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SAN LUCA (F) «SCRIBA MANSUETUDINIS CHRISTI»

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SAN LUCA (F) «SCRIBA MANSUETUDINIS CHRISTI»

Colui che ha raccontato lo stupore e la commozione di Gesù. Così Dante definisce l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli

di Stefania Falasca

«Luca solo è con me». Così Paolo, nella seconda lettera a Timoteo (2 Tm 4, 11), scritta a Roma durante l’ultima prigionia che lo porterà al martirio, ricorda l’amico rimastogli accanto. Già nelle lettere ai Colossesi e a Filemone, scritte nel corso della prima prigionia romana, lo aveva menzionato tra i suoi più stretti collaboratori: «Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema» (Col 4, 14). «Il caro medico», lo chiama Paolo, informandoci della sua professione e anche, indirettamente, della sua provenienza pagana poiché Paolo non lo mette tra coloro che vengono dalla circoncisione (Col 4, 10-11). È il discepolo prediletto di Paolo, il compagno fedele di tanti suoi viaggi, il testimone oculare dei fatti accaduti tra quei primi cristiani, come dimostrano i racconti della seconda parte degli Atti degli apostoli scritti esprimendosi in prima persona plurale, colui che la tradizione indica anche come l’autore del terzo Vangelo.
Luca non aveva conosciuto né aveva mai visto Gesù. «Non vide il Signore nella carne», riferisce il Canone muratoriano (un elenco ragionato dei libri del Nuovo Testamento scritto a Roma verso il 160-180). Eppure, dei quattro evangelisti è forse quello che ci ha lasciato le pagine più belle, più vivide e commoventi della Sua vita terrena. Il suo Vangelo è scritto nel greco più classico di tutto il Nuovo Testamento e denota le conoscenze letterarie e storiche dell’autore. Ma al rigore della narrazione, nel rispetto delle fonti e della cronologia dei fatti accaduti – rigore che gli deriva probabilmente proprio dalla sua attitudine professionale –, Luca unisce una sensibilità d’animo e una delicatezza che caratterizzano tutto il terzo Vangelo.
Tanta scrupolosa ricerca su fatti e detti di Gesù presso coloro che si erano trovati presenti ha fatto sì che solo Luca ci tramandasse delle notizie che non hanno riscontro negli altri Vangeli: un terzo dei miracoli e tre quarti delle parabole riportati si ritrovano solamente in lui. Tra queste fonti, nei primi passi specialmente, si può sentire la voce soave della madre stessa di Gesù. Luca è l’unico degli evangelisti a parlarci lungamente di lei, a far parlare Maria, il primo a profilarne l’immagine. E lui più degli altri è riuscito a riportarci con delicata finezza quei particolari lievi, quegli spunti appena accennati che rivelano la misericordia di Gesù, i gesti di profonda compassione, il Suo stupore, la Sua tenerezza, quella tenerezza che lo fece chiamare da Dante «scriba mansuetudinis Christi» (Monarchia I).
«Morì a 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo»
Luca mai si nomina nell’opera in due volumi a lui attribuita. Sono i copisti dei codici greci, nel II secolo, ad intitolare uno dei quattro Vangeli “secondo Luca”, ponendolo al terzo posto dopo quelli di Marco e di Matteo. Essi ci hanno tramandato anche il libro che riferisce le origini della Chiesa primitiva, legata soprattutto alle vicende di Pietro e Paolo, separandolo dal terzo Vangelo (del quale probabilmente costituiva originariamente una continuazione), col titolo “Atti degli apostoli”. Una tradizione antica ed universale, che proviene dalle Chiese di Siria, Roma, Gallia, Africa, Alessandria, riportata dagli scrittori cristiani dei primi secoli tra cui Ireneo (Adversus haereses III), fa di Luca l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli.
La testimonianza più antica si trova nel Canone muratoriano. Il Canone muratoriano ci dà anche delle informazioni riguardo Luca, descrivendolo come medico e collaboratore di Paolo. A questa prima testimonianza segue quella di un copista della fine del II secolo, che prepose al suo codice un prologo contro l’eretico Marcione, perciò chiamato Prologo antimarcionita. Su Luca riferisce: «Luca è un antiocheno di Siria, medico per professione, discepolo degli apostoli; poi passò al seguito di Paolo fino al suo martirio, servendo Dio senza crimini; non ebbe mai moglie, non procreò mai figli, morì a 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo». San Girolamo, nel IV secolo, riassumendo tutta la tradizione precedente, indica anche il luogo della sua sepoltura: «Luca, un medico di Antiochia, non inesperto in lingua greca, come lo indicano i suoi scritti, discepolo dell’apostolo Paolo e compagno di tutti i suoi viaggi, scrisse il Vangelo. Pubblicò pure un altro egregio volume che è intitolato Atti degli apostoli […]. È sepolto a Costantinopoli, alla cui città, nell’anno secondo dell’imperatore Costanzo [338], furono traslate le sue ossa» (De viris illustribus III).
Che Luca sia di origine antiochena lo sappiamo dagli Atti stessi dove lo troviamo membro di questa comunità cristiana intorno all’anno 40 e dove probabilmente ebbe modo di conoscere Pietro (At 11, 1-26) . È accanto a Paolo per la prima volta nel secondo viaggio missionario da Troade a Filippi (At 16, 10-17). È da questo punto infatti che Luca continua la narrazione degli Atti in prima persona plurale: «Subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore».
Nella primavera del 58 è di nuovo nella stessa città a fianco di Paolo e lo accompagna nel suo viaggio di ritorno a Gerusalemme (At 21, 1-18), dove si mise in relazione con l’apostolo Giacomo. A Gerusalemme probabilmente ebbe occasione anche di incontrare qualcuna di quelle donne («Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre che li assistevano con i loro beni», Lc 8, 3) che lui solo menziona nel Vangelo.
Accompagna poi Paolo nel suo primo viaggio verso Roma, del quale l’ultima parte degli Atti costituisce il diario (At 27,1-28,26). E a Roma, dove rimase accanto all’Apostolo delle genti, si sarà probabilmente incontrato con Pietro e Marco.
Nulla invece sappiamo di certo della vita di Luca dopo la morte di Paolo. C’è chi lo descrive come evangelizzatore della Dalmazia e della Macedonia e chi, come Gregorio Nazianzeno, dell’Acaia e della Tebaide. Incerti rimangono anche il luogo e la causa della sua morte. Gli scritti più antichi parlano di martirio.
Anche sul luogo e sulla data della composizione del Vangelo (per ciò che riguarda il luogo comunemente è indicata Roma), le testimonianze fornite dalla tradizione e le opinioni degli studiosi divergono. È però certo che la redazione del terzo Vangelo è anteriore a quella degli Atti degli apostoli.
«Gli avvenimenti accaduti tra noi»
Luca apre il suo Vangelo con un prologo nel quale chiarisce subito il metodo e lo scopo del suo scritto. È indirizzato ad un certo Teofilo, personaggio importante a noi sconosciuto, probabilmente di origine greca, che Luca desidera confermare nella fede e al quale indirizza anche il libro degli Atti. Ma al di là di questo personaggio, il suo Vangelo sembra essere rivolto (proprio per la lingua usata, per le spiegazioni circa la geografia della Palestina e le usanze ebraiche, per lo scarso interesse per le discussioni sulla legge e per il riferimento invece continuo ai pagani) a coloro che non provengono dall’ebraismo. Luca per esporre con ordine «gli avvenimenti che sono accaduti» (Lc 1, 1) ha consultato documenti scritti e soprattutto testimoni diretti. Ha attinto indicazioni preziose da Paolo, del quale in tutto il Vangelo si sente l’influsso, da Pietro (Lc 22, 8), forse da Giovanni stesso (Lc 9. 28-36), dal diacono Filippo (At 21, 8), particolarmente al corrente di quanto riguardava la Samaria (Lc 9, 52-56), da Cleopa (Lc 24, 18). Le pie donne insieme a Marta e Maria (Lc 10, 38) hanno potuto informarlo di episodi che le riguardavano personalmente. Manaèn, l’amico d’infanzia di Erode (At 13, 1), gli ha forse riferito la comparsa di Gesù davanti al tetrarca (Lc 23, 7-12). Ma Luca ha attinto soprattutto dal tesoro dei ricordi della madre stessa di Gesù (Lc 2, 19. 51), che egli ha conosciuto e ascoltato di persona. Da lei ha appreso lo stupore dell’annuncio, della visita a Elisabetta, del parto a Betlemme; l’angoscia sua e di Giuseppe per lo smarrimento di Gesù dodicenne. È la voce stessa della Madonna che nel Magnificat direttamente si rivela: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore; perché ha rivolto gli occhi all’umiltà della sua serva…» (Lc 1, 46-48). Tutta la parte del Vangelo sull’infanzia, così come è narrata, ponendo in parallelo l’annunciazione e la nascita di Gesù con l’annunciazione e la nascita di Giovanni Battista, è peculiare di Luca.
È Luca a lasciarci i tratti delicati di Maria, a dipingerne nel racconto le immagini più belle. E forse è proprio da qui che è nata la tradizione di origine orientale che presenta Luca come pittore del volto di Maria. Molte infatti sono le immagini della Madonna attribuite all’evangelista. La testimonianza più antica al riguardo è di Teodoro il Lettore (520 circa) il quale afferma che la regina Eudocia mandò da Gerusalemme a Pulcheria il quadro della Madre di Dio dipinto dall’evangelista. «Neque novimus faciem Virginis Mariae», non conosciamo il volto della vergine Maria, scrive sant’Agostino (De Trinitate VIII). Ma anche se mancano testimonianze storiche più antiche non è affatto escluso che Luca abbia realmente dipinto il volto della Madre del Signore.
Il Vangelo di Matteo e di Marco, quest’ultimo seguito da Luca in tre lunghi tratti della vita pubblica del Signore, sono le fonti scritte utilizzate dall’evangelista. Tuttavia, seppure il terzo Vangelo presenta lo stesso schema generale dei Vangeli di Matteo e di Marco (un’introduzione, la predicazione di Gesù in Galilea, la sua salita verso Gerusalemme, il compimento della sua missione attraverso la passione e la risurrezione), la sua costruzione è elaborata con cura e mira a far risaltare in questa storia i tempi e i luoghi della storia della salvezza, insistendo fin dall’inizio sul Figlio di Dio come il salvatore di tutti gli uomini e sull’attualità della salvezza (Lc 2, 11; 4, 21).
L’assassino buono ruba il paradiso
L’originalità di Luca si manifesta soprattutto nella parte centrale del Vangelo, nel viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dove risalta l’insegnamento di Gesù attraverso una serie abbondantissima di parabole come quella del buon samaritano (Lc 10, 29-37), del figliol prodigo (15, 11-32), del ricco epulone (16, 19-31), del fariseo e del pubblicano (18, 9-14). Parabole che solo Luca riporta (18 delle sue 24 parabole non esistono negli altri Sinottici) e che evidenziano gli aspetti a lui più cari: la misericordiosa mansuetudine di Gesù, la sua benevolenza verso i pagani, la sua bontà accogliente verso i peccatori, la sua predilezione per i poveri e i piccoli che della buona novella sono i destinatari privilegiati. La predicazione di Gesù si apre, nel Vangelo di Luca, proprio rivolgendosi a loro: «Mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella» (Lc 4, 18).
Più volte sottolinea che il Vangelo è per i piccoli, più volte si dilunga a raccontare i gesti di perdono e di accoglienza di Gesù. Luca è l’unico, ad esempio, a riportare l’episodio del buon ladrone, mostrando la misericordia di Gesù fino alla fine. È l’ultimo Suo gesto di perdono prima di spirare sulla croce. E quell’attimo, il solo attimo che è bastato al malfattore per “rubare” il cielo, Luca lo descrive con un’intensità che commuove: «“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. “In verità ti dico, oggi stesso sarai con me in paradiso”» (Lc 23, 42-43). È la stessa commovente intensità con la quale descrive l’episodio della peccatrice in casa del fariseo (Lc 7, 36-50). Gesù era a pranzo in casa di un fariseo e mentre erano lì a mangiare irrompe una nota prostituta che circonda di attenzioni Gesù: «Portava un vaso di alabastro pieno di unguento e, fermatasi alle spalle presso i suoi piedi, piangendo, cominciò con lacrime a bagnargli i piedi e li asciugava con i capelli, e gli copriva di baci i piedi e li ungeva con l’unguento». Attenzioni che provocano l’indignato rancore del fariseo.
È soprattutto nel narrare le parabole, i gesti di compassione e di misericordia di Gesù, che Luca mostra la sua qualità di scrittore di grande talento. Con brevi notazioni, con sfumature sottili, a volte con una sola parola riesce ad indicare la tensione drammatica di un’intera situazione e non mancano neppure tracce di linguaggio medico. Usa ad esempio termini tecnici per indicare la febbre alta (Lc 4, 38), la paralisi (Lc 5, 18), e come medico, trattando dell’emorroissa, omette quanto in Marco (Mc 5, 26) può tornare sgradito ai suoi colleghi. Marco infatti, narrando l’episodio, aveva tuonato rudemente contro i medici che avevano costretto la donna «a dilapidare tutti i suoi averi senza avere alcun giovamento, anzi era andata peggiorando». Luca laconicamente scrive: «Nessuno era riuscito a guarirla» (Lc 8, 43). Ma la sua delicatezza si esprime soprattutto quando avvicina la persona di Gesù. Di lui ci suggerisce gli sguardi, le emozioni, i gesti umanissimi, le sofferenze nascoste. Luca è l’unico che riferisce del sudore di sangue di Gesù in quella notte di agonia nel Getsemani (Lc 22, 43-44) e di quel pianto, di quei «singhiozzi», quella sera sull’altura degli ulivi a Gerusalemme (Lc 19, 41-44), di fronte allo splendore del tempio al tramonto, presagendo la distruzione della Sua città.
Giovanni ci ha mostrato Gesù commuoversi fino alle lacrime per la morte dell’amico Lazzaro (Gv 11, 35-38), Luca è il pittore della sua tenerezza, come nell’episodio della donna curva da tanti anni al punto che non poteva più raddrizzarsi (Lc 13, 10-17). È Gesù a prendere l’iniziativa. Nessuno, neppure la donna, gli aveva richiesto niente. Stava insegnando nella sinagoga: la vede e chiamatala vicino a sé la guarisce. E quel giorno quando, entrando nella città di Nain, si imbatte in un corteo funebre e viene a sapere che il morto è il figlio unico di una madre vedova (Lc 7, 11-17). Gesù vede tra la folla quella madre portare al sepolcro l’unico suo figlio. «Vedendola» scrive Luca «ne prova compassione». Allora le si avvicina, piano le dice: «Donna, non piangere». Un atto di tenerezza è il suo primo gesto, poi le restituirà il figlio  vivo.

Publié dans:SANTI EVANGELISTI |on 17 octobre, 2018 |Pas de commentaires »

25.04: MEMORIA DEL SANTO APOSTOLO ED EVANGELISTA MARCO

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25.04: MEMORIA DEL SANTO APOSTOLO ED EVANGELISTA MARCO

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

Il santo e glorioso Apostolo Marco, chiamato anche Giovanni, era figlio di una pia donna di Gerusalemme, Maria, che offriva la sua casa ai discepoli degli Apostoli per le loro riunioni di preghiera. San Pietro andava spesso e si affezionò al giovane Marco che istruì nella fede e battezzò, considerandolo come suo figlio (I Pietro 5,13) [1]. Egli era anche cugino del santo Apostolo Barnaba, che lo prese con lui quando partì per Antiochia in compagnia di san Paolo (Atti 12,24). Durante questi viaggi d’evangelizzazione, Marco assisteva umilmente i due predicatori, provvedendo ai loro bisogni materiali e assorbendo il loro insegnamento.
Arrivato a Perge di Pamfilia, Marco ebbe molto paura di fronte alle difficoltà della missione [2] e si separò da Paolo e Barnaba, per tornare a Gerusalemme ( Atti 13,13). San Paolo sembra essere stato offeso e addolorato da questa separazione, così quando lo ritrovarono ad Antiochia, egli si rifiutò di condurre << colui che li aveva abbandonati in Pamfilia e non aveva partecipato all’opera con loro >> ( Atti 15,37). La discussione si riscaldò e Barnaba decise di imbarcarsi per Cipro con Marco mentre Paolo partì con Silla per evangelizzare la Siria e la Cilicia (52) [3].
Diceci anni più tardi, si ritrovò san Marco a Roma, in compagnia d’Aristarco e di Gesù il Giusto per assistere Paolo nella sua prigionia ( Col. 4,10). Da là partì con la benedizione del Grande Apostolo per visitare i cristiani di Colossi. Durante la sua seconda prigionia, Paolo scriveva a Timoteo, raccomandandogli di condurre Marco con lui:<< Poiché egli mi è prezioso per il ministero >> assicurava ( II Tim. 4,11).
Fu verso il 65 che san Marco ritrovò san Pietro a Roma, nel momento in cui i due Corifei dovevano subire il loro martirio. La luce dell’insegnamento di san Pietro aveva talmente brillato nello spirito dei nuovi convertiti di Roma, che essi supplicarono Marco di mettere per iscritto questa dottrina divina.
Confermato da una rivelazione divina e con il permesso di san Pietro, egli si mise all’opera e redasse in maniera breve, semplice e piena di vita un riassunto degli atti e delle parole del Salvatore conforme alla predicazione del Corifeo degli Apostoli [4].
Senza preoccuparsi della presentazione letteraria, né di rispondere a tutte le questioni che potevano posarsi sui fedeli, egli scrive tutto ciò che è utile alla Salvezza e alla conoscenza del Figlio di Dio fatto uomo, e niente di più [5]. Una volta terminata quest’opera, san Pietro lo inviò in Egitto a portare la Buona Novella. Durante la traversata la nave fu presa dalla tempesta che Marco placò con la sua preghiera e poté fare scalo nell’isola di Pittuse, di fronte alla Cilicia, dove ricevuto da un notabile di nome Bassos, che era stato convertito da san Pietro ad Antiochia e grazie al suo appoggio convertì la maggior parte degli abitanti dell’isola. Quando arrivò ad Alessandria, il sandalo di Marco, usato per il cammino, essendosi rotto, lo diede ad aggiustare ad un ciabattino di nome Aniene. Costui, stupito dalla luce straordinaria che emanava il viso dell’Apostolo, si distrasse e si punse il dito gridando:<< Un solo Dio! >>. San Marco lo guarì dalla ferita e utilizzò questa occasione per istruirlo sulla verità del solo Dio divenuto uomo per la nostra Salvezza. Aniene ascoltò con attenzione queste parole di vita e dopo aver fatto battezzare tutta la sua casa, lasciò la professione ed ogni attaccamento al mondo per divenire il più stretto collaboratore dell’Apostolo. In questa immensa città, metropoli del paganesimo e della cultura ellenica, la parola dell’Apostolo, semplice e sprovvista d’ornamenti futili e di retorica, suonò come un terremoto e i suoi miracoli confermarono la profezia del Salmo che dice:<< Il Signore metterà la parola sulla bocca di coloro che annunciano la Buona Novella con grande potenza (Salmo 67,12). Nel nome di Gesù, Luce del mondo,egli rese la vista ad un cieco e subito gli portarono malati e posseduti perché egli imponesse loro le mani.
Avanti allo spettacolo delle guarigioni compiute per la potenza di Dio, 300 pagani in un sol giorno chiesero di ricevere il Battesimo. In modo simile a Cristo, Marco resuscitò il figlio di una vedova che era andata a gettarsi in lacrime ai suoi piedi e la folla vedendo il ragazzo alzarsi, gridò:<< Non c’è che un solo Dio, il Cristo predicato da Marco! >>. La semenza evangelica cominciava a germogliare quando Marco organizzò le prime istituzioni liturgiche della Chiesa d’Egitto [6], ordinò Aniene vescovo d’Alessandria [7] insieme a tre preti per aiutarlo: Mileo, Sabino e Cerdone, sette diaconi e undici altro clero di rango inferiore, poi continuò la sua missione verso Ovest.
Da Alessandria andò a Mendesion [8] e liberò dal demone un bimbo cieco. I genitori del bambino, colmi di gioia, gli offrirono una forte somma di denaro, ma Marco la rifiutò, dicendo che la Grazia di Dio non si scambia con soldi e raccomandò loro di distribuirle in elemosina. Essendosi convertiti a seguito di questo miracolo un numero considerevole di pagani, Marco fondò in questa città una Chiesa e ordinò un vescovo, dei preti e dei diaconi, poi continuò il suo viaggio verso Cirene della Pentapoli [9], dove liberò molti pagani dalle tenebre dell’idolatria.
Egli andò poi ad evangelizzare la Libia. Dal suo arrivo nella capitale, la figlia del filarca Menodoro, che era tormentata da un demone fin dall’infanzia, entrò in una crisi furiosa che provocò la sua morte; ma la preghiera dell’apostolo la resuscitò e portò alla conversione un gran numero. Da là san Marco passò in Marmarica [10], spandendo sul suo cammino la Luce del Vangelo. Una notte il Signore gli apparve in visione e gli ordinò di tornare ad Alessandria per completare la sua missione. Malgrado i pianti e le suppliche dei nuovi convertiti che volevano trattenere il loro padre e salvatore, l’Apostolo, confermato da una nova visione, che gli annunciava di dover completare la sua missione con la gloria del martirio, si imbarcò per Alessandria, dove poté ammirare i progressi dell’evangelizzazione durante i suoi due anni d’assenza [11].
Tuttavia i pagani ed i Giudei non potevano sopportare i successi riportati dal discepolo di Cristo e, digrignando i denti, cercavano l’occasione d’arrestarlo. Un anno in cui la celebrazione della Pasqua coincideva con quella del dio Serapide, festa che gli abitanti d’Alessandria avevano abitudine celebrare con ignobili malcostumi, essi si precipitarono sul santo, mentre celebrava la Divina Liturgia e lo trascinarono fino all’anfiteatro, dove si trovava il governatore, accusandolo di pratiche magiche.
Alle accuse piene di odio l’Apostolo rispose con calma ed espose, come sua abitudine, in poche parole, la sublime dottrina della Salvezza. Sconcertato e non potendo obiettare nulla ai suoi argomenti, il governatore si rivolse verso la folla chiedendo, cosa avrebbe dovuto fare di Marco. Alcuni gridarono di bruciarlo avanti al tempio del dio Serapide, altri di lapidarlo. Finalmente, su ordine del magistrato, fu steso a terra, e con le membra squartate fu crudelmente fustigato. Poi la popolazione si impadronì del corpo del santo e gli passò una corda ai piedi, lo trascinò tutto il giorno nelle strade della città, arrossando le pietre e la terra col suo sangue. Venuta la sera, venne chiuso in prigione, dove, verso mezzanotte, un Angelo andò a confortarlo. Al mattino del sabato 4 aprile [12], i carnefici lo attaccarono ad una corda e lo trascinarono fino ad un luogo scosceso, strapiombo sul mare, di nome Bucolo [13], dove trovò la morte. Aveva allora 57 anni.
I pagani vollero bruciare il suo corpo ma un violento temporale li mise in fuga e permise ai cristiani di seppellirlo in una roccia incavata.
In seguito fu costruita una chiesa sopra la tomba del Santo Apostolo a Bucolo [14] che divenne alto luogo di pietà per i cristiani di Alessandria.
Al IX sec., il corpo di san Marco fu trasportato a Venezia nella famosa basilica a Lui dedicata.

Note:
1) Alcune antiche ma poco sicure tradizioni affermano che il giovane Marco, era il ragazzo che i discepoli, incaricati dal Signore di andare a Preparare la Pasqua, incontrarono e che portava una brocca d’acqua (Marco 14,13) e che fu nella casa di sua madre che ebbe luogo la Cena.
2) È l’interpretazione di san Giovanni Crisostomo.
3) Secondo alcuni Marco si aggiunse allora a Pietro per proclamare il Vangelo ai Giudei dispersi nel Ponto, in Bitinia, in Galazia, in Cappadocia, in Asia.
4) Secondo l’opinione comune dei Padri, san Marco fu il primo redattore del Vangelo e “l’interprete” di san Pietro. Alcuni antichi manoscritti del Vangelo di San Marco portano come sottotitolo: << MEMORIE DI PIETRO >>.
5) Dopo aver raccolto le informazioni contente nel Nuovo Testamento, riassumiamo i suoi Atti, nella loro versione estesa, di epoca bizantina. Dopo l’arcivescovo di Atene Crisostomo, che ha tentato di conciliare le due fonti nella sua “Storia della Chiesa di Alessandria” (1955), san Marco avrebbe fatto prima missione a Cirene, poi ad Alessandria. Nell’autunno dell’anno 60, sarebbe ritornato a Cirene per confermare il cristianesimo e nella primavera del 61, avrebbe raggiunto san Paolo a Roma, il quale gli avrebbe affidato una missione in Cilicia (Col. 4,10). Da Efeso ritornò a Roma con Timoteo e Paolo lo rinviò di nuovo in Asia Minore, fin nella regione evangelizzata da san Pietro. Dopo aver seguito san Pietro per qualche tempo ed essere passato per Roma avrebbe iniziato la sua seconda missione in Egitto verso la fine del 62, passando per la Cirenaica e avrebbe trovato la morte ad Alessandria, a Pasqua del 63.
6) La liturgia alessandrina detta di San Marco è di composizione posteriore, ma si ritrovano le tracce e la primitiva ispirazione dell’Apostolo.
7) Secondo vescovo d’Alessandria e successore di san Marco, san Aniene morì il 26 nocembre 86. È commemorato nei Martirologi Latini sia il 25 marzo che il 2 ottobre.
8) Oppure Mendio. Secondo gli antichi Atti questo era il luogo dove sbarcò ad Alessandria e incontrò Aniene.
9) Capitale della Pentapoli e della Cirenaica, questa grande città, allora associata a Creta dai Romani, era la più importante colonia greca d’Africa del Nord. Fu eretta a provincia indipendente da san Costantino: Libia Superiore. Dagli antichi Atti, Marco evangelizzò anche Cirene prima di arrivare ad Alessandria.
10) Questa regione ad ovest dell’Egitto, oggi deserta e incolta, era allora una prospera colonia greca.
11) Alcuni affermano che si ritirò qualche tempo per andare ad assistere a Roma al martirio di san Pietro e Paolo.
12) L a sua memoria è stata piazzata più tardi al 25, per essere sempre dopo Pasqua.
13) Dove i cristiani tenevano le loro riunioni di preghiera, secondo gli “Atti” antichi.
14) Fu là che san Pietro d’Alessandria fu martirizzato. Prima di essere giustiziato chiese di andare a pregare sulla tomba dell’Apostolo.

Publié dans:SANTI EVANGELISTI |on 24 avril, 2018 |Pas de commentaires »

PER LA FESTA DI SAN LUCA (18.10) VANGELO DI LUCA E ATTI DEGLI APOSTOLI: UN’OPERA UNICA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/2002-2003/11-Vangelo_di_Luca_e_Atti.html

VANGELO DI LUCA E ATTI DEGLI APOSTOLI: UN’OPERA UNICA

Eccoci di nuovo nell’anno liturgico dedicato al Vangelo di Luca. Tre anni fa ci siamo intrattenuti su varie pagine del suo Vangelo. Quest’anno vogliamo soffermarci sugli Atti degli Apostoli che all’inizio formavano con il Vangelo un’unica opera con una sola introduzione, quella che leggiamo in Luca 1,1-4. Iniziamo richiamandoci ad un pensiero detto tre anni fa e che vale in modo particolare negli Atti. Chi vuole camminare con Cristo nella storia deve sentirsi sempre in cammino, deve capire che non ci si può fermare e che non si può volgere indietro lo sguardo finché il Messaggio della salvezza non sia giunto sino alle estremità della terra. Questa è la vera caratteristica del discepolo nell’intera opera lucana. Chi la osserva nella sua totalità, rimane stupito dall’immenso lavoro di Luca e dalla grandiosità del suo progetto: egli non vede solo “l’evento del Cristo terreno”, ma “l’evento Cristo” che continua nella storia umana e che sempre cammina con i suoi discepoli “con la potenza dello Spirito Santo” (Lc 4,14).

Ma chi è Luca?
Ci piace pensarlo negli anni 80-90. La generazione apostolica appartiene oramai al passato e l’annuncio di Cristo ha già raggiunto le “estremità della terra”, cioè tutto il mondo allora conosciuto da un medio-orientale. Luca guarda questo passato e osserva insieme la storia del Gesù terreno e i quasi cinquant’anni della storia della Chiesa. Che meraviglia! Quante similitudini tra la vita di Gesù e quella della Chiesa: il martirio di Stefano è simile a quello di Gesù, la passione di Paolo ripete quella di Gesù e fa toccare con mano che davvero “non è Paolo che vive, ma Gesù che vive in lui”, e la vita dei cristiani riflette sotto tanti aspetti quella di Gesù. La predicazione, poi, e la catechesi degli Apostoli offrono con somma coerenza una enorme ricchezza. Davvero sono il fondamento d’ogni vera catechesi.
A Luca è possibile conoscere tutto ciò perché non c’è solo una tradizione orale, ma anche perché molti già hanno tentato di scrivere su quanto è accaduto ai tempi del Cristo terreno e su quanto è accaduto e accade nella Chiesa. C’è oramai una vasta letteratura cristiana su Gesù e sulla Chiesa. E per quanto riguarda Gesù c’è una tradizione anche scritta che risale ai Dodici, cioè ai testimoni oculari, a quelli che sono stati con Gesù dal “Battesimo di Giovanni Battista fino alla sua Ascensione”, e che sono il fondamento della nostra fede (Ef 2,20). Osservando tutto ciò, decide di dare anche lui il suo contributo e da abile scrittore storico si mette al lavoro. Innanzi tutto fa accurate ricerche su ogni circostanza fin dagli inizi (Lc 1,3); e poi fa le sue scelte: è chiaro, infatti, che non può scrivere tutto. Non ci parlerà di tutti gli Apostoli e neppure della vita di tutte le “chiese” sparse nel mondo romano, ma solo di alcuni o di alcune.
Redigendo il Vangelo è evidente che ha come base il “Vangelo di Marco” e una “fonte scritta” che userà anche Matteo, ma non fa il copiatore: a tutto imprime il suo entusiastico stile. Quando invece si tratta degli Atti, gli studiosi accennano a certe “fonti scritte”, ma si naviga tra pure ipotesi quando si cerca di precisarle. È però certo che Luca conosceva le “Lettere di Paolo”, anche se è difficile precisarne il suo uso. Però lui è stato un compagno di Paolo, come lo dimostrano le “sezioni noi” degli Atti, e perciò sapeva come predicava l’Apostolo delle genti.
Ebbene, dopo aver vagliato tutto, si mette all’opera pensando ai suoi destinatari. Ne cita uno in particolare: “Teofilo”, ma è chiaro che il suo scopo è di far comprendere alla sua comunità quanta solidità abbia la catechesi che ha ricevuto e che egli riassume presentando l’evento Gesù (Vangelo) e richiamandosi, negli Atti, alla predicazione apostolica. Luca è un vero maestro e un vero storico, ma la sua opera è anche catechesi e teologia. Da un punto di vista storico, vediamo che egli dà a tutta la sua opera un grandioso quadro storico e geografico.

Quadro storico
Se non avessimo l’opera lucana sarebbe difficile ancorare alla storia “l’evento Cristo”. Marco e Giovanni con il solo riferimento a Pilato (anni 26-36) e a Caifa (anni 7-36) non sono sufficienti per capire quando si svolse il ministero di Gesù. Ed è difficile anche il testo di Matteo 2,1 che colloca la nascita di Gesù ai tempi di Erode (37-4 a.C.). Ben diverso è Luca. Fedele al principio che gli apostoli sono testimoni solo di ciò che avvenne dal Battesimo amministrato da Giovanni Battista fino all’Ascensione di Gesù, così introduce il ministero di Giovanni: «Nell’anno decimo quinto dell’impero di Tiberio Cesare (cioè anni 28-29), mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea (26-36 a.C.), Erode tetrarca della Galilea e Filippo suo fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa la Parola di Dio scese su Giovanni…» (Lc 3,1-2).
La storia di Gesù è qui ben ancorata alla storia romana e della Palestina dell’inizio del primo secolo. E se pensiamo agli Atti che collocano il primo arresto di Pietro (At 4) e il martirio di Stefano (At 7) sotto il sommo sacerdote Caifa, che finì il suo mandato nell’anno 36 – siamo in una Chiesa già piena di vita – abbiamo la certezza che è stretto il margine in cui Gesù ha potuto sviluppare il suo ministero. Ma c’è la grande certezza che “l’evento Cristo” è ben ancorato nella storia umana di allora.
Ma c’è di più: Luca àncora fortemente l’evento Cristo e quello della Chiesa primitiva nel mondo giudaico. Il Vangelo si conclude affermando che dopo l’Ascensione i discepoli «tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24,52s). E negli Atti leggiamo che la comunità cristiana «ogni giorno frequentava il tempio» (At 2,46) e tale era l’abitudine di Pietro e Giovanni (At 3,1) e si afferma che «i credenti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; degli altri nessuno osava associarsi a loro» (At 5,12-13). Questi apparivano già come un gruppo a sé stante del giudaismo. Così come Luca sin dai racconti dell’infanzia ha presentato Gesù inserito in tutto e per tutto nel giudaismo palestinese fin dalla nascita e dalla circoncisione, ora dipinge il cristianesimo come una pura e logica emanazione, nonché continuazione, del giudaismo e fortemente agganciato a tutta la tradizione veterotestamentaria. Forti sostenitori di questa tradizione sono l’Apostolo Giacomo e Pietro, il quale però, sotto rivelazione divina e conscio della sua autorità, aprirà la Chiesa giudaica ai pagani (At 10s) e ne confermerà definitivamente l’apertura nella celebre riunione di Gerusalemme (At 15). La seconda parte degli Atti, invece, è dominata dall’apostolato di Paolo che percorrerà tutte le regioni che circondano il Mar Egeo fondando Chiese in cui convivono cristiani di origine ebraica e pagana. Ed è per mezzo suo che il cristianesimo acquista la sua vera nota di universalità.
Solo verso la fine, Luca lascerà il Medio Oriente e parlerà di Paolo che naviga verso Roma, dove dovrà presentarsi davanti al tribunale di Cesare. Il richiamo a Cesare ha una sua importanza. Luca ha parlato di Cesare all’inizio della sua opera (Lc 2,1); ne riparla alla fine dando così, secondo un’abitudine semitica, una vera chiusura a tutto il suo racconto.

Quadro geografico
È quello che meglio permette di avere con facilità una panoramica dell’intera opera lucana. Diciamo subito che tutto è dominato da un nome: GERUSALEMME. Se ne parla 98 volte nella sua opera: 31 nel Vangelo e 67 negli Atti. La città santa è méta, è punto di partenza, è il centro, il punto di riferimento e di unità della comunità cristiana, è la Madre di tutte le Chiese, tutte si richiamano a Gerusalemme.
Nel racconto delle tentazioni (Lc 4,1-13), prima dell’inizio in Galilea della sua vita pubblica, si racconta che il diavolo condusse Gesù a Gerusalemme e lo pose sul pinnacolo del tempio… Il racconto conclude dicendo che “si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato”, cioè all’inizio della sua passione, che si compie a Gerusalemme e che è il vero scontro finale di Gesù con “il Potere delle tenebre” (Lc 22,53).
Segue il ministero di Gesù in Galilea. Luca però lascia cadere il viaggio in terra pagana, ricordato da Mc 7,24-31 e Mt 15,21-28. È fuori del suo itinerario. In Luca chi vuole camminare con Gesù non può andare su strade che conducono lontano da Gerusalemme. Alla fine del ministero galilaico c’è la Trasfigurazione in cui Mosè ed Elia parlano con Gesù “del suo esodo che si sarebbe compiuto a Gerusalemme” e Gesù, ubbidiente alla sua missione, “quando i giorni della sua assunzione stavano per compiersi, decise fermamente di incamminarsi verso Gerusalemme” (Lc 9,51).
Sono dieci capitoli (9,51-19,29) in cui è assai difficile tracciare l’itinerario di Gesù. A Luca interessa solo ricordarci in continuità che Gesù è in cammino verso Gerusalemme (9,53; 13,22.33; 17,11; 18,31; 19,11. 28). Ed è interessante, quando parla del “Giorno delle Palme”, cioè del suo giungere a Gerusalemme. Qui si evita il nome “Gerusalemme” e parla sempre di “città” ed è chiaro che Gesù non entra in città, ma solo nel Tempio. È la tematica di Luca che esige questo. Gesù, infatti, è in città solo quando celebra l’Ultima Cena e Satana è già entrato in Giuda (Lc 22,3). Siamo al tempo del compimento, dello scontro finale tra Gesù e Satana.
Per i discepoli ciò è molto importante. Infatti, solo quando hanno deciso di andare con lui “portando la croce dietro a lui” (23,26) e dopo aver accettato a Gerusalemme il compimento della salvezza, sono preparati per il balzo verso le nazioni (Lc 24,47).
A questo punto avviene il passaggio tra la prima e la seconda parte dell’opera e Luca, vero storico, ricorre a un principio assai usato dagli storici antichi: “Quando si passa a un nuovo argomento, non si fa un salto nel buio, ma si incastona la prima pagina del nuovo sviluppo (At 1,4-11) nell’ultima del precedente (Lc 24,47-52) riprendendo alcuni concetti e aprendoli meglio sul futuro”.
Così in Lc 24,49 e in At 1,4-5.8 Gesù dice ai discepoli di “non allontanarsi da Gerusalemme finché non si compia la “promessa del Padre” cioè – “finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49) e “sarete battezzati in Spirito Santo” (At 1,5). Specificando poi meglio quello che accadrà dice: “riceverete la potenza dello Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1,8). La missione che li attende non può avere inizio senza “la potenza dello Spirito”. Anche la missione di Gesù è iniziata così (Lc 4,14). Infatti, il racconto che segue sino alla fine dell’opera non sono “Gli Atti degli Apostoli”, ma “Gli atti dello Spirito Santo per mezzo degli Apostoli”. Per ben 56 volte, infatti, si parla dello Spirito Santo, usando in alcuni casi l’espressione “Spirito di Cristo” o “di Dio”.
C’è ancora una novità tra l’inizio degli Atti e la fine del Vangelo. Qui si parla dell’Ascensione e del ritorno a Gerusalemme; negli Atti il racconto dell’Ascensione si conclude così: “Quel Gesù che è stato assunto in cielo tornerà…”. La storia futura, che ancora continua, è una storia di attesa.
Ritorniamo al quadro geografico. Alla fine del Vangelo si parla di testimonianza in “tutto il mondo”, in At 1,8 si dice: “Mi sarete testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra”. Completiamo questo itinerario, facendo precedere l’ultima espressione dalle località che ci farà percorrere Luca: “Cesarea Marittima, Galilea, Cipro, Antiochia di Siria, le province romane della Cilicia, della Galazia, dell’Asia, della Macedonia e dell’Acaia, fino alla stessa Roma, considerata “l’estremità della terra”.
Ecco il cammino che dobbiamo percorrere nel nostro studio, pensando al cammino che stiamo percorrendo oggi. Percorriamolo con lo stesso entusiasmo di Luca.

Preghiamo
Signore Gesù, sto davvero camminando con te nella storia? Cammino da solo o insieme alla comunità cristiana a cui appartengo? La mia predicazione o catechesi, e quella delle nostre comunità, attingono veramente alla solidità della testimonianza apostolica? Com’è la vita delle nostre comunità? Queste e tante altre domande dovremo farci in questo nuovo anno nello studio degli Atti! Signore Gesù, effondi su di noi la potenza del tuo Spirito e donaci il coraggio di un vero confronto comunitario e personale. E soprattutto il coraggio di sentire quella vera gioia che nasce dal vivere con radicalità la nostra fede, la nostra testimonianza e il nostro annuncio. Che il nostro sforzo di rimotivare e di rinnovare la nostra vita di fede sia sempre compiuto nella preghiera. Amen!

Mario Galizzi sdb

Publié dans:SANTI EVANGELISTI |on 17 octobre, 2017 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – SAN MATTEO – 21 SETTEMBRE

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060830.html

BENEDETTO XVI – SAN MATTEO – 21 SETTEMBRE

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 30 agosto 2006

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.
Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.
Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano … non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo – “poiché non c’è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.
Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all’istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l’adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.
Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

 

18 OTTOBRE: SAN LUCA, APOSTOLO ED EVANGELISTA

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18 OTTOBRE: SAN LUCA, APOSTOLO ED EVANGELISTA

L’evangelista Luca in un manoscritto bizantino del X secolo

San Luca Evangelista, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, è chiamato « lo scrittore della mansuetudine del Cristo ». Paolo lo chiama « caro medico », compagno dei suoi viaggi missionari, confortatore della sua prigionia. Il suo Vangelo, che pone in luce l’universalità della salvezza e la predilezione di Cristo verso i poveri, offre testimonianze originali come il vangelo dell’infanzia, le parabole della misericordia e annotazioni che ne riflettono la sensibilità verso i malati e i sofferenti. Nel libro degli Atti delinea la figura ideale della Chiesa, perseverante nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione di carità, nella frazione del pane e nelle preghiere. Secondo la tradizione Luca nacque ad Antiochia da famiglia pagana e fu medico di professione, poi si convertì alla fede in Cristo. Divenuto compagno carissimo di san Paolo Apostolo, sistemò con cura nel Vangelo tutte le opere e gli insegnamenti di Gesù, divenendo scriba della mansuetudine di Cristo, e narrando negli Atti degli Apostoli gli inizi della vita della Chiesa fino al primo soggiorno di Paolo a Roma. Ma che c’entra Teofilo? E chi lo conosce? Da sempre ci pare un po’ abusivo questo personaggio ignoto, che vediamo riverito e lodato all’inizio del Vangelo di Luca e dei suoi Atti degli Apostoli. La risposta si trova nella formazione ellenistica dell’autore. Con la dedica fatta a Teofilo, che doveva essere un cristiano eminente, egli segue l’uso degli scrittori classici, che appunto erano soliti dedicare le loro opere a personaggi insigni. Luca, infatti, ha studiato, è medico e tra gli evangelisti è l’unico non ebreo. Forse viene da Antiochia di Siria (oggi Antakya, in Turchia). Un convertito, un ex pagano, cui Paolo di Tarso si associa nell’apostolato, chiamandolo « compagno di lavoro » (Filemone 24) e indicandolo nella Lettera ai Colossesi come « caro medico » (4,14). Il medico segue Paolo dappertutto, anche in prigionia: due volte. E durante la seconda, mentre in un duro carcere attende il supplizio, Paolo scrive a Timoteo che ormai tutti lo hanno abbandonato. Meno uno. « Solo Luca è con me » (2 Timoteo 4,11). E questa è l’ultima notizia certa dell’evangelista.
Luca scrive il suo vangelo per i cristiani venuti dal paganesimo. Non ha mai visto Gesù e si basa sui testimoni diretti, tra cui probabilmente alcune donne, che furono le prime a rispondere all’annuncio. C’è un’ampia presenza femminile nel suo vangelo, cominciando naturalmente dalla Madre di Gesù: Luca è attento alle sue parole, ai suoi gesti, ai suoi silenzi. Di Gesù egli sottolinea l’invitta misericordia e quella forza che uscendo da lui « sanava tutti »: Gesù medico universale, chino su tutte le sofferenze, Gesù onnipotente e “mansueto” come lo credeva Dante nelle parole di Luca.Gli Atti degli Apostoli raccontano il primo espandersi della Chiesa cristiana fuori di Palestina, con i problemi e i traumi di questa universalizzazione. Nella seconda parte è dominante l’attività apostolica di Paolo, dall’Asia all’Europa; qui Luca si mostra attraente narratore quando descrive il viaggio, la tempesta, il naufragio, le buone accoglienze e le persecuzioni, i tumulti e le dispute, gli arresti dal porto di Cesarea Marittima fino a Roma e alle sue carceri. Secondo un’antica leggenda, Luca sarebbe stato anche pittore e, in particolare, autore di numerosi ritratti della Madonna. Altre leggende dicono che, dopo la morte di Paolo, egli sarebbe andato a predicare fuori Roma e si parla di molti luoghi. Di troppi. In realtà, nulla sappiamo di lui dopo le parole di Paolo a Timoteo dal carcere. Ma il Vangelo di Luca continua a essere annunciato insieme a quelli di Matteo, Marco e Giovanni in tutto il mondo. E con esso anche gli Atti degli Apostoli.

SAN MATTEO – 21 SETTEMBRE – APOSTOLO ED EVANGELISTA

http://liturgia.silvestrini.org/santo/137.html

SAN MATTEO – 21 SETTEMBRE – APOSTOLO ED EVANGELISTA

BIOGRAFIA

La chiamata…
Leggiamo nel Vangelo il racconto che San Matteo ci fa della sua conversione. L’Epistola descrive la celebre visione nella quale sono mostrati ad Ezechiele quattro animali simbolici nei quali, sin dai primi secoli, si vollero vedere i quattro Evangelisti. San Matteo è rappresentato dall’animale con la faccia umana, perché comincia il suo Vangelo con la serie degli antenati dai quali discendeva Gesù come uomo. Lo scopo che egli ebbe nello scrivere questo libro, pieno di sapienza divina (Intr.), fu di provare che Gesù, avendo realizzato gli oracoli relativi al Liberatore d’Israele è dunque il Messia. Il nome di San Matteo si trova nel Canone della Messa nel gruppo degli Apostoli.

MARTIROLOGIO
Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, che, detto Levi, chiamato da Gesù a seguirlo, l’asciò l’ufficio di pubblicano o esattore delle imposte e, eletto tra gli Apostoli, scrisse un Vangelo, in cui si proclama che Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo, ha portato a compimento la promessa dell’Antico Testamento.

DAGLI SCRITTI…
Dalle « Omelie » di san Beda il Venerabile, sacerdote
Gesù lo guardò con sentimento di pietà e lo scelse.
Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: « Seguimi » (Mt 9, 9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: « Seguimi ». Gli disse « Seguimi », cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi quanto con la pratica della vita. Infatti  » chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato  » (1 Gv 2, 6).
 » Ed egli si alzò, prosegue, e lo seguì  » (Mt 9, 9). Non c’è da meravigliarsi che un pubblicano alla prima parola del Signore, che lo invitava, abbia abbandonato i guadagni della terra che gli stavano a cuore e, lasciate le ricchezze, abbia accettato di seguire colui che vedeva non avere ricchezza alcuna. Infatti lo stesso Signore che lo chiamò esternamente con la parola, lo istruì all’interno con un’invisibile spinta a seguirlo. Infuse nella sua mente la luce della grazia spirituale con cui potesse comprendere come colui che sulla terra lo strappava alle cose temporali, era capace di dargli in cielo tesori incorruttibili.
« Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli » (Mt 9, 10). Ecco dunque che la conversione di un solo pubblicano servì di stimolo a quella di molti pubblicani e peccatori, e la remissione dei suoi peccati fu modello a quella di tutti costoro. Fu un autentico e magnifico segno premonitore di realtà future. Colui che sarebbe stato apostolo e maestro della fede, attirò a sé una folla di peccatori già fin dal primo momento della sua conversione. Egli cominciò, subito all’inizio, appena apprese le prime nozioni della fede, quella evangelizzazione che avrebbe portato avanti di pari passo col progredire della sua santità. Se desideriamo penetrare più a fondo nel significato di ciò che è accaduto, capiremo che egli non si limitò a offrire al Signore un banchetto per il suo corpo nella propria abitazione materiale ma, con la fede e l’amore, gli preparò un convito molto più gradito nell’intimo del suo cuore. Lo afferma colui che dice:  » Ecco sto alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me  » (Ap 3, 20).Gli apriamo la porta per accoglierlo, quando udita la sua voce, diamo volentieri il nostro assenso ai suoi segreti o palesi inviti e ci applichiamo con impegno nel compito da lui affidatoci. Entra quindi per cenare con noi e noi con lui, perché con la grazia del suo amore viene ad abitare nei cuori degli eletti, per ristorarli con la luce della sua presenza. Essi così sono in grado di avanzare sempre più nei desideri del cielo. A sua volta, riceve anche lui ristoro mediante il loro amore per le cose celesti, come se gli offrissero vivande gustosissime.

Le reliquie del santo Apostolo
Nella ricognizione effettuata il 24 maggio 1924 all’altare della chiesa inferiore dei Ss. Cosma e Damiano fu rinvenuta una cassetta d’argento contenente alcune reliquie dell’Apostolo. Provenienti da Salerno, dove si venera il corpo, vennero portate a Roma dal futuro papa Vittore III e donate a Cencio Frangipane nel 1050, come viene affermato dalla scritta che corre lungo il reliquiario. Una parte di un suo braccio, probabilmente donato da Paolo V, è in S. Maria Maggiore. Roma possiede altre reliquie dell’Apostolo a S. Prassede, a S. Nicola in Carcere e ai Ss. XII Apostoli.

 

25 APRILE: SAN MARCO EVANGELISTA

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20850

SAN MARCO EVANGELISTA

25 APRILE

SEC. I

Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l’apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l’ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L’evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un’altra come martire, ad Alessandria d’Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell’828 nella città della Venezia. (Avvenire)

Patronato: Segretarie
Etimologia: Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino

Emblema: Leone
Martirologio Romano: Festa di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.
La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.

Discepolo degli Apostoli e martirio
Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagnae del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio: fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

Il Vangelo
Il Vangelo scritto da Marco, considerato dalla maggioranza degli studiosi come “lo stenografo” di Pietro, va posto cronologicamente tra quello di s. Matteo (scritto verso il 40) e quello di s. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
È stato così descritto: “Marco come fu collaboratore di Pietro nella predicazione del Vangelo, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato nella stesura del medesimo e ci ha per mezzo di esso, trasmesso la catechesi del Principe degli Apostoli, tale quale egli la predicava ai primi cristiani, specialmente nella Chiesa di Roma”.
Il racconto evangelico di Marco, scritto con vivacità e scioltezza in ognuno dei sedici capitoli che lo compongono, seguono uno schema altrettanto semplice; la predicazione del Battista, il ministero di Gesù in Galilea, il cammino verso Gerusalemme e l’ingresso solenne nella città, la Passione, Morte e Resurrezione.
Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del suo Vangelo, è la professione del centurione romano pagano ai piedi di Gesù crocifisso: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, è la piena definizione della realtà di Gesù e la meta cui deve giungere anche il discepolo.

Le vicende delle sue reliquie – Patrono di Venezia
La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
E in questo luogo nell’828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. “Cielo e mare vi posero mano”, ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d’oro al confine dell’arte.
Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l’attuale ‘Terza San Marco’ fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all’XI secolo era il patrono e l’unico santo militare venerato dappertutto.
Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l’alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”, divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio.
San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.

Publié dans:SANTI EVANGELISTI |on 25 avril, 2015 |Pas de commentaires »
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