Archive pour juillet, 2016

Archangel Gabriel flying

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Publié dans:immagini sacre |on 25 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

PAOLO E LE ETÀ DELLA VITA

https://letterepaoline.net/2008/10/03/le-eta-della-vita/

PAOLO E LE ETÀ DELLA VITA

[Tutto il mondo è teatro. / E gli uomini e le donne puri istrioni tutti: / hanno le loro entrate e uscite di scena, / e ognuno fa diverse parti nella vita, / che è un dramma in sette atti] (William Shakespeare, Come vi pare, atto II, scena 7; trad. it. di Cesare Vico Lodovici).

Chi non ricorda questi versi immortali del grande Shakespeare? Nella sua pregevole Vita di Paolo, l’esegeta domenicano Jerome Murphy O’Connor parte proprio da qui per calcolare, almeno approssimativamente, la data di nascita dell’apostolo. Paolo, infatti, nella lettera inviata all’amico Filemone definisce se stesso come presbytes, cioè “anziano”: ma a quale età poteva corrispondere, nel I secolo, questa parola? Murphy O’Connor, per risolvere il problema, si appoggia alla testimonianza del filosofo ebreo Filone di Alessandria, contemporaneo di Paolo, che distingue le età nella vita dell’uomo sulla base del numero 7 (secondo venerande tradizioni che giungeranno appunto fino a Shakespeare). Questo è il lungo passo citato dallo studioso, tratto dal De opificio mundi di Filone: «[Le] età dell’uomo […], dall’infanzia alla vecchiaia, si misurano nel modo seguente: durante i primi sette anni si ha lo spuntare dei denti; nel secondo settennio cade il momento della capacità procreativa [dagli 8 ai 14 anni]; nel terzo la crescita della barba [15-21] e nel quarto l’aumento della forza fisica [22-28]; nel quinto il tempo delle nozze [29-35]; nel sesto raggiunge il suo culmine la capacità di comprensione [36-42]; nel settimo si verifica il miglioramento e lo sviluppo insieme dell’intelletto e della parola [43-49]; nell’ottavo il perfezionamento dell’uno e dell’altra [50-56]; nel nono subentrano calma e pacatezza perché ormai le passioni si sono di molto pacate [57-63]; nel decimo infine giunge il termine desiderabile della vita, allorché gli organi del corpo sono ancora in buone condizioni: una lunga vecchiaia infatti di solito li fiacca e li distrugge l’uno dopo l’altro» (Opif., XXXV, § 103). Converrebbe a questo punto citare il famoso versetto dei Salmi (90,10), secondo il quale «Gli anni della nostra vita sono in sé settanta, ottanta per i più robusti», ma sarebbe troppo banale, e Filone infatti non lo fa. Il suo discorso prosegue invece con la citazione di alcuni versi del greco Solone (635-560 a.C.), e si conclude con alcune parole attribuite ad Ippocrate: «Queste età dell’uomo le descrisse anche Solone, il legislatore d’Atene, nei seguenti versi elegiaci: Il bimbo piccolino, cui ancora infante è spuntata la corona dei denti, li perde entro i primi sette anni di vita; quando poi il dio ha fatto scorrere il secondo settennio, egli manifesta i segni della pubertà incipiente; nel terzo settennio, mentre le sue membra continuano a crescere, il mento gli si copre di barba e il suo volto perde floridezza; nel quarto settennio ognuno eccelle in forza, ed è in questa che gli uomini riconoscono i segni del valore virile; nel quinto è tempo che l’uomo pensi alle nozze e cerchi una discendenza di figli per il futuro; nel sesto la mente dell’uomo giunge alla formazione piena ed egli non aspira più come prima a realizzare opere impossibili; nel settimo e ottavo settennio è di estrema eccellenza quanto a intelletto e a parola, e questi due periodi assommano a quattordici anni; nel nono l’uomo ha ancora intatta la forza, ma si fanno più deboli in lui, di fronte a manifestazioni di grande virtù, la parola e il sapere. Se poi qualcuno, compiuta la vita entro i giusti limiti, giunge al decimo settennio, il destino di morte non lo coglie fuori tempo. Solone dunque suddivide la vita umana nei citati dieci settenni. Il medico [Pseudo] Ippocrate, invece, dice che le età sono sette: del bambino, del fanciullo, dell’adolecente, dell’uomo giovane, dell’uomo maturo, dell’anziano, del vecchio, e che queste età si misurano per periodi di sette anni, ma non in successione continua. Sono queste le sue parole: “Nella natura dell’uomo vi sono sette periodi, che io chiamo età, quelle del bambino, del fanciullo, dell’adolescente, dell’uomo giovane, dell’uomo maturo, dell’anziano, del vecchio. Si è bambini [il termine usato è paidion] fino alla caduta dei denti, a sette anni; fanciulli [pais] fino all’emissione del seme, a due volte sette anni; adolescenti [meirakion] fino a che il mento si copre di barba, a tre volte sette anni; giovani [neaniskos] fino alla crescita completa di tutto il corpo, a quattro volte sette anni; uomini maturi [aner] fino a quarantanove anni, cioè a sette volte sette anni; anziani [presbytes] fino a cinquntasei, ossia a sette volte otto anni; da quel momento si è vecchi [geron]”» (Opif., XXXV-XXXVI, §§ 104-105, trad. Clara Kraus Reggiani). La scansione delle età riportata da Filone e dalle sue auctoritates è certamente “ideale”, basata tutta com’è sul valore del numero 7. Per ottenere un quadro forse più aderente alla realtà dei circoli farisaici cui appartenne Paolo, ma cronologicamente posteriore a lui, ci si può rifare allora ai Pirqe’ Avot (le “Massime dei Padri”), il trattato che apre il corpus rabbinico della Mishnah, codificato tra la fine del II secolo e l’inizio del III. In esso (al paragrafo 5,27) si stabilisce il percorso ordinario dell’educazione farisaica, che comprendeva all’età di cinque anni lo studio delle Scritture, a dieci lo studio della legge orale, a tredici l’accettazione dei precetti (con l’ingresso ufficiale nell’Alleanza: il bar mitzvah); a quindici la discussione sopra la Mishnah, a diciotto il tempo buono per sposarsi, a venti quello per procurarsi da vivere, e così via, fino a considerare il traguardo dei sessanta anni (l’anzianità: ziqnah), dei settanta (quando spuntano i capelli grigi), degli ottanta (età di rinnovato vigore), dei novanta (età adatta «per ritirarsi») e persino dei cento (in cui «si è come già morti e fuori dal mondo»). Dalla narrazione degli Atti degli apostoli apprendiamo che, fra le altre cose, durante la lapidazione del proto-martire Stefano, avvenuta al più tardi allorché Marcello era procuratore della Giudea (anni 36-37), «i testimoni deposero le loro vesti ai piedi di un giovane (neanías) chiamato Saulo» (At 7,58): ma è un’indicazione che Murphy O’Connor non considera, preferendo appoggiarsi esclusivamente ai dati offerti o desumibili dall’epistolario paolino. Così, tutto dipende dalla sua datazione della lettera a Filemone: se la stesura di questo testo viene precocemente stabilita al 53, allora è da qui che andranno detratti gli anni che facevano di un uomo un presbytes, e che stando alle informazioni di Filone risultavano tra i 50 e i 56. Ma è proprio una tale datazione precoce, proposta da Murphy O’Connor, a creare più difficoltà di quante ne potrebbe risolvere.

Murillo, God is our Father

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http://www.traditionalcatholicpriest.com/2015/01/13/god-father-jesus-brother-mary-mother/

Publié dans:immagini sacre |on 23 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

11. LA LETTERA AI COLOSSESI : TUTTE LE COSE SUSSISTONO IN LUI

http://www.gliscritti.it/approf/2008/papers/lectio_paolo_08.htm#mozTocId275170

Itinerario di lectio divina su san Paolo e le sue lettere. Sussidio preparato dalla diocesi di Roma per l’anno paolino

11. LA LETTERA AI COLOSSESI : TUTTE LE COSE SUSSISTONO IN LUI

Per la preparazione dell’incontro

La comunità cristiana di Colossi, nella Frigia, non era stata fondata direttamente da Paolo, bensì da un suo collaboratore, Epafra. Lo stesso era avvenuto nelle due città vicine di Laodicea e Gerapoli (Col 4,16). Paolo non aveva neanche mai visitato queste città, sebbene conoscesse evidentemente le vicende della chiesa locale tramite Epafra. Proprio le lettere sono lo strumento di comunicazione utilizzato da Paolo per tenere i contatti con le comunità quando gli è impossibile visitarle. Come Marco ha inventato il genere letterario ‘vangelo’, così Paolo è il creatore delle lettere alle comunità. Prima di lui l’antichità conosceva solamente lettere private, molto brevi, di affari o d’amore, oppure trattati filosofici in forma epistolare, nei quali le singole lettere scandivano la divisione in capitoli. Con Paolo nasce l’esigenza di lettere non fittizie indirizzate non ad un singolo, ma a più persone: sono il corrispettivo in chiave letterario dell’esistenza della chiesa. Gli studiosi non sono certi se la lettera ai Colossesi sia stata scritta da Paolo, ma affermano con sicurezza che se la paternità del testo non fosse direttamente sua, si dovrebbe pensare allora ad un suo discepolo; la lettera presenta infatti dei temi tipicamente paolini, ma con sviluppi teologici significativi. La lettera si presenta come scritta in una condizione di prigionia e si è pensato, quindi, a Roma o ad Efeso. Colossesi vuole affermare non solo il primato di Cristo, come mediatore tra Dio e gli uomini, ma soprattutto la sua unicità. Evidentemente alcuni fra i Colossesi si ritenevano depositari di una rivelazione a loro dire più completa di quella degli altri cristiani, asserendo di avere relazioni privilegiate con angeli o altre potenze celesti: essi non negavano Cristo, ma lo ritenevano insufficiente, incompleto e cercavano di andare oltre la sua unicità – viene da pensare ad alcune posizioni delle moderne concezioni religiose sincretiste nella galassia della odierna New Age. Paolo afferma, invece, nell’inno cristologico della lettera (Col 1,15-20) che Cristo è l’immagine del Dio invisibile Non è dato scoprire il vero volto di Dio se non nell’incontro con Cristo. Non solo: il Cristo è anche il capo del corpo che è la chiesa e non si può incontrare il capo senza incontrare al contempo il suo corpo. La lettera ai Colossesi relativizza così tutte le potenze angeliche, affermando che esse sono sottomesse a Cristo ed al suo servizio, poiché solo in Cristo dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). Il messaggio cristiano si rivela così non come una proposta elitaria, ma si offre piuttosto ad ogni uomo che ha accesso all’unico Cristo tramite la fede ed il battesimo. Anche la lettera a Filemone è indirizzata ad un abitante di Colossi ed a tutta la comunità cristiana della città. Paolo invita Filemone ad accogliere il suo schiavo fuggitivo Onesimo come fratello in Cristo, in nome della carità. Il messaggio di Gesù comincia a trasformare dall’interno tutte le relazioni umane.

11. 1 CRISTO È IMMAGINE DEL DIO INVISIBILE E CAPO DEL SUO CORPO CHE È LA CHIESA Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Colossesi (Col 1,15-20) Cristo, il Figlio diletto, è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

Per la lettura e la riflessione personale Da Aleksandr Men’, Io credo. Il Simbolo della fede, Nova millennium editrice, Roma, 2007, pp. 56-60 Non ho paura di tornare a ripetere che ogni cultura al mondo possiede i propri templi, i canti, le campane, i rosari, i trattati, i conventi e molto altro, ma la differenza principale del cristianesimo rispetto alle altre religioni del mondo consiste nella persona di Gesù Cristo. Questa Persona, questa Rivelazione, non esiste altrove. E per quanto sia stata grande la persona di Gautama il Budda che fondò il buddismo, i suoi orientamenti, i suoi insegnamenti, i suoi principii sono molto più essenziali per il buddismo della persona stessa del Budda. In fin dei conti, se Maometto non fosse comparso sulla terra, e se altri, ignoto, avesse proposto i dogmi importantissimi dell’unicità di Dio, dell’obbedienza a Dio, delle preghiere più volte al giorno, ecc. l’islam sarebbe comunque diventato tale qual è oggi. Invece il cristianesimo, senza Cristo perde la sostanza, l’ultima e la più importante. In una novella di Vladimir Solov’ëv, scritta poco prima di morire, e intitolata Breve novella sull’Anticristo, è presentata una scena ove il presidente dell’intero pianeta, il sovrano della Terra, raduna i rappresentanti delle principali Chiese cristiane. Ai cattolici promette la costruzione di templi particolarmente sfarzosi, agli ortodossi di creare musei straordinariamente preziosi dedicati all’arte ecclesiastica antica, ai protestanti di fondare nuovi istituti per lo studio della Sacra Scrittura e della teologia. Sembra che tutti siano contenti. Ma i tre capi della chiesa, il papa Pietro, lo staretz Joann e il professor Pauli, gli rivolgono una domanda diretta: qual è il suo atteggiamento nei confronti di Gesù Cristo? «Tu ci proponi tutto, tranne Lui». Questo è cristianesimo senza Cristo. Estetica, scienza, tradizione, liturgia… ma manca la cosa principale! Manca il Figlio dell’Uomo, crocefisso e risorto! E grazie a questo indizio lo staretz Joann, il papa Pietro e il dottor Pauli smascherano l’anticristo nel presidente del mondo. È questo un brano d’importanza primaria nel chiarire la visione di Vladimir Solov’ëv sul mistero del cristianesimo. Va detto che da allora non è cambiato nulla; e anche dal tempo in cui fu scritto il Vangelo, in questo senso, non è cambiato niente. «Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine», dice il Signore Gesù Cristo. E quando noi leggiamo i testi più antichi – cronologicamente più antichi – del Nuovo Testamento, vi troviamo le parole dell’apostolo Paolo, il quale dice che l’uomo si salva, cioè si approssima a Dio, non attraverso la legge, non con le cose della legge, ma attraverso la fede in Gesù Cristo. Questo che cosa significa? La legge è un certo ordine della vita. La legge è una religione appartenente alla cultura umana. Questa cultura, naturalmente, come si suol dire, ha “radici terrene”. Tutto importante e indispensabile; ma questa eredità culturale non può compiere la svolta, perché in essa ci sono troppe cose umane, e solamente umane. E solo quando l’uomo scopre per sé Cristo, immortale, sempre vivo, allora si compie quello che in uno specifico linguaggio biblico si chiama salvezza, cioè comunione dell’uomo alla Vita vera, alla quale l’anima brama, alla quale aspira. Ecco perché il Signore Gesù Cristo chiamò la Sua predicazione besorà, che significa “lieta novella”, in greco evanghelion. Noi la chiamiamo Vangelo, la Lieta o Buona Novella.

11. 2 «È IN CRISTO CHE ABITA CORPORALMENTE TUTTA LA PIENEZZA DELLA DIVINITÀ» Ascoltiamo la Parola di Dio dalla lettera ai Colossesi (Col 2,9-19) Fratelli, è in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà. In lui voi siete stati anche circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di uomo, mediante la spogliazione del nostro corpo di carne, ma della vera circoncisione di Cristo. Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce; avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo. Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo! Nessuno v’impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale, senza essere stretto invece al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio.

Per la lettura e la riflessione personale Da Henri de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, vol. III, Jaca Book, Milano, 1996 (brani scelti da L. Walt per il sito www.letterepaoline.it) In Gesù Cristo, che ne era il fine, l’antica Legge trovava in precedenza la sua unità. Di secolo in secolo, tutto in questa Legge convergeva verso di Lui. È Lui che, della “totalità delle Scritture”, formava già “l’unica Parola di Dio” [...] In Lui, i verba multa (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre Verbum unum (l’unica Parola). Senza di Lui, invece, il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di “parole umane”; parole molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come constata Ugo di San Vittore, multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est (numerose sono le parole dell’uomo, perché il cuore dell’uomo non è uno) [...] Sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, brevissimum, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. Unità di pienezza. Concentrazione di luce. L’incarnazione del Verbo equivale all’apertura del Libro, la cui molteplicità esteriore lascia ormai percepire il “midollo” unico, questo midollo di cui i fedeli si nutriranno. Ecco che con il fiat (accada) di Maria che risponde all’annunzio dell’angelo, la Parola, fin qui soltanto “udibile alle orecchie”, è diventata “visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile alle spalle”. Più ancora: essa è diventata “mangiabile”. Niente delle verità antiche, niente degli antichi precetti è andato perduto, ma tutto è passato a uno stato migliore. Tutte le Scritture si riuniscono nelle mani di Gesù come il pane eucaristico, e, portandole, egli porta sé stesso nelle sue mani: “tutta la Bibbia in sostanza, affinché noi ne facciamo un solo boccone…”. “A più riprese e sotto varie forme” Dio aveva distribuito agli uomini, foglio per foglio, un libro scritto, nel quale una Parola unica era nascosta sotto numerose parole: oggi egli apre loro questo libro, per mostrare loro tutte queste parole riunite nella Parola unica. Filius incarnatus, Verbum incarnatum, Liber maximus (Figlio incarnato, Verbo incarnato, Libro per eccellenza): la pergamena del Libro è ormai la sua carne; ciò che vi è scritto sopra è la sua divinità [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. Così la Legge evangelica non è affatto una lex scripta (legge scritta). Il cristianesimo, propriamente parlando, non è affatto una “religione del Libro”: è la religione della Parola – ma non unicamente né principalmente della Parola sotto la sua forma scritta. Esso è la religione del Verbo, “non di un verbo scritto e muto, ma di un Verbo incarnato e vivo”. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è “la religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo.

24 LUGLIO 2016 | 17A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/2016/05-Ordinario_C/Omelie/17a-Domenica/14-17a-Domenica-C_2016-SC.htm

24 LUGLIO 2016 | 17A DOMENICA T. ORDINARIO – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« Signore, insegnaci a pregare » Il tema della « preghiera » nel suo significato più profondo unifica la prima e la terza lettura di questa Domenica, mentre continua la proclamazione della lettera ai Colossesi con la esaltazione dei benefici derivati dalla morte e risurrezione di Cristo: « Con Cristo siete stati sepolti nel Battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti » (Col 2,12).

« Vedi come ardisco parlare al mio Signore, Dio che sono polvere e cenere… » Il primo brano ci descrive, in una scena commossa, confidenziale e drammatica nello stesso tempo, la lotta di Abramo, « nostro padre nella fede », con Dio per strappare dalla rovina le città di Sodoma e Gomorra. Abramo però supplica il Signore non semplicemente per la sopravvivenza di quelle corrottissime città; in tal caso, infatti, si sarebbe come schierato dalla parte del male, quasi facendosene avvocato presso il Signore! Egli lo supplica, invece, in nome sia pure di pochi « giusti » (da cinquanta scende fino a dieci!) che si trovassero in quelle città, introducendo così un elemento di compenso e di equilibrio fra il bene e il male: la presenza anche di soli dieci giusti, infatti, starebbe a dire che la potenza del male non è assoluta, che le si può sfuggire, che può essere vinta. Nello stesso tempo starebbe pure a dire che il Signore riconosce ai « giusti » una vera funzione « salvifica » che li inserisce in pieno nel suo disegno: in tal modo essi non hanno bisogno di attendere la fine per diventare « giudici » del mondo (cf 1 Cor 6,2), ma lo sono già fin dal presente. Se il male sfida il bene, è anche vero che il bene sfida ed erode il male. Più che il problema, direi quasi di carattere giuridico, se sia giusto che i buoni periscano insieme con gli empi, che pure è ampiamente dibattuto nella Bibbia, credo che qui si affronti il problema del valore stesso della « santità » davanti a Dio e se essa sia capace di propiziarlo in favore dei peccatori: « Allora Abramo si avvicinò al Signore e gli disse: « Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?… »" (Gn 18,23-26). È commovente il modo con cui Abramo, che doveva conoscere molto bene la situazione morale di quelle città, restringe il numero dei giusti, mercanteggia con Dio alla maniera beduina: « Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutte le città?… Forse là se ne troveranno dieci » (vv. 27-28.30.31.32). Dio accetta anche questa ultima, disperata richiesta: « Non la distruggerò per riguardo a quei dieci » (v. 32). « Possiamo rimproverare ad Abramo di essersi fermato al numero dieci? Fosse arrivato anche al numero uno, non avrebbe trovato nessun giusto: oltretutto era questa la funzione del solo intercessore atteso, Gesù ». È quanto ci dirà il IV canto del « Servo di Jahvèh », che con la sua sofferenza, da solo, « porterà », riscattandolo, « il peccato di molti » (Is 53,12). In conclusione, questa bellissima pagina della Bibbia ci insegna due cose riguardo alla preghiera: 1) La sua potenza di intercessione, che va molto al di là dei nostri stessi interessi e dei nostri confini. In tal modo essa cessa di essere un fatto individualistico, per assumere le dimensioni stesse del mondo e dei fatti della storia, allo scopo di sottoporli al « giudizio » di Dio e al suo amore perdonante! 2) La sua arditezza, direi quasi spregiudicata, che qui nasce dal fatto che Abramo è l’uomo della « fede » sconfinata, a cui Dio non può rifiutare nulla. In questo senso il « vero » orante è solo il « santo », oppure colui che in qualsiasi maniera ha incominciato a « impegnarsi » seriamente con Dio. La preghiera perciò interpella la nostra vita ed esige che si realizzi secondo le istanze del Vangelo.

« Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare… » È quanto ricaviamo anche più chiaramente dal brano di Luca, che raggruppa in una pericope unitaria alcuni insegnamenti di Gesù sulla preghiera. È risaputo da tutti che Luca ha un interesse particolare per il tema della preghiera. Non che ne parli in maniera astratta: egli preferisce piuttosto mostrarci Gesù come il « modello » vivente della preghiera. Perciò ce lo mostra spesse volte in atteggiamento « orante » come, ad esempio, in occasione del suo Battesimo (3,21), della scelta dei Dodici (6,12), della Trasfigurazione (9,28-29), ecc. Come avviene anche qui. A differenza di Matteo, che ci riferisce la « formula » del Pater noster nel contesto dei vari ammaestramenti del discorso della Montagna (6,9-13), Luca la fa nascere come dal vivo dell’esperienza di preghiera di Gesù stesso: « Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: « Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli »" (Lc 11,1). Dobbiamo essere grati a questo anonimo discepolo che ha provocato, con la sua spontanea ma commossa richiesta, quell’ondata di preghiera che ha coperto il mondo e lo salva, questo Padre nostro ripetuto ogni giorno infinite volte, sussurrato nel segreto del proprio cuore o cantato a piena voce dalle folle in festa. Più che una « formula » di preghiera, però, l’anonimo discepolo deve aver richiesto a Gesù, che egli aveva visto immerso nel suo dialogo con Dio, di spiegare loro lo « spirito », il senso e anche il contenuto della preghiera, attingendo proprio al segreto della sua esperienza. Di fatto Gesù darà anche una formula di preghiera, il Pater noster appunto, valida però soltanto in quanto espressiva dei sentimenti e degli atteggiamenti spirituali dei suoi discepoli: al di là della formula, perciò, e mediante la formula, egli intende creare delle « disposizioni d’animo » che permettano all’orante di mettersi davanti a Dio come uno che ha più bisogno di essere da lui richiesto e interpellato, che di richiedergli qualcosa.

« Padre, sia santificato il tuo nome… » Mettendo da parte non pochi dettagli di carattere critico-letterario, che il testo del Pater noster presenta, vorrei richiamare l’attenzione del lettore sui « contenuti » di fondo della preghiera insegnataci da Gesù. Prima di tutto mi sembra importante notare che essa si svolge tutta sotto il segno della « paternità » di Dio: « Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno… e non ci indurre in tentazione » (vv. 2-4). La formula di Luca (« Padre ») è solo apparentemente più fredda di quella adoperata da Matteo: « Padre nostro, che sei nei cieli ». In realtà, essa sembra ripetere alla lettera la supplica di Gesù nell’orto: « Abbà, Padre! » (Mc 14,36), che ci viene riportata nel suo tenore aramaico anche da S. Paolo: segno evidente, questo, che la formula dovette produrre enorme impressione sugli Apostoli. E il motivo è che « Abbà » è formula del tutto originale, rivolta a Dio, in quanto essa viene adoperata dai bambini per rivolgersi nel gergo infantile, al loro padre: qualcosa come « papà mio, babbino » e simili. In questo modo Gesù ci insegna ad avere non solo un atteggiamento « filiale » nei riguardi di Dio, ma addirittura « infantile », cioè pieno di fiducia, di abbandono, di docilità, di amore. Anche se è possibile caricare il volto del « padre » di aspetti deformanti della vera paternità (autoritarismo, durezza, ecc.), questo non avviene certamente a livello infantile in cui la carica e lo scambio dell’affetto sono ancora integri e totali. Orbene, questo è il rapporto che noi dobbiamo avere con Dio allorquando preghiamo, come ci invita a fare Gesù anche nelle due piccole parabole che commentano il Pater: « Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe?… Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono! » (vv. 11-13). Tutto questo implica uno sforzo continuo di limpidità, di trasparenza, di fiducia, una volontà sincera di trasformarci e « diventare come fanciulli » (cf Mt 18,3). Solo allora sarà sincera la nostra invocazione: « Padre nostro, che sei nei cieli »! In secondo luogo è importante notare i due centri di interesse, che Gesù suggerisce ai suoi discepoli di avere sempre davanti per proporli al Padre: a) la gloria di Dio e l’avvento del suo « regno »; b) i bisogni materiali e spirituali dell’orante (il pane quotidiano, il perdono dei peccati, la liberazione dalla tentazione). Così Gesù ricompone in unità la « pluridimensionalità » dell’uomo: non esiste solo il « cielo » e neppure soltanto la « terra », ma il cielo e la terra insieme che si dànno la mano per permettere all’uomo di realizzarsi in tutta la sua pienezza.

La preghiera « coinvolge » la vita D’altra parte, per Gesù il pregare non è rimettere nelle mani di Dio i problemi che tormentano l’uomo perché li risolva al suo posto: in tal modo la preghiera sarebbe come una « alienazione ». Tutto il contrario! Nella preghiera l’uomo si impegna a scoprire il disegno di Dio nella propria vita per realizzarlo faticosamente giorno per giorno, con la grazia e la forza sempre nuove che il Padre che sta nei cieli non mancherà di dargli. Anche se il « regno » che deve venire è Dio che lo realizzerà, rimane pur vero che tocca all’uomo far di tutto per « entrarci ». Questo è anche più chiaro nella richiesta del « pane quotidiano » e del « perdono dei peccati »: Dio non ci perdonerà, se noi non « perdoniamo a ogni nostro debitore » (v. 4). Anche la richiesta di essere liberati dalla « tentazione », che indubbiamente è la grande « tentazione » del tradimento e dell’infedeltà, è legata alla nostra capacità e alla nostra volontà di resistenza, come ricorda Gesù agli Apostoli nell’orto: « Vegliate e pregate per non entrare in tentazione » (Mt 26,41). Dal che si vede che la preghiera afferra tutta la nostra vita, la lievita, la trasforma per farla coincidere con il progetto di Dio, davanti al quale dobbiamo sentirci e presentarci sempre con l’animo libero e fiducioso dei « figli ». Per questo avevamo bisogno che Gesù ci « insegnasse » a pregare, prima che con le parole, con la sua stessa vita, che è stata una continua ricerca della « volontà » del Padre.

Settimio CIPRIANI  (+)

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 23 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

The book of the Song of songs

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Publié dans:immagini sacre |on 11 juillet, 2016 |Pas de commentaires »

SANT’AGOSTINO – LETTERA 40 – RITORNA SULLA QUESTIONE DEI RAPPORTI FRA PIETRO E PAOLO »

http://www.augustinus.it/italiano/lettere/lettera_040_testo.htm

SANT’AGOSTINO – LETTERA 40 – RITORNA SULLA QUESTIONE DEI RAPPORTI FRA PIETRO E PAOLO »

Scritta sulla fine del 397.

A., ringraziato Girolamo per la lettera, approva il suo libro sugli Scrittori ecclesiastici ma non ne comprende il titolo (n. 1-2). Ritorna sulla questione dei rapporti fra Pietro e Paolo dando la propria interpretazione (n. 3-6); invitandolo a cantar la palinodia, si dichiara in cerca della verità (n. 7-8). Lo prega di indicare nella sua opera gli errori di Origene e degli altri eretici (n. 9).

AGOSTINO A GIROLAMO, SUO CARISSIMO SIGNORE E FRATELLO, DEGNO DEL PIÙ GRAN RISPETTO E DEL PIÙ VIVO AFFETTO SGORGANTE DA SINCERISSIMO OSSEQUIO DI CARITÀ, E SUO COLLEGA NEL SACERDOZIO

Agostino prega di scrivere più spesso. 1. 1. Ti ringrazio d’aver risposto a un mio semplice biglietto inviandomi con i saluti una vera e propria lettera. Essa però è più breve di quella che avrei desiderato ricevere da un personaggio come te, i cui scritti non son mai prolissi per quanto tempo possono portar via. Pertanto, sebbene io sia assediato da notevoli preoccupazioni di affari altrui e per di più di natura temporale, non ti perdonerei facilmente per la brevità della lettera, se non pensassi che rispondi a una mia lettera anche più breve. Prova, dunque, ad aprire un dialogo epistolare con me. Si eviterebbe in tal modo che la nostra lontananza fisica ci tenga separati per molto tempo, sebbene siamo uniti nel Signore mediante l’unità dello spirito 1 pure nel caso che lasciassimo riposare la penna e ce ne stessimo zitti. Del resto i libri da te composti, elaborando i tesori racchiusi nei granai del Signore, mi presentano un’immagine quasi completa di te stesso. Se infatti il motivo per cui non ti conosco è quello di non avere mai visto il tuo aspetto fisico, per lo stesso motivo neppure tu conosci te stesso, perché non lo vedi neppure tu stesso. Se invece sei noto a te stesso solo perché conosci la tua anima, anch’io la conosco abbastanza bene attraverso i tuoi scritti. Essi mi spingono a benedire il Signore per aver concesso (a te, a me e a tutti i fratelli che leggono le tue opere) un personaggio pari tuo.

L’Epitaffio o Gli Scrittori ecclesiastici. 2. 2. Fra le altre tue opere m’è capitato fra le mani, non è molto, un tuo libro; m’è ancora ignoto il titolo, poiché proprio l’esemplare da me posseduto – contrariamente al solito – non lo indica. Ciononostante il fratello, presso il quale esso è stato trovato, diceva che s’intitolava « Epitaffio »; io però avrei potuto credere che tu avresti ritenuto opportuno assegnare al libro quel titolo, se vi si leggesse solo la biografia o gli scritti di personaggi defunti. Siccome però vi sono ricordati gli scritti di molti autori non solo ancora viventi al tempo in cui l’opera è stata composta ma tuttora viventi, mi stupisco che tu vi abbia posto o si possa credere che vi abbia posto un simile titolo. Hai comunque scritto un’opera di grande utilità, che incontra la mia incondizionata approvazione.

Disputa tra S. Pietro e S. Paolo ad Antiochia. 3. 3. Nel tuo Commento all’Epistola dell’apostolo Paolo ai Galati ho trovato un particolare che mi ha sconcertato assai. Se infatti nella Sacra Scrittura si ammettessero delle bugie per così dire officiose, quale autorità potrebbe essa ancora avere? Quale citazione della Sacra Scrittura si potrebbe addurre come prova per schiacciare col suo peso la malizia d’un errore difeso con sotterfugi e cavilli? Non avrai, si può dire, finito di citarla che l’avversario, qualora la intendesse diversamente, ti dirà che la frase citata è stata falsata a bella posta, sia pure per qualche plausibile motivo di convenienza, dal sacro scrittore. Orbene, dove non potrebbe addursi una tale ragione, dal momento che si è potuto ammetterla in un passo che l’Apostolo inizia con queste parole: E quanto vi scrivo – ecco Dio m’è testimone – non è una menzogna 2, tanto da credere e sostenere che ha poi davvero mentito dove a proposito di Pietro e Barnaba affermò: Quando vidi che non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo 3. Poiché se quelli camminavano rettamente, ha mentito Paolo; se invece ha mentito in quel passo, dove avrà detto la verità? Si crederà dunque che avrà detto la verità solo quando afferma ciò che pensa il lettore, mentre, quando si incontrerà qualche frase contraria al pensiero del lettore, la si considererà una bugia officiosa? Se dovesse ammettersi tale norma esegetica, non mancherebbero mai delle situazioni in cui si potrebbe pensare che il sacro scrittore abbia non solo potuto, ma dovuto mentire. Ma non occorre trattare più a lungo tale questione, specialmente con uno come te, pieno di saggezza e di buon senso. Mai e poi mai m’arrogherei il diritto o pretenderei d’arricchire con i miei spiccioli il tuo ingegno oltremodo ricco per dono di Dio: non c’è poi nessuno più adatto di te a correggere quell’opera.

Pensiero di S. Paolo sui riti mosaici. 4. 4. Non devo certo insegnarti io come si debba intendere l’altra frase del medesimo Apostolo che dice: Coi Giudei mi son fatto come un Giudeo per guadagnare i Giudei 4 e tutto il resto ch’egli dice con senso di misericordiosa compassione, non per falsa simulazione. Chi assiste un malato diventa realmente come un malato non perché finge d’aver la febbre, ma perché, assumendo lo stato d’animo di chi soffre, cerca di capire come vorrebbe essere se fosse lui ad essere malato. Ora, Paolo era effettivamente Giudeo ma una volta diventato Cristiano non aveva abbandonato i riti giudaici ricevuti a tempo opportuno da quel popolo in modo conveniente e conforme alla legge di Dio. Ecco perché si assunse il dovere e il peso di osservarli anche quando era già Apostolo di Cristo; voleva solo insegnare che quei riti non costituivano per se stessi alcun pericolo spirituale per quanti volevano osservarli come li avevano ricevuti dai genitori attraverso la Legge, anche dopo aver creduto in Cristo; ma i Cristiani non dovevano ormai riporre in essi la speranza della salvezza, poiché proprio la salvezza prefigurata da quei riti era già arrivata per mezzo del Signore Gesù. Egli quindi riteneva che non dovevano affatto essere imposti ai pagani convertiti, essendo un peso gravoso ed inutile al quale non erano abituati e che li avrebbe allontanati dalla fede 5.

Perché S. Paolo criticò S. Pietro. 4. 5. Se quindi Paolo criticò Pietro non lo fece perché osservava le tradizioni dei padri; se l’avesse voluto fare, non avrebbe agito in modo né sconveniente né finto, poiché per quanto fossero superflue, non erano però nocive; ma lo rimproverò perché obbligava i pagani convertiti a osservare i riti giudaici 6, e ciò non avrebbe potuto assolutamente fare, se non li avesse praticati come necessari anche dopo la venuta del Signore. Era proprio questa l’opinione combattuta dalla Verità per mezzo dell’apostolo Paolo. Ma neppure Pietro ignorava ciò; agiva così per timore dei circoncisi 7. In tal modo e Pietro fu realmente rimproverato e Paolo narrò un fatto reale, altrimenti, una volta ammessa la giustificazione della menzogna, tutta la Sacra Scrittura fluttuerebbe ondeggiando nel dubbio. Ma non sarebbe possibile né opportuno mostrare per lettera quante cattive e insolubili conseguenze ne deriverebbero, se ammettessimo questo principio. Sarebbe però possibile e opportuno e anche meno pericoloso, se potessimo parlarci a tu per tu.

Che cosa S. Paolo ripudiò del giudaismo. 4. 6. Del giudaismo dunque Paolo aveva abbandonato solo ciò che era male: anzitutto il fatto che misconoscendo la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia non si sono assoggettati alla giustizia di Dio 8. In secondo luogo non approvava che dopo la passione e la risurrezione di Cristo, dopo essere stato concesso e manifestato il mistero della grazia alla maniera di Melchisedech 9, essi ancora credevano che gli antichi riti dovessero celebrarsi non come ricorrenze sacre e tradizionali ma come necessarie alla salvezza. Ammettiamo però che, se essi non fossero mai stati necessari, il martirio affrontato dai Maccabei sarebbe stato senza merito e senza scopo 10. Paolo infine ripudiò il giudaismo per il fatto che i Giudei perseguitavano i Cristiani come nemici della Legge perché predicavano la grazia. Sono tali errori e colpe di tal genere che Paolo afferma d’aver reputati come danni e spazzatura per guadagnare Cristo 11 e non le pratiche legali qualora venivano compiute per rispetto della tradizione degli antenati, senz’affatto credere che fossero necessarie alla salvezza (mentre invece i Giudei ritenevano che lo fossero) e non già per finzione o simulazione come faceva Pietro per cui Paolo lo rimproverò. Orbene, se Pietro compiva quelle pratiche religiose simulandosi giudeo per guadagnare a Dio i Giudei, perché mai non avrebbero dovuto pure compiere sacrifici coi pagani, dato che viveva come uno senza Legge per guadagnare a Cristo anche quelli ch’erano senza Legge 12? Non agiva forse così, Paolo, se non perché era giudeo di nascita? Tutto quel discorso lo fece non per apparire falsamente quel che non era, ma perché credeva suo dovere venire in loro aiuto con sentimenti di misericordia come se egli stesso soffrisse per lo stesso errore; non agiva cioè con astuzia da bugiardo ma con amore di chi prova compassione. Proprio ciò vuol far capire nello stesso brano con una frase di portata più generale: Mi son fatto debole, per guadagnare i deboli, e con la conclusione che segue: Mi son fatto tutto a tutti, per guadagnare tutti 13; frase che deve intendersi nel senso che Paolo volle apparire preso da compassione per chiunque fosse debole come se lo fosse lui stesso. Così pure quando diceva: Chi è malato senza che lo sia pure io? 14, non voleva far intendere ch’egli fingesse d’avere in sé le malattie degli altri, ma solo che pativa con loro.

Agostino invita Girolamo a cantare la palinodia. 4. 7. Perciò ti scongiuro, àrmati di autentica e veramente cristiana severità, che dev’essere accompagnata da carità, àpplicati con ardore a correggere quel tuo lavoro ed emendalo dagli errori e poi – come suol dirsi – canta la palinodia. Poiché non c’è confronto tra la bellezza della verità cristiana e la bellezza dell’Elena greca. I nostri martiri, per difendere la verità cristiana, han combattuto contro questa Sodoma molto più coraggiosamente di quanto han fatto per quella donna i famosi eroi contro Troia. Se ti parlo così non è per farti riacquistare la vista spirituale (lontano da me il pensiero che tu l’abbia persa), ma per farti notare un fatto strano, che pur avendo gli occhi dell’anima ben sani e perspicaci, tuttavia, per una finzione che non riesco a spiegarmi, li volgesti altrove per non considerare le disastrose conseguenze che ne deriverebbero se anche per una sola volta si ammettesse che un autore della Sacra Scrittura possa aver mentito in qualche passo della propria opera sia pure in buona fede e a fin di bene.

Agostino cerca solo la verità. 5. 8. Da dove mi trovo t’avevo già scritto tempo fa una lettera, che non ti fu recapitata perché non ha più compiuto il viaggio la persona cui l’avevo consegnata per fartela avere. Quella lettera mi aveva fatto venire in mente, mentre dettavo la presente, la questione precedente che mi pareva doveroso non tralasciare nemmeno in questa; se hai un’opinione diversa e più fondata della mia, perdona volentieri la mia apprensione. Poiché, se la pensi diversamente e la tua opinione è giusta (se non fosse giusta, non potrebbe essere neppure migliore), il mio errore – non voglio dire senza alcuna mia colpa ma certamente senza mia grave colpa – favorisce la verità, tanto più se potesse sostenersi con ragione che in qualche caso la verità può favorire la menzogna.

Gli errori di Origene. 6. 9. Riguardo alla risposta che mi hai benevolmente data a proposito di Origene, già sapevo anch’io che non solo nel campo della letteratura ecclesiastica ma in ogni altro campo dobbiamo approvare ed elogiare quanto vi troviamo di giusto e di vero, mentre dobbiamo disapprovare quanto è falso ed erroneo. Ma io desideravo e ancora desidero da te, saggio qual sei, di sapere in modo esplicito quali sono gli errori veri e propri con cui s’è potuto provare irrefutabilmente come quel personaggio sì grande e famoso s’è allontanato dalla retta fede. Quanto poi al libro in cui hai menzionato tutti gli scrittori ecclesiastici e le relative opere di cui ti sei potuto ricordare, sarebbe più opportuno, a mio modesto giudizio, se dopo aver nominato quelli da te conosciuti come eretici (salvo che proprio questi tu abbia voluto saltare a piè pari) aggiungessi pure i punti da cui è bene guardarsi. Qualcuno però lo hai davvero saltato e mi piacerebbe sapere in base a quale criterio lo hai fatto. Se per caso non hai voluto sovraccaricare il volume aggiungendo all’elenco degli eretici i punti in cui l’autorità cattolica li ha condannati, non ti paia troppo gravoso fare una tale aggiunta alla tua fatica di scrittore. Grazie a nostro Signore, la tua fatica letteraria ha contribuito non poco ad accendere e aiutare gli studi sacri in lingua latina. Cerca dunque di fare quanto la carità dei fratelli ti raccomanda pressantemente per mezzo della mia pochezza e cioè, se te lo permetteranno le tue occupazioni, di registrare accuratamente ma brevemente in un opuscolo le false dottrine di tutti gli eretici i quali, o per impudenza o per testardaggine, si sono sforzati di deformare l’ortodossia della fede cristiana, e pubblicarlo per informarne le persone che, pressate da altre faccende, non hanno tempo o, impedite dalla lingua straniera, non hanno la capacità di leggere e approfondire i numerosi testi originali. Ti pregherei più a lungo, se ciò non fosse di solito indizio di chi s’aspetta poco dalla carità. Raccomando per ora caldamente alla tua Benevolenza Paolo, nostro fratello in Cristo che a te si presenta. Per la stima che gode nel nostro paese ti posso dare davanti a Dio una buona testimonianza di lui.

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