LA FRAGILITÀ DEI VALORI SENZA RADICE
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Teologia e patristica alla XVII edizione del Premio internazionale Empedocle per le scienze umane
LA FRAGILITÀ DEI VALORI SENZA RADICE
Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis pronunciata dal vincitore del Premio internazionale Empedocle 2009 per la teologia e le scienze patristiche, docente di letteratura cristiana antica alla Pontificia Università Salesiana.
di Enrico dal Covolo
Il secolo XX è stato segnato da una serie imponente di accelerazioni e di mutamenti, in tutti i campi: anche in quello che più da vicino ci interessa, che riguarda il rapporto tra la Chiesa e la cultura, e più complessivamente tra il cristianesimo e la cultura.
Quel lento e secolare processo, che comincia a manifestarsi nel Rinascimento – per il quale la Chiesa si sente prima isolata, e poi per lungo tempo assediata e minacciata dal mondo, e per il quale d’altra parte il mondo a poco a poco si radica su basi strutturali diverse rispetto alle precedenti, che erano intimamente ispirate alla fede cristiana – questo processo trova ai nostri giorni la sua consumazione e, almeno in parte, il suo superamento.
In esso infatti si manifesta con tutta la sua forza incisiva la « secolarizzazione », quel fenomeno ben noto alle società occidentali, che reca in sé il declino della pratica religiosa, la desacralizzazione del mondo e la conformità a esso, il disimpegno della società dalla religione, la trasposizione di modelli di comportamento e di credenze dalla sfera « religiosa » alla sfera « mondana ».
Certo, ci si riferisce ancora, esplicitamente o implicitamente, ai valori evangelici, i quali tuttavia appaiono come staccati dalla radice che li nutre.
Bisogna ammettere però che alcuni sistemi hanno addirittura rinnegato totalmente tali valori. Il 18 agosto 1991, parlando in Ungheria alle comunità protestanti, Giovanni Paolo II ha efficacemente delineato questa situazione: « I nostri avi su questo continente », ha detto il Papa, « anche dopo la Riforma condividevano la convinzione, spesso data per scontata, che la società e la cultura europee avessero la loro origine e ispirazione nei valori religiosi: la fede nel Dio Trino e in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, la visione della vita sulla terra come pellegrinaggio verso la vita eterna, l’innato e inalienabile valore della persona umana dal suo concepimento fino alla morte(…) Oggi la società tende a ignorare, e perfino a ripudiare gran parte di questo retaggio ».
Ma bisogna anche ammettere che lo sviluppo degli eventi ha assunto per alcuni aspetti una fisionomia diversa da quella prevista. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo è tramontato il positivismo scientista, che, se mai, ha lasciato il posto al neopositivismo di prevalenti interessi logico-linguistici. E ora stanno davanti ai nostri occhi lo scacco del marXIsmo e il crollo del Muro, dovuti al fallimento, in vaste zone del mondo, della concezione atea e del sistema economico e sociale comunista; d’altra parte lo smarrimento lasciato da quei regimi, che pensavano di cancellare Dio « dalla » e « nella » società, ha lasciato un vuoto, che rischia sempre più di essere colmato dall’irrompere di fattori negativi, recati dalle società opulente.
Di fronte alle immense sfide poste alla Chiesa dalle ideologie e dagli eventi della nostra epoca, occorre rilevare che molti fedeli hanno fatto proprie un’attenzione e un’apertura nuove verso il mondo, un atteggiamento che – per quanto concerne la Chiesa cattolica – è stato solennemente sancito dai documenti del concilio Vaticano II.
D’altra parte – e completiamo così l’ampio quadro di riferimento sin qui evocato, per entrare più direttamente nella questione in esame – la medesima situazione culturale ha indotto i cristiani a interrogarsi più a fondo sulla loro identità e sui loro fondamenti, perché il Cristo da loro testimoniato parlasse con efficacia agli uomini di oggi.
Già nel 1946 Henri de Lubac scriveva parole che non si possono dimenticare: « Il cristianesimo, prima di poter « essere adattato » nella sua presentazione alle generazioni moderne, occorre che nella sua essenza rimanga se stesso. Infatti, quando è se stesso, è a un passo dall’ »essere adattato ». La sua natura non è forse di essere vivente, e per ciò stesso sempre attuale? Il grande sforzo consiste dunque nel ritrovare il cristianesimo nella sua pienezza ». E continuava, giungendo così al cuore del nostro problema: « Ma come ritrovare il cristianesimo, se non risalendo alle sue fonti, cercando di comprenderlo nelle sue epoche di vitalità esplosiva? Come ritrovare il significato di tante dottrine e di tante istituzioni, se non attraverso l’impegno di raggiungere quel pensiero creativo, di cui esse sono state la concretizzazione? Quante esplorazioni nelle lontane regioni della storia presuppone una ricerca di tal genere! Del resto, ci sono voluti quarant’anni per entrare nella terra promessa. Occorre a volte molta arida archeologia per far sgorgare di nuovo fontane d’acqua viva ».
Non è un caso che pochi anni prima, nel 1942, proprio Henri de Lubac – insieme a Jean Daniélou e a Claude Mondésert – avesse dato inizio alla celebre collana « Sources Chrétiennes », con l’intenzione di mettere a disposizione del pubblico le opere complete dei Padri della Chiesa. In effetti, risalire alle fonti cristiane significa risalire agli antichi scrittori cristiani. In questi ultimi decenni molti « utensili », per così dire, concettuali, metodologici e bibliografici sono stati messi in opera per una lettura più fedele della tradizione consegnataci dai Padri.
Resta il fatto – e accenno ad alcuni elementi di metodo per un dialogo costruttivo e fecondo tra i Padri di ieri e la cultura di oggi – che le opere degli antichi scrittori cristiani non si leggono comodamente e distrattamente come il giornale; non hanno rapporto con la quotidianità banale e ciarliera della cronaca, ma piuttosto con l’attualità perenne dei grandi problemi umani e cosmici che riguardano le cose presenti e future. Servono un armamentario di conoscenze e la padronanza di alcuni strumenti di base, per essere in grado di penetrarne e di apprezzarne il messaggio; servono ancora la costanza e la pazienza nello studio. Si tratta della necessaria attrezzatura da acquisire, dei metodi da applicare per entrare nella familiarità con l’ambiente, lo spirito e l’eredità dei Padri.
In tali ambiti le discipline antico-cristiane e classiche – a cominciare dallo studio delle lingue latina e greca – hanno larghi spazi di impegno da offrire alle persone sensibili ai valori della cultura.
Amore per la fede e passione per la cultura: potrebbe essere questa la sigla distintiva della dottrina patristica. Oggi invece si nota spesso in coloro che dicono di amare la fede un certo distacco dalla cultura, e in coloro che dicono di amare la cultura una certa diffidenza verso la fede.
I nostri Padri, invece, hanno saputo coniugare la fede e la ragione, il Vangelo e la cultura, mettendo al centro della loro dottrina il Lògos, Gesù Cristo, colui che insegna all’uomo la sua vera vocazione, e il giusto atteggiamento da assumere verso Dio, l’uomo e il mondo.
In particolare, sono soprattutto due i modi con i quali i Padri ci possono aiutare a riscoprire il messaggio del Vangelo nel mondo di oggi, o – se preferiamo – nell’impegno di una « nuova evangelizzazione » della cultura (mi riferisco qui alla cultura mediterranea europea): « per continuità » e « per contrasto ».
I Padri sono vicini al nostro sforzo « per continuità », nel senso che la riflessione sulle radici della cultura europea trova in loro l’humus normale di riferimento, e la sua fondazione letteraria e storica. Ma i Padri aiutano il nostro sforzo anche « per contrasto », perché – come è stato osservato a ragione – l’odierno cattolicesimo rischia di essere troppo acquiescente nei confronti di una certa cultura dei valori comuni e dei diritti dell’uomo, una cultura dei valori che molto spesso non corrisponde a un’autentica gerarchia dei valori.
Penso che il richiamo all’antropologia dei Padri, dove la dignità dell’uomo è saldamente radicata nella creazione divina e nell’immagine di Cristo, servirà a chiarire l’oggetto e i confini del dialogo sui valori, che rimane comunque necessario e urgente.
Su questa linea di riflessioni – e così concludo – possiamo addurre la risposta di un « filosofo mediterraneo », non precisamente cattolico, nel corso di una recente intervista.
Alla domanda: « Secondo molti, dalla crisi della modernità si esce soltanto attraverso un riferimento all’Assoluto. E secondo lei? », Massimo Cacciari ha risposto così: « Certamente no! O almeno, bisogna precisare che cosa s’intende per Assoluto. Nella nostra cultura il vero termine di riferimento non è l’Assoluto, ma l’Incarnazione. Questo è il messaggio evangelico: guarda il « totalmente Altro » nel tuo prossimo, ma quello concreto, quello che muore in croce, davanti a cui devi fare proskùnesis, genuflessione, come davanti a qualcosa di sacro. Questa è la vera chiave dell’Europa. Invece, pensare di uscire dalla crisi restaurando una qualche trascendenza, un Assoluto nel senso di ab-solutum, un punto di riferimento sciolto dal dramma dell’Incarnazione, è folle. Bisogna ricordare infatti che il Risorto non è un individuo totalmente risanato, ma si presenta con i segni della crocifissione ».
Sono parole che fanno pensare, anche di fronte al dibattito odierno sulla presenza del Crocifisso nelle aule pubbliche: al di là dell’esegesi che se ne può fare, ci richiamano ancora una volta alla dottrina dei nostri Padri.
Essa ci insegna a non disperdere il cristianesimo in un vago senso della trascendenza, o in una discutibile cultura dei valori comuni: ci invita piuttosto a vedere il trascendente nel Crocifisso risorto – unico vero centro della storia e della cultura – a contemplarlo e a servirlo anche nel fratello da amare, fino al dono supremo della vita.