Archive pour la catégorie 'PATRISTICA E PATROLOGIA'

LA FRAGILITÀ DEI VALORI SENZA RADICE

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Teologia e patristica alla XVII edizione del Premio internazionale Empedocle per le scienze umane

LA FRAGILITÀ DEI VALORI SENZA RADICE

Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis pronunciata dal vincitore del Premio internazionale Empedocle 2009 per la teologia e le scienze patristiche, docente di letteratura cristiana antica alla Pontificia Università Salesiana.

di Enrico dal Covolo

Il secolo XX è stato segnato da una serie imponente di accelerazioni e di mutamenti, in tutti i campi: anche in quello che più da vicino ci interessa, che riguarda il rapporto tra la Chiesa e la cultura, e più complessivamente tra il cristianesimo e la cultura.
Quel lento e secolare processo, che comincia a manifestarsi nel Rinascimento – per il quale la Chiesa si sente prima isolata, e poi per lungo tempo assediata e minacciata dal mondo, e per il quale d’altra parte il mondo a poco a poco si radica su basi strutturali diverse rispetto alle precedenti, che erano intimamente ispirate alla fede cristiana – questo processo trova ai nostri giorni la sua consumazione e, almeno in parte, il suo superamento.
In esso infatti si manifesta con tutta la sua forza incisiva la « secolarizzazione », quel fenomeno ben noto alle società occidentali, che reca in sé il declino della pratica religiosa, la desacralizzazione del mondo e la conformità a esso, il disimpegno della società dalla religione, la trasposizione di modelli di comportamento e di credenze dalla sfera « religiosa » alla sfera « mondana ».
Certo, ci si riferisce ancora, esplicitamente o implicitamente, ai valori evangelici, i quali tuttavia appaiono come staccati dalla radice che li nutre.
Bisogna ammettere però che alcuni sistemi hanno addirittura rinnegato totalmente tali valori. Il 18 agosto 1991, parlando in Ungheria alle comunità protestanti, Giovanni Paolo II ha efficacemente delineato questa situazione: « I nostri avi su questo continente », ha detto il Papa, « anche dopo la Riforma condividevano la convinzione, spesso data per scontata, che la società e la cultura europee avessero la loro origine e ispirazione nei valori religiosi: la fede nel Dio Trino e in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, la visione della vita sulla terra come pellegrinaggio verso la vita eterna, l’innato e inalienabile valore della persona umana dal suo concepimento fino alla morte(…) Oggi la società tende a ignorare, e perfino a ripudiare gran parte di questo retaggio ».
Ma bisogna anche ammettere che lo sviluppo degli eventi ha assunto per alcuni aspetti una fisionomia diversa da quella prevista. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo è tramontato il positivismo scientista, che, se mai, ha lasciato il posto al neopositivismo di prevalenti interessi logico-linguistici. E ora stanno davanti ai nostri occhi lo scacco del marXIsmo e il crollo del Muro, dovuti al fallimento, in vaste zone del mondo, della concezione atea e del sistema economico e sociale comunista; d’altra parte lo smarrimento lasciato da quei regimi, che pensavano di cancellare Dio « dalla » e « nella » società, ha lasciato un vuoto, che rischia sempre più di essere colmato dall’irrompere di fattori negativi, recati dalle società opulente.
Di fronte alle immense sfide poste alla Chiesa dalle ideologie e dagli eventi della nostra epoca, occorre rilevare che molti fedeli hanno fatto proprie un’attenzione e un’apertura nuove verso il mondo, un atteggiamento che – per quanto concerne la Chiesa cattolica – è stato solennemente sancito dai documenti del concilio Vaticano II.
D’altra parte – e completiamo così l’ampio quadro di riferimento sin qui evocato, per entrare più direttamente nella questione in esame – la medesima situazione culturale ha indotto i cristiani a interrogarsi più a fondo sulla loro identità e sui loro fondamenti, perché il Cristo da loro testimoniato parlasse con efficacia agli uomini di oggi.
Già nel 1946 Henri de Lubac scriveva parole che non si possono dimenticare: « Il cristianesimo, prima di poter « essere adattato » nella sua presentazione alle generazioni moderne, occorre che nella sua essenza rimanga se stesso. Infatti, quando è se stesso, è a un passo dall’ »essere adattato ». La sua natura non è forse di essere vivente, e per ciò stesso sempre attuale? Il grande sforzo consiste dunque nel ritrovare il cristianesimo nella sua pienezza ». E continuava, giungendo così al cuore del nostro problema: « Ma come ritrovare il cristianesimo, se non risalendo alle sue fonti, cercando di comprenderlo nelle sue epoche di vitalità esplosiva? Come ritrovare il significato di tante dottrine e di tante istituzioni, se non attraverso l’impegno di raggiungere quel pensiero creativo, di cui esse sono state la concretizzazione? Quante esplorazioni nelle lontane regioni della storia presuppone una ricerca di tal genere! Del resto, ci sono voluti quarant’anni per entrare nella terra promessa. Occorre a volte molta arida archeologia per far sgorgare di nuovo fontane d’acqua viva ».
Non è un caso che pochi anni prima, nel 1942, proprio Henri de Lubac – insieme a Jean Daniélou e a Claude Mondésert – avesse dato inizio alla celebre collana « Sources Chrétiennes », con l’intenzione di mettere a disposizione del pubblico le opere complete dei Padri della Chiesa. In effetti, risalire alle fonti cristiane significa risalire agli antichi scrittori cristiani. In questi ultimi decenni molti « utensili », per così dire, concettuali, metodologici e bibliografici sono stati messi in opera per una lettura più fedele della tradizione consegnataci dai Padri.
Resta il fatto – e accenno ad alcuni elementi di metodo per un dialogo costruttivo e fecondo tra i Padri di ieri e la cultura di oggi – che le opere degli antichi scrittori cristiani non si leggono comodamente e distrattamente come il giornale; non hanno rapporto con la quotidianità banale e ciarliera della cronaca, ma piuttosto con l’attualità perenne dei grandi problemi umani e cosmici che riguardano le cose presenti e future. Servono un armamentario di conoscenze e la padronanza di alcuni strumenti di base, per essere in grado di penetrarne e di apprezzarne il messaggio; servono ancora la costanza e la pazienza nello studio. Si tratta della necessaria attrezzatura da acquisire, dei metodi da applicare per entrare nella familiarità con l’ambiente, lo spirito e l’eredità dei Padri.
In tali ambiti le discipline antico-cristiane e classiche – a cominciare dallo studio delle lingue latina e greca – hanno larghi spazi di impegno da offrire alle persone sensibili ai valori della cultura.
Amore per la fede e passione per la cultura: potrebbe essere questa la sigla distintiva della dottrina patristica. Oggi invece si nota spesso in coloro che dicono di amare la fede un certo distacco dalla cultura, e in coloro che dicono di amare la cultura una certa diffidenza verso la fede.
I nostri Padri, invece, hanno saputo coniugare la fede e la ragione, il Vangelo e la cultura, mettendo al centro della loro dottrina il Lògos, Gesù Cristo, colui che insegna all’uomo la sua vera vocazione, e il giusto atteggiamento da assumere verso Dio, l’uomo e il mondo.
In particolare, sono soprattutto due i modi con i quali i Padri ci possono aiutare a riscoprire il messaggio del Vangelo nel mondo di oggi, o – se preferiamo – nell’impegno di una « nuova evangelizzazione » della cultura (mi riferisco qui alla cultura mediterranea europea): « per continuità » e « per contrasto ».
I Padri sono vicini al nostro sforzo « per continuità », nel senso che la riflessione sulle radici della cultura europea trova in loro l’humus normale di riferimento, e la sua fondazione letteraria e storica. Ma i Padri aiutano il nostro sforzo anche « per contrasto », perché – come è stato osservato a ragione – l’odierno cattolicesimo rischia di essere troppo acquiescente nei confronti di una certa cultura dei valori comuni e dei diritti dell’uomo, una cultura dei valori che molto spesso non corrisponde a un’autentica gerarchia dei valori.
Penso che il richiamo all’antropologia dei Padri, dove la dignità dell’uomo è saldamente radicata nella creazione divina e nell’immagine di Cristo, servirà a chiarire l’oggetto e i confini del dialogo sui valori, che rimane comunque necessario e urgente.
Su questa linea di riflessioni – e così concludo – possiamo addurre la risposta di un « filosofo mediterraneo », non precisamente cattolico, nel corso di una recente intervista.
Alla domanda: « Secondo molti, dalla crisi della modernità si esce soltanto attraverso un riferimento all’Assoluto. E secondo lei? », Massimo Cacciari ha risposto così: « Certamente no! O almeno, bisogna precisare che cosa s’intende per Assoluto. Nella nostra cultura il vero termine di riferimento non è l’Assoluto, ma l’Incarnazione. Questo è il messaggio evangelico: guarda il « totalmente Altro » nel tuo prossimo, ma quello concreto, quello che muore in croce, davanti a cui devi fare proskùnesis, genuflessione, come davanti a qualcosa di sacro. Questa è la vera chiave dell’Europa. Invece, pensare di uscire dalla crisi restaurando una qualche trascendenza, un Assoluto nel senso di ab-solutum, un punto di riferimento sciolto dal dramma dell’Incarnazione, è folle. Bisogna ricordare infatti che il Risorto non è un individuo totalmente risanato, ma si presenta con i segni della crocifissione ».
Sono parole che fanno pensare, anche di fronte al dibattito odierno sulla presenza del Crocifisso nelle aule pubbliche: al di là dell’esegesi che se ne può fare, ci richiamano ancora una volta alla dottrina dei nostri Padri.
Essa ci insegna a non disperdere il cristianesimo in un vago senso della trascendenza, o in una discutibile cultura dei valori comuni: ci invita piuttosto a vedere il trascendente nel Crocifisso risorto – unico vero centro della storia e della cultura – a contemplarlo e a servirlo anche nel fratello da amare, fino al dono supremo della vita.

PRECETTI E GIUDIZI DEL NOSTRO STESSO PADRE PACOMIO

http://www.ora-et-labora.net/regulapachomii.2.latit.html

PRECETTI E GIUDIZI DEL NOSTRO STESSO PADRE PACOMIO

(Estratto da « Patrologia Latina Database » – Migne, estratto dal sito: TeologiaSpirituale.it )

(c’è il testo latino che ho tolto, per la vita anche su: http://it.cathopedia.org/wiki/San_Pacomio )

La pienezza della legge è la carità (cf. Rm 13,10) per quelli che sanno discernere il tempo, cioè che ormai è ora che ci svegliamo dal sonno e che la salvezza è più vicina ora di quando abbiamo cominciato a credere. La notte è inoltrata, il giorno si avvicina: deponiamo le opere delle tenebre (cf. Rm 13,11‑12), che sono i litigi, le maldicenze, gli odi e la superbia di un cuore orgoglioso (cf. 2Cor 12,20; Gal 5,20).
1. Se uno è pronto a screditare e a dire cose non vere, se viene sorpreso in questo peccato, lo ammoniranno due volte e se per disprezzo non ascolterà sarà separato dalla comunità dei fratelli per sette giorni e riceverà soltanto pane e acqua finché prometta e assicuri di abbandonare questo vizio; allora lo si perdonerà.
2. L’irascibile e il violento, se si adira spesso senza motivo e per cose di poco conto e ínsignificantí, sarà ripreso sei volte; la settima lo faranno alzare dal posto dove siede, lo manderanno tra gli ultimi e gli insegneranno a purificarsi da questo sconvolgimento della sua mente. Quando potrà presentare tre testimoni, degni di testimoniare, che a nome suo prometteranno che non farà più nulla del genere, riprenderà il suo posto e resterà tra gli ultimi.
3. Chi vuol provare il falso contro un altro per opprimere un innocente sarà ammonito tre volte e poi sarà considerato colpevole di peccato, sia che si tratti di uno dei superiori che di uno degli inferiori.
4. Chi ha la pessima abitudine di turbare i fratelli con i suoi discorsi e di pervertire le anime dei più semplici, sarà ammonito tre volte. Se mostrerà disprezzo e persisterà ostinatamente nella durezza, lo faranno uscire fuori dal monastero e sarà colpito con le verghe davanti alle porte; gli porteranno da mangiare, fuori, pane e acqua soltanto finché non si purifichi dalle sue immondezze.
5. Chi ha l’abitudine di mormorare e si lamenta come se fosse schiacciato da penosa fatica, gli dimostreranno che mormora senza ragione per cinque volte e gli faranno vedere chiaramente la verità. Se anche dopo questo sarà disobbediente, e si tratta di un adulto, lo considereranno malato e sarà portato all’infermeria; là gli si darà da mangiare senza fargli fare nulla finché non ritorni alla verità. Se invece il suo lamento è giustificato ed è ingiustamente oppresso dal superiore, chi l’ha scandalizzato sarà sottoposto al medesimo giudizio.
6. Se qualcuno è disobbediente, litigioso, caparbio, menzognero e si tratta di un adulto, sarà ammonito dieci volte perché desista da questi vizi. Se non vorrà ascoltare, sarà ripreso secondo le leggi del monastero. Se però è caduto in questi vizi per colpa di altri e ciò viene provato, chi ha causato il peccato soggiacerà al castigo.
7. Se un fratello sarà sorpreso a ridere o a giocare volentieri con i ragazzi e ad avere amicizie con i giovani, sarà ammonito tre volte affinché si ritragga da tale familiarità e sia memore dell’onestà e del timore di Dio. Se non desiste, lo correggeranno come merita con severissimo castigo.
8. Quelli che disprezzano i precetti dei superiori e le regole del monastero, che sono state stabilite per ordine di Dio, e non tengono conto dei consigli dei più vecchi, saranno castigati secondo la forma stabilita finché non si correggono.
9. Se il giudice di tutti i peccati per la malvagità del suo cuore o per negligenza abbandona la verità, venti, dieci uomini santi e timorati di Dio o anche solo cinque, accreditati dalla testimonianza di tutti, siederanno a giudicarlo e lo degraderanno all’ultimo posto, finché non si corregga.
10. Chi turba il cuore dei fratelli e ha la parola pronta a seminare liti e discordie, sarà ammonito dieci volte; se non si correggerà, sarà punito secondo le norme del monastero finché non si corregga.
11. Se un superiore o un preposito vedrà un suo fratello nella tribolazione e non vorrà ricercare la causa della tribolazione e lo disprezzerà, la questione tra il fratello e il preposito sarà risolta dai giudici di cui si è detto. Se scopriranno che il fratello è oppresso per la negligenza o la superbia del preposito e che questi non ha giudicato secondo verità, ma con parzialità, sarà degradato dal suo incarico finché non si corregga e non si purifichi dall’immondezza dell’ingiustizia, perché non ha considerato la verità ma le persone e si è fatto servo della malvagità del suo cuore e non del giudizio di Dio.
12. Se uno ha promesso di osservare le regole del monastero e ha incominciato a seguirle, ma poi le ha abbandonate e poi di nuovo ritorna e fa penitenza adducendo quale giustificazione la sua debolezza fisica che gli impediva di compiere ciò che aveva promesso, lo metteranno tra i malati e mangerà con quelli che non lavorano finché dopo aver fatto penitenza, non osservi ciò che ha promesso.
13. Se nella casa vi saranno dei ragazzi che non fanno altro che giocare e stare in ozio e, nonostante i castighi, non si riuscirà a correggerli, il preposito deve ammonirli e rimproverarli fino a trenta giorni. Se vede che persistono nella loro malvagità e non avrà avvertito il padre e si scoprirà in loro qualche peccato, egli stesso soggiacerà, al loro posto, al castigo dovuto al peccato che si è scoperto.
14. Chi giudicherà ingiustamente sarà condannato dagli altri per la sua ingiustizia.
15. Se uno, due o tre fratelli, scandalizzati da qualcuno, lasciano la casa ma poi vi ritornano, si opererà un giudizio tra loro e chi li ha scandalizzati e, se quest’ultimo sarà trovato colpevole, sarà corretto secondo le regole del monastero.
16. Chi è d’accordo con quelli che peccano e difende un altro che ha peccato, sarà maledetto presso Dio e presso gli uomini e sarà castigato con severissima correzione. Se si è lasciato trarre in inganno per ignoranza e non conosceva la verità, gli sarà perdonato. E chiunque pecca per ignoranza otterrà facilmente il perdono. Chi invece pecca con conoscenza di causa subirà un castigo secondo la misura delle sue opere.

L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI

http://www.liturgiagiovane.it/new_lg/print_save.asp?nf=documenti/ARTICOLI/4070.htm&ns=4070 

L’OBLIO DI PAOLO NEI PRIMI SECOLI 

 Frainteso e respinto specie da giudeocristiani 
  
L’Apostolo delle genti, proprio perché si rivolse ai gentili e abbandonò la legge di Mosè, fu in vita attaccato violentemente e poi dimenticato, soprattutto dai cristiani provenienti dal giudaismo. Il relativo silenzio circa i suoi scritti presso alcuni autori della prima ora dipende anche dall’uso fatto della sua dottrina in ambienti gnostici. Differenze poi superate.                                     
         
Autore: Claudio Gianotto  
(Docente di storia del cristianesimo antico presso l’Università di Torino)
  
Tratto da: Vita Pastorale del 01/01/2006
 

Paolo dovette fronteggiare già durante la sua vita serie difficoltà, sia in riferimento alla sua rivendicazione di un’autorità apostolica, sia a proposito dei contenuti dell’Evangelo che annunciava (cf Gal 1). Analoghe difficoltà incontrò, dopo la sua morte, la ricezione dei suoi scritti; per tutto il secolo II, infatti, si registra, accanto a violente contestazioni del personaggio e della sua teologia, un rifiuto, o quantomeno un oblio, dei suoi scritti, che resta difficile da spiegare.
 
DATI GNOSTICI
 Una delle ipotesi cui volentieri si fa ricorso nel tentativo di trovare una motivazione per questo imbarazzante silenzio è suggerita da Tertulliano, il quale definisce Paolo come «haereticorum apostolus» (Adv. Marc. III, 5, 4). Sappiamo che, verso la metà del secolo II, Marcione, nel suo sforzo di identificare e fissare in modo preciso l’insegnamento di Gesù, operò una drastica selezione tra gli scritti attribuiti agli apostoli e destinati a far parte del Nuovo Testamento, accogliendo soltanto il vangelo di Luca (anche questo opportunamente epurato), alcune lettere di Paolo, ed escludendo tutto il resto.
 Sappiamo, inoltre, che Paolo godette di una certa fortuna presso i diversi gruppi gnostici del secolo II, che dimostrano di conoscerne gli scritti e li utilizzano nell’elaborazione delle loro complesse teologie. Questa situazione avrebbe condizionato gli altri autori cristiani, i quali, con il loro silenzio, manifesterebbero un atteggiamento, se non di vero e proprio rifiuto, almeno di sospetto nei confronti dell’Apostolo.
 Alla luce di un più attento esame delle fonti, questa ipotesi deve essere precisata e sfumata. In primo luogo, non si può dire che il silenzio su Paolo nei primi secoli sia generalizzato. Dimostrano di conoscere e di utilizzare le tradizioni paoline la Lettera ai Corinzi di Clemente di Roma; le lettere di Ignazio di Antiochia e di Policarpo di Smirne; la Lettera a Diogneto; l’Epistula apostolorum; gli Atti di Paolo e gli Atti di Pietro apocrifi. In molti scritti che tacciono di Paolo, il silenzio sembra potersi meglio spiegare sulla base di ragioni contingenti (problematiche affrontate, genere letterario utilizzato, ambiente d’origine, ecc.) piuttosto che in riferimento a un atteggiamento di sospetto o di consapevole rifiuto.
È questo, ad esempio, il caso della Didachè, che sceglie di affrontare il problema della legge nella prospettiva di Matteo piuttosto che in quella di Paolo; del Pastore di Erma, che, in forza della sua ispirazione profetica e della sua condizione di visionario, si rifiuta di richiamarsi a qualsiasi tradizione precedente; della Lettera dello Pseudo-Barnaba, il quale sviluppa la sua proposta di un’interpretazione non letterale, bensì allegorica e simbolica dei precetti della legge mosaica esclusivamente all’interno di un confronto con gli scritti dell’Antico Testamento; degli apologisti Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo, i quali in certa misura dimostrano di conoscere gli scritti di Paolo, benché non ne sviluppino le tematiche teologiche.
 Anche nel caso di autori come Papia di Gerapoli o Egesippo, la cui opera peraltro ci è giunta in modo solo frammentario, non si può parlare di un vero e proprio rifiuto di Paolo, ma piuttosto di scarso interesse per la forma di annuncio tipicamente paolina.
 
 DAI GIUDEOCRISTIANI
Un’aperta ostilità nei confronti di Paolo e un rifiuto radicale dei suoi scritti si registra invece, anche se in modo differenziato, negli ambienti giudeocristiani. Sappiamo che Paolo fu contestato, già durante il suo ministero pubblico, da esponenti e gruppi legati a Giacomo, fratello del Signore (cf Gal 2; At 15), i quali gli rimproveravano di insegnare «a tutti i giudei che sono tra i gentili ad allontanarsi da Mosè, dicendo loro di non far più circoncidere i loro figli e di non comportarsi più secondo i costumi tradizionali» (At 21,21). Il pericolo di un ritorno a un legalismo giudaizzante è segnalato negli ambienti legati alla missione di Paolo (cf Col 2, 16-19) e l’autore delle lettere pastorali si vede costretto a prendere posizione contro gente che viene dalla circoncisione (1Tm, 1,6-7; Tt 1,10).
 In alcuni casi, il perdurare del legame con il giudaismo produce atteggiamenti di esplicito rifiuto di Paolo, Ireneo, nella sua notizia sugli ebioniti, riferisce che costoro continuano a praticare la circoncisione e a vivere secondo gli usi e i costumi propri dei giudei, così come sono prescritti dalla legge; e inoltre attesta che «solo autem eo, quod est secundum Matthaeum, evangelio utuntur et apostolum Paulum recusant, apostatam eum legis dicentes» (Adversus haereses I, 26, 2). Accanto al gruppo degli ebioniti, Origene menziona anche gli elcasaiti come eretici che respingevano le lettere di Paolo. Epifanio, infine, spiega il rifiuto di Paolo da parte di questi gruppi facendo riferimento a due espressioni dell’Apostolo tratte da Gal 5,2.4.
 Ma l’opposizione più radicale a Paolo viene da un complesso di scritti noti sotto il nome di Pseudoclementine, in cui si sono raccolti, attraverso una lunga e complessa storia di trasmissione, materiali letterari di epoche diverse, i più antichi dei quali potrebbero risalire ai primi decenni del secolo III. La polemica contro Paolo e il paolinismo non vi è mai sviluppata in modo esplicito e aperto, ma più o meno velato. Il principale avversario che si oppone a Pietro e alla sua predicazione nelle Pseudoclementine è Simon Mago. Ora la descrizione di questo personaggio documentata da questo gruppo di scritti non trova rispondenza in nessuna delle presentazioni che la tradizione eresiologica ci ha lasciato di lui.
 Si tratta, quindi, con ogni verosimiglianza, di una costruzione letteraria che, utilizzando il testo di At 8,9-24 e le leggende su Simone diffuse in particolare in Siria e nelle regioni limitrofe, dà vita a un personaggio polivalente, dietro il quale si celano diversi obiettivi polemici, tra i quali i pensatori gnostici, Marcione e anche Paolo. A quest’ultimo allude Pietro quando, scrivendo a Giacomo, capo della Chiesa madre di Gerusalemme, gli segnala che alcuni gentili hanno respinto il suo insegnamento di fedeltà alla legge, preferendogli quello insensato dell’inimicus homo. (Ep. Petri 2, 3-4).
 Lo stesso epiteto riferito a Paolo ritorna in un passo dove si racconta del tentativo messo in atto da parte di Giacomo per convertire la gente di Gerusalemme, insieme con i sacerdoti del tempio, e indurli a farsi battezzare nel nome di Gesù; operazione che non riesce unicamente per l’intervento violento dell’inimicus homo, il quale arringa la folla, suscitando odio e risentimento nei confronti dei seguaci di Gesù e arriva addirittura ad alzare le mani su Giacomo, che viene scaraventato giù dalla scalinata del Tempio e quasi ne muore (Rec. I, 70-71).
 In questi ambienti giudeocristiani, la diffidenza e anche l’opposizione esplicita nei confronti del personaggio di Paolo e della sua teologia erano motivate dal fatto che l’Apostolo, identificando in Gesù Cristo il mediatore esclusivo della salvezza, metteva in discussione la validità e soprattutto la funzione salvifica della legge mosaica, nella quale essi continuavano a riconoscersi. I gruppi giudeocristiani sopravvivranno per diversi secoli soprattutto nelle regioni orientali dell’impero romano, ma saranno sempre più marginalizzati.
 In ogni caso, a partire dalla fine del secolo II, con Ireneo di Lione, l’eredità paolina, superate le diffidenze e le esitazioni, entrerà pienamente a far parte del patrimonio dottrinale della grande Chiesa.

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