Archive pour août, 2015

Mount Athos fresco

Mount Athos fresco dans immagini sacre 3bc0a9a6b30baead76fc49a56dc3587e

https://www.pinterest.com/pin/301811612500117440/

Publié dans:immagini sacre |on 31 août, 2015 |Pas de commentaires »

LA PORTA STRETTA

http://camcris.altervista.org/medvia.html

LA PORTA STRETTA

DA UNO SCRITTO DI B. MARZANO

« Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che mena alla perdizione, e molti son quelli che entrano per essa. Stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che la trovano » (Matteo 7:13-14).
Quando Gesù pronunciò queste parole, probabilmente aveva in mente le mura che circondavano la città di Gerusalemme sulle quali erano aperte delle porte. Alcune erano molto ampie, spaziose e vi poteva passare molta gente, altre invece più strette, disagevoli, denominate addirittura « cruna di ago » per le quali non era possibile che vi passassero i cammelli.
È probabile che quando Gesù disse: « È più facile che un cammello entri attraverso una cruna di un ago che non un ricco in paradiso », abbia fatto allusione a questa porta. Gesù raccomanda a tutti quelli che vogliono seguirLo di entrare per la porta stretta, perché « larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione ».
La via e la porta che conducono alla perdizione ben possono identificarsi con la via che percorsero gli abitanti di Sodoma e Gomorra che furono distrutti dal fuoco. È la via della ribellione al Signore. Anche il diluvio universale fu causato perché tutto il popolo, tranne Noè e la sua famiglia, seguiva questa via.
È scritto nella Bibbia: « Vi è tal via che all’uomo pare diritta ma finisce col menare alla morte » (Proverbi 16:25). Un primo aspetto dunque della via larga è la via del peccato e della disubbidienza, simbolo della vita senza fede che porta alla perdizione.
Ma vi è un’altra via, percorsa da intere nazioni. È la via del cristianesimo di « moda ».
Gesù disse ad un dottore di Gerusalemme: « Se uno non è nato di nuovo non può vedere il Regno di Dio », indicando un fatto necessario ed assoluto che deve realizzarsi nella vita di tutti i cristiani: una rivoluzione che scarta i sistemi dell’uomo ed accetta quelli di Dio. Questa rivoluzione è detta « conversione » o « nuova nascita » o « rigenerazione ».
Ma sono veramente vissute queste cose da tutti i credenti, oppure il cristianesimo per la maggior parte della gente è un fatto di moda dei nostri tempi? Forse pochi di noi ricordano il falso cristianesimo che Hitler volle imporre in Germania. Si volle identificare la dottrina di Gesù con la dottrina del nazismo e ciò allo scopo di dominare le masse. Si costituì una cosiddetta chiesa tedesca.
Ma contro questo tipo di chiesa insorse la Chiesa confessante, perseguitata e clandestina, la quale fece questa solenne dichiarazione: « Gesù Cristo, nel mondo in cui viene testimoniato dalla Sacra Scrittura è l’unica Parola di Dio che noi dobbiamo ascoltare ed a cui dobbiamo fiducia ed obbedienza in vita ed in morte. Rigettiamo la falsa dottrina secondo cui la Chiesa può e deve riconoscere come fonte di predicazione.. altri avvenimenti, forze, figure e verità quali rivelazioni di Dio ».
Molti furono imprigionati e chiusi in campi di concentramento. Il pastore Bonhoeffer mentre era in prigione così diceva ad un suo compagno di prigionia: « Se mi trovassi a passare per una delle vie principali di Berlino e mi venisse incontro un pazzo alla guida di un’automobile che investe i passanti, quale sarebbe il mio compito di pastore? Seppellire i morti e curare i feriti, o cercare di fermare quel pazzo? ».
Ed il pazzo nella mente del pastore Bonhoeffer era Hitler che aveva trascinato la Germania alla guerra. Questo testimone di Cristo, morì martire perché faceva parte della chiesa clandestina. La mattina del 9 aprile 1945 fu impiccato. Prima di salire al patibolo disse: « È la fine, ma per me è l’inizio della vita ».
Il pastore Bonhoeffer si era aggiunto ai martiri della Chiesa. Aveva seguito la via stretta della rinunzia e della croce, perché gli era data la possibilità di starsene in America, ma Egli ritornò in Germania, perché qui il Signore lo chiamava. Questo esempio illustra bene il pensiero di Cristo: « Larga è la porta e spaziosa la via che mena alla perdizione… Stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi son quelli che la trovano ».
Queste parole devono mettere tutti i cristiani in guardia affinché si domandino continuamente come meglio possono servire Gesù.
A ciascuno piace vivere secondo le regole del mondo e le cose che fanno i molti: vivere una vita tranquilla, con soli svaghi e divertimenti. Una vita cristiana regolata in questo senso, non è conforme all’insegnamento di Gesù Cristo: questa è proprio la via larga!
Gesù dice che bisogna imboccare la via stretta. E la via stretta è Lui stesso, che dopo tre anni di ministero terreno si è trovato attorniato soltanto da poche donne ed un esiguo gruppo di discepoli. « Io sono la via » e per molta gente non torna troppo a loro comodo seguire Colui che è la via che l’ha fatto essere l’uomo di dolori, vilipeso e sputato, coronato di spine e fatto morire su una croce. Ancora un giorno Egli così si espresse: « Gli uccelli del cielo hanno i loro nidi, le volpi hanno le loro tane, ma il figliuolo dell’uomo non ha neanche una pietra su cui posare il capo ». Essere discepolo di Gesù significa vivere e « camminare come Egli camminò ». Domandiamolo a tutte le genti della terra se siano disposte ad accettare con allegrezza questo insegnamento.
Se a tutti piace passare per la porta larga, dove non sono previste difficoltà, Gesù viene a capovolgere i nostri pensieri e ci dice di entrare per la porta stretta e camminare per la via angusta. È la via della fede secondo cui l’uomo non può più seguire la propria volontà egoistica ma segue il Signore ubbidendoGli in ogni cosa. È la via stretta dell’osservanza dei precetti evangelici, del lasciare tutto e diventare « ultimo » per amore dei fratelli.
Ricordiamoci però che il Regno dei cieli non è una conquista fatta da carne e sangue, ma un dono della grazia di Dio. Pertanto continua sarà la nostra preghiera a Dio affinché ci sostenga nel nostro cammino con Lui.

Publié dans:MEDITAZIONI BIBLICHE |on 31 août, 2015 |Pas de commentaires »

DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

ALBERTO PIOLA

Introduzione
Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».

L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

morte di Santa Monica, dettaglio

morte di Santa Monica, dettaglio dans immagini sacre jpg_MORT-STE-MONIQUE.4

http://rouen.catholique.fr/spip.php?article1837

Publié dans:immagini sacre |on 27 août, 2015 |Pas de commentaires »

27 AGOSTO: SANTA MONICA (331-387) : MADRE DI TANTE LACRIME

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/07-Luglio/Santa_Monica.html

27 AGOSTO: SANTA MONICA (331-387)

MONICA: MADRE DI TANTE LACRIME

Molte mamme di oggi non vivono tempi facili.
Non è stato facile nemmeno per Monica, la santa che ricordiamo nel mese di agosto. Anche lei ha dovuto tribolare non poco per il figlio Agostino.
Con un figlio adolescente in casa è difficile dormire sempre sonni tranquilli. Questo perché alcuni comportamenti dei figli sono fonte di apprensione e di preoccupazioni, di angoscia e di lacrime.
Educare un figlio o una figlia adolescente nella civiltà contadina e pre-industriale riservava meno problemi di oggi. La nostra società post-moderna (e qualcuno aggiunge anche post-cristiana) si qualifica per la sua forte connotazione consumistica. E nel grande mare del consumismo i giovani nuotano molto bene, grazie al sostegno finanziario dei genitori, spesso acriticamente generosi. Con i soldi facili (talvolta troppo facili) a portata di mano e con una personalità ancora non strutturata in quanto a valori e forza di volontà, l’adolescente cade più facilmente vittima dell’uso e dell’abuso del fumo, dell’alcol e della droga, dei divertimenti aggressivi e pericolosi, dei comportamenti devianti sfocianti, talvolta, nella prostituzione e nell’Aids. E i primi a essere angosciati e distrutti da queste tragedie sono i genitori.
Alcune mamme versano lacrime per i figli persi perché vittime delle sette pseudo religiose, o schiavi dei giochi d’azzardo, o diventati succubi delle cattive compagnie che li porteranno alla devianza sociale e ai guai con la legge. Altre piangono per i figli in carcere per propria colpa o all’ospedale per malattie incurabili di cui non hanno colpa.
Aspettate il prossimo fine settimana con la cosiddetta “febbre del sabato sera”, e ci sarà qualche mamma che in ansia aspetterà il ritorno del figlio o della figlia dalla discoteca (lo “sballo” settimanale). Purtroppo qualcuna cambierà la propria ansia in lacrime e dolore: il figlio che aspetta non tornerà più perché è già entrato nelle statistiche delle “vittime del sabato sera”.
A tutte queste mamme in difficoltà Monica, madre anche lei, può essere di aiuto e di conforto, di speranza e di esempio. Il figlio Agostino riconobbe che grande merito della propria conversione era della madre, grazie alle sue continue preghiere e alle tante lacrime versate. Si riferiva a questo fatto quando, nelle famose Confessioni, scrisse: “Non è possibile che un figlio di tante lacrime perisca”. E le tante lacrime erano di Monica e quel figlio che non poteva perire era lui stesso, Agostino.

Monica vinse il vino e convertì il marito
Monica nacque a Tagaste nell’odierna Algeria del nord, nell’anno 331, da genitori cristiani, ma che non erano eccessivamente preoccupati di dare una seria educazione cristiana ai figli (come molti genitori oggi). Se nel caso di Agostino l’educatrice alla fede e alla vita cristiana di ogni giorno fu la madre Monica, per quest’ultima fu invece la nutrice di famiglia, che aveva già tenuto in braccio suo padre.
Questa donna era quindi parte della famiglia, ben voluta, di ottima condotta e saggezza. E possiamo immaginare anche un po’ anziana. Agostino fa un grande elogio di lei: “Era energica nel punire con santa severità quando era opportuno e ricca di saggezza nell’istruire”. La dottrina del permissivismo in educazione, seguita da non pochi genitori ed educatori di oggi, non faceva parte del bagaglio di questa nutrice: era severa ma con saggezza, correggeva ma con tatto, sapeva anche punire ma con giustizia. Nei migliori trattati di pedagogia non deve mancare un capitolo sui “castighi” e giustamente. Questo anche perché il peccato originale e le sue conseguenze sono una verità di fede, e non è stato ancora cancellato (o superato) dalla tecnologia moderna. Del resto di castighi ne parlava un super educatore come Don Bosco, che di ragazzi se ne intendeva. Dice Agostino che la nutrice di sua madre era saggia nell’istruire e coscienziosa quando doveva correggerla.
Monica non era nata santa, lo diventò con pazienza, con costanza ed umiltà. Nella sua vita non riscontriamo, come in altre sante, una partenza bruciante sulla strada della perfezione evangelica fin da fanciulla. Aveva i propri difetti e difficoltà che seppe superare. Un esempio: a Monica piaceva il vino. E non poco. L’aveva raccontato lei stessa, nella sua grande umiltà, al figlio Agostino. Questo è segno di santità: “Quando i genitori credendola sobria, le ordinavano secondo i costumi, di andare ad attingere vino, ella, prima di versare il vino nel fiasco… ne beveva un pochino”. Solo un po’, naturalmente. All’inizio. Ma bevi oggi, bevi domani, la debolezza era diventata un’abitudine negativa, una schiavitù (oggi si direbbe una dipendenza).
La nutrice, alla quale non sfuggiva nulla e che aveva intuito tutto, ebbe il coraggio di intervenire. Un giorno, bisticciando con la ragazza le rinfacciò quella debolezza chiamandola “ubriacona”. Qualche “padroncina” di oggi avrebbe minacciato rappresaglie feroci o addirittura il licenziamento per quella “vecchia domestica” che osava tanto e non si faceva gli affari suoi. Monica invece accettò la verità anche se le faceva male, riconobbe l’abitudine non lodevole, e se ne liberò. Anche questo è santità.

Tante preghiere e lacrime per il figlio Agostino
Nel 353 Monica andò sposa ad un certo Patrizio, romano, dal quale avrà tre figli. Questi non era cristiano, aveva un carattere un po’ violento e non era nemmeno un buon esempio di fedeltà. Una donna meno forte e convinta nella fede cristiana avrebbe invocato subito la separazione o il divorzio. Monica no, voleva rimanere fedele al proprio matrimonio (“nella buona e nella cattiva sorte”) ma senza chiudere gli occhi sulle “malefatte” del suo compagno di vita.
E così la seconda battaglia che lei vinse, dopo il vino, fu quella del marito. Battaglia paziente, dolorosa, lunga, ma vittoriosa: riuscì infatti a guadagnare al Signore anche lui. Questi morirà nel 371, dopo essere diventato buon cristiano grazie alla preghiera incessante, alle lacrime e alla pazienza della moglie Monica. Scrisse Agostino: “Così non ebbe più da piangere quelle sue infedeltà che aveva dovuto tollerare quando egli non era ancora credente”. Anche questo è santità.
Ma la più grande sofferenza e nello stesso tempo la più grande gioia a Monica arriveranno dal figlio Agostino. Lei stessa l’aveva educato cristianamente, con la parola e con l’esempio, gli aveva messo nel cuore e sulle labbra fin da bambino il nome di Gesù, che nonostante tutte le peripezie filosofiche ed esistenziali, non dimenticherà mai.
Già qualche anno prima della morte del marito, quel figlio tanto intelligente le dava molte preoccupazioni. Sarà lei stessa che nel 371 lo manderà a Cartagine a proseguire gli studi. E sarà nello stesso anno che Agostino incomincerà la convivenza (come si vede era molto “moderno”) con una donna, dalla quale, l’anno dopo, avrà anche un figlio, Adeodato. Questa scelta fuori dal matrimonio fu per Monica un duro colpo: vedeva infatti il figlio allontanarsi dagli insegnamenti che gli aveva dato e anche dalle regole della propria fede cristiana (era nel frattempo passato all’eresia manichea). Per questi motivi, tornato a Tagaste lei, pur tra le lacrime, in un primo tempo non volle riaverlo in casa, finché confortata da un sogno, lo riammise presso di sé.

Agostino convertito: missione compiuta
Nel 375 Agostino si trasferì a Cartagine per insegnarvi eloquenza, mentre dopo l’incontro col vescovo manicheo Fausto, cominciava la sua crisi filosofica. Monica continuò sempre a invitarlo al ritorno alla vera fede, e non cesserà mai di pregare, tra le lacrime, per la conversione del figlio.
Questi invece, con uno stratagemma, riuscì a sfuggirle, imbarcandosi nottetempo per Roma (383), dove, dopo aver superato una lunga malattia, cominciò ad insegnare eloquenza e retorica. Finché ottenne un posto, tramite il prefetto di Roma Simmaco, a Milano.
Forse Agostino credeva che più andava verso nord, più la madre rimaneva… lontana. E si sbagliava di grosso. Monica non aveva ormai nessun interesse, nessuna preoccupazione, nessun obiettivo terreno che la sua conversione. E questo amore, anche se tra le lacrime, non si lasciava spaventare dalle distanze e dai disagi che comportavano i viaggi di allora. E così Monica, per amore del figlio prodigo, fuggito lontano, dopo aver viaggiato con il mare in tempesta, arrivò nell’anno 385 a Milano, accompagnata da Navigio, fratello di Agostino.
Qui la Mano Provvidenziale di Dio li aspettava entrambi con l’incontro con il vescovo della città, Ambrogio “un uomo di Dio”, e un “vescovo noto in tutto il mondo”. Tutti e due seguirono le sue omelie, tutte e due rimasero molto bene impressionati (anche se Agostino all’inizio badava più alla forma retorica che alla sostanza). Ambrogio predicava, Monica pregava (e faceva opere di carità), Agostino pensava, e passava di crisi in crisi e di filosofia in filosofia, dal manicheismo allo scetticismo, dai neo accademici e ai neoplatonici. La grazia di Dio intanto, per vie misteriose come sempre, lavorava su tutti.
La tanto sospirata conversione di Agostino arrivò alla fine del 386, e con il battesimo suo (e del figlio Adeodato) per mano del vescovo Ambrogio nella Pasqua del 387. Questo era il sigillo sul grande travaglio di Agostino nella sua ricerca della verità, e la fine delle tante preghiere e lacrime di Monica per lui. Missione compiuta. Non aveva altri obiettivi terreni. Il Paradiso, questa volta, non poteva più attendere.
Alcuni mesi dopo il battesimo infatti progettarono di tornare in patria. Arrivati ad Ostia tutti e due, madre e figlio convertito, ebbero la famosa estasi di cui si parla nelle Confessioni. Era un piccolo saggio (di Dio) e assaggio per loro di vita eterna, che cambiò la prospettiva di vita per entrambi. Così Agostino riferisce le ultime parole della madre: “C’era una cosa sola per la quale desideravo rimanere un poco su questa terra: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me lo ha concesso abbondantemente, perché ti vedo divenuto suo servo che addirittura disprezza la felicità terrena. Che cosa dunque sto a fare qui?”. Infatti moriva poco dopo, sempre a Ostia, all’età di 56 anni, mentre Agostino ne aveva 33, e stava per cominciare la sua prodigiosa opera. Grazie alla perseveranza, alla pazienza, al coraggio, alle preghiere e alle “tante lacrime” di una grande donna e di una grande madre, Monica.

MARIO SCUDU sdb ***

Pochi giorni dopo l’estasi di Ostia (piccolo assaggio della Patria definitiva o Paradiso) Monica colpita dalla febbre, si mise a letto, e si preparò all’incontro con Dio, che lei desiderava con tutte le forze. Non aveva nessuna preoccupazione né di morire né di essere lontano dalla sua terra, dove aveva preparato con cura la propria tomba accanto al marito. Fece solo una raccomandazione ai presenti: si ricordassero di lei nell’Eucarestia. Alla domanda se non aveva paura di lasciare il proprio corpo in terra straniera, così lontana dalla propria patria, lei rispose: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non ritrovi il luogo da cui risuscitarmi” (Dalle Confessioni 9).

Pochi giorni prima che lei morisse… accadde, credo per misteriosa disposizione delle tue vie, che ci trovassimo lei ed io soli… C’era un grande silenzio… Parlavamo, fra noi, soavissimamente, dimentichi del passato e protesi verso l’avvenire. Ci domandavamo, davanti alla presenza della verità e cioè di te, o Signore, quale fosse mai quella vita eterna dei beati che “nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana”. Aprivamo avidamente il nostro cuore al fluire celeste della tua fonte, la fonte della vita, che è in te, per esserne un poco irrorati, per quanto era possibile alla nostra intelligenza, e poterci così formare un’idea di tanta sublimità.
Eravamo giunti alla conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno nominato; ci rivolgemmo poi con maggior intensità d’affetto verso l’“Ente in sé”, ripercorrendo a poco a poco tutte le creature materiali fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle mandano la loro luce sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nell’esaltazione, nell’ammirazione delle tue opere; e arrivammo al pensiero umano, e passammo oltre, per raggiungere le regioni infinite della tua inesauribile fecondità, nelle quali nutri Israele con il cibo della verità, dove la vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose presenti, passate e future: ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi meglio, non esiste in lei un “fu”, un “sarà”, ma solo “è”, perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. E mentre parlavamo e anelavamo ad essa la cogliemmo un poco con lo slancio del cuore e sospirando vi lasciammo unite le primizie dello spirito per ridiscendere al suono delle nostre labbra, dove la parola trova il suo inizio e la sua fine. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (Confessioni X).

Sarleinsbach ( Upper Austria ). Saint Peter parish church – detail: Sacrifice of Melchizedek.

Sarleinsbach ( Upper Austria ). Saint Peter parish church - detail: Sacrifice of Melchizedek. dans immagini sacre 800px-Sarleinsbach_Pfarrkirche_-_Hochaltar_4

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sarleinsbach_Pfarrkirche_-_Hochaltar_4.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 26 août, 2015 |Pas de commentaires »

UN RITRATTO DI MELCHISEDECH – 26 AGOSTO (mf)

http://www.templarisanbernardo.org/Melchisedech%20-%20Melchisedek.htm

UN RITRATTO DI MELCHISEDECH – 26 AGOSTO (mf)

L’articolo è tratto da Jean Daniélou, I santi pagani dell’Antico Testamento, trad. it. a cura di F. Savoldi, Queriniana, Brescia 1988, pp. 107-113 (ed. or. Paris 1956).
Tra le grandi figure non ebraiche dell’Antico Testamento, Mechisedech è una delle più eminenti. La Genesi non gli consacra che un breve paragrafo, carico però di significato (14,18-20), il Salmo 109 ci mostra in lui il modello del «sacerdote eterno», la Lettera agli Ebrei gli consacra numerosi passi. I Giudei cercheranno di diminuirlo a profitto di Abramo [1]. Ma i cristiani esaltano in lui l’immagine del sacerdozio del Cristo e le primizie della Chiesa delle nazioni [2].
La festa di san Melchisedech è celebrata il 25 aprile. Una chiesa gli è consacrata a Salem di Samaria, che la pellegrina Eteria visita nel IV secolo (Cronaca del viaggio, 13-14). La Preghiera eucaristica I menziona il suo sacrificio tra quelli di Abele e di Abramo.
Attorno alle brevi e misteriose righe della Genesi, si costruiscono meravigliose leggende. Il Libro dei Segreti di Enoc, uno scritto giudeo- cristiano del secondo secolo, gli attribuisce una concezione miracolosa e lo mostra sottratto alla morte e sollevato in Cielo dall’Arcangelo Michele [3]. La Caverna dei tesori siriaca ne fa un precursore di Giovanni Battista [4]. Alcuni gnostici, i Melchisedechiani, vedranno in lui una manifestazione dello Spirito santo [5].
Ma la realtà è ancor più mirabile. Melchisedech è il grande Sacerdote della religione cosmica. Egli raccoglie in sé tutto il valore religioso dei sacrifici offerti dalle origini del mondo sino ad Abramo e attesta il gradimento di Dio. Melchisedech è «il sacerdote dell’Altissimo, che ha fatto il cielo e la terra» (Gen. 14,13). Egli conosce il vero Dio, non sotto il nome di Jahvé, che sarà rivelato a Mose per esprimere le ricchezze nuove che l’alleanza manifesta, ma sotto il nome di El, che è quello del Dio creatore, conosciuto attraverso la sua azione nel mondo. Ed è questa un’ulteriore attestazione della conoscenza di Dio attraverso il cosmo che già Enoc ci aveva mostrato.
Melchisedech è sacerdote di questa prima religione dell’umanità, che non è limitata ad Israele, ma che abbraccia tutti i popoli. Egli non offre il sacrificio nel Tempio di Gerusalemme, ma il mondo intero è il Tempio da cui si innalza l’incenso della preghiera [6]. Egli non offre il sangue dei montoni e dei tori, il sacrificio espiatorio, ma offre la pura oblazione del pane e del vino, il sacrificio di ringraziamento.
Ed è proprio il ringraziamento che egli offre, per la vittoria di Abramo, al quale Dio lo ha inviato. Egli riceve la decima da Abramo, cioè la parte prelevata su tutti i beni, per servire al culto di Dio. Se Abramo è l’iniziatore di un’alleanza nuova e più perfetta, rende però omaggio alla legittimità di questa prima alleanza tra le mani del suo gran sacerdote.
Ci si ricorda, in un altro momento della storia, di Gesù che riceve sulle rive del Giordano il battesimo da Giovanni Battista prima di vederlo inchinarsi davanti a lui [7]. Egli è re e sacerdote raccogliendo in sé le due unzioni che saranno divise, tra David e Aronne, e non saranno più raccolte che in Gesù. Così, senza alcun bisogno di fare appello alla leggenda, ci appare la grandezza di Melchisedech.
Il sacrificio è l’azione religiosa per eccellenza, l’atto con il quale l’uomo riconosce il sovrano dominio di Dio su di sé e su tutte le cose, con l’offerta delle primizie dei suoi beni, come faceva Abele, agli inizi del mondo, offrendo le primizie dei suoi greggi. Così, alle origini dell’umanità, sorgono i due gesti essenziali. Abele che inventa il rito e Caino che fabbrica l’utensile, i due gesti le cui vestigia attesteranno dopo millenni la presenza dell’uomo.
Dappertutto dove vi è sacrificio vi è religione, e dove non vi è sacrificio, azione sacerdotale, non vi è religione. La religione è infatti l’atto stesso per cui l’uomo riconosce la sua totale appartenenza a Dio. E il sacrificio è l’espressione visibile, il sacramento di questo atto interiore di adorazione.
Questo gesto lo ritroviamo presso tutti i popoli del mondo. Esso appare nella forma più elementare nei popoli dell’Africa o dell’ Australia, raggiunge la più alta vetta d’interiorità in India dove Brahma, il flamen latino, diviene un nome della divinità. Esso rivestirà a volte forme barbare, nel sacrificio di fanciulli al Moloch fenicio o nei sacrifici di prigionieri alle divinità azteche. Ma per quanto ingenuo o pervertito, esso resterà sempre l’espressione dell’ esigenza più irreprimibile dell’uomo, quella di mantenere il suo legame con Dio da cui proviene, e che è la ratifica stessa della sua esistenza.
La grandezza di Melchisedech non è solo di essere la più perfetta espressione del suo ordine proprio, ma di essere la figura di colui che sarà il gran sacerdote eterno e che offrirà il perfetto sacrificio. È quanto annunciava, in un testo importantissimo, il Salmo 109: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedech». Il Salmista annunciava così che alla fine dei tempi sarebbe apparso l’ultimo grande sacerdote, colui che sarebbe stato il gran sacerdote in eterno, perché avrebbe esaurito la realtà del sacerdozio e perché non sarebbe stata possibile l’esistenza di altri dopo di lui.
È questo testo che la Lettera agli Ebrei applicherà a Gesù, attestando come si realizzi in Lui (4,6). Bisogna rileggere il testo straordinario in cui la Lettera agli Ebrei ci mostra in Melchisedech la figura del Cristo: «Or questo Melchisedech, re di Salem, Sacerdote del Dio Altissimo, che andò incontro ad Abramo, mentre ritornava dopo aver sconfitto vari re e lo benedì, a cui Abramo dette la decima di ogni cosa, il cui nome significa prima di tutto “Re di giustizia”, e per di più è Re di Salem, cioè “Re di pace”, senza padre, madre, senza antenati, e del quale si ignora il principio e la fine, questo Melchisedech, vera figura del Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre» (7,1-3).
Così per Paolo i titoli stessi di Melchisedech si caricano di un misterioso simbolismo, la giustizia e la pace si riuniscono in lui, la giustizia e la pace di cui il Salmo 84,11 dice che si sono abbracciate. Non è però questo il fatto più strano. Paolo sembra mostrarci Melchisedech quasi sorgente nel mondo «senza padre e senza madre». Non ne fa in qualche modo un personaggio celeste? In realtà Paolo parte qui dal fatto notevole che a differenza degli altri personaggi della Bibbia, di cui ci vengono date lunghe genealogie, Melchisedech non è collegato ad alcuna razza e non gli si dà alcuna discendenza. Ciò non significa minimamente, per Paolo, che egli non abbia avuto in realtà antenati e discendenti. Ma l’assenza di una loro menzione nella Bibbia appare a Paolo come una figura di colui che non avrà padre perché viene dal cielo, e che non si iscriverà in una successione sacerdotale [8].
San Paolo vuol sottolineare qui un tratto essenziale del sacerdozio di Cristo, che è di essere definitivo, in modo che egli è il gran sacerdote eterno, dopo il quale non ve n’è un altro. Per questo oppone il sacerdozio di Melchisedech, che non rientra in una successione, a quello di Aronne, che invece vi rientrava. La successione dei sacerdoti nel sacerdozio levitico ne sottolineava l’imperfezione: «Se la perfezione fosse stata realizzata con il sacerdozio levitico, quale necessità c’era che sorgesse un altro sacerdote, secondo l’ordine di Melchisedech?» (Eb 7,11).
Essi avevano dei predecessori e dovevano avere dei successori: «I sacerdoti ebrei formano una lunga serie, perché la morte impediva loro di essere duraturi» (7,23 ) [9]. A ciò si oppone il sacerdozio del Cristo: «Gran sacerdote dei beni futuri, è entrato una volta per sempre nel Santuario dei cieli, dopo averci ottenuta una redenzione eterna» (9,11).
Egli è sacerdote per sempre, poiché il sacrificio che ha offerto è acquisito per sempre. I sacrifici che venivano offerti fino ad allora esprimevano lo sforzo dell’uomo di riconoscere la sovranità divina. Ma il loro sforzo non aveva successo a causa dell’eccessiva sproporzione tra la fragilità dell’uomo e la santità di Dio. Sacrifici pagani di Melchisedech, sacrifici ebraici di Aronne, tutti si urtavano contro la soglia invalicabile. Essi non penetravano nel santuario, e la loro stessa ripetizione ne attestava il fallimento.
Per questo, nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio, unito alla natura dell’uomo da un legame indistruttibile, si è fatto obbediente fino alla morte e fino alla morte della croce, manifestando con la sua obbedienza l’infinita amabilità della volontà divina e rendendo così a Dio una gloria perfetta. Ora la gloria di Dio è il fine stesso della creazione.
Così, nell’azione sacerdotale di Gesù Cristo, Dio è stato perfettamente glorificato in modo che nessuna gloria nuova gli può essere data. Tutti gli altri sacrifici sono così aboliti e noi non potremo ormai offrire al Padre che l’unico sacrificio di Gesù Cristo, di cui ogni eucaristia è il sacramento attraverso l’unico sacerdozio di Gesù Cristo, di cui ogni sacerdozio è la partecipazione. Abolendo però così tutti i sacrifici antichi, Gesù Cristo non li distrugge, ma li compie. Attraverso lui tutti i sacrifici di tutte le nazioni, ogni sforzo dell’uomo per glorificare Dio è rivolto al Padre e giunge sino a Lui: «Per ipsum et cum ipso et in ipso est tibi Deo Patri omnipotenti omnis honor et gloria».
E la menzione del sacrificio di Melchisedech, «sanctum sacrificium, immaculatam hostiam», nella Preghiera eucaristica I, attesta che non sono solo i sacrifici del Tempio d’Israele, ma anche quelli del mondo pagano che sono così ripresi e assunti nel sacrificio del Sommo Sacerdote eterno.

12345...9

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01