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…In any case, the Western Catholic image spread in Russian iconography of the 17th century

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Publié dans:immagini sacre |on 29 février, 2016 |Pas de commentaires »

IL PERICOLO DELLA IDOLATRIA (1COR 8,1-11,1)

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IL PERICOLO DELLA IDOLATRIA (1COR 8,1-11,1)

Mosetto F.

Nelle città greche diverse occasioni – feste di singole divinità, feste di carattere cittadino (associazioni) o familiare (ad es., matrimonio) – comportavano un banchetto sacro celebrato nelle adiacenze di un tempio, nel corso del quale si consumavano carni degli animali precedentemente offerti in sacrificio (i giudei le chiamavano eidolóthyton, vittime offerte agli idoli). Anche le carni macellate messe in vendita al pubblico mercato provenivano spesso dai sacrifici. Legami familiari e convenienze sociali spingevano ad accettare l’invito a tali banchetti; così pure, nell’acquistare la carne al mercato era difficile evitare quella degli «idolotiti». I cristiani di Corinto s’interrogavano al riguardo: quale condotta tenere? Isolarsi dalla società, chiudendosi in una specie di ghetto, per evitare ogni compromesso con la religione pagana? Oppure prendere parte ai banchetti, ai quali si era invitati da parenti e amici, senza farsi troppi scrupoli? La risposta dell’apostolo prende le mosse da due principi di soluzione (la «scienza» e la carità), che vengono immediatamente applicati all’argomento (1Cor 8,1-13). Poi, in una lunga digressione, Paolo illustra con il suo esempio personale l’istanza di rinunciare ai propri diritti per il bene del fratello (1Cor 9,1-27), e, con quello degli israeliti al tempo dell’esodo, il rischio di ricadere nel paganesimo (1Cor 10,1-13). Infine, alla luce di quanto esposto, dà indicazioni concrete di comportamento (1Cor 10,14-33).

1. La «scienza» e la carità Il concilio di Gerusalemme si era già occupato della questione (cf. At 15,28s), ma Paolo non si appella alla risposta data in tale circostanza, forse perché essa riguardava direttamente le Chiese della Siria composte sia da giudeo-cristiani sia da credenti di origine gentile. Egli rimanda, invece, a due criteri di condotta, riassunti nelle parole «scienza (gnosis)» e «carità (agápe)», ossia: da una parte, la conoscenza e valutazione obiettiva della realtà e del fatto in questione; dall’altra, l’amore del prossimo, cui bisogna ispirare le scelte concrete. La scienza da sola, non congiunta alla carità, porta all’orgoglio e al disprezzo del fratello («gonfia» di umana superbia). Non basta «sapere», occorre altresì avvalersi in modo costruttivo della propria «scienza». Solo chi, oltre a conoscere, ama, è a sua volta «conosciuto» nel senso biblico del termine, è cioè oggetto della benevolenza di Dio. Perché solamente la carità «edifica», ossia costruisce la comunità (cf. 1Cor 14,12) in quanto cerca l’utile degli altri (cf. 1Cor 10,23s). Ora, Paolo applica al problema concreto tale considerazione. L’apostolo afferma che di per sé il credente può cibarsi senza alcuno scrupolo degli idolotiti. Egli infatti «sa» che Dio è uno solo e che non esistono altri dèi. La fede cristiana riconosce e confessa un unico Dio, il Padre, creatore e signore del mondo; «a lui», al suo servizio e alla sua gloria, noi siamo orientati e chiamati. Così pure, sappiamo che esiste «un solo Signore», Gesù Cristo, il mediatore della creazione e della salvezza. I numerosi «dèi e signori» dei gentili scompaiono davanti all’unico Dio: semplicemente non esistono; ma, più avanti, Paolo dirà che sono demoni, spiriti malvagi (1Cor 10,20s). Ora, se ogni realtà creata viene da Dio per mezzo del Cristo, a lui appartiene ed è a lui finalizzata, ne segue che è lecito mangiare di qualsiasi cibo (cf. 1Cor 10,23). Per quel che riguarda i nostri rapporti con Dio, la provenienza degli alimenti è irrilevante; anzi, tutto è suo dono, da ricevere con gratitudine (cf. 1Cor 10,30; Rm 14,6). Il bel distico del v. 6:

«…un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, per il quale tutto esiste e noi esistiamo grazie a lui»

è una confessione di fede, paragonabile ad altre disseminate nell’epistolario paolino (cf. 1Ts 1,9s; Rm 3,30; 10,9; 11,36; ecc.). È probabile che nel formularla Paolo si ispiri alla tradizione.

Ma – continua Paolo – questa «scienza» non è in tutti: la comunità infatti è composta di «forti» e di «deboli» (cf. Rm 14,1). Avvezzi fino a ieri a considerare le carni immolate agli idoli come un cibo sacro, per il quale si entra in comunione con la divinità, alcuni cristiani da poco convertiti proverebbero un vero rimorso se continuassero a cibarsene e, al vedere dei fratelli che lo fanno senza scrupolo, ne ricevono scandalo, ossia occasione di caduta, sentendosi come spinti e autorizzati a mangiare le carni sacrificate agli idoli appunto come «idolotiti». La libertà e il diritto – derivanti dalla certezza di fede di cui sopra – di consumare le carni immolate hanno un limite nel danno spirituale che ne può venire per i fratelli, la cui coscienza è «debole», nel senso che è tuttora condizionata dalle concezioni e dalle consuetudini passate. Deve allora entrare in azione l’altro principio: la carità, che edifica. Se ci si rende conto che il proprio comportamento, per quanto buono e legittimo, è di scandalo al fratello, è meglio rinunciare alla propria libertà e al proprio diritto pur di non spingerlo ad agire contro coscienza, a commettere perciò (soggettivamente) un peccato. Altrimenti, «per la tua scienza va in rovina il debole, per il quale Cristo è morto». La morte di Cristo rivela il valore di ogni persona ed è supremo modello di subordinazione dell’io con i suoi diritti e interessi al bene dell’altro. Non tenerne conto è «peccare contro i fratelli» e, per il fatto stesso di offendere la loro coscienza, peccare contro Cristo. La conclusione s’impone: «Perciò, se un cibo (ovviamente, dal contesto, gli “idolotiti”) scandalizza il fratello, non mangerò mai più carne in eterno» (8,13). Così Paolo introduce l’ulteriore riflessione.

2. L’esempio di Paolo In questo brano l’Apostolo conferma con il proprio esempio l’invito a rinunciare a qualcosa di legittimo in vista del bene dei fratelli. Dal momento che è un vero apostolo di Cristo (1Cor 9,1-3), come gli altri apostoli Paolo avrebbe il diritto di vivere del proprio ministero (vv. 4-14), ma vi ha rinunciato per l’evangelo, per essere realmente servo di tutti (vv. 15-23): la rinuncia è una legge della vita cristiana, che vale in primo luogo per l’apostolo (vv. 24-27). Se qui Paolo rivendica per sé il titolo di apostolo di Cristo – contro avversari, con i quali polemizzerà più a lungo nella seconda lettera ai Corinzi (cf. anche le lettere ai Filippesi e Galati) – lo fa per dimostrare i suoi diritti. L’autenticità dell’apostolato di Paolo scaturisce dall’aver incontrato personalmente il Risorto (cf. 1Cor 15,8; Gal 1,15s; At 9) e dall’esistenza stessa della comunità di Corinto. Essa è la sua «opera nel Signore», è come un «sigillo» che certifica un documento autentico, la prova che davvero Paolo è stato inviato ad annunciare l’evangelo e lo ha di fatto annunciato. Come gli altri apostoli (ossia missionari, inviati dalle comunità), in particolare come Pietro e i «fratelli del Signore» – tra i quali emerge Giacomo; cf. At 1,14; ecc. – anche Paolo ha il diritto di «vivere dell’evangelo» e che le comunità provvedano al sostentamento della donna che l’accompagna («donna sorella», ossia credente; meno probabile: moglie), quindi di non essere costretto a lavorare per sostentarsi. Una serie di argomenti conferma l’assunto: l’analogia con i rapporti economico-sociali ordinari (il soldato, l’operaio, il pastore); il dettato della legge mosaica (Dt 25,4), applicato a chi «semina realtà spirituali». Inoltre, il diritto religioso universale; la parola stessa del Signore (cf. Lc 10,7: uno dei rari casi nei quali san Paolo si riferisce a un detto di Gesù). Ma Paolo, e con lui Barnaba, non si è valso di tale diritto, ha scelto di mantenersi con il proprio lavoro (cf. 1Cor 4,12; At 18,3; 20,34) e questo «per l’evangelo [...] per non recare intralcio al Vangelo di Cristo», apparendo interessato nel momento stesso in cui l’annuncia; preferirebbe morire! Nessuno gli tolga questo vanto (davanti agli uomini, specialmente gli avversari, cf. 2Cor 11,10). Perché – soggiunge – annunciare l’evangelo non costituisce un titolo di merito, bensì un dovere, un incarico che gli è stato affidato, come a un servo. La sua «paga», di conseguenza e paradossalmente, sarà di annunciare l’evangelo gratis, sì da non usare del diritto che la sua missione gli conferirebbe. In questo modo, però, egli è «libero da tutti», non dovendo nulla a nessuno, e può farsi «servo di tutti, allo scopo di guadagnare (a Cristo) il maggior numero» di credenti. Pur non essendo «sotto la legge» (bensì sotto la grazia, cf. Gal 5), Paolo si è fatto «giudeo con i giudei», rispettando il loro attaccamento alla legge (cf. At 16,3; 18,18; 21,20ss). Si è adattato alla mentalità e al costume dei gentili (cf. At 17,22-31: adattamento alla cultura; Gal 2,12ss: comunione di mensa), difendendo la loro libertà rispetto alla legge mosaica (cf. la lettera ai Galati), fino a diventare «senza legge», come i gentili appunto che tali sono in quanto privi della legge di Mosè e pertanto ad essa non sottomessi (cf. Rm 2,12.14). L’Apostolo, tuttavia, precisa: sono tuttavia sottomesso alla legge di Cristo. La «legge di Cristo» (Gal 6,2) è la «legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù», per la quale «la giustizia della legge» divina «si compie in noi che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito» (Rm 5,2). Nel caso qui in discussione Paolo si è fatto «debole con i deboli» (cf. Rm 14-15). In una parola, si è fatto «tutto a tutti»: adattamento e accondiscendenza apostolica in vista della salvezza di ogni uomo, «per diventare partecipe con loro» dei benefici dell’evangelo, della salvezza promessa ai credenti. Esiste, infatti, anche per lui il rischio del fallimento, di essere alla fine escluso dalla stessa salvezza che ha portato agli altri. È il concetto illustrato con l’esempio delle gare atletiche (proprio a Corinto si celebravano i Giochi Istmici). Prender parte a una gara non garantisce automaticamente il premio. Dicendo: «uno solo lo conquista», Paolo non intende affermare che solo pochi cristiani si salvano, ma semplicemente: come tra gara e premio non c’è connessione automatica, così tra l’essere diventati cristiani e il conseguire la salvezza. In vista di una corona che marcirà, l’atleta si sottopone a una dura disciplina. Allo stesso modo, l’apostolo esercita su se stesso un forte autocontrollo, si sottomette a ogni privazione, per non essere squalificato egli stesso nella gara che è la vita cristiana, per ottenere invece la corona incorruttibile, la vita eterna (cf. 2Tm 4,7s; 1Pt 5,4; ecc.).

3. L’esempio di Israele Che la legge della rinuncia e dell’ascesi sia essenziale per tutti i cristiani, è insegnato nelle Scritture. Per questo Paolo porta l’esempio di Israele. Come nell’esodo tutto l’antico popolo di Dio sperimentò la salvezza e godette dei doni divini, eppure non tutti raggiunsero la terra promessa, e ciò a causa delle infedeltà alla grazia ricevuta, allo stesso modo può accadere che, nonostante il battesimo, i credenti cedano alla tentazione di ritornare alla vita pagana e così perdano la salvezza finale. La salvezza dell’esodo e i doni divini elargiti a Israele nel deserto sono rievocati sinteticamente nel passaggio del mare (cf. Es 14) e nella nube (segno della presenza di Dio: Es 13,21; 40,36ss), nella manna e nella sorgente/pozzo di acqua (cf. Es 16; Nm 20,7ss; 21,16ss). Paolo vede in tali eventi il «tipo» della salvezza cristiana: il passaggio del mar Rosso prefigurava il battesimo («furono battezzati in Mosè»). La manna è chiamata «cibo spirituale»; lo stesso aggettivo – col quale si indica una realtà divina, nella quale è operante lo Spirito – è usato per l’acqua dalla roccia e per la pietra da cui essa scaturì. Già nell’Antico Testamento l’acqua dalla rupe era andata acquistando un significato simbolico in riferimento alla legge e alla sapienza (cf. Sal 78,25; Dt 8,3; Sap 16,20); significato qui ripreso, cui potrebbe aggiungersi un simbolismo sacramentale (cf. Gv 6). Sulla scia dell’interpretazione giudaica, la quale parlava di una fonte che accompagnò gli israeliti nel deserto, simbolo della Torà e della sapienza (cf., ad es., Targum Jonatan: Nm 21; Ant. Jud. 10,7), Paolo identifica la «roccia spirituale che li accompagnava» con il Cristo preesistente (sapienza di Dio). Nonostante i segni della presenza di Dio e i doni ricevuti, la maggior parte dei figli di Israele perì lungo il cammino di liberazione (cf. Nm 14,16.35; cf. anche Gd 5). Essi «non furono graditi a Dio», che li respinse a causa dei loro peccati (si allude a Es 32: idolatria; Nm 11: rimpianto dell’Egitto; Nm 25: fornicazione; Nm 14; 17; 21: mormorazione e ribellione), con i quali rifiutarono praticamente la sua salvezza (cf. Sal 95 ed Eb 3,7ss). Il rapporto tra storia biblica e vita cristiana, tra Antico e Nuovo Testamento, è espresso col termine «tipo» (v. 6, cf. v. 11): la realtà piena e definitiva è presente in anticipo, come in un abbozzo, e pertanto prefigurata da persone e avvenimenti che appartengono alla prima fase della storia della salvezza. In questo senso le vicende di Israele sono il «tipo», nel quale è prefigurata la vita della Chiesa, e servono a questa di ammonimento («per noi»). Non però solo «come esempio» edificante, bensì appunto perché il popolo di Dio dell’età escatologica («noi, per i quali è arrivata la fine dei tempi») riconosca la propria situazione e la propria vicenda nei «tipi» che la prefigurano. Questo principio ermeneutico, che i Padri utilizzarono ampiamente, è stato richiamato dal Vaticano II (Dei Verbum, 15s). Sul rapporto tipologico tra storia biblica e realtà cristiana si fonda l’applicazione parenetica. Questa è diretta anzitutto ai «forti», che si ritengono troppo sicuri e giungono a disprezzare i «deboli» (cf. Rm 14,1ss): «Chi crede di stare, guardi di non cadere» nel peccato, in particolare nell’idolatria. Col suo proprio esempio Paolo ha insegnato loro la disciplina e l’ascesi (cf. 1Cor 9,24-27). La messa in guardia è seguita da una considerazione – accessoria rispetto alla linea dominante del pensiero – sulla fedeltà di Dio (cf. 1Cor 1,9; 1Ts 5,24) e sulla sua grazia che sostiene i credenti nelle prove.

4. Indicazioni pratiche 4.1. Fuggire l’idolatria Dall’esempio della storia di Israele discende direttamente l’ammonimento a fuggire l’idolatria. Tale sarebbe il partecipare a un banchetto sacro pagano. Questo ritorno al culto degli idoli – ultimamente dei demoni, che si celano dietro le divinità – sarebbe un provocare la gelosia dell’unico Signore e sposo del suo popolo (cf. Dt 32,16.21; 2Cor 11,2), la sua ira e il castigo che ne segue. Paolo si appella al buon giudizio dei suoi lettori: prendere parte a un pasto sacrificale pagano è incompatibile con l’essere cristiani. Infatti, il banchetto sacro stabilisce in ogni caso una «comunione» con la divinità. Ciò vale per il culto ebraico («Israele secondo la carne», cui corrisponde idealmente un Israele secondo lo spirito, o «Israele di Dio»: Gal 6,16): colui che si ciba della vittima sacrificata entra in comunione con Dio (rappresentato dall’altare). Ancor più ciò avviene nell’eucaristia: mangiando il pane spezzato (cf. At 2,42) e bevendo del calice sul quale è stata pronunciata la benedizione (cf. Mc 14,22ss e parr.), il credente comunica al corpo e al sangue di Cristo (cf. 1Cor 11,17-34: la «cena del Signore»). La comunione all’unico pane che è Cristo opera a sua volta l’unità dei credenti (cf. 1Cor 12,12-27: la Chiesa «corpo» del Cristo). In un certo senso lo stesso si verifica nei sacrifici offerti alle divinità pagane: anche se all’idolo non corrisponde nella realtà alcun essere divino (cf. 8,4) e benché cibarsi degli idolotiti sia per sé cosa indifferente e lecita (cf. vv. 23ss), dal momento che gli dèi delle genti sono demoni (cf. Dt 32,17; Sal 95[96],5; Is 65,11), chi partecipa al banchetto sacrificale del culto pagano entra in relazione con le potenze malvagie (non certo nel senso di vera «comunione», bensì in quanto si sottomette alla loro tirannia e al loro influsso). Dunque, «non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni».

4.2. Libertà e amore Regolato il caso più serio e problematico, l’Apostolo si volge a quello più ordinario e dà alcune direttive pratiche sulla base dei principi indicati fin dall’inizio. In linea di massima, è lecito mangiare tutto ciò che è posto in vendita al mercato, oppure viene offerto da colui che invita a mensa (banchetto familiare o della corporazione) «senza indagare per motivo di coscienza» di dove provenga quella carne. Mediante la citazione di Sal 23,1 se ne ripete la ragione: tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e a lui appartiene (cf. 8,6). L’atteggiamento fondamentale che ne consegue è duplice: rendere grazie a Dio per i suoi doni (cf. 1Tm 4,3); in tutte le azioni, non solamente il mangiare e bere, avere di mira la gloria di Dio (cf. Rm 15,6-7). In altre parole, tutta la vita del cristiano è culto spirituale (cf. Rm 12,1). La fede nell’unico Dio libera il credente da timori superstiziosi, allo stesso modo che la fede nel Signore Gesù lo emancipa dalla legge mosaica (cf. Gal 5) e, in particolare, da determinate osservanze rituali (cf. Rm 14-15). Una volta rivendicata la libertà del cristiano, occorre tuttavia precisarne il senso e i limiti. Non sempre vale il principio (di sapore gnostico): «Tutto è lecito». Qualora l’esercizio della propria libertà recasse scandalo ai fratelli deboli, la carità – che cerca non l’interesse proprio, ma l’edificazione della comunità e il bene di ogni fratello (cf. 1Cor 13,5) – esige di rinunciarvi e di mettere al primo posto il bene spirituale del prossimo. Questa rinuncia è imposta dal rispetto della coscienza dell’altro (cf. 8,7-12). Paolo può richiamarsi all’esempio che egli stesso dà: facendosi tutto a tutti (cf. 1Cor 9,19-23), cerca di «piacere a tutti in ogni cosa», avendo di mira la loro salvezza (cf. Rm 15,1-3). Perciò l’Apostolo conclude: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (cf. 1Cor 4,16; Fil 3,17). L’esempio di Gesù, punto di riferimento per ogni problematica riguardante le scelte morali del credente, conferisce al principio dell’agape cristiana il suo valore originale (cf. Fil 2,5ss) e innesta nel mistero pasquale una rinuncia apparentemente di poco conto.

5. Conclusione A proposito dell’idolatria, il Catechismo della Chiesa cattolica osserva: «L’idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo. Essa rimane una costante tentazione della fede e consiste nel divinizzare ciò che non è Dio. C’è idolatria quando l’uomo onora e riverisce una creatura al posto di Dio, si tratti degli dèi o dei demoni (per es., il satanismo), del potere, del piacere, della razza, degli antenati, dello stato, del denaro, ecc.» (n. 2113). Il rischio del compromesso insidia anche ogni cristiano. Ricordiamo la parola di Gesù: «Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24).

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 29 février, 2016 |Pas de commentaires »

SERENITÀ BRILLA ALL’ORIZZONTE (EFESO) – GIANFRANCO RAVASI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi7.htm

SERENITÀ BRILLA ALL’ORIZZONTE (EFESO) – GIANFRANCO RAVASI

Gianfranco Ravasi (« Avvenire », 30/11/’06)

Efeso è un nome iscritto nella mente di tutti i cristiani, un nome che intreccia le vicende e le tradizioni di due apostoli, Paolo con la sua Lettera agli Efesini e Giovanni con l’altro breve e intenso scritto indirizzato all’ « angelo della Chiesa di Efeso » e incastonato nell’Apocalisse (2, 1-7). Efeso brilla nella storia dell’intera cristianità anche con quella basilica a tre navate a cielo aperto, accostata alle sontuose rovine della città ellenistico-romana, sede del Concilio di Efeso e della proclamazione della maternità divina di Maria. Efeso è cara alla cristianità anche per quel semplice e sereno santuario, collocato su un colle in mezzo ai boschi, denominato in turco Meryem Ana, « la casa di Maria », memoria popolare di un soggiorno mariano in questa terra. Lassù ieri è salito Benedetto XVI; attorno a lui si è raccolta la comunità cristiana di Turchia, simile al « piccolo gregge » evangelico, per ascoltare la sua parola. Un’omelia intessuta sui tre testi della liturgia eucaristica che si sono sostanzialmente aperti a tre vocaboli trasformati in segni di speranza. La prima parola è sbocciata dalla scena essenziale e grandiosa del Golgota, dipinta da Giovanni nel suo Vangelo e centrata su quell’estrema dichiarazione del Cristo morente – « Ecco tua madre » – destinata al figlio-discepolo. È, dunque, la maternità, che torna a fiorire proprio quando Maria perde il Figlio Gesù: « saldate in maniera indissolubile sono la maternità divina e la maternità ecclesiale ». Dalla croce di Cristo si dirama come una sorgente che feconda il deserto della storia, striato di sangue e di odio. Ecco, allora, la seconda parola, pace, racchiusa in una frase della Lettera agli Efesini assunta dal Papa a motto del suo viaggio: « Cristo è la nostra pace » (2, 4). Essa genera unità sia nella Chiesa sia tra le genti, secondo quella grandiosa visione messianica che Isaia aveva raffigurato come la sinfonia di un mondo nuovo, nel quale le spade diventano vomeri, le lance falci e le mani si stringono in armonia. La voce di Benedetto XVI si fa qui appassionata e cerca di raggiungere anche Gerusalemme e tutti i confini della terra, partendo proprio dall’Anatolia, « ponte naturale tra i continenti ». Ed è alla voce stessa di Maria che il Pontefice s’è affidato per la terza parola, la gioia: essa, infatti, è il filo della musica interiore del « Magnificat ». È un canto di felicità anche in mezzo all’oscurità delle prove, come è stato testimoniato dalla vicenda di don Andrea Santoro. Una serenità che brilla non solo nel cielo di Efeso ma anche all’orizzonte del dialogo tra fedi e culture, meta ultima di questo itinerario papale. C’erano bimbi turchi ieri lungo le strade a salutare il Papa. È significativo che, proprio in apertura alla sua omelia, Benedetto XVI abbia voluto citare un passo del Giornale dell’anima di Giovanni XXIII: « Io amo i turchi, apprezzo le qualità naturali di questo popolo che ha pure il suo posto preparato nel cammino della civilizzazione ». Ed è un finale suggestivo che l’invocazione a Maria, la Madre, tanto cara anche all’Islam, sia stata pronunziata dal Papa in turco: « Santa Maria Madre di Dio prega per noi

Moses and the Burning Bush

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Publié dans:immagini sacre |on 26 février, 2016 |Pas de commentaires »

BRANO BIBLICO SCELTO – 1 CORINZI 10,1-6.10-12

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Corinzi%2010,1-6.10-12

BRANO BIBLICO SCELTO – 1 CORINZI 10,1-6.10-12

1 Non voglio che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2 tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3 tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4 tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5 Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto. 6 Ora ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. 10 Fratelli, non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore. 11 Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. 12 Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

COMMENTO 1 Corinzi 10,1-6.10-12 Il pericolo dell’idolatria Uno dei problemi sottoposti a Paolo dai cristiani di Corinto era quello riguardante le carni sacrificate agli idoli (1Cor 8-10) Nella sua risposta l’apostolo, pur apprezzando la «conoscenza» di chi si ritiene libero di mangiare questo tipo di carne, sottolinea anzitutto l’esigenza di rispettare la coscienza dei fratelli più deboli, i quali credono che ciò non sia permesso (1Cor 8); come punto di riferimento presenta poi il suo esempio personale di dedizione totale ai fratelli (1Cor 9); ritornando al tema della sezione, egli mette in luce il pericolo dell’idolatria (1Cor 10,1-13) e infine viene alle direttive concrete (1Cor 10,14-33). La liturgia propone il testo in cui Paolo mette in luce il rischio di cadere nell’idolatria, sottolineando che esso può derivare anche da un comportamento troppo libero nel mangiare la carne sacrificata agli idoli, soprattutto quando questo gesto è collegato con il culto dei falsi dèi. Egli motiva questa affermazione con una riflessione sulla storia di Israele (vv. 1-6), ricavando poi da essa insegnamenti e ammonizioni (vv. 7-13). Il metodo a cui si ispira è quello giudaico del midrash, che gli permette di rileggere il passato in funzione della nuova situazione in cui si trovano i credenti in Cristo.

La storia di Israele (vv. 1-6). Al fine di mettere in guardia i corinzi, Paolo presenta anzitutto in sintesi l’esempio dei padri, mostrando che essi, pur avendo ricevuto notevoli grazie spirituali, non hanno saputo resistere all’attrattiva del peccato. Dopo la formula iniziale («Non voglio infatti che ignoriate, fratelli») con la quale sottolinea l’importanza di ciò che sta per dire e al tempo stesso indica l’inizio di una nuova riflessione, Paolo prosegue: «I nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare» (vv. 1-2). L’esperienza fatta dagli israeliti al tempo dell’esodo ha valore anche per i cristiani, i quali riconoscono in essi i loro progenitori nella fede. Ora tipico di questi progenitori è il fatto di essere stati sotto la nube e di aver attraversato il mare. Queste due esperienze vengono interpretate simbolicamente come un «essere battezzati» (baptisthênai, essere immersi) nella nube e nel mare. L’idea che gli israeliti fossero immersi nella nuvola non è attestata nel libro dell’Esodo, dove si dice semplicemente che la nube li precedeva e li seguiva (cfr. Es 13,21); essa viene però suggerita nel Sal 105,9 («Dio stese una nube per proteggerli»), e in Sap 19,7 («Si vide la nube coprire d’ombra l’accampamento»). Nessun accenno all’immersione nel mare si trova invece nell’AT, dove si parla soltanto di un passaggio degli israeliti all’asciutto, dopo che le acque si erano ritirate (cfr. Es 14,29): bisogna dunque pensare che Paolo ha dato una sua interpretazione personale dell’esodo, o che conosceva una tradizione popolare andata perduta che esprimeva in quel modo gli eventi allora capitati. Tuttavia è chiaro che se egli descrive in questo modo gli eventi dell’esodo, lo fa perché appaia che i doni ricevuti dai padri sono un’anticipazione del battesimo cristiano. Questo battesimo simbolico si è verificato «in rapporto a (eis, verso) Mosè»: ciò vuol dire che l’immersione nella nube e nel mare significa la solidarietà con il condottiero dell’esodo; ciò richiama naturalmente il battesimo cristiano, che appunto era amministrato «in (eis) Cristo Gesù» (cfr. Rm 6,3). Il rapporto degli ebrei con Mosè prefigurava dunque l’incorporazione a Cristo effettuata nel battesimo cristiano e ne anticipava la realtà salvifica. Dopo aver presentato la liberazione degli israeliti come un’esperienza battesimale Paolo prosegue: «Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (vv. 3-4). Il cibo spirituale, dato cioè dallo Spirito di Dio e quindi apportatore di un dono salvifico, non è altro che la manna, chiamata anche «pane del cielo» (Sal 78,24; cfr. Sap 16,20), nella quale i primi cristiani vedevano la prefigurazione del pane moltiplicato da Gesù durante il suo ministero, simbolo a sua volta del pane distribuito nell’ultima cena (Gv 6,31-33) e consumato dai corinzi nella celebrazione della cena del Signore (cfr. 1Cor 11,17-34). La bevanda spirituale è l’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,6). Riprendendo una leggenda rabbinica (Tosefta Sukka 3,11), Paolo dice che questa roccia seguiva gli israeliti nel deserto. Inoltre, ispirandosi forse al fatto che essa era stata identificata da Filone di Alessandria con la Sapienza (Allegorie delle leggi 2,86), afferma che la roccia era il Cristo, da lui stesso già precedentemente designato come Sapienza di Dio (cfr. 1Cor 1,24.30): lo stesso Cristo dunque era già presente nell’esodo come fonte di salvezza per gli israeliti. L’esperienza della salvezza fatta da Israele non ha dunque nulla da invidiare a quella dei cristiani. «Ma, soggiunge Paolo, la maggior parte di loro non fu gradita a Dio, e perciò furono sterminati nel deserto» (v. 5). Se essi sono stati rifiutati da Dio, ciò non è dovuto a un venir meno della grazia divina, ma alla mancanza di collaborazione da parte loro. L’apostolo vuole dunque insinuare che i sacramenti non operano in modo automatico, come i corinzi potevano pensare (cfr. 11,17-34), ma richiedono la fede viva e operosa di chi li riceve. Dopo aver descritto l’esperienza degli ebrei, Paolo soggiunge: «Ora ciò avvenne come esempio (typos) per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono» (v. 6). Il termine greco typos significa impronta, e di conseguenza segno, figura, esempio. La continuità della storia della salvezza fa sì che gli errori del passato divengano esempio e figura di quanto può capitare anche ai credenti in Cristo, se non si dissociano dalla mentalità da cui Israele si è lasciato dominare. Il peccato da evitare è il desiderio egoistico proibito dal decalogo (Es 20,17), che ha spinto gli israeliti nel deserto a chiedere carne di cui sfamarsi (cfr. Nm 11,4.34): questo stesso desiderio potrebbe ora, anche per i corinzi, aprire la strada all’idolatria.

Ammonizioni (vv.10-12). Gli eventi che hanno contrassegnato la liberazione di Israele non sono solo figure della salvezza già attuata da Cristo e trasmessa attraverso i sacramenti, ma rappresentano anche severe ammonizioni perché i cristiani non commettano gli stessi peccati di cui si sono macchiati i loro progenitori nella fede. Paolo ne menziona quattro, di cui i prime tre sono omessi nel brano liturgico: l’idolatria, la fornicazione e la tentazione di Dio e la mormorazione. All’idolatria, di cui è un esempio l’adorazione del vitello d’oro, si riferisce la frase: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi» (v. 7; cfr. Es 32,6): in realtà è proprio l’idolatria il peccato più grave in cui i corinzi potrebbero cadere mangiando carni sacrificate agli idoli. La fornicazione (porneia) è collegata con l’episodio del culto di Baal-Peor, raccontato nel libro dei Numeri, che ha provocato lo sterminio di ventitremila persone (v. 8; cfr. Nm 25,1-9). La tentazione di Dio si rifà alla richiesta di cibo nel deserto, a cui fa seguita come punizione la morsicatura da parte dei serpenti (v. 9; cfr. Nm 21,5-6). Infine, e qui riprende il testo liturgico, Paolo mette in guardia i corinzi dalla mormorazione: «Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore» (v. 10). La mormorazione è collegata a diversi episodi in cui gli israeliti si lamentarono per le difficoltà dell’esodo e alcuni di loro furono sterminati da Dio (v. 10; cfr. Nm 17,6-15). Al termine di questa lista di peccati Paolo riprende quanto aveva affermato nel v. 6, commentando: «Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio (typikôs), e sono state scritte per nostro ammonimento (nouthesian), di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi» (v. 11). Nessuno deve pensare, perché sono giunti i tempi della salvezza definitiva attuata da Cristo, che non vi sia più pericolo di peccare. «Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (v. 12). La tentazione resta, ma il credente ha il potere di superarla, purché non si lasci prendere dalla falsa presunzione di essere esente da cadute. L’apostolo conclude con una riflessione, non riportata dalla liturgia, con la quale intende incoraggiare i suoi corrispondenti: non li ancora ha sorpresi nessuna tentazione che non sia semplicemente «umana», cioè proporzionata alle loro forze; Dio è fedele e non permette che essi siano tentati con una intensità che supera le loro forze ma, con la tentazione, dà anche il modo di uscirne e la forza per superarla (v. 13). La grazia di Dio è più forte della tentazione: chi sbaglia è l’unico responsabile del suo peccato, perché Dio dà a tutti la possibilità di superare la prova.

Linee interpretative Nel c. 8 Paolo aveva dato al problema delle carni sacrificate agli idoli una soluzione improntata da un lato alla libertà e dall’altro al rispetto della coscienza, sia la propria, che deve essere seguita quando proibisce qualcosa come peccaminoso, sia quella degli altri, quando si comportano conformemente ad essa. Il riferimento alla coscienza propria e altrui rappresenta il vero e unico limite della propria libertà. Tuttavia esiste anche l’obbligo, sottolineato in questo brano, di non porre gesti che in se stessi possono avere conseguenze dannose per chi li compie, anche se ciò a prima vista non appare. In questa luce deve essere considerata la partecipazione ad atti di culto veri e propri nell’ambito sociale in cui i cristiani vivevano. Rifacendosi all’esempio degli israeliti Paolo mette in luce come, in certe circostanze, il mangiare la carne sacrificata agli idoli può comportare il rischio di cadere, contrariamente alle proprie intenzioni, nel peccato stesso di idolatria. È bene comunicare alla vita dei propri concittadini, ma vi sono dei limiti che non è conveniente oltrepassare. Confidare troppo nelle proprie forze significa tentare Dio, e questo, insieme alla fornicazione e alla mormorazione, è già un peccato che può separare da lui. La tentazione di lasciarsi coinvolgere nell’idolatria diffusa nel proprio ambiente era forte, ma Paolo sottolinea che Dio, permettendo la tentazione, dà anche la possibilità di resisterle. Al tempo di Paolo questa direttiva esigeva dai cristiani un forte isolamento dal resto della società proprio in quei momenti di culto o di festa nei quali era più facile e spontaneo solidarizzare. In pratica però si trattava di sganciarsi da una mentalità “idolatrica” che pervadeva i più disparati settori della società: non solo quindi l’ambito più specificamente religioso, ma anche quelli dell’economia e della politica, che più in profondità erano espressione di un’idolatria pratica, consistente nell’ingiustizia e nello sfruttamento dell’altro. Il farsi tutto a tutti, di cui Paolo aveva parlato appena prima, ha dunque dei confini che non si possono valicare. Se il credente nella vita sociale è disposto ad adeguarsi senza riserve all’idolatria del consumismo, del potere e dei soldi, la sua fede si riduce a una semplice etichetta, che non trasforma in profondità la sua esistenza, e che quindi rappresenta una formalità inutile. >

8 FEBBRAIO 2016 | 3A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

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8 FEBBRAIO 2016 | 3A DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C | APPUNTI PER LA LECTIO

« SE NON VI CONVERTIRETE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO »

Quasi immediatamente prima del brano evangelico, che la Chiesa ci invita oggi a meditare, Gesù aveva rimproverato la folla che lo seguiva di non saper leggere i « segni dei tempi »: « Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? » (Lc 12,56-57). Mi sembra che la Liturgia odierna voglia proprio aiutarci a leggere i « segni » della presenza di Dio nei piccoli o grandi eventi della nostra vita, così come negli accadimenti della storia, sia quella passata, sia quella che contribuiamo noi stessi a realizzare. Ma scorgere i « segni » della presenza di Dio significa abituarsi a vedere le cose in maniera diversa, significa appunto cambiare, cioè « convertirsi ». È questo il messaggio più caratteristico della Quaresima, e su questa linea si muove precisamente il Vangelo odierno. « Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei…? » Esso consta di due pericopi, facilmente avvertibili anche di primo acchito: la prima (Lc 13,1-5) contiene un doppio invito alla « conversione », prendendo spunto da due episodi di cronaca; la seconda ci riporta la parabola del fico sterile (vv. 6-9), essa pure situata in un contesto di cambiamento di rapporti, cioè di « conversione ». I due episodi di cronaca si riferiscono all’eccidio di alcuni Galilei, compiuto da Pilato proprio mentre costoro stavano facendo il loro sacrificio, forse in occasione della festa di Pasqua, e al crollo improvviso della torre di Siloe, nella parte meridionale della città, che fece ben 18 vittime fra gli abitanti di Gerusalemme. Di questi due fatti non abbiamo notizie dai documenti profani, ma rientrano ampiamente nelle possibilità concrete della situazione palestinese di quel tempo. Così, ad esempio, Giuseppe Flavio ci conferma che nel 35 d.C. il governatore Ponzio Pilato fece massacrare non pochi Samaritani in occasione di un pellegrinaggio sul monte Garizim, dove sorgeva il loro tempio. Orbene, vediamo come reagisce Gesù davanti al primo episodio, che alcuni gli riferiscono forse per avere da lui un giudizio di tipo politico sia sulla feroce repressione del governatore romano, sia sul movimento irredentistico degli Zeloti, a cui probabilmente gli assassinati appartenevano: « Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo » (vv. 2-3). Prima di tutto, Gesù respinge una credenza popolare, molto diffusa a quel tempo, secondo la quale una qualsiasi disgrazia veniva considerata come castigo di determinati peccati. Oggi che non crediamo più a tale interpretazione semplicistica, possiamo cadere in un equivoco analogo accettando fatalisticamente le cose, o spiegandole solo in forza di inesorabili meccanismi naturali o di determinate strutture sociali. In ultima analisi, è sempre un tentativo di giustapporsi ai fatti, senza lasciarsi mettere sotto accusa o in crisi dai fatti stessi. Invece Gesù invita i suoi ascoltatori a lasciarsi coinvolgere in prima persona da ciò che è accaduto sotto i loro occhi. Per ben due volte infatti, dopo aver respinto la credenza popolare, afferma solennemente: « Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo ». È evidente che qui il « perire » non si riferisce tanto alla morte fisica, quanto alla « perdizione » spirituale, al fallimento radicale dell’uomo in quanto tale, se egli non ha volontà di « cambiare », di essere diverso, compiendo azioni di vita invece che azioni di morte. È interessante notare come Gesù pone in rapporto dialettico « conversione » e « salvezza », « non conversione » e « rovina ». Il che significa che la « conversione », in ultima analisi, tende alla vita: pur con tutti i tagli dolorosi che porta con sé, essa è per la vita e per la crescita dell’uomo. Nei due casi concreti a cui egli si riferisce, la « conversione » significa non solo l’abbandono della credenza superficiale a cui abbiamo fatto sopra riferimento, ma soprattutto l’invito a leggervi un appello di Dio per trasformare il proprio cuore. La morte che ha ghermito altri e ha quasi sfiorato te stesso perché non dovrebbe indurti a rivedere la tua posizione di fronte a Dio e di fronte ai fratelli? Se Dio ha preso altri e non ha preso te, non può significare che egli ti dà ancora tempo perché ti decida per lui in maniera definitiva? Se certe cose ingiuste talora avvengono, non dipende anche dal fatto che noi non ci impegnamo fino in fondo per la giustizia? E le domande potrebbero continuare. L’importante è non passare indifferenti davanti ai fatti di ogni giorno, piccoli o grandi che siano, e lasciarsi « convertire » costantemente da essi nello sforzo di leggervi il messaggio di Dio per ognuno di noi e per tutti gli uomini. È in questo modo che l’invito alla conversione è continuo, perché emerge dalle cose stesse in cui siamo quotidianamente coinvolti. Questo mi sembra il primo e più attuale insegnamento del Vangelo odierno. « Un tale aveva un fico piantato nella vigna » E poi ce n’è un secondo, espresso dalla parabola del fico sterile: « Un tale aveva un fico piantato nella vigna, e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai » (vv. 6-9). Matteo (21,18-19) e Marco (10,12-14) parlano di un fico vero che Gesù, rientrando in Gerusalemme, avrebbe disseccato perché quell’anno non aveva portato frutti: con quel gesto voleva alludere simbolicamente alla sorte riservata a Israele, che aveva respinto l’appello del Messia alla « conversione ». Luca ha preferito trasformare l’episodio in parabola, dandogli anche un altro significato, che è più di benevolenza e di attesa che di giudizio e di condanna: un esempio, questo, fra i tanti, che ci dice la grande libertà degli Evangelisti davanti al loro materiale letterario. Il richiamo ai « tre anni » di attesa del padrone molto probabilmente allude alla durata del ministero pubblico di Gesù, secondo la cronologia del quarto Vangelo. L’interessante, comunque, della parabola è l’invito ad aspettare ancora un anno, « finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai » (vv. 8-9). In questa capacità di attendere, il padrone della vigna manifesta la sua grande « benevolenza ». Pur invitando alla conversione costante e immediata, il Vangelo tiene conto dei ritmi di crescita dell’uomo: solo una fatica lenta realizza la trasformazione del nostro cuore. E perciò Gesù ha pazienza e ci aspetta. Ma ci aspetta perché portiamo i « frutti » per la stagione giusta, e non perché ci isteriliamo in un pigro disimpegno spirituale. Mentre perciò l’attendere di Dio è segno della sua benevolenza, per un altro verso è anche segno del suo « giudizio », che sarà certamente più grave per tutti coloro che avranno deluso la sua attesa paziente. L’invito a convertirci, come si vede, è sempre sotto il segno dell’éschaton: per ognuno di noi ogni momento che passa è sempre l’ultimo ed è carico del nostro destino eterno! « Tutte queste cose accaddero a loro come esempio » È quanto ci ricorda anche il brano della 1ª Lettera ai Corinzi (10,1-6.10-12), in cui Paolo rilegge in chiave « tipologica » alcuni fatti dell’Esodo (passaggio del Mar Rosso, la manna, l’acqua scaturita dalla roccia, ecc.), applicandoli ai cristiani del suo tempo: « Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere » (vv. 11-12). Che cosa è accaduto a Israele? Troppo rassicurato per gli innumerevoli interventi salvifici di Dio, si è illuso che bastasse questo per dargli garanzia di poter arrivare alla conquista definitiva della Terra promessa, e così non è rimasto fedele al suo Signore, abbandonandosi all’idolatria e alla fornicazione (vv. 7-8). Invece di convertirsi si è « pervertito »; perciò « della maggior parte di loro Dio non si compiacque e furono abbattuti nel deserto » (v. 5). La stessa cosa accadrà ai cristiani di Corinto, e anche a noi, se, fidandoci troppo dei doni di salvezza offertici da Cristo nei suoi stessi Sacramenti (Battesimo, raffigurato dal passaggio del Mar Rosso; Eucaristia, raffigurata dalla manna; ecc.), rifiuteremo o tarderemo a convertirci nei nostri atteggiamenti « interiori », significati ed espressi dagli stessi riti sacramentali. Anzi, per noi la situazione è aggravata proprio perché in Cristo « è arrivata la fine dei tempi » (v. 11), cioè la fase ultima della salvezza, carica di tutta la forza dirompente delle decisioni irrevocabili. Se è vero che Cristo ha portato « un di più » di salvezza, anzi la « pienezza » della salvezza, è anche vero che con lui è venuto per noi « un di più » di responsabilità e di rischio. Perciò non possiamo differire il nostro « convertirci » a lui e alle esigenze del suo Vangelo. Niente ci dà sicurezza davanti a lui, neppure la nostra fedeltà passata, se non si rinnova sempre da capo. Perciò S. Paolo ammonisce accoratamente: « Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere » (v. 12). « Ho osservato la miseria del mio popolo… » È bensì vero che Dio si è impegnato per la nostra salvezza e ne è l’artefice principale; però non è facile rimanere in questo clima salvifico attuandone le esigenze fino in fondo, come ci attesta anche la prima lettura, che ci presenta uno dei passi salienti dell’Antico Testamento: la vocazione di Mosè e la rivelazione del Nome di Jahvèh. « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarli dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele… Dio disse a Mosè: « Io sono colui che sono! »… Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione » (Es 3,7-8.14-15). Il nome di Jahvèh (« Io sono »), con cui Dio si rivela al suo popolo, non ne esprime tanto l’essenza quanto la potenza salvifica: egli è colui « che fa esistere » Israele come popolo libero, quasi « creandolo » dal nulla. Ciò nonostante, abbiamo sentito Paolo ricordarci che « della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto » (1 Cor 10,5). Il libro dell’Esodo ci racconta delle infinite ribellioni e « mormorazioni » d’Israele che, spaventato dai rischi del deserto, rimpiange la terra di schiavitù: « Mancavano forse delle sepolture in Egitto, che tu ci hai portato a morire nel deserto?… Meglio sarebbe stato per noi servire agli Egiziani, che morire nel deserto » (Es 14,11-12). Non è né facile né comodo essere « liberi »: perciò tutti siamo tentati di renderci « schiavi » (Dostoevskij)! Il messaggio della Quaresima è un pressante invito alla « libertà » attraverso la « conversione » del cuore, verificata sulle cose e sui fatti di ogni giorno.

Settimio CIPRIANI  +

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 26 février, 2016 |Pas de commentaires »

Ancient Jerusalem (map)

Ancient Jerusalem (map) dans immagini sacre jerusalem_anc2
http://www.blbclassic.org/images/maps/Otest/jerusalem_anc2.cfm

Publié dans:immagini sacre |on 25 février, 2016 |Pas de commentaires »
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