le corde di un liuto sono sole, eppure formano la stessa musica. Datevi i vostri cuori ma non per possederli, perché solo la mano della vita può contenere i vostri cuori. State in piedi insieme, ma non troppo vicini, perché le colonne del tempio stanno separate e la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro ».


(da SE VUOI)

IL GIARDINO DEGLI OLIVI (dovete andare al sito per vedere tutte le immagini)

dal sito:

http://198.62.75.1/www1/ofm/san/GET04gar_It.html

IL GIARDINO DEGLI OLIVI

Otto vecchi olivi, da dietro una bassa cancellata a motivi bizantini (eretta nel 1959), attirano l’attenzione dei pellegrini al loro ingresso nel giardino, e creano l’atmosfera spirituale per una visita al Getsemani. La loro età ha sollevato discussioni che vengono riecheggiate in tutte le guide. Questi alberi, la cui prima menzione risale al XV secolo, apparivano ai pellegrini dei secoli seguenti, molto vecchi e molto grandi, i più grandi di tutti gli alberi di Palestina. Nessuno mette in dubbio l’età veneranda di questi olivi dal tronco cavo e nodoso; ma né la storia né la botanica offrono argomenti decisivi circa la loro data di nascita. Tutte le deduzioni che alcuni hanno voluto trarre dalla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio, sono vane e noi non sappiamo se gli olivi, che forse crescevano nel giardino all’epoca del Cristo, sono stati, o meno, abbattuti dai Romani nel 70, durante l’assedio di Gerusalemme. Altrettanto vana è la prova che alcuni pellegrini e alcuni scrittori (tra cui perfino Chateaubriand) hanno dedotto da una supposta esenzione fiscale – o riduzione, perché i testi sono contraddittori – di cui avrebbero goduto gli olivi del Getsemani per il fatto di essere anteriori all’invasione araba… o al dominio turco. Questa esenzione è spiegata semplicemente dalla natura religiosa dell’opera alla quale i musulmani avevano assegnato il giardino del Getsemani, dopo aver riconquistato Gerusalemme nel 1187. I botanici non hanno miglior fortuna degli storici. Se, da una parte, il tronco di un olivo, soprattutto di un vecchio olivo, non si presta allo studio dello sviluppo vegetale, d’altra parte nulla suffraga l’affermazione dei pellegrini che ritengono che gli olivi del Getsemani siano dei polloni delle piante dell’epoca del Cristo. Anche se spesso avviene, come già osservava Plinio il Vecchio, che l’olivo non muore, ma rinasce dal suo stesso ceppo, il fenomeno non è accaduto a quell’albero del Getsemani che i pellegrini del XVII secolo dicono esser stato bruciato, abbattuto, o esser morto di vecchiaia, e che non pare, checché se ne sia detto, aver generato dei polloni. Senza dubbio le anime sensibili possono provare una certa delusione. Ma, anche se non sono proprio le piante dell’epoca evangelica, e forse nemmeno i polloni, gli olivi del Getsemani meritano la venerazione di tutti i pellegrini grazie al ricordo dell’Agonia da loro suscitato in questo luogo che ne è stato il testimone. 
La storia del Giardino degli Olivi può essere riassunta in poche righe. Dopo aver fatto probabilmente parte del complesso ecclesiastico delle chiese costruite a partire dal IV secolo nel luogo dell’Agonia, il giardino subì, partiti i crociati, la sorte di tutte le antiche proprietà cristiane: fu assegnato come waqf (lascito pio) ad un’opera religiosa maomettana. Nel caso specifico, al collegio teologico che aveva sede nella chiesa di S. Anna.
Il terreno, chiamato dai pellegrini del XIII secolo e dei secoli seguenti, « campo fiorito », « giardino dei fiori », dopo il XIV secolo ci appare diviso, da sentieri e muriccioli, in diversi appezzamenti. Sembra in realtà che il waqf del Getsemani sia finito per diventare una proprietà privata che una serie di legati ereditari doveva spezzettare fra parecchi proprietari. Le testimonianze, che diventano con il tempo sempre più numerose seppure non sempre più esatte, dimostrano che i fedeli continuavano a venerare il Giardino degli Olivi. Tuttavia, mentre i cristiani orientali hanno conservato le tradizioni antiche, almeno per quanto concerne il luogo dell’Agonia, la maggioranza dei pellegrini occidentali ha invertito, a poco a poco, i posti, giungendo a localizzare il luogo dell’Agonia di Gesù nella grotta vicina (che venne così chiamata « Grotta dell’Agonia ») e il luogo dell’arresto, nel giardino. Nel XVII secolo, per interposta persona, i francescani entrarono in possesso del Giardino degli Olivi. Sebbene il contratto ufficiale d’acquisto sia stato redatto nel 1681, pare che il giardino appartenesse ai francescani già nel 1666, sempre che si possa prestar fede a quanto riferiscono diversi pellegrini. Gli archivi della Custodia di Terra Santa conservano numerosi documenti – contratti d’acquisto, composizioni di liti – relativi ai possedimenti del Getsemani, ma oggi è spesso difficile stabilire con precisione le località. Così, circa il contratto del 1681, noi possiamo rintracciare esattamente soltanto i confini est e ovest del terreno acquistato: il sentiero del Monte degli Olivi e la grande strada statale di Gerico. A nord, il terreno arrivava ad un oliveto dei francescani; a sud, al vigneto di due arabi. In quanto alla grotta compresa nel terreno acquistato, è impossibile appurare se era realmente l’attuale « Grotta del Getsemani ». Tuttavia, per quasi tutti i pellegrini il Giardino degli Olivi si restringeva in effetti al campo dove crescevano i vecchi olivi che l’ « opinione comune » e la « tradizione del paese » facevano risalire all’epoca del Cristo. L’area non era più coltivata; un muro a secco, alto circa 1 metro, la circondava. Il giardino fu lasciato in quelle condizioni fino al 1847. Per proteggere gli olivi, i francescani furono obbligati a costruire una recinzione più alta, che venne sostituita nel 1959 dal muro che oggi vediamo. Protetto in tal modo, il terreno fu coperto, malgrado i pareri contrari, da una serie di aiole, probabilmente a ricordo del « giardino dei fiori » dei secoli XIII e XIV. Ma, dalle relazioni pervenuteci, sembra che i pellegrini di allora sperassero di trovare in questo luogo un pó più di semplicità. Un bassorilievo di marmo, che un tempo era collocato nel giardino ed ora si trova a lato della porta della sacrestia, rappresenta l’agonia di Gesù. Questa scultura, opera del veneziano Torretti, maestro del Canova, è stata mutilata da ignoti vandali.

IL GIARDINO DEGLI OLIVI

Otto vecchi olivi, da dietro una bassa cancellata a motivi bizantini (eretta nel 1959), attirano l’attenzione dei pellegrini al loro ingresso nel giardino, e creano l’atmosfera spirituale per una visita al Getsemani. La loro età ha sollevato discussioni che vengono riecheggiate in tutte le guide. Questi alberi, la cui prima menzione risale al XV secolo, apparivano ai pellegrini dei secoli seguenti, molto vecchi e molto grandi, i più grandi di tutti gli alberi di Palestina. 

Un venerabile olivo nel Giardino del Getsemani 

Nessuno mette in dubbio l’età veneranda di questi olivi dal tronco cavo e nodoso; ma né la storia né la botanica offrono argomenti decisivi circa la loro data di nascita.

Tutte le deduzioni che alcuni hanno voluto trarre dalla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio, sono vane e noi non sappiamo se gli olivi, che forse crescevano nel giardino all’epoca del Cristo, sono stati, o meno, abbattuti dai Romani nel 70, durante l’assedio di Gerusalemme. Altrettanto vana è la prova che alcuni pellegrini e alcuni scrittori (tra cui perfino Chateaubriand) hanno dedotto da una supposta esenzione fiscale – o riduzione, perché i testi sono contraddittori – di cui avrebbero goduto gli olivi del Getsemani per il fatto di essere anteriori all’invasione araba… o al dominio turco. Questa esenzione è spiegata semplicemente dalla natura religiosa dell’opera alla quale i musulmani avevano assegnato il giardino del Getsemani, dopo aver riconquistato Gerusalemme nel 1187. I botanici non hanno miglior fortuna degli storici. Se, da una parte, il tronco di un olivo, soprattutto di un vecchio olivo, non si presta allo studio dello sviluppo vegetale, d’altra parte nulla suffraga l’affermazione dei pellegrini che ritengono che gli olivi del Getsemani siano dei polloni delle piante dell’epoca del Cristo. Anche se spesso avviene, come già osservava Plinio il Vecchio, che l’olivo non muore, ma rinasce dal suo stesso ceppo, il fenomeno non è accaduto a quell’albero del Getsemani che i pellegrini del XVII secolo dicono esser stato bruciato, abbattuto, o esser morto di vecchiaia, e che non pare, checché se ne sia detto, aver generato dei polloni.

Senza dubbio le anime sensibili possono provare una certa delusione. Ma, anche se non sono proprio le piante dell’epoca evangelica, e forse nemmeno i polloni, gli olivi del Getsemani meritano la venerazione di tutti i pellegrini grazie al ricordo dell’Agonia da loro suscitato in questo luogo che ne è stato il testimone.
 
Un altro venerabile olivo del Getsemani
La storia del Giardino degli Olivi può essere riassunta in poche righe. Dopo aver fatto probabilmente parte del complesso ecclesiastico delle chiese costruite a partire dal IV secolo nel luogo dell’Agonia, il giardino subì, partiti i crociati, la sorte di tutte le antiche proprietà cristiane: fu assegnato come waqf (lascito pio) ad un’opera religiosa maomettana. Nel caso specifico, al collegio teologico che aveva sede nella chiesa di S. Anna.
Il terreno, chiamato dai pellegrini del XIII secolo e dei secoli seguenti, « campo fiorito », « giardino dei fiori », dopo il XIV secolo ci appare diviso, da sentieri e muriccioli, in diversi appezzamenti. Sembra in realtà che il waqf del Getsemani sia finito per diventare una proprietà privata che una serie di legati ereditari doveva spezzettare fra parecchi proprietari. 
Le testimonianze, che diventano con il tempo sempre più numerose seppure non sempre più esatte, dimostrano che i fedeli continuavano a venerare il Giardino degli Olivi. Tuttavia, mentre i cristiani orientali hanno conservato le tradizioni antiche, almeno per quanto concerne il luogo dell’Agonia, la maggioranza dei pellegrini occidentali ha invertito, a poco a poco, i posti, giungendo a localizzare il luogo dell’Agonia di Gesù nella grotta vicina (che venne così chiamata « Grotta dell’Agonia ») e il luogo dell’arresto, nel giardino. Nel XVII secolo, per interposta persona, i francescani entrarono in possesso del Giardino degli Olivi. Sebbene il contratto ufficiale d’acquisto sia stato redatto nel 1681, pare che il giardino appartenesse ai francescani già nel 1666, sempre che si possa prestar fede a quanto riferiscono diversi pellegrini. Gli archivi della Custodia di Terra Santa conservano numerosi documenti – contratti d’acquisto, composizioni di liti – relativi ai possedimenti del Getsemani, ma oggi è spesso difficile stabilire con precisione le località. Così, circa il contratto del 1681, noi possiamo rintracciare esattamente soltanto i confini est e ovest del terreno acquistato: il sentiero del Monte degli Olivi e la grande strada statale di Gerico. A nord, il terreno arrivava ad un oliveto dei francescani; a sud, al vigneto di due arabi. In quanto alla grotta compresa nel terreno acquistato, è impossibile appurare se era realmente l’attuale « Grotta del Getsemani ». 
Tuttavia, per quasi tutti i pellegrini il Giardino degli Olivi si restringeva in effetti al campo dove crescevano i vecchi olivi che l’ « opinione comune » e la « tradizione del paese » facevano risalire all’epoca del Cristo. L’area non era più coltivata; un muro a secco, alto circa 1 metro, la circondava. Il giardino fu lasciato in quelle condizioni fino al 1847. Per proteggere gli olivi, i francescani furono obbligati a costruire una recinzione più alta, che venne sostituita nel 1959 dal muro che oggi vediamo. Protetto in tal modo, il terreno fu coperto, malgrado i pareri contrari, da una serie di aiole, probabilmente a ricordo del « giardino dei fiori » dei secoli XIII e XIV. Ma, dalle relazioni pervenuteci, sembra che i pellegrini di allora sperassero di trovare in questo luogo un pó più di semplicità. Un bassorilievo di marmo, che un tempo era collocato nel giardino ed ora si trova a lato della porta della sacrestia, rappresenta l’agonia di Gesù. Questa scultura, opera del veneziano Torretti, maestro del Canova, è stata mutilata da ignoti vandali.  

IL GIARDINO DEGLI OLIVI

Otto vecchi olivi, da dietro una bassa cancellata a motivi bizantini (eretta nel 1959), attirano l’attenzione dei pellegrini al loro ingresso nel giardino, e creano l’atmosfera spirituale per una visita al Getsemani. La loro età ha sollevato discussioni che vengono riecheggiate in tutte le guide. Questi alberi, la cui prima menzione risale al XV secolo, apparivano ai pellegrini dei secoli seguenti, molto vecchi e molto grandi, i più grandi di tutti gli alberi di Palestina.  

Un venerabile olivo nel Giardino del Getsemani 

Nessuno mette in dubbio l’età veneranda di questi olivi dal tronco cavo e nodoso; ma né la storia né la botanica offrono argomenti decisivi circa la loro data di nascita. Tutte le deduzioni che alcuni hanno voluto trarre dalla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio, sono vane e noi non sappiamo se gli olivi, che forse crescevano nel giardino all’epoca del Cristo, sono stati, o meno, abbattuti dai Romani nel 70, durante l’assedio di Gerusalemme. Altrettanto vana è la prova che alcuni pellegrini e alcuni scrittori (tra cui perfino Chateaubriand) hanno dedotto da una supposta esenzione fiscale – o riduzione, perché i testi sono contraddittori – di cui avrebbero goduto gli olivi del Getsemani per il fatto di essere anteriori all’invasione araba… o al dominio turco. Questa esenzione è spiegata semplicemente dalla natura religiosa dell’opera alla quale i musulmani avevano assegnato il giardino del Getsemani, dopo aver riconquistato Gerusalemme nel 1187.I botanici non hanno miglior fortuna degli storici. Se, da una parte, il tronco di un olivo, soprattutto di un vecchio olivo, non si presta allo studio dello sviluppo vegetale, d’altra parte nulla suffraga l’affermazione dei pellegrini che ritengono che gli olivi del Getsemani siano dei polloni delle piante dell’epoca del Cristo. Anche se spesso avviene, come già osservava Plinio il Vecchio, che l’olivo non muore, ma rinasce dal suo stesso ceppo, il fenomeno non è accaduto a quell’albero del Getsemani che i pellegrini del XVII secolo dicono esser stato bruciato, abbattuto, o esser morto di vecchiaia, e che non pare, checché se ne sia detto, aver generato dei polloni. Senza dubbio le anime sensibili possono provare una certa delusione. Ma, anche se non sono proprio le piante dell’epoca evangelica, e forse nemmeno i polloni, gli olivi del Getsemani meritano la venerazione di tutti i pellegrini grazie al ricordo dell’Agonia da loro suscitato in questo luogo che ne è stato il testimone.  
Un altro venerabile olivo del Getsemani
La storia del Giardino degli Olivi può essere riassunta in poche righe. Dopo aver fatto probabilmente parte del complesso ecclesiastico delle chiese costruite a partire dal IV secolo nel luogo dell’Agonia, il giardino subì, partiti i crociati, la sorte di tutte le antiche proprietà cristiane: fu assegnato come waqf (lascito pio) ad un’opera religiosa maomettana. Nel caso specifico, al collegio teologico che aveva sede nella chiesa di S. Anna.
Il terreno, chiamato dai pellegrini del XIII secolo e dei secoli seguenti, « campo fiorito », « giardino dei fiori », dopo il XIV secolo ci appare diviso, da sentieri e muriccioli, in diversi appezzamenti. Sembra in realtà che il waqf del Getsemani sia finito per diventare una proprietà privata che una serie di legati ereditari doveva spezzettare fra parecchi proprietari. Le testimonianze, che diventano con il tempo sempre più numerose seppure non sempre più esatte, dimostrano che i fedeli continuavano a venerare il Giardino degli Olivi. Tuttavia, mentre i cristiani orientali hanno conservato le tradizioni antiche, almeno per quanto concerne il luogo dell’Agonia, la maggioranza dei pellegrini occidentali ha invertito, a poco a poco, i posti, giungendo a localizzare il luogo dell’Agonia di Gesù nella grotta vicina (che venne così chiamata « Grotta dell’Agonia ») e il luogo dell’arresto, nel giardino. Nel XVII secolo, per interposta persona, i francescani entrarono in possesso del Giardino degli Olivi. Sebbene il contratto ufficiale d’acquisto sia stato redatto nel 1681, pare che il giardino appartenesse ai francescani già nel 1666, sempre che si possa prestar fede a quanto riferiscono diversi pellegrini. Gli archivi della Custodia di Terra Santa conservano numerosi documenti – contratti d’acquisto, composizioni di liti – relativi ai possedimenti del Getsemani, ma oggi è spesso difficile stabilire con precisione le località. Così, circa il contratto del 1681, noi possiamo rintracciare esattamente soltanto i confini est e ovest del terreno acquistato: il sentiero del Monte degli Olivi e la grande strada statale di Gerico. A nord, il terreno arrivava ad un oliveto dei francescani; a sud, al vigneto di due arabi. In quanto alla grotta compresa nel terreno acquistato, è impossibile appurare se era realmente l’attuale « Grotta del Getsemani ». 
Tuttavia, per quasi tutti i pellegrini il Giardino degli Olivi si restringeva in effetti al campo dove crescevano i vecchi olivi che l’ « opinione comune » e la « tradizione del paese » facevano risalire all’epoca del Cristo. L’area non era più coltivata; un muro a secco, alto circa 1 metro, la circondava. Il giardino fu lasciato in quelle condizioni fino al 1847. Per proteggere gli olivi, i francescani furono obbligati a costruire una recinzione più alta, che venne sostituita nel 1959 dal muro che oggi vediamo. Protetto in tal modo, il terreno fu coperto, malgrado i pareri contrari, da una serie di aiole, probabilmente a ricordo del « giardino dei fiori » dei secoli XIII e XIV. Ma, dalle relazioni pervenuteci, sembra che i pellegrini di allora sperassero di trovare in questo luogo un pó più di semplicità. Un bassorilievo di marmo, che un tempo era collocato nel giardino ed ora si trova a lato della porta della sacrestia, rappresenta l’agonia di Gesù. Questa scultura, opera del veneziano Torretti, maestro del Canova, è stata mutilata da ignoti vandali.  

IL GIARDINO DEGLI OLIVI  (dovete andare al sito per vedere tutte le immagini) dans CREAZIONE NELLA BIBBIA (LA) zgiardino

dun giardino degli ulivi nel Getsemani

Storia dell’ulivo

dal sito:

http://www.pisciotta.net/IT/notizie/PENSIERI%20IN%20LIBERTA%60/storia_dellulivo2.htm

Storia dell’ulivo

Pianta sacra da tempo immemorabile, l’ulivo è protagonista di diverse leggende che ne hanno attribuito questa sua origine divina.

La tradizione ebraica racconta che dai semi portati da un angelo e posti tra le labbra di Abramo, sepolto sul monte Tabor, nacquero tre piante: un cipresso, un cedro e un olivo.
Nell’Antico Testamento, la colomba che annuncia a Noè la fine del diluvio e la ricomparsa delle terre emerse porta nel becco un ramo d’ulivo.

Stesse origini l’ulivo ha anche nella mitologia greca. Da una contesa tra Poseidone e Atena sorta per il possesso dell’Attica, Atena fece germogliare un ulivo accanto al pozzo che aveva donato Poseidone e il tribunale composto da tutte le divinità olimpiche, convocato per decidere chi doveva governare l’Attica, decise che il dono migliore era stato fatto da Atena.

Sempre dalla mitologia greca, Apollo nacque a Delo sotto una pianta di ulivo e Aristeo, figlio di Apollo e Cirene, apprese dalle Ninfe del mirto come innestare l’olivastro per ottenere l’olivo.
Anche i primi cristiani, che combatterono tutti i culti pagani degli alberi, rispettarono invece l’ulivo, il cui olio sacro serviva per la cresima, la consacrazione dei sacerdoti, l’estrema unzione.

La storia racconta che, originario della parte orientale dell’area mediterranea, l’olivo si diffuse in Egitto, in Palestina, a Creta, a Rodi, nell’Attica, in Italia e poi in tutto il bacino del Mediterraneo. Il codice Babilonese di Hammurabi, che risale a circa 2500 anni prima di Cristo, cita l’olio di oliva e ne regolamenta la compravendita.

In Egitto, ai tempi della XIX dinastia, intorno al 1300 a.C., rami d’ulivo erano posti sulle tombe dei sovrani. Fenici, Greci e Cartaginesi commerciarono olio e contribuirono a diffondere la coltivazione dell’ulivo, utilizzato non solo come alimento, ma anche per le cure del corpo e per l’illuminazione.

In Italia, portato dai coloni greci, l’ulivo fu coltivato dagli Etruschi, che già nel VII secolo a.C. ne possedevano vaste piantagioni. Più tardi i Romani organizzarono razionalmente la distribuzione e il commercio dell’olio. A Roma costituirono l’arca olearia, una sorta di borsa dell’olio d’oliva, dove collegi di importatori, « negotiatores olearii », trattavano prezzi e quantità.

Secondo i più illustri naturalisti romani, esistevano ben dieci varietà diverse di ulivi e l’olio prodotto era classificato in cinque categorie. Il più pregiato era l’Oleum ex albis ulivis, ottenuto da olive verde chiaro, cui seguivano il Viride, ottenuto da olive che stanno annerendosi, il Maturum, frutto della spremitura di olive mature, il Caducum, ottenuto da olive raccolte da terra, e il Cibarium, prodotto con olive bacate e destinato solo agli schiavi.

Con la decadenza dell’impero e la cessazione dei tributi, l’olivo venne però a mancare e le invasioni barbariche fecero pressoché scomparire la pratica colturale dell’olivo.

Nel Medioevo sopravvissero oliveti di ridotte dimensioni presso alcuni conventi e nei feudi fortificati che sorsero soprattutto in Toscana. Successivamente, furono proprio i conventi a ricreare oliveti di grandi dimensioni, dati in gestione a contadini con contratti « ad laborandum », secondo cui il proprietario dell’oliveto riceveva parte del raccolto e alcune giornate di lavoro nelle proprie terre. 

Più tardi, nel XII secolo, vennero stipulati contratti « ad infinitum », cioè senza limiti di tempo, per cui i contadini si impegnavano alla coltivazione in cambio di un fitto, sovente pagato in olio.

Gli oliveti ripresero a diffondersi, Firenze divenne un centro importante per la coltivazione ed emanò severe leggi che regolamentavano la coltivazione dell’olio e il suo commercio; Venezia e Genova cominciarono a commerciare quantità sempre maggiori di olio proveniente da Corinto, Tebe, Costantinopoli e dalla Romania, Provenza, Spagna e Africa del nord.

All’inizio del XIV secolo, la Puglia divenne un enorme oliveto e piantagioni sorsero in Calabria, Abruzzo, Campania e Sicilia. Tale divenne l’importanza di questo alimento per queste regioni che, nel 1559, Parafran De Riveira, vicerè spagnolo, fece costruire una strada che collegava Napoli alla Puglia, alla Calabria e all’Abruzzo per agevolare il trasporto dell’olio.

Dopo una stasi attorno al 1600, dovuta alla dominazione spagnola che aumentò le tasse sulla produzione dell’olio e instaurò contratti a termine della durata di due o tre anni (non più convenienti per il coltivatore), la produzione riprese a crescere nel 1700 con lo svilupparsi del libero mercato e l’esenzione di tasse sugli uliveti per la durata di quarant’anni.

L’olio italiano venne diffuso in tutta Europa, e la stessa Caterina di Russia ricevette campioni di olio italiano racchiusi in un cofano in legno d’olivo. Nel 1830 papa Pio VII garantiva un premio in denaro per ogni olivo piantato e curato sino all’età di 18 mesi. Persino re Umberto, nel 1944, emanò un decreto, ancora oggi in vigore, che vieta l’abbattimento delle piante d’olivo.

Oggi si calcola che quasi la totalità di piante di olivo coltivate nel mondo sono presenti nel bacino del Mediterraneo, anche se si coltivano ulivi anche in Sud America, Australia, Oceania, Cina.

L’olivo è ovunque nel mondo e ogni anno le coltivazioni aumentano, così come cresce l’interesse per l’olio extra vergine.

GLI ALBERI DI ULIVO NELLA STORIA DELL’UOMO
Cenni storici dalla comparsa della pianta di ulivo sulla Terra all’utilizzo e alla coltivazione nel corso dei secoli   
     
  La pianta di ulivo è stata la prima ad essere selezionata dall’ uomo: la sua storia e quella delle civiltà mediterranee si intrecciano da oltre settemila anni.
La coltivazione di queste piante ebbe inizio nei paesi del Mediterraneo orientale. Cinquemila anni fa, in questa zona, la produzione ed il commercio dell’ olio divennero una fra le principali risorse economiche. Grazie all’ opera dei Micenei, dei Fenici, dei Greci e dei Romani l’ olivo giunge ad essere una delle principali colture agricole del Mediterraneo e l’olio fu usato per molti usi quotidiani.
L’ulivo venne travolto dalla crisi politica, economica e militare dettata dalla caduta dell’Impero Romano e l’olio tornò ad essere un’ elemento raro, prezioso e riservato ad usi religiosi o a pochi privilegiati.
Dal Medio Evo, attraverso i secoli, si sono consolidate le tradizioni delle grandi aree oleicole di oggi e l’ albero di ulivo è tornato ad essere uno degli elementi più importanti del paesaggio mediterraneo.

L’ olivo si potrebbe quasi definire una pianta immortale grazie alla sua capacità di rigenerarsi dalla ceppaia. Le caratteristiche botaniche, l’ aspetto, le varietà diffuse nel Mediterraneo, il portamento, il ciclo vegetativo annuale, l’ impianto e le pratiche colturali di un oliveto ci permettono di apprezzare le peculiarità per molti versi eccezionali di questo albero.L’ utilizzo dell’ ulivo e dei suoi prodotti è una testimonianza dell’ ingegnosità umana oltre che delle straordinarie caratteristiche di questa pianta. Reperti rari e sorprendenti di ogni epoca e paese, descrizioni e passi tratti dalla Bibbia, da Omero, da poeti e scrittori del passato illustrano l’ importanza di questo albero nella vita dell’ uomo.
L’ ulivo ha costituito un contributo ed un elemento indispensabile al benessere quotidiano e ad un raffinato modo di vita. Luce, medicamenti, unguenti e profumi, lubrificanti, alimento, condimento, calore e legno sono i preziosi doni dell’ulivo all’uomo.
Come gli antichi, anche noi possiamo dire che il Mediterraneo inizia e finisce con l’olivo. L’olio d’oliva è da millenni uno dei prodotti e delle merci più preziose del Mediterraneo.
Le aree oleicole lo esportavano, a caro prezzo, verso i popoli che non erano in grado di produrlo e che, ben presto si sforzavano di iniziare la coltivazione dell’olivo.
L’ olio e l’ olivo si sono quindi diffusi verso occidente in tutto il mondo allora conosciuto, dalle coste di Siria e Palestina fino all’ oceano Atlantico. Lungo questo viaggio l’ olivo vede nascere alcune delle più importanti civiltà antiche.

L’ olivo iniziò dalle città della Fenicia il proprio viaggio, che si svolgeva sotto la protezione del dio Melqart, più tardi identificato con Eracle o Ercole. A bordo delle navi dei mercanti fenici di Tiro l’ olivo oltrepassò lo stretto di Gibilterra e a Cadice, in un altro tempio di Melqart fu collocata l’ immagine di un olivo che segnava la fine del suo viaggio e del Mediterraneo.

L’ ulivo raggiunge molto anticamente la Grecia e già cinquemila anni fa gli abitanti di Creta e del Peloponneso si nutrivano di cibi cotti in olio d’ oliva. Quattromila anni fa Minosse di Creta e poi i re micenei furono grandi produttori di olio, che commerciarono in Italia meridionale, in Sicilia e Sardegna.
Nell’ Atene classica l’ olivo gode di una considerazione eccezionale: l’albero piantato sull’ Acropoli dalla stessa Dea Atena è il simbolo della città, ne incarna la sopravvivenza e la prosperità.

L’ulivo fa una prima timida comparsa in Italia tremilacinquecento anni fa, ma si diffonde ad opera dei mercanti fenici, cartaginesi e dei coloni greci soprattutto a partire dal VII secolo a.C. Etruschi ed Italici acquistano l’olio dai mercanti greci e fenici ed iniziano ad apprendere da questi popoli le tecniche di coltivazione dell’olivo e di estrazione olearia.
Autori latini come Catone e Columella scrissero volumi per spiegare come si devono coltivare gli olivi e come produrre l’olio migliore.

L’ olio d’ oliva e l’ olivo arrivano sulle coste iberiche nell’ ottavo secolo a.C. ad opera dei mercanti fenici che offrivano le proprie merci alle genti iberiche per avere in cambio i metalli di cui la Spagna era ricca: rame, argento e oro. Da questi contatti nacque una cultura originale, ricca di elementi locali, fenici, greci e cartaginesi. Durante i primi secoli dell’ Impero Romano la Spagna divenne la principale provincia olearia mediterranea e le anfore di olio betico importato a Roma per vari secoli, ammucchiate, diedero origine ad un nuovo monte in prossimità del Tevere: il Monte Testaccio.

Le ricerche moderne hanno messo in luce proprietà e principi attivi dell’ olio d’ oliva che spiegano l’ enorme fortuna e la lunga tradizione dei cosmetici a base oleosa tra le civiltà del Mediterraneo.
Fin dagli albori della storia i cosmetici hanno assunto un ruolo che spesso sconfinò nelle pratiche mediche e nei rituali religiosi.
Davanti allo specchio, fra vasetti di olio cosmetico e strumenti studiati per esaltare il fascino e la perfezione del corpo, hanno sorriso i personaggi simbolo di bellezza nel mondo antico: Afrodite, Elena, Cleopatra…

L’ ulivo è il simbolo mediterraneo per eccellenza.
Le suggestioni religiose, artistiche, spirituali e letterarie ad esso collegate costituiscono un fenomeno impressionante e antico.
L’ olio di oliva ha alimentato i lumi nei templi egizi del Dio Ra, nel Tempio di Salomone a Gerusalemme, nelle chiese e nelle moschee. E’ stato considerato sacro agli dei fenici, ittiti, greci prima ancora che nelle grandi religioni monoteistiche.
Le sue fronde simboleggiano da millenni la pace, l’ onore e la vittoria; il suo olio consacra Re, Sacerdoti e Vescovi, unge i credenti, infonde loro forza, speranza e salvezza, scandendo la nascita, la morte ed i momenti più importanti della loro vita.

di Maria Gabriella (non sono io)

Publié dans:CREAZIONE NELLA BIBBIA (LA) |on 27 avril, 2010 |Pas de commentaires »

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