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DUE STRANI VIAGGI (Atrio dei Gentili)

http://www.atriodeigentili.it/lectio/2005_06/04.htm

Azione Cattolica Diocesana

Lectio Biblica 2005/06
a cura di Stella Morra

4. DUE STRANI VIAGGI

Matteo 2,1-23

PREMESSA
            Con la lectio di oggi facciamo un passo indietro nel tempo liturgico; il racconto del viaggio dei Magi e della fuga in Egitto ci fa tornare al tempo di Natale.
            Stiamo ragionando sul tema del viaggio; i primi tre testi, dell’Antico Testamento, ci hanno dato il profilo delle dimensioni profonde, umane di un possibile viaggio legato al tema del desiderio, del non essere soli durante il viaggio, dell’aspettare strade appianate.
            Già nel primo incontro abbiamo detto che il viaggio è un tema visitato da poeti, letterati, romanzieri, pittori perché è una dimensione profondamente umana  che attraversa tutte le culture. Abbiamo deciso di dedicare alla parte più descrittiva  del viaggio solo l’inizio del nostro percorso poiché possiamo trovare da tante parti spunti o idee per comprendere a fondo qual è, all’interno di ciascuno di noi, il movimento che ci muove verso il viaggio,
            Nella seconda parte cercheremo di passare ad una dimensione più specifica del viaggio, per approfondirlo più dal punto di vista cristologico. Così come nell’annuncio evangelico, nella novità introdotta da Cristo, nei suoi gesti, nella sua vita e nelle sue parole questi viaggi prendono anche altri segni, altre direzioni. Nella vita di Gesù le dimensioni umane ci sono, non sono mai negate o cancellate, ma sono assunte e trasformate. Gesù è un uomo come noi, dunque vive, subisce e sceglie in prima persona  come noi le cose che gli uomini e le donne di ogni tempo vivono, subiscono e scelgono; contemporaneamente, però, Lui non è ‘solo uomo’ e il suo assumere le dimensioni umane le attraversa, le compie e le trasforma in un segno  – in teologia si dice sacramento – di qualche cosa che le cose non mostrano ancora ma che, noi crediamo, tutti mostreremo nell’ultimo giorno.
            Non è solo un dato teorico, è fondamentale. Faccio, come al solito, delle traduzioni un po’ da cartone animato, così ci capiamo. Spesso abbiamo l’idea inconscia che l’essere cristiani, il centro, lo specifico del cristianesimo sia un contenuto piuttosto che un altro. E facciamo delle classificazioni: i cristiani fanno così; i non cristiani, gli induisti, i buddisti, i musulmani in altro modo. Ci chiediamo: in che cosa ‘il mio essere cristiano’ in politica, sul lavoro, in famiglia, mi differenzia? Dove si vede la diversità rispetto a chi non è cristiano? In genere sono ragionamenti molto faticosi; uno passa il tempo a discutere su molti comportamenti, scelte, modi di fare propri e altrui, e conclude prendendo atto che a volte chi non crede è migliore. Il succo di tutta la faccenda, alla fine è: i cristiani dovrebbero essere più bravi degli altri; ma dato che questo non è sempre vero, i cristiani sarebbero quelli che desiderano essere più bravi degli altri. Tradotto, significa che ‘proprio dei cristiani’ sarebbe essere secchioni, essere i primi della classe a tutti i costi.Ma è un ragionamento che alla fine non torna.
            Questa domanda: dove sta il ‘proprio del cristianesimo’? Che cosa vuol dire quello slogan che ripetiamo senza sapere bene che cosa significa: E’ cristiano chi segue Gesù!? Ci sono dei contenuti che i cristiani hanno e gli altri no? Questa è una questione seria, perché non solo conforma i comportamenti personali, fa sì che io mi comporti in un certo modo, ma è seria anche perchè conforma le chiese, il modo  in cui pensiamo il cristianesimo nel mondo, il modo di rapportarsi agli altri…
            LA LEGGE DELL’INCARNAZIONE
            Io credo che il proprio del cristianesimo stia in quelle cose che dicevo prima, e che riprendo. Teologicamente si dice che il proprio del cristianesimo è nella dinamica dell’incarnazione. Cioè non è un contenuto, nel senso di un tema, una questione, un dato etico, ma è in un ‘metodo’, in uno stile che è stato per primo agito da Dio nei nostri confronti in Gesù e che dunque deve essere agito da noi nella nostra vita. Questo stile, questo metodo, questa dinamica è quella dell’incarnazione: Gesù, pur essendo divino, non rifiuta, non cancella niente di ciò che non era suo, che era umano, non lascia cadere niente, ma assume tutte queste cose e le fa lievitare secondo la loro legge, non secondo la sua legge. Le fa crescere per farle fiorire secondo come sono fatte.
            Questa è la legge degli amori veri. Se una persona ha un amore felice non ha più problemi o meno, non li risolve in modo magico, non diventa un’altra persona, ma chi è amato diventa ‘un sé’ che fiorisce secondo la propria logica. Questa è anche la durezza degli amori, perché trovare la misura per cui io posso guardare l’altro volendogli bene e lasciandolo fiorire secondo la sua logica, è sempre un passaggio  complicato.
            La legge dell’incarnazione è abitare dentro, assumere e far fiorire secondo la legge interna in una fiducia di fondo che il Dio che ha creato tutte le cose le ha create bene e che dunque, se tutte le cose fioriscono ciascuna secondo la propria logica, fioriscono bene. Dio le ha create secondo delle logiche buone, fioriscono come nel paradiso terrestre.
            I testi del Nuovo Testamento che ci accompagneranno da qui alla fine, vanno in questa direzione: ci fanno intravedere come Gesù, la sua vita, i suoi atti attraversano i temi del desiderio, del viaggio, delle separazioni e le fanno fiorire in un modo che di per sé era inaudito ed inatteso da quelle cose in sé, in un modo che era loro proprio, ma che non si potevano dare da sole.
            VIAGGI E SOGNI
            Il testo di oggi, dal Vangelo di  Matteo, è un vero racconto di viaggio.  Lo leggiamo come un racconto da bambini, quasi come una favola: ci sono i personaggi del presepio, c’è un lieto fine, ce l’abbiamo negli occhi, più che nelle orecchie, ma è pieno di parole di viaggio, è tutt’altro che un racconto per bambini. Facciamo molta fatica a leggerlo veramente per quello che è. E’ una favola per adulti, come il piccolo principe, un racconto che dice delle verità profonde sull’esistenza delle donne e degli uomini adulti.
            Questo testo è pieno di verbi  di viaggio e di sogni. E’ pieno di separazioni, partenze, gioie, tristezze, paure, di tutto ciò che fa la miscela della vita umana; è come se fosse concentrato tutto in questo breve testo: si nasce,…. si muore. C’è il dolore ingiusto ed innocente dei bambini uccisi al posto di Gesù. C’è la grande gioia dei Magi per aver trovato quello che cercavano. La grande gioia della vita è trovare quello che cerchiamo!…- il che significa sapere quello che cerchiamo, ed è un bel problema. C’è la paura e la protezione di Giuseppe vecchio padre che salva i suoi… In quaranta righe ci sono tutti gli elementi portanti dell’esistenza.
            E’ ben curioso: tutto ciò che riguarda l’esistenza sta in mezzo ai viaggi, non sta fermo. Noi abbiamo la sensazione che la nostra vita sia ferma perchè vediamo un fotogramma alla volta. Vediamo la foto di quella settimana, di quell’anno, di quel periodo e diciamo: è stato terribile!  Adesso vedrai; queste settimane sono ancora un po’ caotiche, ma appena avrò un po’ di calma ci vedremo. Il che vuol dire, di solito, che passano due o tre anni prima che ci vediamo. Perchè tutti siamo in attesa che accada una cosa che non arriva mai e vediamo solo  il fotogramma del momento, che in genere è pesantissimo.
            Quello che non vediamo è la vita vera. Non vediamo la dinamica, che siamo sempre di passaggio da un fotogramma ad un altro, e che ogni luogo, ogni sentimento, ogni dolore, ogni gioia in cui siamo nel momento in cui lo proviamo è già da lasciare, è già accaduto e ci chiama già altrove. C’è un dolore che ci chiama a scommettere sulla vita oltre il dolore stesso; se c’è una miopia quella ci chiama a non tentare di capitalizzarla, ma continuare a vivere.
            La vita è un viaggio! Tutte le dorsali fondamentali della vita stanno in quaranta righe, sono poche, essenziali e tutte inframmezzate da viaggi. Questi vanno e vengono in continuazione. Il vangelo di Luca ci presenta tutta la vita pubblica di Gesù come la sua salita a Gerusalemme, il suo cammino verso Gerusalemme.
            Il primo elemento che ci viene provocato rispetto al modo stesso in cui inizia la vita di Gesù è: attenti non siamo noi che abbiamo un desiderio di viaggio. Noi che siamo lì, piantati sui nostri piedi e pensiamo di farcela ad andare, desiderare, ma siamo noi in viaggio. Non è una scelta. I viaggi materiali, quelli che ci portano in un altro luogo sono solo il segno, il sacramento che noi siamo in viaggio. Tra l’altro, i cristiani questo l’hanno sempre saputo, hanno sempre chiamato pellegrinaggio terreno la vita storica. Ed hanno sempre pensato che la loro patria era altrove. Ed hanno sempre chiamato la morte riposo eterno, quando uno finalmente sta fermo. In un modo un po’ inquietante per la nostra cultura che ha paura della morte, ci hanno sempre detto noi siamo, in quanto siamo in viaggio.
            LONTANI E VICINI
            Altro aspetto curioso, di ordine generale: rispetto a questi strani viaggi ci sono due soggetti particolari: i Magi e Giuseppe. Paradossalmente, rispetto a Gesù nella sua forma storica di bambino appena nato, sono i più lontani e i più vicini. I Magi sono l’esotico, i re persiani venuti dall’oriente, il principe azzurro, l’immagine di ogni possibile esotica lontananza, di quanto di più diverso, astruso; sono la sapienza che viene da altrove, i gentili, i non appartenenti alla stessa religione, non appartenenti a niente… Magi. E, dall’altra parte, Giuseppe, che tutti i Vangeli ci presentano come l’ultimo giusto del Nuovo Testamento, l’ultimo che sogna come nel Vecchio Testamento, l’ultimo della stirpe dei sognatori che inizia da Giuseppe l’egiziano. Da lì in poi, da Giuseppe l’egiziano a Giuseppe, padre di Gesù che sogna e  interpreta sogni, c’è tutta una lunga preparazione: i giusti, i buoni, coloro che fanno del loro meglio e che sono premiati nel fare del loro meglio da essere posti a guardia di questo piccolino che cambierà, anzi, che sta cambiando il corso della storia. Ad essere così vicini da vederlo crescere, da sentire la gente che dice: non  è costui il figlio di Giuseppe il falegname? come viene riportato dai vangeli.
            I più lontani e i più vicini; i più estranei, i più esotici, ed i più normali. Tutti e due sono chiamati esattamente alla stessa cosa, e tutti e due sono chiamati senza preavviso, presi da dove sono, spostati, turbati da quello che avevano organizzato. E’ interessante. Solo Gesù riesce a far fare la stessa cosa ai più lontani e ai più vicini. A noi non viene mai così bene.
            Traduco: ognuno di noi ha sempre questa oscillazione tra il fuori e il dentro, tra l’occuparsi degli altri e l’occuparsi di sé, tra le proprie fasi riflessive e quelle produttive, tra il vicino e il lontano, tra il nuovo e il conservare l’antico, tra lasciarsi turbare da ciò che accade e conservare, rimanere saldo in quello che si è, si è pensato, si fa. Noi abbiamo sempre queste due facce, il fuori e il dentro. Il conservare e il rischiare, il raccogliere e il seminare…
            I magi e Giuseppe: la tradizione antica e la sapienza che viene da fuori. Quello che mi sta vicino, che è solido e rassicurante, e quello che viene da lontano, porta ori, mirra, incenso, è bello, ma anche inquietante. Tra il fascino di ciò che muta, cambia, innova, dà nuove strade e la fedele continuità.
            Noi in genere fatichiamo a tenere insieme questi due pezzi. Quando ci sbilanciamo a cambiare, saremmo tentati di buttare via tutto quello che è dentro, quello che è vecchio, conservato; quando invece decidiamo di conservare abbiamo grande diffidenza rispetto al nuovo. Questo ci accade nelle varie fasi della nostra vita, per cui da giovani si cambia di più, da vecchi di meno;  da giovani si è più proiettati verso il futuro, da vecchi verso il passato e la memoria, ciò che è stato…  C’è differenza anche da persona a persona. Tra noi ci sono quelli più esotici, sempre più attratti da una nuova questione e quelli più conservatori, pacati, calmi che tendono a stabilire, a pianificare tutte le cose della loro vita…Ci è molto difficile mettere in viaggio tutte e due queste parti contemporaneamente.
            Questo bambino che nasce ci dice che se non viaggiano tutte e due le parti, se non viaggia il fuori e il dentro, se non si muove il nuovo e l’antico, l’attenzione agli altri e l’attenzione a sé, se non si muovono tutte e due insieme, non succede niente di vero! Succedono solo dei cambiamenti di facciata, delle sceneggiate come quelle di Erode, che in genere producono dolore innocente! E’ buffo, perché anche Erode vuole mettere insieme ciò che ha e ciò che la novità gli porta attraverso la bocca dei Magi, ma lo vuole mettere in moto in modo che nessuna delle due cose cambi, che nessuno dei due viaggi. Il risultato è l’uccisione degli innocenti!
            VEDERE I SEGNI
            A me piace moltissimo il versetto 2,  un po’ perchè mi chiamo Stella, sento la mancanza di un santo di cui portare il nome, quindi ho eletto come santo di protezione la stella dei magi, – che mi sembra una bella idea – ed un po’ perché trovo che questo versetto sia un capolavoro, di grande bellezza.
            “Dov’è il Re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo. All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme”.
            I Magi sono persone per bene, con gli occhi aperti, scrutano i cieli, cercano segni, hanno desideri e dunque hanno visto sorgere la stella. E’ il passo numero uno per essere gente per bene: vedere i segni! Vedere quello che accade, guardare la storia, vedere il tempo, gli accadimenti, gli altri, quali stelle sorgono. Ma i Magi sono per bene sul serio! Non solo hanno visto sorgere la stella, cioè hanno riconosciuto nella loro storia un segnale, ma si sono messi in viaggio, con tutta la fatica che questo comporta, e sono anche venuti con retta intenzione per adorarlo! Risultato di questa operazione tutta giusta, anzi più che giusta… un premio? No! Una domanda: “Dov’è il re dei Giudei?”.  Il risultato di una vita che vede le stelle e si muove per viaggiare e con retta intenzione, è una domanda, non una risposta!
            Questo versetto, secondo me, è incredibile, è di una bellezza, di una consolazione, di una lucidità incredibile. C’è qui il nostro grande inganno, quello per cui noi diciamo: Ho deciso di essere cristiano, ho cercato di comportarmi meglio che potevo, e adesso non mi danno dieci? Io credo che qui ci sia la fioritura della vita tipicamente cristologia, che ci sarà continuamente ripetuta nel vangelo fino alla croce. Ma noi abbiamo fatto tanta bella poesia sulla croce di Gesù Cristo per cui non la vediamo più, l’abbiamo ben esorcizzata. In passaggi come questi la vediamo meglio, ci prende un po’ alla sprovvista perché, avendo questo tono da racconto per bambini, non l’abbiamo raffreddata, non l’abbiamo cancellata, quindi ti piglia alla gola.
            “Abbiamo visto la stella”. Hanno ben interpretato quello che accadeva, hanno guardato il cielo. Ci sono tanti dipinti che rappresentano i Magi nell’atto di scrutare il cielo notturno, a cercare i segni: hanno visto la stella e l’hanno ben interpretata. Hanno avuto il coraggio di mettersi in viaggio; l’hanno fatto con retta intenzione, per adorare il bambino, e ciò che raccolgono è una domanda: “Dov’è il re dei giudei?” 
            Di fronte a loro ci sta la reazione, I Magi sono la stella per Erode, il segnale, il versetto seguente dice: “all’udire queste parole il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme”. Questo versetto è doppiamente incredibile: turbato. I segnali che ci raggiungono ci turbano, nel senso che ci squilibrano, ci richiedono di uscire dal luogo in cui siamo. E pochi versetti dopo Erode dirà: “Andate”. Lui non si mette in viaggio. Dice loro: “Andate, … poi venite a riferirmi”  e così spezza la logica: la sua intenzione è di uccidere il bambino, non di adorarlo. E questo frutterà dolore.
            Io mi chiedo abbastanza spesso da dove arrivano i miei dolori In genere la prima spiegazione è che la colpa è di qualcuno; in prima battuta di qualcun altro; il passaggio successivo è di ammettere, forse, anche un po’ di colpa mia. Facciamo una serie di ragionamenti sempre legati alla colpa. I nostri dolori normalmente nascono dal non aver visto le stelle, dall’essere stati turbati senza aver avuto la capacità di mettersi in viaggio per adorarlo, dall’aver provato a difendere ciò che avevamo acquisito invece di farsi condurre da una stella.
            Questo versetto mi ricorda un film, Viaggio in Inghilterra,  che riprende la stessa questione: il nostro premio è una domanda. Ed è un altro viaggio. Per chi è cristiano è molto chiaro, è così, perché la nostra unica patria è il cielo; l’unico posto in cui potremo stare fermi sarà il paradiso. Noi questo lo sappiamo, ma siccome fa un po’ impressione, svaluta un po’ la vita di quaggiù, ce la raccontiamo sempre in un modo un po’ ritagliato . In realtà è molto chiaro: il nostro premio è avere ancora giorni per poter ancora scorgere stelle e metterci ancora in cammino.
            “ALLORA ERODE CHIAMATI SEGRETAMENTE I MAGI SI FECE DIRE CON ESATTEZZA DA LORO IL TEMPO… E”
            Segretamente. La segretezza è il contrario del viaggio perché solo chi ha una casa, un luogo stabilito, dei posti dove nascondersi può essere segreto; chi è in viaggio ha bisogno di tutti, chi si sposta è visibile, non può essere segreto, un viaggio si vede, nel suo farsi e nel suo risultato: si è stanchi, provati, si racconta Un viaggio non è fatto per la segretezza: tutti i viaggi generano racconti non segreti. Il genere letterario racconti di viaggio è diffusissimo. La stabilità, il difendersi genera la segretezza, è la paura di perdere
            Dunque Erode manda i Magi a proseguire il viaggio. I Magi hanno fatto la loro parte, sono giunti con una domanda e si sentono dire: la domanda è giusta, continuate pure!
         UNO STRANO VIAGGIO
            “Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere,li precedeva, finchè giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono.”
            E’ curioso! Provano gioia al vedere la stella. Rispetto al bambino non provano gioia, lo adorano, gli offrono in dono oro incenso e mirra, poi sono avvertiti in sogno di non tornare da Erode e per un’altra strada fanno ritorno al loro paese.
            “Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”.
            L’unica risposta che hanno, paradossalmente, è un sogno che li avvisa di non fidarsi di Erode. E’ uno strano viaggio.
            I Magi sbucano dal nulla e finiscono nel nulla. Sono perfettamente impersonati dalle statuette del presepio. I grandi viaggiatori sono lì, fermi, paralizzati davanti alla capanna, nelle classiche pose: uno inginocchiato, uno in piedi, l’altro con lo scrigno. Sono grandi viaggiatori, ma di loro si ricorda un solo viaggio; non sappiamo null’altro di loro e sono paralizzati nel gesto del rendere adorazione a questo bambino. Tutto ciò che sappiamo di loro è questo gesto. Ma è vero che tutto ciò che conta è la strada, quella che li ha portati lì e quella che li ha riportati a casa.  La tradizione popolare ha infarcito il viaggio di ritorno di chilometri e chilometri, attribuendo loro strani giri.
            E’ uno strano viaggio che parte non sappiamo da dove e ritorna non sappiamo dove. Un viaggio che ha come unico nome e unica gioia quella di una stella che li guida; ha un pessimo incontro, quello con Erode che non si lascia contagiare dal viaggio, ma che fa prevalere la paura e finisce lì.
            I SOGNI
            Quello che avverte i Magi di non passare da Erode è il primo di tre sogni.
            “Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse. ‘Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finchè non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”.
            Questo più che un viaggio è una fuga. E si parla di Egitto, una figura molto particolare, significativa nella storia del popolo ebraico. E’ l’Egitto che ha accolto Giuseppe ed ha sfamato i suoi fratelli nella carestia, perché Giuseppe era diventato potente interpretando sogni. I sogni lo avevano fatto ricco e potente, e diventano strumento di nutrimento per tutti i suoi fratelli nel tempo della carestia. L’Egitto è il luogo della schiavitù da cui si fugge e, qui, verso cui si fugge. L’Egitto è la grande potenza, il nemico che incombente, quello che periodicamente entra a scombinare i piani. E’ chiaro che questa fuga in Egitto è il contrario della fuga dall’Egitto.
            Si sta inaugurando il nuovo esodo. Gli ebrei erano stati liberati con mano potente fuggendo dalla schiavitù per diventare liberi e qui l’ultimo dei giusti, l’ultimo dei sognatori, il nuovo Giuseppe, torna in Egitto, fugge in Egitto. Tutti, credo, abbiamo in testa l’idea della fuga in Egitto associata soprattutto a dei quadri  perché è un evento che si prestava bene ed è molto rappresentato,  ma forse non abbiamo mai realizzato il perché di questa espressione.
            Che cosa mette in movimento questa fuga in Egitto rispetto alla fuga dall’Egitto? Tornano per ritornare schiavi? E’ questo che Matteo sta dicendo ai suoi uditori? No. Ma la terra della libertà si è trasformata in terra della schiavitù? La Galilea e la Giudea, che erano le terre della libertà, sono diventate talmente invivibili da dover tornare nella terra della schiavitù come una terra della libertà? Con tutte queste domande voglio dire che schiavitù e libertà non si legano al luogo. Non è che se una volta abbiamo viaggiato dalla schiavitù alla libertà, poi siamo arrivati. La terra della libertà può tornare ad essere la terra della schiavitù. I viaggi non sono unidirezionali. E’ come se qui ci venisse detto  – altro elemento che fa fiorire ciò che è umano in un viaggio – si viaggia per arrivare, ma non si arriva. Noi viaggiamo verso una meta, con un progetto, ma non c’è una meta, la meta siamo noi, la meta è la nostra vita. La terra della libertà è sempre sotto la minaccia di diventare terra della schiavitù.
            Infatti, affinché gli ascoltatori avessero chiaro ciò che stavano ascoltando, Matteo cita un versetto di Osea, “Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio”, che era sempre stato legato alla liberazione che gli ebrei avevano avuto al tempo dell’Esodo. E Matteo fa questo salto mortale doppio, avanti e indietro, tra terra della libertà e terra della schiavitù.
            Spesso mi domando se mi ricordo di viaggiare sempre verso la terra della libertà. Essere adulti liberi non è facile. Paradossalmente è più facile essere ragazzi, adolescenti liberi, perché si è ancora accumulato poco. Le nostre vite funzionano come le nostre case: se uno fa trasloco dopo un anno che sta in una casa, tutto sommato non ha grossi problemi, ma dopo trent’anni viene fuori di tutto, perché siamo degli accumulatori inguaribili. Anche quelli che buttano via di più, accumulano   Le nostre vite funzionano allo stesso modo. Gli anni  che passano non portano solo sapienza, – questa sì, si spera! – ma portano anche accumulazione. Abbiamo di più da cui separarci. Guadagnarsi la propria libertà, man mano che gli anni passano, non è più così banale.
            IL VIAGGIO MANCATO
            Ai due viaggi segue il racconto dell’effetto del mancato viaggio di Erode. Di per sé doveva venire subito dopo il racconto sui Magi, ma i due viaggi sono il lontano e il vicino che rispondono al segno e al sogno, viaggiando; ed Erode, l’unico che non risponde al segno, viaggiando, manda ad uccidere tutti i bambini E’ l’immagine più orrenda che per una cultura come la nostra si possa avere: siamo in grado di tollerare molta brutalità, ma non quella nei confronti dei bambini.
            “Un grido è stato udito a Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata”.
            E’ riportato il versetto di Geremia, dopo il racconto della morte dei bambini. Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata perché non sono più. Questa espressione “Non vuole essere consolata”  esprime  una durezza incredibile
            Il versetto seguente inizia dicendo – non sappiamo quanto tempo è passato, certo molto –:             “Morto Erode, – che aveva creduto di fermare i viaggi – un angelo del Signore apparve a Giuseppe in Egitto e gli disse: ‘Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nel paese d’Israele; perché sono morti coloro che insidiavano la vita del bambino”.
            E  ricomincia un viaggio. Si ritorna dall’Egitto e non solo. Si viaggia ancora tra Giudea e Galilea. In Giudea c’era Archelao, meglio spostarsi. E si va a Nazareth. E comincia l’ennesimo grande viaggio…
            Questo testo comunica molte cose; mette in evidenza piccoli segnali propri di ciò che ci riguarda tutti: come l’inaudito può uscire da ciò che tutti ci riguarda, come funzionano i viaggi, come il risultato di un viaggio fatto bene è una domanda e come il turbamento che rifiuta un viaggio produce dolore innocente. Mi sembrano segnali importanti su cui ragionare!
            DOMANDA: COME MAI I MAGI PROVANO GIOIA PER LA STELLA E NON PER IL BAMBINO CHE TROVANO?
            Risposta: Forse bisognerebbe scavare un po’ di più nel testo greco, ma la riflessione mia è che veramente il viaggio dei Magi è un viaggio libero, e la loro gioia è per ciò che li conduce nel viaggio, non per la meta. E’ per la luce che hanno per viaggiare, per l’essere accompagnati nel viaggio. Peraltro io credo che ciascuno di noi, avendo superato l’adolescenza, sappia abbastanza bene che nella propria vita uno si sbaglia tanto, e spesso pensando che sarà contento ‘quando’ avrà risolto una questione, ‘quando’ sarà riuscito a fare una determinata cosa, ma non è mai vero. In realtà le gioie profonde ci sono date da chi ci accompagna nel quotidiano, prima di quel ‘quando’, e in chi è fedele al nostro viaggio, fa il tifo per il nostro viaggio mentre viaggiamo, mentre siamo troppo stanchi, mentre non abbiamo tanto tempo, mentre siamo confusi, e non tanto da coloro che sono disponibili ad incontrarci e a condividere qualcosa con noi solo quando questo ‘quando’ si è realizzato. Quello che davvero conta è la strada fatta insieme, ma non in modo poetico; proprio nei giorni concreti, quando eri confuso, non avevi le idee chiare, non sapevi ancora bene cosa sarebbe successo, quando eri molto allegro per qualcosa che ti era capitato. Chi è solo in grado di stare con te nel giorno in cui sei arrivato, non è quello che fa la differenza, perché ci rimane il dubbio che sia amato il nostro risultato e non noi.

Fossano 18 febbraio 2006
 (Testo non rivisto dall’autore)                                                                            

Ef. 3,1-21 : La grande sfida della complessità (Atrio dei Gentili)

http://www.atriodeigentili.it/lectio/2002_03/06.htm

ATRIO DEI GENTILI
Lectio Divina 2002/03
Stella Morra – 12 aprile 2003

6. La grande sfida della complessità

Ef. 3,1-21

Si tratta di un testo dal tono positivo, rassicurante, a differenza di tutti gli altri visti fin’ora. La prima impressione è che non c’entri molto con il tema del conflitto, ma spero di mostrarvi la sua attinenza.
Ecco, per brevi punti, il percorso fin qui svolto.
I primi tre brani, Caino e Abele, Giuseppe e i primogeniti d’Egitto, descrivono in modo profondo, con una serie di passaggi molto seri, l’antropologia del conflitto, cioè come funziona la realtà, perché è così, perché noi siamo fatti così.
Il testo successivo, tratto dal Vangelo di Matteo sul regno (“Non sono venuto a portare la pace ma la spada…”) è molto duro, propone il passaggio, il salto di qualità. Di fronte alla situazione antropologica della vita, alle esperienze delle persone, sappiamo che non tutto può andare liscio, che ci sono dei passaggi di violenza, di durezza, di differenza… Di fronte a tutto questo c’è un annuncio radicale: “chi non prende la sua croce…”!
Ciò che il testo dice è: il diritto di vincere, il dovere di perdere. Ma anche viceversa: il diritto di perdere, il dovere di vincere.
Nel Vangelo di Giovanni abbiamo visto il dialogo tra Gesù e Pilato, con le questioni sulle proiezioni, sugli scherni, sullo spostare i problemi… e l’annuncio radicale: non si può sfuggire allo sbilanciamento che la radicalità di Cristo crea, ognuno di noi deve prendere posizione rispetto al modo di vivere il conflitto, prendere posizione di fronte alla croce di Cristo, cioè di fronte ad una radicalità diversa, a un modo nuovo, che non è solo quello di descrivere le cose come accadono!

Il testo
I testi delle lettere di Paolo sono sempre contorti, difficili, ma un po’ di familiarità con questo modo di scrivere rende visibile qualcosa di molto forte, e concreto.
Paolo è una persona complessa, come lo siamo noi, è una persona di doppia appartenenza, con tante radici, diviso e insieme completamente proiettato su questa nuova storia che è la sua storia con il Cristo. E’ estremamente moderno, come noi che siamo insieme divisi e desiderosi, viviamo doppie appartenenze, siamo complicati e non proprio lineari.
Tutti vorremmo che le cose, soprattutto quelle della fede, fossero semplici; vorremmo poter dire, come i bambini piccoli, “questo è giusto, buono, bello, e anche divertente; quest’altro è sbagliato, brutto, antipatico, e anche noioso: il mondo è chiaro, diviso in due parti”.
Se facciamo pace con questa nostalgia, se ci rassegniamo all’idea che la vita degli adulti è complicata, che le cose spesso sono insieme un po’ giuste e un po’ sbagliate, un po’ belle e un po’ brutte, un po’ divertenti e un po’ faticose, forse possiamo fare anche amicizia con il linguaggio complicato di Paolo, che è preoccupato di mettere davvero la vita dentro alle cose che dice; dunque comincia la frase, poi aggiunge una specificazione, poi un’altra, perché la vita è così. Anche noi cominciamo una cosa, un discorso, poi dobbiamo aggiungere una precisazione…

Conflitto tra ebrei e gentili
Lo sfondo di questo brano è un grande conflitto per la chiesa nascente: gli ebrei e i pagani, gli ebrei e i gentili. E’ un conflitto molto forte dentro l’esperienza del cristianesimo che inizia: è il conflitto tra l’accogliere la novità di Gesù dentro una strada già tracciata, o decidere che questa novità è talmente radicale da cambiare anche la strada, certo restando grati al proprio passato, ma iniziando un’altra storia.
L’antisemitismo cristiano, che ha segnato molti secoli della storia, dimostra che questo conflitto non è banale ma paradigmatico di molti conflitti, è il conflitto originale, quello da cui siamo nati: siamo nati da un conflitto e da una separazione, dal coraggio di distinguersi, di separarsi dalla tradizione ebraica.
Nell’antico testamento, e precisamente nei salmi, si dice: ‘Gerusalemme, tutti là sono nati’.
Qui, nelle lettere di Paolo, scopriamo che il mondo cristiano nasce nel conflitto in cui è in gioco il distinguersi, il separarsi dalla storia ebraica.
Nell’Apocalisse, il testo della prossima volta, vedremo la Gerusalemme celeste che scende dal cielo. Da cristiani diciamo che tutti torneremo a Gerusalemme, non che siamo nati lì: siamo nati nel conflitto, ma arriveremo a una città adorna, ‘pronta per il suo sposo’, dice il testo dell’Apocalisse.
Dietro questo testo c’è quella discussione: spesso pensiamo che sia stata importante allora, e che, una volta risolta la questione, il testo non ci riguardi. Il concilio di Gerusalemme del 50 d.C. affronta il problema della circoncisione, risponde con un no alla domanda se sia necessario passare attraverso la mediazione dell’ebraismo, dunque noi pensiamo che ormai, venti secoli dopo, sia solo un’antica questione.
Invece, ragionando sul conflitto, mi sono resa conto che non è proprio così. Questo testo funziona come il racconto del peccato originale rispetto alla globalità della scrittura.
Il conflitto originario tra gentili ed ebrei ed i criteri che Paolo dà – cosa vuol dire abitare questo conflitto e quali sono gli esiti, i risultati – funziona effettivamente come testo paradigmatico di tutti i conflitti possibili.
Nel racconto del peccato originale, la questione non è se noi oggi mangiamo il frutto dell’albero o no: il peccato originale è originale nel senso che è il primo, e tutti quelli che accadono dopo sono, in fondo, copie più o meno ben riuscite di questo originale. Qui è lo stesso: il conflitto originario tra ebrei e gentili racconta la capacità di abitare il conflitto, di vivere la separazione come identità, ma non come furto, di ricostruire, riconnettere, ma anche distinguere. E’ di grandissima attualità.
E’ interessante perché questo è un testo ‘solutore’, cioè ci dice quali sono i criteri, la logica, il modo in cui abitare in modo fecondo un conflitto per farlo diventare sorgente di vita. Quindi diventa decisivo districarsi un po’ in questo testo.

La grazia originale
“Per questo, io Paolo, il prigioniero di Cristo per voi Gentili… penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro beneficio: come per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero di cui sopra vi ho scritto brevemente”.
Paolo si definisce ‘Prigioniero di Cristo’ perché in questo periodo, secondo la tradizione, era in prigione.
La cosa interessante è “il ministero della grazia di Dio a me affidato a vostro beneficio”.
La parola centrale è grazia. Per continuare con il paragone di prima, c’è un peccato originale, ma c’è anche una grazia originale.
Ciò che viene prima di tutto, nella scoperta del modo in cui abitare un conflitto, è la percezione che la prima parola è una grazia, che ha la stessa radice di gratis. La prima attitudine, il primo nome interiore per vivere il conflitto è “dalla grazia in poi”: siamo dei bambini amati, certi che non mancherà loro il necessario. Da lì in poi possono fare anche capricci, e tutta una serie di cose per avviarci a scoprire il mondo.
Ci viene dato molto più di ciò che serve come punto di partenza: c’è una grazia, affidata a Paolo a nostro beneficio: Paolo ha un ruolo specifico, abita oltre il confine!
Nel racconto dei primogeniti vengono segnate le porte dei ‘nostri’ per distinguerli, perché le case non segnate vengono visitate dall’angelo della morte.
Qui è esattamente il contrario: Paolo ha passato la soglia. Era un giudeo convinto, passa dall’altra parte, diventa il ministro della grazia per i gentili, abita oltre il confine; qui l’angelo che passa è un angelo di benedizione, passa alle porte di quelli che ‘non sono i nostri’ per benedire.
Il primo versetto di questo testo è il contrario di ogni ansia, ci dice che non c’è nessun motivo per agitarsi, perché sotto questa benedizione se non si lavora contro – anche senza fare niente di positivo – il conflitto è una benedizione.
Noi sperimentiamo la conflittualità come un dato negativo perché normalmente lavoriamo contro!
Prima della settimana santa, credo, potremmo fare il proposito di riposarci, di non fare niente, di non lavorare contro, perché stiamo sotto il segno di una benedizione, e se anche noi non facciamo niente, c’è questo ministero al di là del confine che porta la grazia a tutte le diversità possibili.

Tappe della riconciliazione:
· abbattere il muro, annullare la legge
Poi Paolo dice “il mistero di cui sopra vi ho scritto brevemente”, dunque bisognerebbe leggere il capitolo 2, testo molto famoso sulla riconciliazione dei giudei e dei pagani tra loro e con Dio.
Paolo parte avendo già spiegato che Cristo è la nostra pace, venuto ad abbattere il muro di separazione, a fare dei due un solo popolo.
Il capitolo 2, letto da solo è bello, ma troppo facile, senza costi. E’ come ammirare in una chiesa un bel dipinto che resta lì ma, quando esco, la mia situazione è sempre quella di prima.
Il cap. 3 dice la nostra verità, è ‘fuori dalla chiesa’, non è un bellissimo dipinto su un muro, è molto più faticoso, ma è quello che succede se uno ha guardato bene la situazione di prima.
Vi faccio notare solo quattro versetti del cap. 2, decisivi per capire il seguito:
v. 14 “…abbattendo il muro di separazione, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti”; v. 16 “…riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce”; v. 17 “… a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini”, v. 19, il risultato “… Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati per diventare dimora di Dio”.
Questi quattro passaggi sono centrali.
Primo: abbattere il muro di separazione annullando la legge.
E’ fortissimo, sono parole religiose, le abbiamo tutti nelle orecchie, ci sembrano parole normali perché le abbiamo sentite tante volte.
E’ come se dicesse che, quando c’è un disaccordo, basta cancellare dal vocabolario la parola accordo, e il problema è risolto! E’ un gioco di prestigio in cui si dice una cosa impossibile. Il problema è che io e un altro siamo due e non uno, e per quanto ognuno cerchi di essere educato, di non perdere il controllo, se la pensiamo in due modi diversi, non andiamo d’accordo!
“abbattendo il muro… annullando la legge…” dice: non c’è più questa distinzione radicale! Ricordate, abbiamo cominciato con Caino e Abele dicendo: laddove ci sono due c’è un conflitto. Qui si dice: non ci sono più due, c’è uno, è stato abbattuto quello che divide e non c’è più la legge che dica chi ha ragione e chi ha torto.
Questa sarebbe la grazia di Dio, non la nostra esperienza!
· riconciliare per mezzo della croce
Secondo: riconciliare con Dio per mezzo della croce. Abbiamo già ragionato un po’ su che cos’è la croce: assumere invece di proiettare. Come dire: pago io il prezzo di quello che sarebbe il tuo costo!
Questo è ciò che Gesù ha fatto nei nostri confronti, ci ha riconciliati con Dio, ci ha messi dalla parte della ragione rispetto a Dio.
· i vicini e i lontani: formare un solo corpo
Terzo: i lontani e i vicini. Mi viene sempre in mente questo versetto quando nelle parrocchie, nei gruppi, si parla dei lontani. Sono parole che mi fanno venire i brividi: ‘lontani’ da cosa? Chi sarebbe il punto di riferimento rispetto al quale si misura la lontananza?
Nell’esperienza della fede, essendo Dio equidistante da tutti noi, chi è lontano?
Qui i lontani e i vicini sono stati riconciliati per mezzo della croce, non c’è una posizione privilegiata. L’esito è che non si è più né stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli.
· concittadini dei santi e familiari di Dio
E’ bello pensare che siamo concittadini dei santi e familiari di Dio. Noi abbiamo esperienza della famiglia, e sappiamo che essere familiari con altri esseri umani non sempre è una buona idea…
Rispetto ai santi siamo concittadini, abbiamo la stessa dignità, non siamo stranieri, siamo alla pari. Rispetto a Dio siamo familiari, sperando che essere familiari con lui sia meglio che esserlo rispetto agli altri esseri umani… ma questa è una riflessione del tutto personale!
Il senso della grazia di Dio è proprio questa radicale possibilità e radicale speranza: ‘tutto in Dio è possibile’, non c’è niente di perduto, non c’è mai una pietra tombale sufficientemente pesante da mettere sopra, non solo su Gesù Cristo, ma su nessun pezzo serio della nostra storia.
Ogni situazione di divisione è sempre una situazione riscrivibile, perché non c’è più la legge delle prescrizioni, perché siamo concittadini dei santi e familiari di Dio.

La comprensione del mistero di Cristo
“Dalla lettura di ciò che ho scritto potete ben capire la mia comprensione del mistero di Cristo.”
Chi di noi avrebbe la faccia tosta non solo di dire, ma di scrivere una cosa simile?
Forse dovremmo avere un po’ più di orgoglio, di senso della nostra dignità e dire: la mia comprensione del mistero di Cristo non vuol dire, necessariamente, la mia ‘grande’ comprensione, ma semplicemente la ‘mia’.
Io mi chiedo quanto noi siamo in grado – come credenti, come battezzati – di dire qual è la nostra comprensione del mistero di Cristo.
Quando parliamo siamo sempre umili, o falsi umili e diciamo: “non so, non capisco, sono grandi misteri della fede”. Ma nella nostra vita tutte le cose sono grandi: la vita di un figlio che cresce è una cosa grandissima, misteriosa, l’amore che ci lega agli altri, gli affetti, la collera, il dolore… sono misteri enormi, eppure sappiamo di averne una comprensione, certo non totale, ma quella che ci serve per vivere.
Forse se avessimo una misura della comprensione del mistero di Cristo, sapremmo come vivere dentro un conflitto o dentro tutte le situazioni della vita.
“Questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù , a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo…”.
Sono tre dati molto importanti: partecipare alla stessa eredità, formare lo stesso corpo, essere partecipi della promessa.

Formare un solo corpo
Qui l’aggancio è quello che dicevamo prima: fare dei due un solo corpo, un solo uomo nuovo.
Non è un caso che Paolo usi tanto questa immagine del corpo.
L’immagine centrale è formare lo stesso corpo.
Ragioniamo seriamente su ciò che significa questa espressione, cancelliamo un po’ di idee che abbiamo nella testa sul formare un solo corpo, legato a tutti i temi matrimoniali più o meno melensi, eliminiamo un po’ di paccottiglia, altrettanto melensa, sull’unità, sul volersi bene perché siamo lo stesso corpo…
Per esempio: ognuno di noi impiega molti anni per avere una ‘passabile’ amicizia con il proprio corpo e poi, col passare degli anni, impieghiamo altrettanto tempo a recuperare una ‘passabile’ sopportazione del fatto che il nostro corpo cambia inesorabilmente. E’ vero che queste non sono delle grandi tragedie, ma è anche vero che il corpo è sempre quello, e a volte non sappiamo conviverci serenamente.
Quando diciamo: formare un solo corpo, diciamo più o meno una cosa così, una cosa assolutamente dinamica. Il corpo è la cosa che cambia maggiormente e più costantemente di qualsiasi altra esperienza noi abbiamo. Il nostro corpo è un cambiamento costante ed ha una dinamica interna per alcuni versi molto spietata, molto cinica, diremmo noi, in cui alcune cose servono ad altre.
Non c’è giustizia nel nostro corpo. Il problema non è unalegge, perché un corpo è una cosa viva, che, paradossalmente, ha una sua vita, comunque sia!
Quando si dice che i gentili sono chiamati in Cristo Gesù a formare lo stesso corpo, non si parla di un’unità del tipo “vogliamoci bene, trattiamoci bene”, ma si parla di un’unità inevitabile, molto dinamica, ingovernabile, in cui le cose hanno una vita autonoma.
Fino ai tredici anni siamo molto presenti a noi stessi ma, superata quell’età, noi abbiamo un’età e una faccia ‘dentro’ che non hanno quasi niente a che fare con la nostra età e la nostra faccia’fuori’. Noi sentiamo noi stessi in un modo che spesso non è quello che gli altri vedono, non è quello del nostro corpo.
Un’unità di questo tipo: formare un solo corpo! (Quando riceviamo l’eucarestia, ci viene detto che formiamo un solo corpo con Cristo). Questo è l’asse centrale: quanto allo stato delle cose, il mistero dice che noi formiamo un solo corpo.

Eredità e promessa
Poi c’è: “partecipiamo alla stessa eredità e siamo partecipi della stessa promessa”; una cosa sul futuro: l’eredità, e sul passato: la promessa. Non confondiamoci: la promessa non è il futuro, è da dove veniamo; ci siamo mossi su una promessa!
Le promesse che ci si scambia nel matrimonio si scambiano all’inizio, la promessa è un luogo fondante, non una certezza, è un luogo di partenza, il nostro passato. L’eredità è il nostro futuro.
Il grande mistero è che i gentili sono chiamati a formare un solo corpo, ad avere lo stesso passato e lo stesso futuro.
Il problema di un conflitto non è risolvere ciò di cui si sta discutendo, ma formare un solo corpo, avere un passato e un futuro in comune.
Se io discuto con una persona su un argomento, il problema della risoluzione del conflitto non sta nel risolvere il problema specifico, ma che se noi due non ragioniamo come se fossimo lo stesso corpo e avessimo lo stesso passato e lo stesso futuro, non ne verremo mai a capo!

La multiforme sapienza di Dio
“A me che sono l’infimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia di annunciare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo, e di far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo, perché sia manifestata ora nel cielo, per mezzo della Chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio”.
Questa espressione “la multiforme sapienza di Dio”, è molto bella.
Si potrebbe dire con una battuta: Dio è complicato, e questa è una bella notizia, perché vuol dire che in una di queste piccole anse della sua complicazione c’è un posto che mi sta a pennello.
Se Dio è una linea dritta, o tutti diventano dritti, o non ci stanno.
Siccome Dio ha una multiforme sapienza, una delle sue caratteristiche, detta in termini umani, è la creatività. Infatti si chiama Creatore. Ha un mucchio di curve, curvette, angolini, c’è un sacco di posto, perché ha una ‘multiforme sapienza’.
Non so se ci sarà un giorno in cui noi capiremo Dio, ma c’è una certezza: Dio ci capisce! Ha una multiforme sapienza!
Un mio amico dice sempre che Dio è un tipico esempio di intelligenza trasversale, che parte da genesi e arriva all’apocalisse facendo il giro di tutta la storia di tutti gli esseri umani e dunque ha angolini per tutti.
La multiforme sapienza di Dio viene manifestata ‘in cielo ai principati e alle potestà’ – due ordini angelici, secondo la cultura di Paolo -.
In cielo gli angeli vedono la multiforme sapienza di Dio e che cosa succede sulla terra?
Secondo il disegno eterno che è attuato in Cristo Gesù, Dio ha una sapienza multiforme che sta in cielo, ma poi attua una cosa: in Cristo Gesù ci dà il coraggio di avvicinarci in piena fiducia a Dio, per la fede in lui.
Quello che noi vediamo operante nella storia non è una soluzione, né la multiforme sapienza di Dio già sulla terra, ma è il coraggio di avvicinarci a Lui! Cioè la forza, l’energia, il fiato, la strada di cercare la misura di Dio.
Ho usato la parola misura due volte appositamente: avere una misura della nostra comprensione del mistero di Dio, ma avere la fiducia di poterci avvicinare alla misura di Dio, che è una misura multiforme.

La logica della croce
“Vi prego quindi di non perdervi d’animo per le mie tribolazioni per voi; sono gloria vostra”.
E’ un verso strano; c’è un bel gioco di pronomi. E’ radicalmente il contrario di quello che dicevamo la volta scorsa sulla rimozione.
Ognuno di noi direbbe: non ti preoccupare per le ‘tue’ tribolazioni, ti posso aiutare nelle tue tribolazioni a causa mia, e questo ci costituirebbe problema. Paolo dice: non vi preoccupate per le ‘mie’ tribolazioni a causa vostra perché sono gloria vostra.
Paolo applica la logica della croce, rovescia tutto!

La paternità di Dio
C’è poi questa specie di conclusione, di una modernità inquietante. “Per questo, dico, io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome…”.
Noi facciamo una confusione radicale: diciamo ‘Dio è Padre’ sottintendendo che noi sappiamo che cos’è un Padre e Dio assomiglia ai padri che conosciamo. Paolo dice l’esatto contrario: è la paternità di Dio, che noi non conosciamo, l’origine di tutte le paternità, che sono tutte brutte copie.
Dire che Dio è Padre non è un modo più facile di dire Dio, come siamo tentati di fare. Ai bambini diciamo che Dio è Padre, con l’ottimo risultato che se quelli hanno una pessima esperienza di paternità, hanno qualche problema con Dio.
Quando diciamo che in Gesù noi possiamo chiamare Dio ‘Padre’, noi diciamo che prendiamo la misura di Dio per vivere ogni possibile forma di paternità.
Le paternità sono le nostre possibilità interiori di dare leggi, norme, indicazioni, di avere un’autorità, di esercitare un riferimento, di essere il luogo di un consiglio… Tutte queste paternità dovrebbero essere a misura di Dio, cioè di ‘multiforme sapienza’, paternità ‘larghe’, con un sacco di anfratti.
Quando noi andiamo a cozzare contro la diversità di un altro, vissuta come un furto, è perché abbiamo una norma dentro di noi che è molto dritta, l’altro arriva un po’ di traverso e non ci sta. Allora la nostra ‘multiforme sapienza’ di paternità dovrebbe avere la misura di Dio.

Rafforzati dallo Spirito nell’uomo interiore
Paolo prega il Padre “…perché vi conceda (anche a noi!), secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore”.
Questa frase può voler dire: avere una potenza secondo lo Spirito nel nostro uomo interiore.
Abbiamo parlato spesso dell’interiorità, del problema del nostro ‘spazio’ interno. Tutti noi sappiamo quanto sia faticoso spostare qualcosa, anche se piccolissimo, dentro il nostro essere più profondo.
Tutte le volte che, per esempio, cominciamo una prossimità, una vicinanza con qualcuno, un amore, un’amicizia, la differenza dell’altro, per quanto gli vogliamo bene, chiede un po’ di spazio e sposta qualcosa… ci vogliono mesi nella vita quotidiana per riuscire a far sì che non faccia più male, che lì ci sia veramente uno spazio.
“…potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore”. Non c’è augurio migliore che possiamo farci tra cristiani: avere una forza potente nel nostro uomo interiore.
“Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori (è sempre ciò che Paolo chiede per noi!). Chiede che la forza potente dello Spirito rafforzi il nostro uomo interiore, faccia spazio nella nostra casa. Che in questa casa possa abitare il Cristo per la fede, cioè che l’immagine di Dio in noi, la nostra verità profonda posta in noi dalla creazione trovi corrispondenza nel Cristo che abita in noi. E così, radicati e fondati nella carità, (questa casa rinforzata dallo Spirito, abitata da Cristo, abbia le sue fondamenta nella carità!) siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”.
Esito: abitare il conflitto, e forse la vita in generale, è una questione di misure: serve un uomo interiore ‘extra-large’.
La misura: l’altezza, la larghezza, la profondità dell’amore di Dio
La lunghezza, l’altezza, la profondità!
Pensate a tutti i testi che parlano del tempio e ci danno le sue misure: alla luce di questo testo noi siamo tempio dello Spirito Santo. Tutti i testi dell’antico testamento che raccontano lo splendore delle decorazioni del tempio, le pietre, le gemme, le porte… sono la descrizione del nostro uomo interiore.
La nostra anima dovrebbe avere l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza incommensurabile dell’amore di Dio ed essere decorata. Anche su questo torneremo, parlando della Gerusalemme celeste.
“…perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”. Tanto spazio non è mai vuoto. Più spazio si ha, più questo spazio è pieno.
Qui c’è una questione che fa la differenza tra l’essere credenti o no.
Chi non ha fede in Dio teme molto il vuoto, teme che fare tanto spazio dentro di sé significhi poi avere tante esigenze e non farcela più a vivere la vita di tutti i giorni. Abbiamo paura che avere tanto spazio interiore, crei una grande fame, un grande bisogno e tendiamo ad avere uno spazio sempre più ristretto, sempre più misero, perché ‘bisogna pur accontentarsi…’.
Questo è un ragionamento ateo.
Chi è credente sa che può avere la misura di Dio e che questa misura di Dio, infinita, sarà colmata dalla sua pienezza e se uno ha tanto spazio (cioè meno bisogni ha), non sarà mai nella povertà.
Piccola conclusione: “A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni”.
La potenza che già opera in noi è la potenza che abbiamo ricevuto nel battesimo, la potenza originaria dell’immagine di Dio posta in noi nella creazione.
Ma sapere che colui che è di fronte a noi ha potere di fare molto più di quanto noi possiamo domandare o pensare, questo è atto della fede, compete a noi, nessuno può avere questa fiducia al posto nostro.
Questo testo ci offre veramente un paradigma: il conflitto radicale tra giudei e gentili viene abitato secondo la misura di Dio, ‘la multiforme sua sapienza’ e questo è un esercizio che riguarda l’uomo interiore, riguarda lo spazio che ciascuno di noi ha dentro.
Abitare la propria vita è veramente una questione di misura. Noi spesso siamo preoccupati dei contenuti: questo è buono, quello no, questo è giusto, quello è sbagliato, la carità, la speranza… Raramente ci occupiamo delle misure.
In questo testo Paolo sembra dirci che, escludendo l’essere malvagi, … ma in fondo nessuno di noi lo è, almeno intenzionalmente, … se decidiamo di essere un po’ buoni, da lì in poi il problema non è tanto di contenuti, ma di misure.
L’esercizio da fare è una misura interiore che sia la lunghezza, l’altezza, la profondità dell’amore di Dio.

(Testo non rivisto dall’autore)

Genesi 18,1-15: Nomadi verso la vita: c’è di più?

http://www.atriodeigentili.it/lectio/2007_08/01.htm

(il testo è lungo e non posso permettermi spazi, scusate per questa grafica…spartana)

Lectio Divina 2007/08
a cura di Stella Morra

1. Nomadi verso la vita: c’è di più?

Genesi 18,1-15

E’ il primo incontro di un nuovo percorso di lectio e, dopo aver comunicato alcuni avvisi, Carlo augura a tutti noi buon cammino con queste parole di Sant’Efrem siro: “Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori perché ciascuno di noi trovi la ricchezza in ciò che contempla”.
Premessa
Questa raffica di avvisi di Carlo dimostra il lavoro svolto in questi dieci anni; chissà cosa riusciremo a fare nei prossimi!
Come sempre, l’inizio di un percorso di lectio è, almeno per me, un po’ ambivalente. Da una parte sono curiosa di vedere dove andrà a finire: è ovvio, io penso al percorso, scelgo i testi, ma poi nell’interazione che si realizza qui, e con la Parola di Dio che soffia dove vuole, succedono sempre strane cose; dall’altra sono sempre un po’ intimidita e preoccupata, come se non mi fidassi fino in fondo del fatto che, dopo tanti anni, la Parola di Dio possa fare ancora lo stesso effetto.
Negli ultimi tre anni ci siamo occupati di temi molto umani, concreti: il conflitto, il potere, la paura. Come soci dell’Atrio avevamo fatto la scelta – e il fatto che altri si siano aggregati dimostra che i temi interessavano – di ragionare su alcune dimensioni della nostra esperienza quotidiana, e in particolare su quelle un po’ più oscure, di cui non si parla tanto volentieri, verso le quali abbiamo una certa diffidenza, perché ci verrebbe più semplice dire: non si deve! Non si deve andare a conflitto, non si deve esercitare potere, non si deve avere paura. Come se dire non si deve bastasse! In realtà, il fatto che ognuno di noi viva dei conflitti, sia chiamato ad esercitare un potere, viva delle paure, dice che, pur sapendo che non si dovrebbe, questa è una dimensione con la quale bisogna fare i conti, e che bisogna imparare a sapere dove ‘metterla’. E ci siamo chiesti se la Parola di Dio, anche di fronte a queste dimensioni un po’ più oscure, ci avrebbe dato delle buone indicazioni.
In genere abbiamo sperimentato, in questi anni, che la Parola di Dio non cancella, non nega, non butta via niente; nella Parola di Dio c’è veramente tutta la gamma delle esperienze possibili, belle e brutte, buone e malvagie. E ogni cosa ha un suo posto, sta in un certo luogo, ha un suo senso, non nella dimensione di un senso intellettuale – allora capisco – no, la scrittura ci aiuta anche a sperimentare come capire non è l’unica cosa che si può fare di fronte alla vita. A volte capisco, e questo non mi dà nessuna pace; altre volte, di fronte a certe gioie, non capisco, ma mi danno gioia ugualmente..
Dunque, negli anni scorsi abbiamo provato a ragionare intorno a questi tre temi. Chi ha fatto questo pezzo di strada con noi, spero abbia avuto l’esperienza di rendersi conto un po’ meglio di quali sono i confini di queste dimensioni un po’ più oscure dell’umano e di come, tutto sommato, non c’è solo l’oscuro dentro l’oscuro, ci sono anche delle energie positive, delle possibilità, delle questioni aperte…
Confrontandoci sugli argomenti su cui orientarci per quest’anno, ci siamo detti che, dopo anni di temi un po’ scuri, ci meritiamo qualcosa di più luminoso, più costruttivo e positivo, che per un anno ci aiuti a pensare intorno a dimensioni più belle. Questo non vuol dire negare che il miscuglio di oscuro e di luce c’è in tutte le nostre vite, ma ci regaliamo un anno un po’ più arioso. In questo la Parola di Dio è un po’ speciale perché tanto non maledice di fronte all’oscuro, quanto non è tutto rose e fiori, non è una favola di fronte alle cose luminose. La parola di Dio è molto realista, dunque ha sempre dentro tante cose.
L’idea, dunque, era quella di andare su un tema più costruttivo, ma soprattutto di metterci di fronte a una dimensione più apertamente di fede. Non rimaniamo mai solo in una lettura delle dimensioni dell’umano, – in questi anni abbiamo letto la Parola di Dio, quindi non abbiamo letto l’umano senza ciò che Dio dice e fa, ma lo abbiamo fatto tematizzando la nostra vita più che Dio, mettendo a fuoco l’immagine sulla nostra esperienza. Quest’anno ci piacerebbe spostare un po’ il fuoco, non guardarci solo addosso, ma tentare di chiederci un po’ di più che cosa Dio dice e chiede alla nostra esistenza. Così, ragionando, è venuto fuori questo titolo: Solo un Dio ci può salvare: la vita, la fede, l’incontro.
Ci sembra che, senza ingenuità, l’aspetto più positivo e propositivo delle nostre vite sia nel non essere delle vite chiuse, ma delle vite che incontrano gli altri, la storia, il tempo, Dio. Essere delle vite che ci danno delle occasioni, che si aprono al non sé, a qualcosa d’altro e che questa sia la grande dimensione prospettica, costruttiva, quella che ci sorprende ancora rispetto al tran tran quotidiano, alle scelte, a ciò che uno ha fatto. Capita sempre, ad un certo punto della vita, un evento, una realtà che si mostra con qualcosa in più. Questa dimensione dell’incontro e dell’incontro con Dio come la dimensione che struttura l’esperienza di fede.
I primi due testi che affronteremo sono dell’Antico Testamento e sono il tentativo di descrivere la fenomenologia, cioè come funziona la dinamica dell’incontro nell’esperienza umana, ed è soprattutto l’Antico Testamento che ci aiuta a descrivere come funzioniamo e poi ci sono cinque testi del Nuovo Testamento che dovrebbero condurci a guardare un po’ oltre noi stessi.
In testa al programma c’è una poesia che mi pare dica abbastanza bene, almeno per me, dove questi dieci anni di lectio con l’Atrio mi hanno condotto e ciò che mi piacerebbe fosse l’esperienza di questo anno. E’ una poesia di D. Walcott, che è stato anche premio Nobel per la letteratura, e dice così:

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro
e dirà: siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore ,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola.

D. Walcott, Amore dopo amore
Questa poesia mi piace molto perché mi sembra dica bene come ci sia un vero, solo, grande incontro importante nella nostra esistenza: l’incontro con noi stessi. E come tutta la nostra vita ci sia data perché uno si possa incontrare con sé. E abbiamo tempo, da parte di Dio, per arrivare alla fine della nostra vita e sentire, come la Maddalena, il nostro nome pronunciato da Dio che ci viene restituito. E possiamo riconoscerlo dicendo sì, sono io in quello specchio! Ma insieme ci sono tutti gli incontri e il tempo della vita che ci è dato per farcela ad amare quello straniero che sono io, a riconoscere e riuscire ad imbandire una festa … “La tua vita è in tavola”. Mi sembra che questa poesia ci dica fino in fondo, con un’immagine molto bella, che il giorno in cui riusciremo ad offrire vino e pane allo straniero che ci ha amato tutta la vita e che spesso abbiamo mal tollerato in noi stessi, in cui riusciremo a fare questa ‘eucaristia’, allora il Signore ci renderà a noi stessi, secondo l’immagine e somiglianza che ci ha posto nel cuore nella creazione, e sarà davvero festa.
Dietro a questo tema dell’incontro c’è questa immagine, almeno per me. Spesso diciamo che l’esperienza della fede è l’incontro con Dio, perché siamo preoccupati del rischio di soggettivismo –ed è vero – ma la fede è l’esperienza di incontrare se stessi rinati, perché Dio ci dona questo, ci dona noi, restituiti a noi stessi nella forma gloriosa nell’immagine posta in noi alla creazione. Certo, è rischioso dire solo questo perché uno può pensare che è tutta una questione interiore, narcisistica, di guardarsi solo dentro. Non è così, perché bisogna passare attraverso tutti gli incontri e in primo luogo all’incontro con quel Dio totalmente altro, radicalmente diverso da noi. Ma il tempo che ci è dato, così almeno ci dice la scrittura, è quello di meritare di diventare ciò che siamo, cioè figli, figli di Dio, e poterlo diventare come una festa, non semplicemente come una ascesi, una disciplina.
Questo è un po’ l’orizzonte che sta dietro a tutto il percorso ed io spero vivamente che, un passo alla volta ci possiamo arrivare, discuterlo, ragionarci.
L’incontro con la vita
Questa sera ci soffermiamo su Genesi, 18,1-15. E’ un testo molto conosciuto, lo abbiamo già commentato, ma mi sembrava adatto per cominciare. E’ chiamato normalmente l’apparizione di Mamre. Fa parte della storia di Abramo e racconta questo misterioso incontro di Abramo e Sara alla tenda con tre personaggi. E’ un episodio molto rappresentato – abbiamo tutti negli occhi l’icona di Rubliev. E’ un testo denso, per alcuni versi inquietante e, dunque, un testo che ha sempre colpito la fantasia, l’immaginazione di poeti, pittori …
Questo racconto, molto famoso, è stato scelto mesi fa come il primo dei testi perché mi pare metta in ballo la prima e anche l’ultima delle questioni che cercavo di accennare prima: la questione è l’incontro con la vita. Non è l’incontro con Dio, come se Dio fosse un’entità astratta, uno strano essere verso cui non sappiamo bene cosa significa incontrarlo, quanto giocano le nostre proiezioni, dove lo troviamo, se lo troviamo dentro di noi,… è sempre un po’ macchinoso. La prima questione è l’incontro con la vita, un incontro molto complesso, come sa chiunque abbia più di dodici anni. Non è un incontro scontato, – uno si sveglia al mattino, respira, è vivo, dunque ha la vita a disposizione. O, poiché uno frammenta la propria giornata in mille azioni, allora incontra la vita perché ha qualcosa da fare ogni cinque minuti, dunque la vita c’è!? Se è per questo ognuno di noi è perfettamente in grado di riempirsi l’esistenza senza troppa fatica, di farsi prendere dalla routine. L’incontro con la vita è una questione seria che non passa solo dalla testa. Per secoli, per millenni, la figura dell’incontro con la vita è stata quella dei figli. L’immagine dell’avere figli, dell’augurare figli, del generare la vita è stata, per secoli, l’immagine del senso primo ed ultimo dell’esperienza umana, cioè dell’incontrare la vita. E per questo, per esempio, si sono costruiti tabù millenari sulle donne. Intere culture si sono strutturate intorno a questo nucleo.
Ma la scrittura, e qui ce lo dice molto bene, è sapiente e ci chiede di non confondere la figura con la sostanza. Conosce che l’esperienza umana passa in modo primario ad incontrare la vita attraverso un’altra vita che misteriosamente è la stessa dei genitori, perchè sono loro che la mettono al mondo ma, contemporaneamente, è una vita diversa, che ha una sua autonomia, e dunque ci pone di fronte a un dato di fatto, inevitabile. Ma, per esempio, la scrittura ha sempre raccontato storie, e spesso messo al centro, storie di vite senza figli. E il cristianesimo farà di più: esalterà la verginità. Questo per dirci: attenzione, non confondete la figura con la sostanza. La questione di fronte a cui ciascuno è posto – e oggi noi diremmo che non è questione biologica – è la questione di incontrare una vita. La propria, innanzitutto e la vita di tutti. E questa è una questione sacra. E’ solo in questa questione si può incontrare l’autore di ogni vita, che è Dio. Senza questa questione anche l’incontro con Dio è fasullo.
La prima questione, dunque dell’incontro con la vita, è il presupposto che noi non siamo la nostra vita; c’è una differenza tra me e la mia vita; quando io dico ‘io’ dico un insieme di cose belle, importanti, la mia storia, la mia identità, le mie scelte, la mia coscienza, la mia consapevolezza, le cose che desidero, le cose che vorrei cambiare, il mio impegno… ma che la mia vita è di più. E questo è il nucleo fondante dell’esperienza di fede, di ogni esperienza di fede possibile. Senza questo non c’è possibilità di fede, perché alla base di ogni ragionamento di fede c’è la convinzione che la mia vita è nelle mani di Dio, non nelle mie! E dunque è di più di me, è più grande, ha più spazio, ha più forza, più possibilità, più capacità di cambiamento, di innovazione.
Vi chiederei davvero di ragionare molto su questa questione che sembra molto scontata: la non identità tra noi e la nostra vita! Credo che questo sia uno dei problemi di quello che normalmente si chiama secolarizzazione. Per secoli la non identità tra noi e la nostra vita passava attraverso l’impotenza. Non si poteva fare tutto, curare tutto… le culture per secoli hanno detto, di fronte a ciò che era impossibile dal punto di vista tecnico, scientifico, medico,… è la volontà di Dio. In modo molto semplice dicevano: la vita è più grande di noi. Noi siamo in un tempo in cui abbiamo la sensazione che possiamo decidere su tutto – tutto tutto non ancora, al novantanove per cento … ma è solo questione di tempo!!! Ciò che oggi non si può ancora curare, si curerà. Siamo tutti in questa logica assoluta di non riconoscimento e, addirittura, abbiamo trasformato l’esperienza di fede all’interno di questa questione: la fede è scegliere. Scelgo di credere; scelgo di non credere: una forma di autogoverno. Peraltro la più raffinata, perché, mentre io scelgo le cose concrete della vita e ne ho delle conseguenze, – se scelgo di fare un mutuo, poi alla fine del mese devo pagare la rata e se non ci riesco, devo chiedermi qualcosa!- se uno sceglie di credere o di non credere, apparentemente non succede niente. E il delirio di onnipotenza è a tremila! Riflettere sulla differenza tra noi e la nostra vita, è una condizione previa fondamentale.
La scrittura sa che l’immagine è troppo unidimensionale: s’incontra la propria vita nei figli e nella direzione del tempo, che va in avanti, come nei propri genitori, col tempo all’indietro. Ma la scrittura ci dice che gli incontri con la nostra vita non sono solo in una direzione, sono a trecentosessanta gradi. E questo racconto lo mostra bene.
La distinzione… il luogo… la fatica… la pluralità… lo squilibrio…
In questi due versetti c’è una mirabile struttura di base di come inizia ogni incontro con la nostra vita.
“Il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra…”
“Il Signore apparve a lui…”, cioè ci vogliono due soggetti, ci vuole il senso di una distinzione: il Signore e lui, – certo per incontrarsi bisogna essere in due, uno che incontra e uno che è incontrato, è chiaro, sembra lapalissiano. Il problema è che, spesso, se noi non cogliamo la distanza tra noi e la nostra vita, non la incontriamo mai! Se non c’è una distinzione, se non siamo due, se io penso che ho la mia vita, la possiedo… non la incontro mai, perché manca questo primo elemento. E allora riusciamo a dire che incontriamo gli altri, – perché gli altri rimangono sempre diversi da noi, e ce lo ricordano in ogni occasione – e Dio perché, diciamo, Dio non sai mai dove aspettarlo. Però rimane sempre abbastanza distante, così distinto, così diverso, che anche lui riusciamo abbastanza ad evitare di incontrarlo. Rimangono solo gli altri –c’è anche nel vangelo: i poveri li avrete sempre con voi, cioè, quello che rimane a portata di mano sono gli altri. Ma, forse per arricchire un po’ questa situazione, bisogna ricordarsi che da una parte bisogna distinguere noi e la nostra vita, bisogna essere in due, io e la mia vita, per poterci incontrare; dall’altra bisogna riavvicinare un po’ Dio e me per poterci incontrare perché ci vogliono tutti e tre gli elementi.
“Il Signore apparve a lui…”. La distinzione è il punto di partenza di ogni incontro. Si potrebbero fare molti ragionamenti in termini concreti. Per esempio gli psicologi insegnano che il meccanismo di proiezione è una delle cose che creano più caos nel rapporto con gli altri, perché proiettare significa non accettare la distinzione –io vedo l’altro, lo trasformo nella mia testa uguale a me, e dunque, alla fine, prima o poi, andiamo a scontro.
“… alle querce di Mamre …”. C’è un luogo concreto, che poi in realtà così concreto non è. Gli archeologi biblici non sono ancora riusciti a definire con precisione il luogo geografico, ma la scrittura ci dà spesso indicazioni di luogo, nel primo versetto di ogni episodio, per dirci che la situazione è molto concreta, è particolare, un luogo specifico, non è… ‘ovunque’: non è come dire ‘c’era una volta un re…’ E’ dire: ‘quel signore che si chiamava…, in quel posto lì…’ Per noi è anche un’altra cosa: sappiamo dove siamo? Se dovessimo mettere oggi qui il cartello di indicazione di dove siamo in questo momento –non materialmente, ma dove ognuno è rispetto alla propria vita, saremmo in grado di dire ‘sono qua?’. Perché, per potersi incontrare, bisogna darsi un appuntamento. Uno deve sapere dove si trova per poter dire all’altro dove lo può raggiungere.
“… mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno”. Questo è il terzo elemento, attraverso cui appare il realismo della scrittura. Non c’è vita senza una fatica, senza un’ora calda. E gli incontri non avvengono mai appena siamo usciti da una clinica di bellezza o dopo una settimana di vacanza, rilassati e con tutte le nostre energie a disposizione, con il massimo della disponibilità ad incontrare qualcuno, avendo il meglio di sé da offrire. Di solito avvengono nell’ora più calda del giorno, perché, lo vedremo subito dopo, è l’ora in cui siamo sbilanciati. L’ora della fatica è quella in cui non siamo totalmente organizzati, autodeterminati.
“Appena li vide, corse loro incontro …”. Il gesto di Abramo è un gesto di squilibrio. Abramo è in sintonia con questa struttura: corre, si squilibra dall’essere seduto. Subito prima si dice: “Egli alzo gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”. Questa è l’immagine che colpisce sempre di questo brano. Il gesto dello stare in piedi è signorile e servile contemporaneamente. Dopo, Abramo resterà in piedi vicino a loro che, seduti, mangiano; è l’attitudine del servo, di colui che ha cura. Ma coloro che, arrivando in un luogo sconosciuto stanno in piedi, sono coloro che non si inchinano di fronte all’autorità altrui, ma esprimono la propria. I tre sono signorili, e sono il Signore che apparve a lui, e tre! La tradizione cristiana vede in questo particolare già tutta la dottrina della Trinità, Dio uno e trino. Certo c’è una profonda esperienza di ciascuno di noi, e cioè, nessuno di noi è mai uno, siamo tutti un po’ plurali. Quando siamo troppi, e ce lo raccontano i brani evangelici, diventiamo legione, che è un po’ pericoloso. Quando il demonio viene cacciato dice: ‘Il mio nome è legione’ Troppi è pericoloso; uno solo attiene solo a Dio; noi siamo in mezzo. tre, cinque, sette…. Ma nessuno di noi è abitato da un’anima sola e, dunque, nessuno di noi incontra mai un altro come uno solo. C’è una pluralità nell’incontro.
Questi due versetti hanno una struttura di base: c’è una distinzione necessaria, c’è un luogo necessario, c’è una fatica inevitabile, c’è una pluralità signorile che riconosce l’altro come un soggetto, che sta in piedi, e c’è uno sbilanciamento che mette in moto la storia. Se Abramo non corre, non si sbilancia, non succede niente. In tutti gli incontri, nella scrittura, c’è la descrizione di alcune premesse e poi c’è uno che cammina, o corre, uno che rompe l’equilibrio; e allora la storia comincia.
Abramo, però, fa un gesto non signorile: si prostra fino a terra. Di fronte ai tre in piedi non rimane in piedi anche lui. Riconoscere la soggettività dell’altro implica anche metterlo in condizione di debolezza, che è uno dei nostri problemi – lo dico a livello degli incontri umani, ma vale a tutti i livelli – se io riconosco che l’altro è un soggetto, libero a tutti gli effetti, che la mia vita è più grande di me, questo mi rende più fragile ai suoi occhi. Di solito ognuno di noi si difende rimanendo in piedi e cercando di far prostrare l’altro! Qui, però, per incontrare davvero l’altro, bisogna accettare uno spazio di debolezza, di fragilità, bisogna mostrare un fianco, bisogna scoprire l’armatura, perché altrimenti non si incontra l’altro. Questo vale anche rispetto alla nostra vita, che è dunque un’esperienza spesso dolorosa, perché di solito non avviene che io mi scopro, mi indebolisco e l’altro mi tratta benissimo; a volte sì, ma a volte io mi scopro e l’altro mi dà una mazzata; io non sono difeso, e mi faccio male. Non è detto che vada sempre bene. Oppure, io mi scopro rispetto alla vita perché le do fiducia, e mi arriva una roba che vivo come una mazzata, e, siccome io ho tolto lo scudo, mi fa molto male; e tutti pensiamo che sarebbe stato meglio rimanere più difesi.
La vita ci visita per grazia
“ …si prostrò fino a terra, dicendo. ‘Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo”.
Dunque Abramo si prostra e fa questo discorso stranissimo: acqua per lavarsi, cibo e ‘rinfrancatevi il cuore’. Ogni esegeta spiegherà che questo è probabilmente ritagliato da un’altra tradizione, che rimanda a tutta una serie di usi dell’ospitalità – tutto vero, come diagnosi: spiega il perché di questo linguaggio. Ma noi crediamo che la parola di Dio è parola per noi così com’è, nel risultato della sua elaborazione storica.
Dunque qui ci viene detto che misteriosamente, senza un motivo apparente, senza che ci sia stata una richiesta, senza che questi abbiano ancora aperto bocca, Abramo riconosce in questa vita che lo visita, il desiderio di trovare grazia “…è ben per questo che siete venuti”. La vita ci visita per grazia. Prima che questi abbiano detto qualsiasi parola… E mi piace pensare che questo è uno degli elementi per cui San Paolo dice che Abramo è giustificato per la fede. La sua fede ‘prima’ è la fede in questa vita che lo visita e nella scommessa che la vita che lo visita è una vita di benedizione; c’è una grazia in attesa, è per questo che la vita lo visita. Ed è certo, la fede che accompagna tutto il suo racconto. Ma, mentre per noi è molto immediato, perché consono alla nostra cultura, l’idea di Abramo che esce dalla sua terra, lascia tutto – e ci sembra un gran gesto di fiducia perché capiamo che mollare e mettersi in viaggio… è un’immagine che ci suona bene, che riconosciamo – riconosciamo con maggior difficoltà che l’esperienza della fede di Abramo è l’esperienza della fede in una vita potente, in una vita che è grazia e benedizione. La ritroveremo in un altro degli episodi che in genere non ci piacciono della storia di Abramo, che è il sacrificio di Isacco. Anche lì, di fronte ad una parola apparentemente di assoluta morte, quell’unico figlio della vecchiaia, viene chiesto in sacrificio! Per noi è troppo. Anche lì lui ha fiducia che la vita che lo visita è una vita di grazia, di benedizione. Questa è l’esperienza della fede. Non è facile! Nessuno ha mai detto che la fede sia un’esperienza facile. Come abbiamo detto tante volte, è abitare poggiando i propri piedi sul pezzo che non governiamo. L’esperienza della fede non è credere in Dio come un concetto – credo che Dio esista; potrei dire allo stesso modo, credo che Dio non esista, è uguale, è sempre un’affermazione di tipo intellettuale. Il problema non è se, intellettualmente, credo un elenco di verità, quanto piuttosto se io vivo appoggiato su quella grazia e benedizione della vita che non sta in mio potere, che mi visita e a volte mi visita sotto il segno del contrario, per esempio di una vita come quella di Isacco, in attesa, poi arrivata, e che mi viene chiesta indietro. E Abramo riesce a rimanere faticosamente, senza smettere di borbottare, da quella parte, a non ritirarsi nel pezzo della vita che lui governa e decide.
“… se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti…”. Ci sono due espressioni, una è questa, l’altra è una preghiera antica della tradizione cristiana che anche sant’Ignazio riprende, che io amo molto perché, almeno secondo la mia sensibilità, dicono molto bene l’esperienza profonda della fede cristiana: non passare oltre senza fermarti e che io non sia mai separato da te. Sono le due invocazioni di chi attende, e di chi cerca di raccogliere ciò che è un dono, ciò che non può decidere da solo. Sono il correre incontro, l’essere totalmente sbilanciato da sé. Credo che spesso noi fatichiamo ad incontrare Dio, la nostra vita, i fratelli perché raramente sappiamo chiedere ‘non passare oltre senza fermarti’.
Poi Abramo organizza un’ospitalità adatta al tempo e al luogo, mette a frutto le cose che sa, che capisce, quelle che ha in mano, non fa ragionamenti astratti, mette mano a Mamre e all’ora calda, a quello che ha. Non sta a chiedersi cosa vorrà Dio da me, qual è la mia vocazione, cosa devo fare per fare la sua volontà, ma semplicemente fa il meglio che può in quella situazione di fronte a chi ha l’apparenza di un pellegrino e dice: acqua, cibo, e riposo, ‘rinfrancatevi il cuore’. Sono queste le cose in suo potere, il pezzo della vita che gli appartiene, quello su cui lui deve decidere, muoversi, alzarsi, mettere in moto il meccanismo. E’ paradossale come noi spesso rovesciamo le due cose: decidiamo su ciò che non ci compete e poi siamo tutti seduti, calmi e tranquilli su ciò che ci competerebbe.
In fretta
“Allora Abramo andò in fretta…”. Sapete che questa è una delle mie ossessioni. Se uno facesse la recensione di quante volte c’è scritto in fretta nella scrittura, ne rimarrebbe colpito: è una delle parole più costanti, che compare continuamente. C’è sempre un’urgenza, una fretta, un punto del racconto in cui si deve fare in fretta! C’è tutta la storia della salvezza, dura quattromila anni, Dio ha grande pazienza, le cose sono tirate per le lunghe… e poi c’è un punto in cui … allora in fretta … andarono al sepolcro, …si alzò in fretta e andò da Elisabetta, … Ho sentito una volta la spiegazione di un rabbino che parlava delle prescrizioni per la Pasqua in cui si dice: mangerete con i calzari cinti, il pane non lievitato… perché non avrete avuto tempo, siete partiti in fretta… E il rabbino si domandava: ma se le prescrizioni per la Pasqua sono state date molto prima che accadesse, avrebbero avuto tutto il tempo per far lievitare il pane! Cosa vuol dire in fretta? Perché questa simbologia del dover fare in fretta? E la sua spiegazione: ‘Perché, per quanto ci prepariamo, la salvezza ci prende sempre alla sprovvista!!’.
Non c’è modo di non essere presi alla sprovvista dalla grazia di Dio. E il segno della fretta, nella scrittura, è sempre questo. Uno ha pensato, organizzato, e poi… è in ritardo. E questa è un’immagine che noi possiamo capire benissimo, perché il novanta per cento di noi campa in ritardo su qualsiasi cosa o per lo meno con la sensazione del ritardo. Spesso non è nemmeno vero che siamo in ritardo, ma viviamo sommersi, pensando sempre alle dieci cose che dobbiamo fare entro domani. Magari, poi, le facciamo in dieci minuti, ma abbiamo l’ansia perché le pensiamo tutte in fila. La salvezza è l’esatto contrario: per domani devi fare mezza cosa, hai tutto il tempo del mondo e comunque, quando quella mezza cosa sarà necessaria, la dovrai fare in fretta. Quindi, per intanto ti puoi riposare! Questo è il succo: fin che non arriva quel momento, è inutile agitarsi prima!
La custodia
Abramo prepara il pasto e, “mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono”. Questo versetto chiude la struttura dell’incontro. La seconda parte racconta una piccola storia. L’atteggiamento di Abramo che ha accolto la distinzione, sbilanciandosi nella corsa, si chiude con un atteggiamento di cura. Sbilanciarsi nell’incontro dell’altro non ha come finale, che dunque mi dicono bravo! Se io mi sbilancio nei confronti dell’altro, poi mi tocca prendermi a cuore i suoi mal di pancia. E questa è un’altra delle cose che a noi rimane un po’ indigesta, perché, va be’ io ho fatto il primo passo, adesso un po’ per uno! Invece sbilanciarsi nei confronti dell’altro, della vita, è mettere in moto il primo sassolino di una valanga. Dopo è peggio. Perché dopo non riesci più a liberarti della cura dell’altro. Sbilanciarsi è solo l’inizio della custodia dell’altro. Non è ancora il pranzo della festa, dove Abramo può festeggiare. Questo è il pranzo della custodia della diversità dell’altro, in cui la diversità dell’altro, la sua distinzione viene custodita. Infatti subito dopo, e per i buoni conoscitori della scrittura, l’assonanza è immediata, la domanda è: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Immediatamente suona come “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Sono forse io il custode di mio fratello? La risposta è Sì. Questo atteggiamento di custodia ha immediatamente una domanda: Dove? Dov’è l’altro? –non tu, l’altro. E qui: dov’è Sara, tua moglie? E’ come se ogni incontro non potesse mai funzionare se non c’è una domanda su un altrove. Dov’è quello che manca qui? Dov’è tutto il resto della vita? Dove sono i poveri?
“Dov’è Sara, tua moglie? Rispose: ‘E’ là nella tenda”. E’ più preparato di Caino; Abramo che è uomo di fede, dice, lo so dov’è Sara, è nella tenda dove stanno le donne, è nel posto giusto dove deve essere. E dunque questo riconoscimento su un luogo produce una promessa nel tempo: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”. Qui è l’immagine, la vita fiorirà, c’è una promessa di vita feconda. Ogni incontro è una promessa …in genere non mantenuta. Cioè, a noi sembra che ogni incontro è una promessa, poi però tutti ti deludono, perché non le mantengono. Infatti, il problema degli incontri non è mantenere le promesse, ma farle. Le promesse non sono fatte per essere mantenute. Le promesse della vita sono fatte perché uno possa vivere un altro anno!
Abramo e Sara erano vecchi, e c’è tutta la spiegazione parabiologica, ma, per un buon conoscitore della scrittura, anche qui, l’immagine è quella del vecchio Tobi e il giovane Tobia. Il vecchio Tobi devoto, cieco, che seppellisce cadaveri, e il giovane Tobia che si mette in viaggio e trova moglie, discendenza, salute. Abramo e Sara, prima del passaggio di questi tre personaggi, erano il vecchio Tobi; dopo sono il giovane Tobia, cioè sono capaci di abbandonare tutte le tombe, i cadaveri … e di andare verso una festa.
“Allora Sara rise dentro di sé…”. Questi versetti sono bellissimi. C’è il battibecco sul ridere di Sara. Sapete che il nome Isacco viene spiegato, come etimologia fasulla, come figlio del sorriso, proprio in relazione a questo battibecco. Sara ride. “Perché Sara ha riso? … “non ho riso”.…Come i bambini.
“…Sara negò: ‘Non ho riso!’, perché aveva paura”. La contiguità tra il ridere e la paura è strana. Sara ride un po’isterica, evidentemente, ride d’imbarazzo, ride di incertezza rispetto a questa vita. Ma la sua risata provoca un’affermazione potente: “C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore?”. La sua risata ha un bel ruolo: non prendere troppo sul serio la faccenda, e dire: discorsi da uomini, – come avrà commentato Sara – provoca un’affermazione potente che chiude il cerchio con la distinzione dell’inizio. Il fatto che ciascuno di noi non sia la propria vita, non possa governare tutto della propria vita, dice forse che ciò che non governiamo non accade? No. Ciò che non è nelle nostre mani, fortunatamente, accade. E ciò che non è nelle nostre mani sarà benedizione. Nulla è impossibile. E l’esercizio della fede è l’esercizio di non smettere mai di abitare ciò che non è nelle nostre mani, per abitare la benedizione perché nulla è impossibile a Dio. Che non vuol dire che è superman che risolve tutti i problemi. Vuol dire che ciò che sta nella sua mano è fecondo di benedizione. E’ una vita che fiorisce.
DOMANDA: hai detto: le promesse non sono fatte per essere mantenute. E’ una cosa che mi è stata un po’ lì! …Il Signore ce ne ha fatte tante. Non le mantiene?
RISPOSTA: questo non lo possiamo sapere. Lo sapremo solo l’ultimo giorno. E probabilmente, quando lo sapremo, non ci importerà più.
Il problema di una promessa non è nel suo esito, ma nella storia che la promessa produce. E’ come chiedersi, per uno che va in montagna e va a camminare: E’ più bello camminare, o arrivare? E’ una domanda sbagliata. E’ vero che è bello arrivare; però se parti e dopo due passi sei arrivato, non c’è nemmeno gusto! Il bello dell’arrivare è il fatto che dietro ci sta una camminata, hai fatto fatica, hai visto delle cose… Il bello di una camminata in realtà è fare la camminata, e poi anche arrivare. Il bello di una promessa è la storia che quella promessa mette in moto. E quando uno dice: starò con te per tutta la vira, ti amerò per sempre. Non è detto che questo accada, non sappiamo se sarà per tutta la vita. Peraltro, per sempre non può accadere, perché … siamo mortali. Ma è vero che quella promessa è il poi di tutti i giorni, di una vita giocata insieme. Dio non è credibile perché compie le sue promesse, ma perché ci fa vivere nelle sue promesse. Perché le sue promesse tessono una storia che ci consente di continuare a vivere con lui. Così come noi non siamo amabili per Dio perché l’ultimo giorno fa la somma e abbiamo più opere buone che peccati. Siamo amabili per Dio perché abbiamo vissuto ogni giorno la nostra vita più felicemente, o confusamente, o faticosamente, con lui. E dunque alla fine ci sarà detto: Vieni servo buono e fedele. In questo senso la promessa della fecondità della vita non vuol dire che, allora, da domani andrà tutto bene. La promessa sulla fecondità della vita è la possibilità di continuare ad appoggiarsi su quel pezzo di vita che ancora non so, non vedo, non è fiorito …nella certezza che fiorirà … fino all’ultimo giorno; nel dire: c’è ancora uno spazio.

Fossano, 13 ottobre 2007

(testo non rivisto dall’autore)

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