Le donne e Gesù

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LA FORTEZZA (Opus Dei)
Essere forti d’animo aiuta ad accettare le difficoltà e a superare i nostri limiti. Per i cristiani, Cristo è l’esempio per vivere una virtù che apre la porta a molte altre.
TESTI DI VITA CRISTIANA17 settembre 2012
1. “Per aspera ad astra!”
“Attraverso le difficoltà si arriva alle stelle”. Questa ben nota frase di Seneca esprime in modo significativo l’esperienza umana secondo cui, per ottenere il meglio, bisogna impegnarsi, e perciò, “quello che vale costa”; per poter raggiungere i beni più alti è necessario lottare per superare gli ostacoli e le asperità che continuamente si presentano nel corso della vita.
Molte pagine letterarie di culture diverse esaltano la figura dell’eroe, che in qualche modo incarna quella frase della sapienza latina che qualunque persona vorrebbe riferita anche a sé: nihil difficile volenti, nulla è difficile per colui che vuole.
Così, dunque, a livello umano, la fortezza è apprezzata e ammirata. Questa virtù, che va sempre unita alla capacità di sacrificarsi, anche fra gli antichi godeva di un profilo ben definito. Il pensiero greco considerava la “andreia” come una delle virtù cardinali[1], che modera i sentimenti di contesa caratteristici dell’appetito irascibile, e così dà vigore all’uomo che cerca il bene, anche se è cosa difficile e ardua, senza che il timore lo trattenga.
2. “Quia tu es fortitudo mea” (Sal 31, 5)
Fa parte anche dell’esperienza umana la constatazione della debolezza della nostra condizione, che in un certo senso costituisce l’altra faccia della moneta della virtù della fortezza. Molte volte dobbiamo riconoscere che non siamo stati capaci di compiere certi lavori che in teoria erano alla nostra portata.
In noi stessi troviamo la tendenza a sgomentarci, a essere deboli con noi stessi, a rinunciare a essere laboriosi per l’impegno che questo comporta. In altre parole, la natura umana, creata da Dio per le cose più elevate, ma ferita poi dal peccato, è capace di grandi sacrifici ma anche di grandi cedimenti.
La rivelazione cristiana offre una risposta piena di significato alla condizione paradossale nella quale versa la nostra esistenza. Per un verso, infatti, essa assume i valori che sono propri della virtù umana della fortezza, che è lodata in numerose occasioni nella Bibbia. Già la letteratura sapienziale si faceva eco di ciò, facendo capire, sotto forma di una domanda retorica nel libro di Giobbe, che la vita dell’uomo sulla terra è milizia[2].
Con una frase in certo qual modo misteriosa, Gesù dice, parlando del Regno di Dio, che se ne impadroniscono i violenti: violenti rapiunt[3]. Questa idea è rimasta riflessa nell’iconografia medievale, come si può vedere, per esempio, nella cappella di tutti i santi a Ratisbona, dove l’immagine che rappresenta la fortezza lotta contro un leone.Nello stesso tempo, sono numerosi i testi della Scrittura che sottolineano come le diverse manifestazioni di un comportamento forte (pazienza, perseveranza, magnanimità, audacia, fermezza, franchezza, e anche la disposizione di dare la vita) provengono da Dio e possono essere mantenute soltanto se sono ancorate in Lui: quia tu es fortitudo mea, perché Tu sei la mia fortezza (Sal 31, 5)[4]. In altre parole, l’esperienza cristiana insegna che “tutta la nostra forza ci è data in prestito”[5].
San Paolo esprime in modo adeguato questo paradosso, nel quale s’intrecciano gli aspetti umani e quelli soprannaturali della virtù: “quando sono debole, è allora che sono forte”, perché, come gli ha assicurato il Signore: “sufficit tibi gratia mea, nam virtus in infirmitate perficitur, ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”[6].
3. “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 5)
Il modello e la sorgente della fortezza per ogni cristiano, pertanto, è Cristo stesso, che non solo con le sue azioni dà un esempio costante che arriva addirittura a dare la propria vita per amore agli uomini[7], ma che inoltre afferma: “senza di me non potete far nulla”[8].
Così la fortezza cristiana rende possibile la sequela di Cristo, un giorno dopo l’altro, senza che il timore, il prolungarsi dello sforzo, le sofferenze fisiche o morali, i pericoli, offuschino nel cristiano la percezione che la vera felicità consiste nell’aderire alla volontà di Dio e lo allontanino da essa. Gesù ci ha avvertiti chiaramente: “Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”[9].
4. “Beata quae sine morte meruit martyrii palmam”: il martirio della vita quotidiana
Fin dall’inizio i cristiani considerarono un onore subire il martirio, perché riconoscevano che equivaleva a una piena identificazione con Cristo. Nel corso della storia la Chiesa ha conservato una tradizione di particolare venerazione per i martiri, che per una disposizione speciale della Provvidenza hanno sparso il loro sangue per proclamare la loro adesione a Gesù, dando così il più alto esempio non solo di fortezza, ma anche di testimonianza cristiana[10].
Anche se in ogni era storica, compresa la nostra, questo tipo di testimoni del Vangelo non sono mancati, è anche vero che, nella vita normale nella quale si trova la maggior parte di noi cristiani, difficilmente si daranno in queste condizioni.
Pur tuttavia, come ricordava Benedetto XVI, esiste anche un “martirio della vita quotidiana”, della cui testimonianza il mondo di oggi ha particolarmente bisogno: “la testimonianza silenziosa ed eroica di tanti cristiani che vivono il Vangelo senza compromessi, compiendo il loro dovere e dedicandosi generosamente al servizio dei poveri”[11].
In tal senso, lo sguardo si rivolge a Santa Maria, perché è stata ai piedi della Croce di suo Figlio, dando un esempio di straordinaria fortezza senza subire la morte fisica, sicché può ben dirsi che fu martire senza morire, secondo il tenore di un’antica preghiera liturgica[12]. “Ammira la fortezza della Madonna: ai piedi della Croce, con il più grande dei dolori umani – non c’è dolore come il suo dolore – piena di fortezza. – Chiedile questo vigore, per saper stare anche tu presso la Croce”[13].
5. “Omnia sustineo propter electos” (2 Tm 2, 10)
La Madonna Addolorata è testimone fedele dell’amore di Dio e illustra molto bene l’azione che più caratterizza la virtù della fortezza, che consiste nel resistere (sustinere)[14] alle avversità, alle cose spiacevoli, dolorose. Naturalmente si tratta di un resistere nel bene, perché senza il bene non c’è felicità. Per un cristiano la felicità s’identifica con la contemplazione della Trinità nel cielo.
Nella Madonna trovano compimento le parole del Salmo: si consistant adversum me castra, non timebit cor meum…, se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme[15]. Anche san Paolo, prima di arrivare alla suprema testimonianza di Cristo, si esercitò durante la sua vita in questo atto caratteristico della fortezza, tanto da poter affermare: “sopporto ogni cosa per gli eletti”[16].
Per esprimere questo aspetto della virtù (la resistenza), la Sacra Scrittura suole riferirsi alla immagine della roccia. In una delle sue parabole Gesù allude alla necessità di costruire sulla roccia, vale a dire, non solo ascoltare la sua parola, ma sforzarsi di metterla in pratica[17]. Si intende che, in fin dei conti, la roccia è Dio, come non cessa di ripetere l’Antico Testamento[18]: “Il Signore è mia roccia, mia fortezza, mio liberatore; il mio Dio, la mia rupe in cui mi rifugio, il mio scudo, la mia salvezza!”[19]. Non ci meraviglia allora che san Paolo arrivi ad affermare che la roccia è Cristo stesso[20], il quale è “potenza di Dio”[21].
La fortezza per resistere alle difficoltà proviene, dunque, dall’unione con Cristo mediante la fede, come dice san Pietro: resistite fortes in fide!, resistete saldi nella fede[22]. In tal modo si può dire, in un certo senso, che il cristiano si trasforma, come Pietro, nella roccia sulla quale Cristo si appoggia per edificare e sostenere la sua Chiesa[23].
6. “In patientia vestra possidebitis animas vestras” (Lc 21, 19)
Fa parte della fortezza la virtù della pazienza, che Joseph Ratzinger ha descritto come “la forma quotidiana dell’amore”[24]. La ragione per la quale nel cristianesimo a questa virtù si è data tradizionalmente un’importanza notevole si può dedurre da una frase di sant’Agostino nel suo trattato sulla pazienza, in cui la descrive come “un dono così grande di Dio, che deve essere proclamata come una impronta di Dio che è rimasta in noi”[25].
La pazienza, dunque, è una caratteristica del Dio della storia della salvezza[26], come insegnava Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato: “Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini”[27].
Da questa considerazione si possono trarre molte conseguenze pratiche. La pazienza induce a saper soffrire in silenzio, a sopportare le contrarietà dovute alla fatica, al carattere degli altri, alle ingiustizie, ecc. La serenità d’animo rende altresì possibile che cerchiamo di farci tutto a tutti[28], adattandoci agli altri, portando con noi il nostro modo di essere personale, il modo di essere di Cristo. Proprio per questo ogni cristiano si adopera perché non sia messa in pericolo la propria fede e la propria vocazione per un’erronea concezione della carità, sapendo che – per utilizzare una espressione colloquiale – egli può arrivare fino alle porte dell’inferno, ma non oltre, perché al di là non si può amare Dio. In tal modo si adempie la frase di Gesù: “con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”[29].
7. “Chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (Mt 10, 22)
La pazienza è in stretta relazione con la perseveranza. Quest’ultima suole essere definita come la persistenza nell’esercizio di opere virtuose malgrado le difficoltà e la stanchezza dovute al loro protrarsi nel tempo. Più precisamente, si suole parlare di costanza quando si tratta di vincere la tentazione di abbandonare l’impegno per l’apparizione di un ostacolo preciso; si parla invece di perseveranza quando l’ostacolo è semplicemente il protrarsi nel tempo di detto impegno[30].
Non si tratta soltanto di una qualità umana, necessaria per raggiungere obiettivi più o meno ambiziosi. La perseveranza, a imitazione di Cristo, che fu obbediente al disegno del Padre fino alla morte[31], è necessaria per la salvezza, secondo le parole evangeliche: “chi persevererà sino alla fine sarà salvato”[32]. Si capisce allora quanto sia vera l’affermazione di san Josemaría: “Cominciare è di tutti; perseverare è dei santi”[33]. Da ciò discende l’amore di questo santo sacerdote per il lavoro accurato, che descriveva come un saper mettere le “ultime pietre” in ogni attività realizzata[34].
“Ogni fedeltà deve passare attraverso la prova più esigente: quella della durata [...]. È facile essere coerente per un giorno, o per alcuni giorni [...]. Ma si può chiamare fedeltà solo una coerenza che dura per tutta la vita”[35]. Queste parole del Servo di Dio Giovanni Paolo II aiutano a capire la perseveranza sotto una luce più profonda: non come un semplice persistere, ma anzitutto come un’autentica coerenza di vita; una fedeltà che finisce col meritare la lode del signore della parabola dei talenti, e che si può considerare come una formula evangelica di canonizzazione: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”[36].
8. “Magnus in prosperis, in adversis maior”
“Grande nella prosperità, ancora più grande nell’avversità”. Questa frase dell’epitaffio del re inglese Giacomo II, nella chiesa di Saint Germain in Layes nei pressi di Parigi, esprime l’armonia tra le diverse parti della virtù della fortezza: da un lato, la pazienza e la perseveranza, che sono legate all’atto di resistere nel bene, e che abbiamo già considerato; dall’altro, la magnificenza e la magnanimità, che fanno un diretto riferimento all’atto di attaccare, di intraprendere grandi prodezze, anche nelle piccole vicende di una vita normale. Infatti, secondo la teologia morale, “la fortezza, come virtù dell’appetito irascibile, non solo domina le nostre paure (cohibitiva timorum), ma inoltre modera le azioni rischiose e audaci (moderativa audaciarum). Così la fortezza si occupa del timore e dell’audacia, impedendo il primo e imponendo un equilibrio alla seconda”[37].
La magnanimità o grandezza d’animo è la prontezza nel prendere la decisione di intraprendere opere virtuose eccellenti e difficili, degne di grande onore. Da parte sua, la magnificenza si riferisce alla effettiva realizzazione di opere grandi, e in particolare alla ricerca e all’impiego delle risorse economiche e materiali indispensabili per compiere grandi imprese al servizio di Dio e del bene comune[38].
San Josemaría descriveva la persona magnanima con questi termini: “animo grande, capiente, che fa posto a molti. È la forza che ci fa uscire da noi stessi, permettendoci di intraprendere opere grandi, a beneficio di tutti. Nel magnanimo non c’è posto per la meschinità; non viene a patti con l’avarizia, non fa calcoli egoistici né si serve di raggiri. Il magnanimo impiega senza riserve le sue forze in ciò che vale la pena; è quindi capace di offrire se stesso. Non si accontenta di dare: semplicemente si dà. Così può arrivare a capire qual è la più grande dimostrazione di magnanimità: darsi a Dio”[39].
Si richiede magnanimità per incominciare ogni giorno l’impresa della propria santificazione e dell’apostolato in mezzo al mondo, malgrado le difficoltà che sempre ci saranno, con la convinzione che tutto è possibile per colui che crede[40]. In questo senso, il cristiano magnanimo non ha timore di proclamare e difendere con fermezza, negli ambienti nei quali si muove, gli insegnamenti della Chiesa, anche in momenti nei quali questo possa costituire un andare controcorrente[41]; un aspetto, questo, che ha una profonda radice evangelica. Così il cristiano si comporterà con comprensione verso le persone e, nello stesso tempo, con una santa intransigenza in fatto di dottrina[42], fedele al motto paolino veritatem facientes in caritate, vivendo la verità con carità[43], cosa che comporta la difesa della totalità della fede senza violenze. Questo comporta altresì che l’obbedienza e la docilità al Magistero della Chiesa non si contrappongano al rispetto della libertà di opinione; al contrario, aiutano a distinguere bene le verità della fede da quelle che sono semplici opinioni umane.
All’inizio abbiamo fatto riferimento alla paziente resistenza di Maria ai piedi della Croce. L’esemplare fortezza della Madonna include anche la grandezza d’animo che la indusse ad esclamare in presenza della cugina Elisabetta: Magnificat anima mea Dominum [...] quia fecit mihi magna qui potens est, l’anima mia magnifica il Signore [...] grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente[44]. L’esultanza di Maria contiene una lezione importante per noi, come ricorda Benedetto XVI: “Solo se Dio è grande, anche l’uomo è grande. Con Maria dobbiamo cominciare a capire che è così. Non dobbiamo allontanarci da Dio, ma rendere presente Dio; far sì che Egli sia grande nella nostra vita; così anche noi diventiamo divini; tutto lo splendore della dignità divina è allora nostro”[45].
S. Sanz Sánchez
PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 24. LO SPIRITO SANTO CI FA ABBONDARE NELLA SPERANZA
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 31 maggio 2017
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nell’imminenza della solennità di Pentecoste non possiamo non parlare del rapporto che c’è tra la speranza cristiana e lo Spirito Santo. Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri, e non ci permette di adagiarci e di diventare un popolo “sedentario”.
La lettera agli Ebrei paragona la speranza a un’àncora (cfr 6,18-19); e a questa immagine possiamo aggiungere quella della vela. Se l’àncora è ciò che dà alla barca la sicurezza e la tiene “ancorata” tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece ciò che la fa camminare e avanzare sulle acque. La speranza è davvero come una vela; essa raccoglie il vento dello Spirito Santo e lo trasforma in forza motrice che spinge la barca, a seconda dei casi, al largo o a riva.
L’apostolo Paolo conclude la sua Lettera ai Romani con questo augurio: sentite bene, ascoltate bene che bell’augurio: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (15,13). Riflettiamo un po’ sul contenuto di questa bellissima parola.
L’espressione “Dio della speranza” non vuol dire soltanto che Dio è l’oggetto della nostra speranza, cioè Colui che speriamo di raggiungere un giorno nella vita eterna; vuol dire anche che Dio è Colui che già ora ci fa sperare, anzi ci rende «lieti nella speranza» (Rm 12,12): lieti ora di sperare, e non solo sperare di essere lieti. E’ la gioia di sperare e non sperare di avere gioia, già oggi. “Finché c’è vita, c’è speranza”, dice un detto popolare; ed è vero anche il contrario: finché c’è speranza, c’è vita. Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere e hanno bisogno dello Spirito Santo per sperare.
San Paolo – abbiamo sentito – attribuisce allo Spirito Santo la capacità di farci addirittura “abbondare nella speranza”. Abbondare nella speranza significa non scoraggiarsi mai; significa sperare «contro ogni speranza» (Rm 4,18), cioè sperare anche quando viene meno ogni motivo umano di sperare, come fu per Abramo quando Dio gli chiese di sacrificargli l’unico figlio, Isacco, e come fu, ancora di più, per la Vergine Maria sotto la croce di Gesù.
Lo Spirito Santo rende possibile questa speranza invincibile dandoci la testimonianza interiore che siamo figli di Dio e suoi eredi (cfr Rm 8,16). Come potrebbe Colui che ci ha dato il proprio unico Figlio non darci ogni altra cosa insieme con Lui? (cfr Rm 8,32) «La speranza – fratelli e sorelle – non delude: la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Perciò non delude, perché c’è lo Spirito Santo dentro di noi che ci spinge ad andare avanti, sempre! E per questo la speranza non delude.
C’è di più: lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli, seminatori di speranza. Un cristiano può seminare amarezze, può seminare perplessità, e questo non è cristiano, e chi fa questo non è un buon cristiano. Semina speranza: semina olio di speranza, semina profumo di speranza e non aceto di amarezza e di dis-speranza. Il Beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito – cioè dello Spirito Santo –, e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti» (Parochial and plain Sermons, vol. V, Londra 1870, pp. 300s.). E sono soprattutto i poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore, come lo Spirito Santo fa con ognuno di noi, che stiamo qui in Piazza, consolatore e difensore. Noi dobbiamo fare lo stesso con i più bisognosi, con i più scartati, con quelli che hanno più bisogno, quelli che soffrono di più. Difensori e consolatori!
Lo Spirito Santo alimenta la speranza non solo nel cuore degli uomini, ma anche nell’intero creato. Dice l’Apostolo Paolo – questo sembra un po’ strano, ma è vero: che anche la creazione “è protesa con ardente attesa” verso la liberazione e “geme e soffre” come le doglie di un parto (cfr Rm 8,20-22). «L’energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello Spirito di Dio che “aleggiava sulle acque” (Gen1,2) all’inizio della creazione» (Benedetto XVI, Omelia, 31 maggio 2009). Anche questo ci spinge a rispettare il creato: non si può imbrattare un quadro senza offendere l’artista che lo ha creato.
Fratelli e sorelle, la prossima festa di Pentecoste – che è il compleanno della Chiesa – ci trovi concordi in preghiera, con Maria, la Madre di Gesù e nostra. E il dono dello Spirito Santo ci faccia abbondare nella speranza. Vi dirò di più: ci faccia sprecare speranza con tutti quelli che sono più bisognosi, più scartati e per tutti quelli che hanno necessità. Grazie.
http://www.cassiciaco.it/navigazione/agostino/vita/tolle.html
SANT’AGOSTINO – LA SCENA DELLA CONVERSIONE: TOLLE LEGE
Ormai Agostino stesso si rende conto che gli avvenimenti, che si succedono, stanno preparando la strada alla soluzione del dramma interiore. La grazia di Dio, che lo preme senza dargli tregua, lo raggiunge nel giardino della sua casa a Milano.
Esce di casa con Alipio, portando il libro delle Epistole di S. Paolo. Vanno a sedersi lontano, sotto un albero di fichi, Alipio si allontana di qualche passo, ma lo segue con occhio attento e partecipa alla lotta con l’animo e col cuore, in silente preghiera. Agostino è tutto un fremito, anima e cuore. Il dramma di un’anima tra spirito e senso, tra ragione e passione, tra Dio e Satana deve essere qualcosa di veramente angoscioso. E’ l’ora suprema! Siamo all’atto finale di un travaglio penosissimo, ma esaltante, Agostino avverte che è ormai assediato da ogni parte. Occorre l’ultima spinta vittoriosa della grazia di Dio sulla resistenza residua della Volontà.
« Quando dal più profondo dell’anima mia – dice Agostino – l’alta meditazione ebbe tratto e ammassato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente, grondante un’ingente pioggia di lacrime » (Conf. 8, 12, 28). Così, inondato di pianto leva un grido: « Fino a quando, Signore, durerà la tua ira contro di me? » Al grido straziante di Agostino una voce d’angelo risponde quasi con un canto: « Prendi, leggi! Prendi, leggi! » Un incanto dei sensi, un attimo di stupore e meraviglia insieme; poi un lampo di genio: « È un comando divino! «
Uno scatto: raggiunge Alipio. Afferra le Lettere di S. Paolo e legge il primo brano che gli capita sott’occhi: « Non nelle crapule e nelle ubriachezze, non nelle morbidezze e nelle disonestà, non nella discordia e nell’invidia; ma rivestitevi del Signor Nostro Gesù Cristo e non abbiate cura della carne, nè delle concupiscenze ». I dubbi scompaiono come nebbia al sole e una luce vivissima inonda la sua anima, che sfavilla di gioia indescrivibile. Calmo, sereno, il volto ancora irrorato di pianto, si volge ad Alipio e gli annuncia il trionfo di Dio. Alipio gli chiede il libro, legge le parole che Agostino gli mostra e continua a leggere: « Chi è debole nelle fede fa’ di assisterlo! « . Un abbraccio, un pianto di consolazione, un canto di amore nel cuore: sono convertiti ! Corrono da Monica e le rivelano l’accaduto.
Lei si getta al collo di Agostino, lo bacia con tenero esultante amore e piange di viva commozione. Al racconto brillano di gioia i suoi occhi, come per un trionfo e benedice Dio che ha esaudito le sue preghiere oltre le aspettative. Infatti la conversione di Agostino è il ritorno nelle sue profondità per liberare il cuore dal male e riempirlo di Cristo. Siamo ai primi di agosto del 386; Agostino ha trentatrè anni. Monica ne ha cinquantaquattro: Agostino inizia il cammino di fede; Monica è vicina a presentare la sua offerta al Signore. Monica è colma di gioia; Agostino ne è come inondato. È festa per tutti: amici e parenti esultano nel gaudio, contemplando il giubilo di Agostino. Quello di Agostino è un volo superbo di aquila, che si libra al di sopra di ogni vetta e affissa le pupille nell’altissimo cielo. Sente infatti Agostino una frenesia indescrivibile: vuol liberarsi di ciò che gli impedisce di levarsi in alto: la scuola d ‘un tratto gli diventa pesante, i discorsi alla corte noiosi; una nuova via gli si apre dinanzi: quella della sapienza, della contemplazione, della santità. Ne comunica la decisione alla madre, al figlio, ai pochi intimi, che aspettano gli eventi e lo incoraggiano a camminare nella via di Dio.
Sopravvengono intanto dei fastidi fisici: dolori al petto, affievolimento di voce, oppressione ai polmoni. Se fa lezione, si lascia vincere dall’ansia e dall’attesa che termini l’anno scolastico. L’amore alla retorica e all’eloquenza è svanito; gli scolari gli sono di peso, le lezioni senza soddisfazione. Ai primi di settembre termina l’anno scolastico. È la liberazione. Con l’aiuto di Monica sfuma il matrimonio con la fanciulla promessa. Agostino pensa seriamente al battesimo, deciso a realizzare il suo proposito di seguire il modello della vita apostolica. Rimangono da superare opposizioni presentate da alcuni amici e dall’autorità per le sue dimissioni dalla scuola e dalla corte imperiale. Con una mirabile lettera annuncia al vescovo Ambrogio la sua conversione, che gli risponde congratulandosi e consigliandogli di leggere il Profeta Isaia.