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IL PERICOLO DELLA IDOLATRIA (1COR 8,1-11,1)
Mosetto F.
Nelle città greche diverse occasioni – feste di singole divinità, feste di carattere cittadino (associazioni) o familiare (ad es., matrimonio) – comportavano un banchetto sacro celebrato nelle adiacenze di un tempio, nel corso del quale si consumavano carni degli animali precedentemente offerti in sacrificio (i giudei le chiamavano eidolóthyton, vittime offerte agli idoli). Anche le carni macellate messe in vendita al pubblico mercato provenivano spesso dai sacrifici. Legami familiari e convenienze sociali spingevano ad accettare l’invito a tali banchetti; così pure, nell’acquistare la carne al mercato era difficile evitare quella degli «idolotiti». I cristiani di Corinto s’interrogavano al riguardo: quale condotta tenere? Isolarsi dalla società, chiudendosi in una specie di ghetto, per evitare ogni compromesso con la religione pagana? Oppure prendere parte ai banchetti, ai quali si era invitati da parenti e amici, senza farsi troppi scrupoli? La risposta dell’apostolo prende le mosse da due principi di soluzione (la «scienza» e la carità), che vengono immediatamente applicati all’argomento (1Cor 8,1-13). Poi, in una lunga digressione, Paolo illustra con il suo esempio personale l’istanza di rinunciare ai propri diritti per il bene del fratello (1Cor 9,1-27), e, con quello degli israeliti al tempo dell’esodo, il rischio di ricadere nel paganesimo (1Cor 10,1-13). Infine, alla luce di quanto esposto, dà indicazioni concrete di comportamento (1Cor 10,14-33).
1. La «scienza» e la carità Il concilio di Gerusalemme si era già occupato della questione (cf. At 15,28s), ma Paolo non si appella alla risposta data in tale circostanza, forse perché essa riguardava direttamente le Chiese della Siria composte sia da giudeo-cristiani sia da credenti di origine gentile. Egli rimanda, invece, a due criteri di condotta, riassunti nelle parole «scienza (gnosis)» e «carità (agápe)», ossia: da una parte, la conoscenza e valutazione obiettiva della realtà e del fatto in questione; dall’altra, l’amore del prossimo, cui bisogna ispirare le scelte concrete. La scienza da sola, non congiunta alla carità, porta all’orgoglio e al disprezzo del fratello («gonfia» di umana superbia). Non basta «sapere», occorre altresì avvalersi in modo costruttivo della propria «scienza». Solo chi, oltre a conoscere, ama, è a sua volta «conosciuto» nel senso biblico del termine, è cioè oggetto della benevolenza di Dio. Perché solamente la carità «edifica», ossia costruisce la comunità (cf. 1Cor 14,12) in quanto cerca l’utile degli altri (cf. 1Cor 10,23s). Ora, Paolo applica al problema concreto tale considerazione. L’apostolo afferma che di per sé il credente può cibarsi senza alcuno scrupolo degli idolotiti. Egli infatti «sa» che Dio è uno solo e che non esistono altri dèi. La fede cristiana riconosce e confessa un unico Dio, il Padre, creatore e signore del mondo; «a lui», al suo servizio e alla sua gloria, noi siamo orientati e chiamati. Così pure, sappiamo che esiste «un solo Signore», Gesù Cristo, il mediatore della creazione e della salvezza. I numerosi «dèi e signori» dei gentili scompaiono davanti all’unico Dio: semplicemente non esistono; ma, più avanti, Paolo dirà che sono demoni, spiriti malvagi (1Cor 10,20s). Ora, se ogni realtà creata viene da Dio per mezzo del Cristo, a lui appartiene ed è a lui finalizzata, ne segue che è lecito mangiare di qualsiasi cibo (cf. 1Cor 10,23). Per quel che riguarda i nostri rapporti con Dio, la provenienza degli alimenti è irrilevante; anzi, tutto è suo dono, da ricevere con gratitudine (cf. 1Cor 10,30; Rm 14,6). Il bel distico del v. 6:
«…un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, per il quale tutto esiste e noi esistiamo grazie a lui»
è una confessione di fede, paragonabile ad altre disseminate nell’epistolario paolino (cf. 1Ts 1,9s; Rm 3,30; 10,9; 11,36; ecc.). È probabile che nel formularla Paolo si ispiri alla tradizione.
Ma – continua Paolo – questa «scienza» non è in tutti: la comunità infatti è composta di «forti» e di «deboli» (cf. Rm 14,1). Avvezzi fino a ieri a considerare le carni immolate agli idoli come un cibo sacro, per il quale si entra in comunione con la divinità, alcuni cristiani da poco convertiti proverebbero un vero rimorso se continuassero a cibarsene e, al vedere dei fratelli che lo fanno senza scrupolo, ne ricevono scandalo, ossia occasione di caduta, sentendosi come spinti e autorizzati a mangiare le carni sacrificate agli idoli appunto come «idolotiti». La libertà e il diritto – derivanti dalla certezza di fede di cui sopra – di consumare le carni immolate hanno un limite nel danno spirituale che ne può venire per i fratelli, la cui coscienza è «debole», nel senso che è tuttora condizionata dalle concezioni e dalle consuetudini passate. Deve allora entrare in azione l’altro principio: la carità, che edifica. Se ci si rende conto che il proprio comportamento, per quanto buono e legittimo, è di scandalo al fratello, è meglio rinunciare alla propria libertà e al proprio diritto pur di non spingerlo ad agire contro coscienza, a commettere perciò (soggettivamente) un peccato. Altrimenti, «per la tua scienza va in rovina il debole, per il quale Cristo è morto». La morte di Cristo rivela il valore di ogni persona ed è supremo modello di subordinazione dell’io con i suoi diritti e interessi al bene dell’altro. Non tenerne conto è «peccare contro i fratelli» e, per il fatto stesso di offendere la loro coscienza, peccare contro Cristo. La conclusione s’impone: «Perciò, se un cibo (ovviamente, dal contesto, gli “idolotiti”) scandalizza il fratello, non mangerò mai più carne in eterno» (8,13). Così Paolo introduce l’ulteriore riflessione.
2. L’esempio di Paolo In questo brano l’Apostolo conferma con il proprio esempio l’invito a rinunciare a qualcosa di legittimo in vista del bene dei fratelli. Dal momento che è un vero apostolo di Cristo (1Cor 9,1-3), come gli altri apostoli Paolo avrebbe il diritto di vivere del proprio ministero (vv. 4-14), ma vi ha rinunciato per l’evangelo, per essere realmente servo di tutti (vv. 15-23): la rinuncia è una legge della vita cristiana, che vale in primo luogo per l’apostolo (vv. 24-27). Se qui Paolo rivendica per sé il titolo di apostolo di Cristo – contro avversari, con i quali polemizzerà più a lungo nella seconda lettera ai Corinzi (cf. anche le lettere ai Filippesi e Galati) – lo fa per dimostrare i suoi diritti. L’autenticità dell’apostolato di Paolo scaturisce dall’aver incontrato personalmente il Risorto (cf. 1Cor 15,8; Gal 1,15s; At 9) e dall’esistenza stessa della comunità di Corinto. Essa è la sua «opera nel Signore», è come un «sigillo» che certifica un documento autentico, la prova che davvero Paolo è stato inviato ad annunciare l’evangelo e lo ha di fatto annunciato. Come gli altri apostoli (ossia missionari, inviati dalle comunità), in particolare come Pietro e i «fratelli del Signore» – tra i quali emerge Giacomo; cf. At 1,14; ecc. – anche Paolo ha il diritto di «vivere dell’evangelo» e che le comunità provvedano al sostentamento della donna che l’accompagna («donna sorella», ossia credente; meno probabile: moglie), quindi di non essere costretto a lavorare per sostentarsi. Una serie di argomenti conferma l’assunto: l’analogia con i rapporti economico-sociali ordinari (il soldato, l’operaio, il pastore); il dettato della legge mosaica (Dt 25,4), applicato a chi «semina realtà spirituali». Inoltre, il diritto religioso universale; la parola stessa del Signore (cf. Lc 10,7: uno dei rari casi nei quali san Paolo si riferisce a un detto di Gesù). Ma Paolo, e con lui Barnaba, non si è valso di tale diritto, ha scelto di mantenersi con il proprio lavoro (cf. 1Cor 4,12; At 18,3; 20,34) e questo «per l’evangelo [...] per non recare intralcio al Vangelo di Cristo», apparendo interessato nel momento stesso in cui l’annuncia; preferirebbe morire! Nessuno gli tolga questo vanto (davanti agli uomini, specialmente gli avversari, cf. 2Cor 11,10). Perché – soggiunge – annunciare l’evangelo non costituisce un titolo di merito, bensì un dovere, un incarico che gli è stato affidato, come a un servo. La sua «paga», di conseguenza e paradossalmente, sarà di annunciare l’evangelo gratis, sì da non usare del diritto che la sua missione gli conferirebbe. In questo modo, però, egli è «libero da tutti», non dovendo nulla a nessuno, e può farsi «servo di tutti, allo scopo di guadagnare (a Cristo) il maggior numero» di credenti. Pur non essendo «sotto la legge» (bensì sotto la grazia, cf. Gal 5), Paolo si è fatto «giudeo con i giudei», rispettando il loro attaccamento alla legge (cf. At 16,3; 18,18; 21,20ss). Si è adattato alla mentalità e al costume dei gentili (cf. At 17,22-31: adattamento alla cultura; Gal 2,12ss: comunione di mensa), difendendo la loro libertà rispetto alla legge mosaica (cf. la lettera ai Galati), fino a diventare «senza legge», come i gentili appunto che tali sono in quanto privi della legge di Mosè e pertanto ad essa non sottomessi (cf. Rm 2,12.14). L’Apostolo, tuttavia, precisa: sono tuttavia sottomesso alla legge di Cristo. La «legge di Cristo» (Gal 6,2) è la «legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù», per la quale «la giustizia della legge» divina «si compie in noi che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito» (Rm 5,2). Nel caso qui in discussione Paolo si è fatto «debole con i deboli» (cf. Rm 14-15). In una parola, si è fatto «tutto a tutti»: adattamento e accondiscendenza apostolica in vista della salvezza di ogni uomo, «per diventare partecipe con loro» dei benefici dell’evangelo, della salvezza promessa ai credenti. Esiste, infatti, anche per lui il rischio del fallimento, di essere alla fine escluso dalla stessa salvezza che ha portato agli altri. È il concetto illustrato con l’esempio delle gare atletiche (proprio a Corinto si celebravano i Giochi Istmici). Prender parte a una gara non garantisce automaticamente il premio. Dicendo: «uno solo lo conquista», Paolo non intende affermare che solo pochi cristiani si salvano, ma semplicemente: come tra gara e premio non c’è connessione automatica, così tra l’essere diventati cristiani e il conseguire la salvezza. In vista di una corona che marcirà, l’atleta si sottopone a una dura disciplina. Allo stesso modo, l’apostolo esercita su se stesso un forte autocontrollo, si sottomette a ogni privazione, per non essere squalificato egli stesso nella gara che è la vita cristiana, per ottenere invece la corona incorruttibile, la vita eterna (cf. 2Tm 4,7s; 1Pt 5,4; ecc.).
3. L’esempio di Israele Che la legge della rinuncia e dell’ascesi sia essenziale per tutti i cristiani, è insegnato nelle Scritture. Per questo Paolo porta l’esempio di Israele. Come nell’esodo tutto l’antico popolo di Dio sperimentò la salvezza e godette dei doni divini, eppure non tutti raggiunsero la terra promessa, e ciò a causa delle infedeltà alla grazia ricevuta, allo stesso modo può accadere che, nonostante il battesimo, i credenti cedano alla tentazione di ritornare alla vita pagana e così perdano la salvezza finale. La salvezza dell’esodo e i doni divini elargiti a Israele nel deserto sono rievocati sinteticamente nel passaggio del mare (cf. Es 14) e nella nube (segno della presenza di Dio: Es 13,21; 40,36ss), nella manna e nella sorgente/pozzo di acqua (cf. Es 16; Nm 20,7ss; 21,16ss). Paolo vede in tali eventi il «tipo» della salvezza cristiana: il passaggio del mar Rosso prefigurava il battesimo («furono battezzati in Mosè»). La manna è chiamata «cibo spirituale»; lo stesso aggettivo – col quale si indica una realtà divina, nella quale è operante lo Spirito – è usato per l’acqua dalla roccia e per la pietra da cui essa scaturì. Già nell’Antico Testamento l’acqua dalla rupe era andata acquistando un significato simbolico in riferimento alla legge e alla sapienza (cf. Sal 78,25; Dt 8,3; Sap 16,20); significato qui ripreso, cui potrebbe aggiungersi un simbolismo sacramentale (cf. Gv 6). Sulla scia dell’interpretazione giudaica, la quale parlava di una fonte che accompagnò gli israeliti nel deserto, simbolo della Torà e della sapienza (cf., ad es., Targum Jonatan: Nm 21; Ant. Jud. 10,7), Paolo identifica la «roccia spirituale che li accompagnava» con il Cristo preesistente (sapienza di Dio). Nonostante i segni della presenza di Dio e i doni ricevuti, la maggior parte dei figli di Israele perì lungo il cammino di liberazione (cf. Nm 14,16.35; cf. anche Gd 5). Essi «non furono graditi a Dio», che li respinse a causa dei loro peccati (si allude a Es 32: idolatria; Nm 11: rimpianto dell’Egitto; Nm 25: fornicazione; Nm 14; 17; 21: mormorazione e ribellione), con i quali rifiutarono praticamente la sua salvezza (cf. Sal 95 ed Eb 3,7ss). Il rapporto tra storia biblica e vita cristiana, tra Antico e Nuovo Testamento, è espresso col termine «tipo» (v. 6, cf. v. 11): la realtà piena e definitiva è presente in anticipo, come in un abbozzo, e pertanto prefigurata da persone e avvenimenti che appartengono alla prima fase della storia della salvezza. In questo senso le vicende di Israele sono il «tipo», nel quale è prefigurata la vita della Chiesa, e servono a questa di ammonimento («per noi»). Non però solo «come esempio» edificante, bensì appunto perché il popolo di Dio dell’età escatologica («noi, per i quali è arrivata la fine dei tempi») riconosca la propria situazione e la propria vicenda nei «tipi» che la prefigurano. Questo principio ermeneutico, che i Padri utilizzarono ampiamente, è stato richiamato dal Vaticano II (Dei Verbum, 15s). Sul rapporto tipologico tra storia biblica e realtà cristiana si fonda l’applicazione parenetica. Questa è diretta anzitutto ai «forti», che si ritengono troppo sicuri e giungono a disprezzare i «deboli» (cf. Rm 14,1ss): «Chi crede di stare, guardi di non cadere» nel peccato, in particolare nell’idolatria. Col suo proprio esempio Paolo ha insegnato loro la disciplina e l’ascesi (cf. 1Cor 9,24-27). La messa in guardia è seguita da una considerazione – accessoria rispetto alla linea dominante del pensiero – sulla fedeltà di Dio (cf. 1Cor 1,9; 1Ts 5,24) e sulla sua grazia che sostiene i credenti nelle prove.
4. Indicazioni pratiche 4.1. Fuggire l’idolatria Dall’esempio della storia di Israele discende direttamente l’ammonimento a fuggire l’idolatria. Tale sarebbe il partecipare a un banchetto sacro pagano. Questo ritorno al culto degli idoli – ultimamente dei demoni, che si celano dietro le divinità – sarebbe un provocare la gelosia dell’unico Signore e sposo del suo popolo (cf. Dt 32,16.21; 2Cor 11,2), la sua ira e il castigo che ne segue. Paolo si appella al buon giudizio dei suoi lettori: prendere parte a un pasto sacrificale pagano è incompatibile con l’essere cristiani. Infatti, il banchetto sacro stabilisce in ogni caso una «comunione» con la divinità. Ciò vale per il culto ebraico («Israele secondo la carne», cui corrisponde idealmente un Israele secondo lo spirito, o «Israele di Dio»: Gal 6,16): colui che si ciba della vittima sacrificata entra in comunione con Dio (rappresentato dall’altare). Ancor più ciò avviene nell’eucaristia: mangiando il pane spezzato (cf. At 2,42) e bevendo del calice sul quale è stata pronunciata la benedizione (cf. Mc 14,22ss e parr.), il credente comunica al corpo e al sangue di Cristo (cf. 1Cor 11,17-34: la «cena del Signore»). La comunione all’unico pane che è Cristo opera a sua volta l’unità dei credenti (cf. 1Cor 12,12-27: la Chiesa «corpo» del Cristo). In un certo senso lo stesso si verifica nei sacrifici offerti alle divinità pagane: anche se all’idolo non corrisponde nella realtà alcun essere divino (cf. 8,4) e benché cibarsi degli idolotiti sia per sé cosa indifferente e lecita (cf. vv. 23ss), dal momento che gli dèi delle genti sono demoni (cf. Dt 32,17; Sal 95[96],5; Is 65,11), chi partecipa al banchetto sacrificale del culto pagano entra in relazione con le potenze malvagie (non certo nel senso di vera «comunione», bensì in quanto si sottomette alla loro tirannia e al loro influsso). Dunque, «non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni».
4.2. Libertà e amore Regolato il caso più serio e problematico, l’Apostolo si volge a quello più ordinario e dà alcune direttive pratiche sulla base dei principi indicati fin dall’inizio. In linea di massima, è lecito mangiare tutto ciò che è posto in vendita al mercato, oppure viene offerto da colui che invita a mensa (banchetto familiare o della corporazione) «senza indagare per motivo di coscienza» di dove provenga quella carne. Mediante la citazione di Sal 23,1 se ne ripete la ragione: tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e a lui appartiene (cf. 8,6). L’atteggiamento fondamentale che ne consegue è duplice: rendere grazie a Dio per i suoi doni (cf. 1Tm 4,3); in tutte le azioni, non solamente il mangiare e bere, avere di mira la gloria di Dio (cf. Rm 15,6-7). In altre parole, tutta la vita del cristiano è culto spirituale (cf. Rm 12,1). La fede nell’unico Dio libera il credente da timori superstiziosi, allo stesso modo che la fede nel Signore Gesù lo emancipa dalla legge mosaica (cf. Gal 5) e, in particolare, da determinate osservanze rituali (cf. Rm 14-15). Una volta rivendicata la libertà del cristiano, occorre tuttavia precisarne il senso e i limiti. Non sempre vale il principio (di sapore gnostico): «Tutto è lecito». Qualora l’esercizio della propria libertà recasse scandalo ai fratelli deboli, la carità – che cerca non l’interesse proprio, ma l’edificazione della comunità e il bene di ogni fratello (cf. 1Cor 13,5) – esige di rinunciarvi e di mettere al primo posto il bene spirituale del prossimo. Questa rinuncia è imposta dal rispetto della coscienza dell’altro (cf. 8,7-12). Paolo può richiamarsi all’esempio che egli stesso dà: facendosi tutto a tutti (cf. 1Cor 9,19-23), cerca di «piacere a tutti in ogni cosa», avendo di mira la loro salvezza (cf. Rm 15,1-3). Perciò l’Apostolo conclude: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (cf. 1Cor 4,16; Fil 3,17). L’esempio di Gesù, punto di riferimento per ogni problematica riguardante le scelte morali del credente, conferisce al principio dell’agape cristiana il suo valore originale (cf. Fil 2,5ss) e innesta nel mistero pasquale una rinuncia apparentemente di poco conto.
5. Conclusione A proposito dell’idolatria, il Catechismo della Chiesa cattolica osserva: «L’idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo. Essa rimane una costante tentazione della fede e consiste nel divinizzare ciò che non è Dio. C’è idolatria quando l’uomo onora e riverisce una creatura al posto di Dio, si tratti degli dèi o dei demoni (per es., il satanismo), del potere, del piacere, della razza, degli antenati, dello stato, del denaro, ecc.» (n. 2113). Il rischio del compromesso insidia anche ogni cristiano. Ricordiamo la parola di Gesù: «Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24).