Saint Jerome in the Wilderness by Bernardino Pinturicchio

http://www.maranatha.it/Ore/santi/0930letPage.htm
30 SETTEMBRE: SAN GIROLAMO, UFFICIO DELLE LETTURE
Prima Lettura
Dalla lettera ai Filippesi di san Paolo, apostolo 2, 12-30
Attendete alla vostra salvezza
Miei cari, obbedendo come sempre, non solo come quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni. Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita. Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato. E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.
Ho speranza nel Signore Gesù di potervi presto inviare Timòteo, per essere anch’io confortato nel ricevere vostre notizie. Infatti, non ho nessuno d’animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre. Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella mia situazione. Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona.
Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodito, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità; lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. E’ stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche a me, perché non avessi dolore su dolore. L’ho mandato quindi con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui; perché ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me.
Responsorio Cfr. 2 Pt 1, 10. 11; Ef 5, 8. 11
R. Cercate di render sempre più sicura la vostra vocazione ed elezione: * così vi sarà aperto l’ingresso nel regno eterno del nostro Signore e salvatore.
V. Comportatevi come figli della luce, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre:
R. così vi sarà aperto l’ingresso nel regno eterno del nostro Signore e salvatore.
Seconda Lettura
Dal «Prologo al commento del Profeta Isaia» di san Girolamo, sacerdote
(Nn. 1. 2; CCL 73, 1-3)
L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo
Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: «Scrutate le Scritture» (Gv 5, 39), e: «Cercate e troverete» (Mt 7, 7), per non sentirmi dire come ai Giudei: «Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). Se, infatti, al dire dell’apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio, né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo.
Perciò voglio imitare il padre di famiglia, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e vecchie, e così anche la Sposa, che nel Cantico dei Cantici dice: O mio diletto, ho serbato per te il nuovo e il vecchio (cfr. Ct 7, 14 volg.). Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. Egli infatti ha detto anche di sé quello che dice degli altri evangelisti: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace» (Is 52, 7). E Dio rivolge a lui, come a un apostolo, la domanda: Chi manderò, e chi andrà da questo popolo? Ed egli risponde: Eccomi, manda me (cfr. Is 6, 8).
Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l’argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore. Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l’Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti. Che dirò della sua dottrina sulla fisica, sull’etica e sulla logica? Tutto ciò che riguarda le Sacre Scritture, tutto ciò che la lingua può esprimere e l’intelligenza dei mortali può comprendere, si trova racchiuso in questo volume.
Della profondità di tali misteri dà testimonianza lo stesso autore quando scrive: «Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggilo. Ma quegli risponde: Non posso, perché è sigillato. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggi, ma quegli risponde: Non so leggere» (Is 29, 11-12).
(Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture. I profeti però sapevano quello che dicevano e lo comprendevano). Leggiamo infatti in san Paolo: «Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti» (1 Cor 14, 32), perché sia in loro facoltà di tacere o di parlare secondo l’occorrenza.
I profeti, dunque, comprendevano quello che dicevano, per questo tutte le loro parole sono piene di sapienza e di ragionevolezza. Alle loro orecchie non arrivavano soltanto le vibrazioni della voce, ma la stessa parola di Dio che parlava nel loro animo. Lo afferma qualcuno di loro con espressioni come queste: L’angelo parlava in me (cfr. Zc 1, 9), e: (lo Spirito) «grida nei nostri cuori: Abbà, Padre» (Gal 4, 6), e ancora: «Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore» (Sal 84, 9).
http://www.rivistaliturgica.it/upload/2009/articolo1_17.asp
PAOLO E LA LITURGIA
Antonio Pitta
Durante l’anno liturgico, in genere l’attenzione si concentra sul “vangelo dell’anno” e, per ogni domenica, sulle relazioni tra i passi scelti per la prima e la terza lettura domenicale: poca o scarsa attenzione è conferita alla seconda lettura tratta, in prevalenza, dalle lettere di san Paolo. Non si hanno tutti i torti poiché si precisa che queste sono difficili e poco comprensibili per le nostre comunità contemporanee. Tuttavia, l’occasione dell’anno dedicato all’Apostolo delle genti offre un’opportunità unica: quella di approfondire le relazioni tra le sue lettere e l’eucaristia, il giorno del Signore, le dossologie liturgiche, sino a coinvolgere gesti che sono diventati abitudinari, e per questo poco coinvolgenti, come il canto, lo scambio della pace e la raccolta economica per i poveri.
Nel presentare, per grandi linee, il variegato rapporto tra Paolo, la liturgia e il culto, cercheremo di cogliere i tratti di continuità e di novità che ha apportato alla liturgia cristiana e che si possono, pur se con sviluppi secolari, cogliere nelle sue lettere. Qual è il tessuto comunitario nel quale nasce e si sviluppa la liturgia cristiana? Che cosa Paolo ha trasmesso del culto giudaico alle comunità cristiane della diaspora? E quale il suo contributo sul culto cristiano? L’attenzione a questo versante della teologia paolina permetterà di riconoscere come, dopo duemila anni di storia del cristianesimo, siamo debitori al suo modo di vedere la liturgia che cadenza il cammino annuale della Chiesa contemporanea.
1. Assemblee familiari
Quando tra il 50 e il 60 d.C., Paolo dettava e inviava le sue lettere, il tempio, il monoteismo, le Scritture d’Israele e la legge mosaica, rappresentavano ancora i pilastri portanti della pietà giudaica: in pratica non si assisteva ancora a quella definitiva separazione delle vie tra il giudaismo e il cristianesimo primitivo che di fatto si verificherà, in modo traumatico, con la distruzione del tempio di Gerusalemme. Il contesto storico che abbiamo appena evocato permette di riconoscere che il movimento cristiano delle origini non era ancora espressione di una religione adulta, separata e nata come un fungo bensì, insieme agli altri movimenti interni al giudaismo – si pensi al fariseismo, al sadduceismo, all’essenismo o alle correnti apocalittiche – costituiva una delle correnti giudaiche del tempo.
In verità quanti appartenevano ai “credenti” in Cristo, consideravano il loro movimento giudaico come la massima espressione dello stesso giudaismo, poiché attestavano la loro fede in Gesù Cristo, il Signore, nonostante la sua morte ignominiosa sulla croce. Proprio l’esplosione improvvisa del “culto di Cristo”, il Signore, induceva i primi credenti a non limitarsi a frequentare il tempio e le sinagoghe, sparse nella Palestina e nelle comunità giudaiche della diaspora, ma a «spezzare il pane» nelle loro case. Da questo versante, l’attestazione di Luca negli Atti degli apostoli presenta un alto grado di storicità:
«Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa, prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46).
Dunque, senza ignorare l’importanza del tempio e delle sinagoghe, in modo progressivo il culto cristiano andava concentrandosi nelle case private, dove ci si riuniva per ascoltare gli insegnamenti degli apostoli e per spezzare il pane.
Dal punto di vista sociale, quanti frequentavano le domus ecclesiae non dovevano superare le 50-60 unità, si radunavano nella casa più spaziosa, occupando, nello stesso tempo, l’atrium e il triclinium, e provenivano, in gran parte, dalle classi più indigenti della società greco-romana. Molti dei credenti erano poveri, schiavi o liberti che, provenendo dalle loro tabernae, venivano ospitati nelle domus di quanti godevano di un migliore welfare. Tuttavia nonostante la rigida separazione sociale tra ricchi e poveri, religiosa tra giudei e greci, e sessuale tra maschi e femmine, la frazione del pane nel giorno del Signore si andava sviluppando con la convinzione che «in Cristo Gesù non c’è maschio né femmina, giudeo né greco, schiavo né libero» (Gal 3,28). Quanti condividevano il pane eucaristico, si consideravano «fratelli», accomunati dalla stessa fede nel Messia crocifisso e Signore, dall’unico battesimo e dall’azione dell’unico Spirito che li andava consolidando, come le membra di un unico corpo: quello della Chiesa.
Non è fortuito allora che nelle uniche volte in cui Paolo utilizza le formule della trasmissione delle prime tradizioni cristiane («Vi trasmetto quanto ho ricevuto», in 1Cor 11,23 e in 1Cor 15,3), riporti le «parole di Gesù» durante la cena e la scansione degli eventi che cadenzano il cuore del kerygma più antico:
«Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese il pane e dopo aver reo grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo per voi; fate questo in mia memoria”. Allo stesso modo, dopo aver cenato,prese anche il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo quando bevete, in mia memoria”» (1Cor 11,23b-25);
«Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto, è risorto nel terzo giorno, secondo le Scritture, apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5).
Ogni assemblea delle prime comunità cristiane era caratterizzata dal memoriale della frazione del pane, compiuta da Gesù durante l’ultima cena, e dalla rilettura delle Scritture per dare senso al “per i nostri peccati” della sua morte e risurrezione al terzo giorno, il «giorno del Signore»: quello che diventerà per antonomasia la domenica o il giorno “Signoriale” per eccellenza. Le due tradizioni sulla celebrazione eucaristica e sul contenuto fondamentale della passione del Signore non vanno intese in modo separato, bensì con profonde connessioni, giacché le parole della cena illuminano l’oscurità del venerdì santo, sino alla luce abbagliante della domenica di Pasqua, al punto che per Paolo «Cristo nostra pasqua è stato immolato» (1Cor 5,7). La «pasqua» o l’agnello pasquale che i credenti celebrano e consumano, non è più quella degli agnelli che fa memoria della liberazione dall’Egitto, bensì Cristo stesso. Un ulteriore frammento pre-paolino della prima tradizione cristiana sostiene che lui è lo «strumento di espiazione» con cui Dio ha realizzato un nuovo percorso della riconciliazione e della giustificazione universale (Rm 3,25).
2. Fractio verbi, panis, vitae
La ripresentazione degli eventi centrali della passione e della cena del Signore permette di delineare tre fasi assembleari del primo culto cristiano, che si enucleano nelle lettere paoline. Anzitutto la “frazione della Parola”, dove con la Parola s’intende la rilettura comunitaria delle Scritture d’Israele. Già in ambito sinagogale sembra che il canovaccio fondamentale fosse rappresentato dalla lettura di un passo scelto dalla Torah (o dal Pentateuco), denominato seder, e di uno tratto dai profeti (compresi i Salmi), proposto come commento o haftarah. Noti sono i collegamenti liturgico-sinagogali tra le vicende di Abramo (Gn 15-22) e le attualizzazioni profetiche mutuate da Isaia (cf. Is 54), da Abacuc (cf. Ab 2,4) e dai Salmi (cf. Sal 31,1-2). Non a caso la stessa scansione si riscontra in alcuni paragrafi delle lettere paoline, come Gal 4,21-27 e Rm 4,1-25. Gli sviluppi della liturgia cristiana proseguono nella stessa traiettoria, con la novità che il testo centrale diventa quello dei vangeli e quello a commento anticipatorio è rappresentato da tutto l’Antico Testamento.
Il metodo con cui i due livelli dell’Antico e del Nuovo Testamento sono posti in relazione è quello complesso dell’allegoria e della tipologia: nel primo caso lo stesso evento della storia d’Israele acquista nuove prospettive, nel secondo si crea una relazione tra promessa antico-testamentaria e adempimento in Cristo. Ancora una volta, si deve a Paolo l’uso dei termini «allegoria» (cf. Gal 4,24) e «tipo» (cf. Rm 5,14). Ai due figli di Abramo si aggiungono i figli della schiava e della libera e Adamo è posto in relazione con Cristo.
Quanto risalta dalla ripresa delle Scritture d’Israele nelle comunità cristiane è l’enorme impegno ermeneutico svolto sull’Antico Testamento: questo non è né «vecchio Testamento», né «primo Testamento», come se siano ipotizzabili due o più Testamenti, bensì l’antica alleanza, che diventa nuova alleanza ogni qualvolta si legge Mosè nelle comunità cristiane; dirà Paolo:
«Infatti, sino al giorno d’oggi, lo stesso velo rimane nella lettura dell’antica alleanza; non è svelato, perché in Cristo è tolto di mezzo.Ma sino a oggi quando si legge Mosè, un velo ricopre il loro cuore.Quando però torna al Signore, il velo viene tolto» (2Cor 3,14-16).
Gesù Cristo si rivela così l’ermeneuta della Scrittura, colui che con la sua risurrezione e con il dono dello Spirito, si fa compagno di viaggio di ogni persona, per aprire gli occhi del cuore alla comprensione delle Scritture. I primi credenti in Cristo sono persuasi che senza la sua morte e risurrezione, tutta la Scrittura resta un libro sigillato, in modo ermetico: soltanto l’agnello che sta diritto in mezzo al trono ma sgozzato può togliere i sigilli e trasformare la Scrittura in Parola viva (Ap 5), utile per l’insegnamento e l’ammonimento della fede (cf. 1Cor 10,11; Rm 15,4).
La prima e più pericolosa tentazione delle comunità cristiane è stata quella di abbandonare l’Antico Testamento, frequentando soltanto le prime tradizioni cristiane che confluiranno nei vangeli e negli insegnamenti degli apostoli; il marcionismo darà consistenza a questo canone nel canone che giungerà sino al protestantesimo. La prospettiva di Paolo, il fariseo, costituisce il fondamento ineludibile per cui non una parte, bensì tutta la Scrittura parla di Cristo e della sua sposa; ed è lo Spirito che orienta nella comprensione cristologica ed ecclesiale della Scrittura.
La frazione della Parola prosegue in quella del pane, come l’antica alleanza si rinnova nella cena del Signore, in quel memoriale per cui ogni “oggi” diventa ripresentazione dell’antico e anticipazione del futuro. Ancora a Paolo si deve questa ripresentazione dello zikkaron unico che si ripresenta ogniqualvolta si celebra la cena del Signore: «Ogni volta che mangiate a questo pane e bevete il calice, annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (cf. 1Cor 11,26) è il suo primo commento alle parole di Gesù durante la cena. Il maranatha che chiude la prima lettera ai Corinzi e l’Apocalisse (cf. 1Cor 16,22; Ap 22,20) torna quando si pronunciano le parole di Gesù: egli è il veniente, ci raggiunge nell’oggi, ed è convinzione della fede, ed è invocato come colui che deve venire, sino alla fine della storia. Sulla certezza della fede s’innesta il desidero dell’incontro tra la sposa e il suo sposo, come una vergine casta, data in sposa all’unico sposo che è Cristo (2Cor 11,2).
Se, infine, durante la stessa celebrazione eucaristica, anche se spesso in modo distratto e superficiale, si compie il gesto della colletta di denaro, è perché questo gesto, di carità come qualsiasi dono di sé per gli altri, rientra nella stessa liturgia cristiana: è la frazione della Parola che, trasformandosi in frazione del pane, diventa frazione della vita o dell’agape. Per questo Paolo non esita a definire “liturgia” la colletta economica che raccomanda, con vivo afflato, alle sue comunità per i poveri della Chiesa di Gerusalemme (cf. 2Cor 9,12).
Troppo spesso si assiste alla distinzione, se non alla separazione, tra l’ambito catechetico, quello liturgico e quello caritativo delle nostre comunità, come se ognuno potesse procedere in modo autonomo e a prescindere dall’altro. I paragrafi paolini che abbiamo evocato dimostrano come la frazione della Parola, senza quella del pane e della carità, si riduce a un semplice insegnamento dottrinale che non coinvolge l’esistenza, che la frazione del pane senza quella della vita crea lo stesso scandalo verificatosi a Corinto, tra ricchi e sazi e poveri o indigenti, e che senza le ragioni ultime del «per voi» detto da Gesù, la Scrittura resta occulta e la carità non è destinata a durare a lungo. Abbiamo bisogno di riscoprire le continuità tra le tre mense, che alla fine si rivelano come una sola mensa: quella della condivisione della vita di Cristo in noi.
3. Il culto razionale
La raccolta di denaro per i poveri, proposta da Paolo alle sue comunità, si realizza nelle nostre celebrazioni poiché esprime non il dono del superfluo o, ancor peggio, come denuncia in 2Cor 9, una forma di spilorceria, bensì l’offerta della propria stessa esistenza. Così inizia la sezione esortativa della lettera ai Romani:
«Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto razionale» (Rm 12,1).
Si deve ancora alla sua formazione farisaica se Paolo può esortare con queste parole le comunità cristiane di Roma, giacché è della corrente farisaica pensare che il sacrificio del tempio è inconcepibile senza il sacrificio della propria esistenza. Le stesse condizioni richieste perché il sacrificio di un agnello nel tempio risulti efficace sono proposte per la propria esistenza: una santità che è integrità e interezza della propria esistenza.
Di difficile traduzione è l’aggettivo logikê, che definisce il culto cristiano: certo la traduzione con «spirituale» è quella meno adeguata, poiché non c’è un culto spirituale che si distingua da uno materiale o globale, appunto integrale. Forse la traduzione più idonea è “mentale” o “razionale”, in quanto l’attenzione si concentra sul centro del proprio modo di pensare per coinvolgere l’esistenza in tutte le sue espressioni. Ed è in questa direzione che il “culto razionale” o “mentale” si sviluppa nella sezione successiva di Rm 12,2-15,13: l’offerta del proprio corpo si realizza nella valorizzazione dei carismi e dei ministeri, nella comunità cristiana, ossia in quell’operare come membra di un unico corpo. Offerta “razionale” è attaccarsi al bene, senza lasciarsi vincere dal male, rispondere al fratello non seguendo la legge del taglione, bensì quella del perdono senza ipocrisia, assolvere ai propri doveri nei confronti delle autorità civili, non aver alcun debito se non quello di un amore vicendevole, abbandonare le opere delle tenebre e indossare le armi della luce (cf. Rm 13,12), sino a farsi carico delle infermità dei deboli nella propria comunità.
Non c’è aspetto dell’esistenza umana che venga tralasciato perché il proprio corpo, ossia la persona nella sua totalità si trasformi, con la potenza dello Spirito, in “culto razionale”, vivente, santo e gradito a Dio. La stessa separazione tra sacro e profano si assottiglia, sino a scomparire del tutto, quando si tratta di cercare la santità della vita. Una fede che si trasforma in carità e speranza è quella che propone Paolo alle sue comunità senza cadere, ancora una volta, nella separazione delle tre virtù fondamentali, poiché ogni credente è esortato a compiere il sacrificio e la liturgia della propria fede (cf. Fil 2,17).
Allora diventa “liturgia” ossia, nello stesso tempo, azione di culto per il Signore e a favore del prossimo, la colletta in denaro (cf. Rm 15,27), l’aiuto che Epafrodito reca a Paolo stesso, durante la sua ultima prigionia (cf. Fil 2,25.30), e il proprio ministero e servizio per il vangelo o per Cristo (cf. Rm 1,9). Con il linguaggio tipico del culto, così Paolo ringrazia i Filippesi per il sostegno economico inviatogli: «Soave odore, sacrificio accolto, gradito a Dio» (Fil 4,18). Qualsiasi sostegno economico possiamo elargire per le necessità dei fratelli è, in quanto tale, come l’odore della vittima sacrificale offerta a Dio, ed è gradita al lui più di tutti gli animali portati nel tempio. Il dare la vita come e perché Cristo l’ha donata per noi, in quella imitazione irraggiungibile che diventa ragione ultima del nostro sacrificio, rappresenta uno degli aspetti più centrali del modo con cui Paolo intende la liturgia e il culto cristiano.
E quando si è costretti a riconoscere che nessuno al mondo può, come Cristo «non considerare un tesoro geloso la sua uguaglianza divina, ma umiliarsi sino alla morte di croce» (cf. Fil 2,5-7), allora bisogna cercare dei modelli più a misura umana. Modelli per i credenti sono coloro che come Timoteo non cercano «i propri interessi, bensì quelli di Gesù Cristo» (cf. Fil 2,21-22) e come Epafrodito, che «a causa dell’opera di Cristo è stato vicino alla morte, mettendo a rischio l’anima, affinché potesse sostituire la vostra assenza per la mia liturgia» (Fil 2,30).
Si comprende allora perché Paolo contrapponga un culto fondato sulla semplice circoncisione fisica, a uno dettato o che scaturisce dall’azione dello Spirito di Dio (Fil 3,3): il culto cristiano è azione dello Spirito; di quello Spirito che trasforma la Scrittura in Parola di Dio, il pane e il vino in corpo e sangue del Signore, e la comunità cristiana in corpo di Cristo, con la stessa importanza del corpo eucaristico che si celebra.
4. La libagione
Un tipo particolare di sacrificio è la libagione che accompagnava, nel culto pagano, il sacrificio degli animali: consisteva nel versamento del sangue, dell’acqua o del latte. Per questo era rifiutato dalla religiosità giudaica, ma era diffuso nei culti pagani, presso i quali era considerato un vero e proprio sacrificio. Paolo non esita a considerare l’effusione della propria vita, sia per le quotidiane fatiche per il vangelo, sia per l’esito più o meno imminente della propria morte, come libagione:
«Ma se anche sono sparso sul sacrificio e sulla liturgia della vostra fede, gioisco e congioisco insieme a tutti voi» (Fil 2,17).
Il sacrificio e la liturgia principali sono quelli della fede dei Filippesi; a questi si aggiunge lo spargimento di sé e della propria vita.
La metafora è molto loquace poiché, alla fine della propria vita, Paolo pone l’attenzione non sul proprio sacrificio o sulla propria liturgia esistenziale bensì su quella dei credenti: il suo è soltanto un accompagnare con la partecipazione attiva alla propria sentenza di morte il loro sacrificio. Il commento più bello a questa proposizione si trova nella seconda lettera a Timoteo, con cui la tradizione ecclesiale reinterpreta la partecipazione attiva di Paolo alla sua morte:
«Io infatti sono pronto per essere versato in libagione, ed è giunto il momento della mia partenza: ho sostenuto la buona battaglia, ho concluso la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7).
Libagione è non soltanto l’ultimo momento della propria vita, attraversato non in modo passivo bensì attivo, poiché si segue la stessa via compiuta da Cristo sino alla morte di croce, ma tutta la propria esistenza: quella che comprende la lotta quotidiana per il vangelo, la corsa nell’annunciare Cristo a tutti e ad ognuno, e il custodire la fede in Cristo, unico Signore.
Mentre Seneca avrebbe sostenuto che quotidie morimur, Paolo non avrebbe esitato a sostenere che ogni giorno offriamo noi stessi con l’effusione della vita per Cristo e per i fratelli. Non c’è momento dell’esistenza che non sia liturgia sacrificale quando è vista in questa cornice: e il tutto è accompagnato, in modo paradossale, dalla gioia diffusiva che contagia e rende solidali i fratelli. Prima di andare incontro al martirio Ignazio di Antiochia scriverà nella sua Lettera ai Romani, utilizzando lo stesso verbo scelto da Paolo in Fil 2,17: «Non procuratemi di più che essere versato in libagione per Dio…» (2,2).
5. Conclusione
La liturgia cristiana è canto di gioia, nelle e nonostante le tribolazioni che non mancano. E Paolo non dimentica di esortare in questo modo i credenti di Colossi:
«La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, istruendovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3,16; cf. anche Ef 5,19).
Sembra che sin dagli albori il movimento cristiano si sia caratterizzato per il canto: i diffusi «inni» riportati nelle lettere paoline (Fil 2,5-11; Ef 1,3-14) erano forme di canto rivolte al Signore, per mezzo di Cristo, nello Spirito, per la sua azione di grazia. Ai Corinzi, Paolo raccomanda:
«Quando vi riunite, avendo ciascuno di voi un salmo, o un insegnamento, o una rivelazione, o un parlare in altra lingua, o un’interpretazione, si faccia ogni cosa per l’edificazione» (1Cor 14,26).
Non sorprenderà quindi se una delle più antiche testimonianze sui cristiani, la lettera di Plinio il Giovane a Traiano (primi decenni del II sec. d.C.), il mittente ricorderà:
«D’altra parte, essi affermano che tutta la loro colpa o il loro errore erano consistiti nell’abitudine di riunirsi in un determinato giorno, prima dell’alba, di cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio» (Lettera 10,96,7).
Non è questione soltanto di cura del particolare o dell’accessorio, ma è in questione il tipo di partecipazione che si realizza quando partecipiamo alle celebrazioni ecclesiali, che dovrebbero trasudare di gioia per la condivisione dell’unico corpo, dell’unico Spirito, dell’unica fede, dell’unico battesimo e dell’unica speranza: l’unicità delle relazioni che apre alla sinfonia del cuore e della parola, del pensiero e del canto. Se non sappiamo cantare insieme è perché partecipiamo da spettatori a quanto dovrebbe vedere tutti i credenti uniti nella diversità dei carismi e dei ministeri.
Le nostre comunità, con tutte le loro manchevolezze, sono ancora comunità paoline: dai saluti iniziali (2Cor 13,13: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio padre e la comunione dello Spirito»), ai ringraziamenti che introducono le sue lettere e le nostre celebrazioni (Rm 1,7: «Prima di tutto ringrazio il mio Dio, per mezzo di Gesù Cristo»), alle dossologie e all’Amen che cadenzano la liturgia (2Cor 1,20: «Per questo per mezzo di lui [Cristo] sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria»), sino al maranatha che pronunciamo dopo la consacrazione delle specie.
I gesti che compiamo sono quelli delle comunità paoline: la colletta per i poveri, il bacio santo fra i credenti e la genuflessione davanti a Gesù Cristo, il Signore nostro (cf. Fil 2,8-11). Tuttavia, se non riscopriamo il tessuto familiare e comunitario delle celebrazioni liturgiche, rischiamo di dimenticare del tutto il significato dei gesti e delle parole che compiamo.
L’anno paolino ci offre la preziosa opportunità di riappropriarci di quanto spesso compiamo, in ogni celebrazione liturgica, senza renderci conto, poiché ogni liturgia è ripresentazione della vita che si trasforma.
http://www.novena.it/catechesi/catechesi17.htm
CARD. RAVASI : AL SUONO DELLA TROMBA
» Il Signore, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo e quindi noi, ancora vivi, saremo rapiti con loro… » (1 Tessalonicesi 4,16-17)
Ora è la seconda città della Grecia, importante nodo stradale e commerciale, ricca di monumenti bizantini. Allora era la capitale della Macedonia e san Paolo ricordava con piacere l’accoglienza fraterna che gli avevano riservato i pagani, ma con amarezza anche la dura reazione degli Ebrei là residenti, che avevano contro di lui ordito una sommossa popolare costringendolo a una fuga indecorosa (Atti 17,1-10). Il fedele discepolo Timoteo aveva poi recato all’Apostolo, che si trovava a Corinto, notizie della neonata Chiesa tessalonicese e dei suoi primi problemi. Paolo aveva deciso, allora, di inviare un messaggio a quella comunità, «da leggersi a tutti i fratelli».
È l’anno 51: è questo il primo scritto paolino a noi giunto e quasi certamente il primo testo (cronologicamente parlando) del Nuovo Testamento. A chi vorrà leggerlo integralmente verranno incontro tonalità differenti. C’è il registro autobiografico dei ricordi, segnato dalla nostalgia, aperto però alla speranza di un nuovo incontro. C’è il filone teologico che si sviluppa attorno a tre temi: l’amore fraterno, il mistero pasquale di Cristo e la sua parousía o ritorno finale a suggello della storia. C’è, poi, anche il tema morale e pastorale: l’Apostolo, in 5,12-28, esorta la comunità a vivere un’esistenza cristiana perfetta e pura e lo fa attraverso una sequenza di quattordici imperativi.
Il nostro frammento testuale si innesta nel filone teologico, affrontando il tema del ritorno di Cristo alla fine della storia. Lo scenario che san Paolo tratteggia è, però, modulato sul linguaggio apocalittico a quel tempo dominante che ricorreva a immagini, metafore e simboli. Così, stando sul vago, cerca di risolvere un quesito che rodeva l’anima dei cristiani tessalonicesi, convinti che quell’ultimo evento fosse imminente. Essi domandavano: in quell’istante supremo in cui risorgeranno coloro che sono morti in pace e in comunione con Cristo, i cristiani ancora vivi quale sorte avranno?L’Apostolo ricalca l’apparato delle visioni epifaniche apocalittiche: cori celesti, trombe divine, vortici, nubi, cieli squarciati. Non è, quindi, una descrizione puntuale, ma una rappresentazione simbolica di quel passaggio dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno all’infinito di Dio. I morti e gli ancora viventi entreranno nell’orizzonte trascendente: ai Corinzi, poi, dirà che «non tutti dovremo morire [in quel momento estremo], tutti però saremo trasformati» (1Corinzi 15,51). Soddisfatta questa curiosità dei Tessalonicesi, ciò che a Paolo preme è ribadire che il destino di tutti i fedeli è quello di «andare incontro al Signore… e così essere per sempre con lui» (4,17).
Per completezza dobbiamo, però, aggiungere una nota conclusiva. Contro l’eccitazione di coloro che, convinti dell’imminenza di quel momento ultimo, abbandonavano le loro responsabilità e i quotidiani impegni terreni, Paolo raccomanda di «fare tutto il possibile per vivere in pace, occupandosi delle proprie cose e lavorando con le proprie mani, come vi abbiamo ordinato, conducendo una vita decorosa di fronte agli estranei [i non credenti], senza aver bisogno di nessuno » (4,11-12). In passato abbiamo già avuto occasione di registrare come questo appello sia andato a vuoto, perché – nella Seconda Lettera che egli indirizzerà ai cristiani di Tessalonica – l’Apostolo sarà costretto a rivolgere loro una tirata d’orecchi ricordando che «chi non vuole lavorare, neppure mangi!» (si legga 2Tessalonicesi 3,6-15).
http://www.miliziadisanmichelearcangelo.org/content/view/3100/93/lang,it/
IL CULTO DEGLI ANGELI NELLA LITURGIA BIZANTINA
La credenza nelle intelligenze immateriali, i messaggeri di Dio creati prima del mondo visibile, trova riscontro nell’Antico testamento (Gn. 3, 24; Es. 14, 19) e nel Nuovo Testamento (Mt. 1, 20; 2, 13; Lc 1, 11, 26). Nonostante i nove cori di angeli di Dionigi lo Pseudo Areopagita (+ca 500) che Tommaso d’Aquino ( + 1274) adotta in Occidente, potremmo dire che non esiste trattato sistematico sugli angeli in Oriente, anche se commenti e studi non mancano. I siriaci usano il termine malaka , mentre S. Efrem (+373) impiega ‘ira per esprimere la vigilanza dell’angelo. Gli Arcangeli primeggiano fra gli etiopi e g i copti che usano il termine mal’ak. Nelle differenti liturgie orientali gli angeli hanno funzioni importanti nella liturgia celeste (cf. Is 6,3; Lc 2, 13) e nel difendere gli esseri umani dai demoni (Mt. 13, 39- 43; 18,10) (escatologia); gli angeli sono venerati al pari dei santi. Che singole persone, nazioni, Chiese abbiano i loro angeli protettori è idea cara all’Oriente e fondata sulla Bibbia. Gli Angeli sono presenti nelle icone dei misteri della salvezza quali Annunciazione, Nascita, Battesimo , Morte e Risurrezione. …
… Dormizione della Theotokos e in altre icone relative ai santi. Nel calendario bizantino, s. Gabriele è celebrato il 26 marzo e insieme a s. Michele agli altri arcangeli, l’8 novembre ; entrambi gli arcangeli decorano le due porte laterali di un’incontrarsi ortodossa. S. Giovanni il Prodromos (Precursore) come è conosciuto il Battista fra gli ortodossi, è spesso dipinto con le ali come un angelo / messaggero. Analogamente la vita monastica è spesso definita “angelica”. Un’angelologia ortodossa di solito respiro speculativo è stata fornita da Sergij Bulgakov (+1944) nel suo La scala di Giacobbe (1929 in russo). La Sofia è rappresentata nell’icona di Novgorod come angelo femminile. La fede nell’esistenza degli angeli, la professiamo nel credo: “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili”. Col termine “cielo” si intendono appunto gli angeli, spiriti invisibili. “Gli angeli sono simili agli uomini in quanto forniti di intelletto, sentimenti, forza e di un proprio nome… Differiscono dagli uomini in quanto sono incorporei e immortali. Alcuni di loro vengono chiamati “custodi”, perché hanno il compito di custodire gli uomini. Ciò è stato confermato da Cristo stesso con le parole: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli” (Mt. 18,10).
NELLA LITURGIA
“Tutti gli angeli hanno la stessa natura, ma si distinguono nella gloria, nella potenza e nell’attività. Ci sono nove ordini: Troni, Cherubini, Serafini, Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli, Angeli. Nella Bibbia vengono spesso chiamati “milizie celesti” e “milizie del Signore”, perché sono l’esercito divino che lotta contro gli spiriti maligni, cioè quegli angeli che si sono allontanati da Dio e sono diventati nemici suoi e degli uomini…I nomi degli angeli sono in rapporto delle loro funzioni: Raffaele “Dio guarisce”; Gabriele “eroe di Dio”; Michele “Chi è come Dio?” (Dan. 10,13-21; 12,1). Nella Liturgia Bizantina, l’Arcangelo Michele viene commemorato una prima volta il 6 settembre (si ricorda il miracolo da lui operato a Colossi di Frigia, durante la costruzione di una chiesa in suo onore. I pagani, per distruggerla e far annegare il costruttore Archippo, deviarono con un macigno il fiume. Apparve S. Michele e fece ritornare le acque deviate nel loro letto naturale).
DAGLI INNI (stichirà) DEL VESPRO SI DEDUCE:
COMPITI
“Stare davanti a Dio uno e trino è il compito di S. Michele e di tutte le schiere celesti per proclamare l’unità e la trinità col canto “Aghios o theos, aghios ischiròs, aghuios athànatos”: Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale. E’ la liturgia celeste che viene svolta in continuazione dagli angeli e dai santi; la vita liturgica qui sulla terra non è altro che la manifestazione di questa liturgia celeste. Come dice il nome stesso “messaggero” (in greco angelo) gli angeli sono “spiriti celesti destinati a servire, inviati in missione per il bene di coloro che devono ereditare la salvezza” (Ebr. 1,14). “Il Principe Michele ubbidisce rapido ai tuoi cenni, e alla tua gloria canta l’inno “Tre volte santo…”. L’8 novembre del Calendario bizantino è dedicato al ricordo dei principi celesti Michele e Gabriele e di tutte le potenze angeliche”. Le letture bibliche presentano l’episodio di Giosuè “che presso Gerico incontra il “capo dell’esercito del Signore” che gli dice: “Togli i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo dove tu stai è santo”. Giosuè viene così preparato dall’Arcangelo Michele per la conquista della terra promessa. “La seconda lettura è tratta dal libro dei Giudici. L’Arcangelo Michele appare a Gedeone e lo rincuora nella lotta contro i Madianiti”. “Nella terza lettura il profeta Daniele ha una visione che lo conforta: gli viene rivelato che l’Arcangelo Michele lo protegge e lo accompagna nella sua missione”.
CARATTERISTICHE
La Celebrazione dell’Arcangelo, nei diversi canti a lui vengono rivolti, fa risaltare alcune caratteristiche che sono presenti anche nel nostro modo di ricordarlo, ed in particolare:
1) La bellezza e il fulgore, straordinari anche per un Angelo: “Davanti a Dio dal triplice fulgore, Tu te ne stai circonfuso di luce e di splendore”; “…per proclamare la sua divinità”; “il tuo volto è di fuoco e stupenda è la tua bellezza”.
2) La completa aderenza alla volontà del Signore, in virtù della quale Egli percorre come fulmine il cielo, per portare a compimento l’incarico che gli è stato assegnato: “Tu percorri come folgore il cielo…”; “O Signore, Tu hai fatto Celesti i Tuoi messaggeri ed hai posto come loro capo Michele, che obbedisce al Tuo ordine…”.
3) La capacità di intercedere per gli uomini perché ottengano il perdono nel giorno del Giudizio. Questa qualità è simile a quella attribuitagli in Occidente quale “pescatore delle anime” e lo fa invocare come sicuro rifugio dai mali e dai dardi che il maligno scaglia continuamente contro il genere umano.
DALL’ORTHROS
E ci piace ricordare almeno nei concetti fondamentali, un inno, definito “ òrthros” perché nei tempi passati, quando si chiedeva aiuto contro il turco invasore, veniva recitato di mattina; che sintetizza tutte le proprietà dell’Arcangelo: “O grande condottiero degli spiriti celesti, Tu che rifletti la luce divina, liberami dalla tirannia del nemico, affinché ottenga la pace dell’animo…”.
PREGHIERE DELLA LITURGIA BIZANTINA
Nella mediazione della Parola di Dio proclamata nei Vespri e nelle Lodi, brevi inni liturgici cantano la fede della Chiesa e intessono il panegirico dell’Arcangelo Michele.
Gli “apòstica” – inni della seconda parte del Vespro – hanno il seguente contenuto:
1. Tutti noi fedeli che abitiamo in questo mondo, uniti agli Angeli di cui celebriamo la festa, cantiamo come loro l’inno al Dio che siede sul trono di gloria: Santo sei, o Padre celeste; Santo, o Figlio, eterno come lui; santo sei, o Spirito Santissimo.
- Egli fa i venti suoi messaggeri,
e i suoi ministri le fiamme del fuoco.
2. Tu che tieni il primo posto fra le schiere angeliche, e hai l’ardire di stare senza schermi davanti al trono di gloria dell’Altissimo, tu che sei a conoscenza dei misteri profondi e incomprensibili, salvaci con la tua intercessione, o Michele, principe celeste, poiché noi versiamo in gravi pericoli e miserie.
– Benedici il Signore, o anima mia;
Signore mio Dio, quanto sei grande!
3. Tu sei il primo degli Angeli immateriale, il ministro del divino splendore, di cui sei , di cui sei l’intimo e acuto conoscitore; salva, o Michele, principe celeste, noi che pienamente ti onoriamo in questa ricorrenza annuale, e con fede adoriamo la Trinità divina.
– Gloria al padre, al Figlio, e allo Spirito Santo.
4. O glorioso principe delle schiere celesti, come nostro difensore e condottiero degli Angeli, libera dalle infermità e dalla triste e tremenda caduta nel peccato, noi che ti lodiamo e ti supplichiamo. Tu sei immateriale, godi la chiara visione del Dio immateriale, e risplendi di luce inaccessibile della gloria del Signore, io quale, per nostro amore e per salvare l’umanità, prese carne umana dalla Vergine santa.
-Ora e sempre, e per i secoli dei secoli. Amen.
Oggi il vero tempio vivo di Dio, la Madre sua santissima, s’appresta a visitare il tempio materiale del Signore, e Zaccaria l’accoglie. La parte più santa del tempio, il Santo dei Santi, tripudia di gloria, e il coro degli Angeli misticamente fa festa; ci uniamo alla loro festa anche noi, e con Gabriele gridiamo: Salve, o piena di grazia, il Signore è con te, colui che possiede la grande misericordia.
L’APOLITICHION
In onore degli angeli chiude l’ufficiatura del Vespro; si chiama così perché viene cantato quando viene sciolta l’assemblea: O capi delle celesti schiere, noi indegni vi supplichiamo, affinché con le vostre preghiere ci difendiate, custodendoci sotto le ali della vostra gloria immateriale; mentre noi vi veneriamo con fervore e diciamo: Liberateci dai pericoli, voi che siete i condottieri delle forze celesti.
-Gloria al padre, al Figlio e allo Spirito Santo; ora e sempre e per i secoli dei secoli. Amen.
Il mistero nascosto da tutta l’eternità e sconosciuto agli stessi Angeli, per tuo mezzo, o Madre di Dio, è stato rivelato a noi mortali: che cioè Dio, unendo le due nature senza confonderle, si incarnò, e per noi accettò volontariamente la croce, con la quale risollevò il primo padre Adamo, e salvò dalla morte le anime nostre.
L’UFFICIATURA DELL’ORTHROS- mattutino- è tutta dedicata ai capi delle schiere angeliche Michele e Gabriele, che vengono invocati nei pericoli e nelle necessità del popolo cristiano, soprattutto nell’ora della morte.
STICHOLOGHIA – dopo il 1° salmo:
1. O grande condottiero degli spirituali ministri celesti, che stai davanti al trono di Dio e rifletti la vivida luce che da Lui scaturisce, illumina e santifica coloro che con fede ti cantano inni di lode; liberali dalla tirannia del nemico; chiedi per i nostri governanti una vita di pace, e così pure per tutte le genti.
Gloria al Padre…
2. Non taceranno mai i tuoi servi devoti, o Madre di Dio. Non cesseranno di lodare con gratitudine, dal profondo del cuore, la tua misericordia, o Regina, dicendo a gran voce: O Vergine, affrettati a liberarci dai nemici, visibili e invisibili, e da ogni male che ci minaccia, poiché Tu salvi sempre i tuoi servi da ogni genere di disgrazie.
- Dopo il 2° salmo:
1. I Cherubini e i Serafini dai molti occhi, le schiere degli Arcangeli, ministri celesti, Potestà e Troni, Dominazioni e Angeli, Potenze e Principati ti pregano, Creatore nostro, Dio e Signore: Non disprezzare la supplica di un popolo che ha peccato, o Cristo grandemente misericordioso.
Gloria al Padre…
DOPO IL POLI LEO
1) O condottieri celesti Michele e Gabriele,voi che siete schierati in prima fila davanti alla potente gloria divina, o Ministri del Signore, voi che insieme con tutti gli Spiriti celesti pregate continuamente per il mondo chiedete che noi possiamo trovare perdono dei peccati, misericordia e grazia nel giorno del giudizio.
– Gloria…
2) O vergine pura e benedetta, Tu che sei strapiena della grazia di Dio, insieme con le potenze dei cieli, con gli Arcangeli e con tutti gl’Incorporei, prega senza posa, per noi, Colui che, per la sua sviscerata misericordia, volle nascere da Te, affinché prima della fine ci conceda la sua clemenza e il perdono dei peccati, cosicché possiamo raddrizzare la nostra vita e trovare la sua misericordia.
3). O Condottieri delle schiere di Dio, Ministri della divina gloria, voi che accompagnate gli uomini nel cammino e guidate le Potenze dei cieli, chiedete a Dio ciò che è utile per noi e la sua grande misericordia, come Principati degli Spiriti Celesti.
4). Tu dicesti, o Amico dell’uomo, com’è scritto nel Vangelo, che la moltitudine degli Angeli fa festa nei cieli anche per un uomo solo che si converte a Te, o Dio immortale; è per questo che noi peccatori, pur nelle nostre iniquità, o Signore senza peccato e conoscitore di cuori, ogni giorno osiamo supplicarti, quale Dio dalle viscere compassionevoli, di avere pietà di noi, indegni tuoi servi, e di mandarci la grazia della compunzione del cuore e il tuo perdono: per noi tutti ti pregano, infatti, i Principati degli spiriti celesti.
EXAPOSTILARIO
1) Iddio Creatore ti costituì difensore a guida della nostra stirpe, e validissimo e provvido nostro custode, o divino Arcangelo, e ti diede onore e gloria indescrivibile, affidandoti il compito di cantare instancabilmente l’inno sublime di vittoria, tre volte santo.
2) Tu sei più onorabile, o Vergine purissima, dei gloriosi Serafini, e senza paragone più gloriosa dei potenti Cherubini, e più santa di tutti i santi Angeli: in modo ineffabile, infatti, hai dato corporalmente alla luce il Creatore dell’universo. Ed ora pregalo, Madre di Dio, di concedere ai tuoi servi il perdono dei peccati.
ENI= LODI
Lodatelo per le sue opere potenti, lodatelo secondo l’immensità della sua grandezza.
1. Ti celebriamo con fede, o grande Arcangelo Michele, come primo condottiero delle schiere celesti, e sulla terra, forte difensore degli uomini, custode e protettore di noi, che cantiamo l’inno e ti preghiamo di liberarci da ogni dolore e da ogni male.
Lodatelo con suono di tromba,
lodatelo con l’arpa e la cetra.
2. Il Condottiero delle divine ed eccelse Potenze chiama oggi a raccolta le schiere dei mortali ad applaudire e celebrare, insieme con gli Angeli, la splendida festa del loro santo ricordo, e a cantare a Dio l’inno tre volte santo
Lodatelo con cembali armoniosi,
lodatelo con cembali di acclamazione.
Ogni spirito lodi il Signore.
3. Sotto le tue sante ali, ci rifugiamo con fede, o Arcangelo Michele, spirito eccelso: custodiscici e proteggici durante tutta la vita; assistici nell’ora della morte e sii benevolo con noi.
Gloria…
4. Dove si estende l’ombra della tua grazia, o Arcangelo Michele, di là fugge la forza del maligno: Lucifero infatti, l’angelo precipitato, non resiste di fronte alla tua luce. Perciò noi ti preghiamo: spegni i dardi infuocati che egli scaglia contro di noi, e con la tua intercessione, liberaci dalle insidie di lui, o celebratissimo Arcangelo Michele.
Ora e sempre, e nei secoli dei secoli.
Amen.
5. Ti chiamiamo giustamente beata, noi fedeli, o Madre di Dio, e ti glorifichiamo come città indistruttibile, muro imbattibile, sicura protezione e rifugio delle anime nostre.
“Questi sono tropari” cioè piccoli inni liturgici che, meditando la Parola divina proclamata, cantano la fede della Chiesa e insieme tessono il panegirico dell’Arcangelo Michele e di tutte le schiere angeliche. Un panegirico composto dei temi della fede che proviene dalla Parola. All’inizio ho sottolineato alcuni di questi temi, ora termino con il tema che ricorre di continuo in tutti gli inni: il popolo santo di Dio, tutti noi fedeli. Siamo deboli, ci riconosciamo bisognosi, nella continua situazione di necessità di aiuto. Ma con fede speriamo e supplichiamo di ricevere anzitutto la luce del Vangelo e la potente salvezza divina. E nel nostro amore a Dio la nostra fede, la nostra speranza e la nostra carità, procedendo come Famiglia di Dio verso la Casa del Padre, celebrandone la gloria e la lode, sotto lo sguardo misericordioso della “tuttasanta” Madre di Dio , inneggiando dagli angeli: a Lui noi diamo gloria, onore e adorazione, al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen”.