Archive pour mai, 2008

STUDI SU: « IL DIALOGO CRISTIANO-EBRAICO » – « È LA RADICE CHE PORTA TE » (RM 11,18)

dal sito:

http://198.62.75.1/www1/ofm/sbf/dialogue/CristianoEbraico.html

IL DIALOGO CRISTIANO-EBRAICO

Contributo pubblicato in: Studi Ecumenici, n. 2, 2002.

Appunti su 50 anni di storia

‘E’ la radice che porta te’
(Rm 11,18)

Giorgio Vigna
Docente di Esegesi del Nuovo Testamento – Commissario di Terra Santa

1. Alcune tappe del dialogo dal 1945
2. Il dialogo cristiano-ebraico
3. Il dialogo: donazione e accoglienza

Uno dei tratti più tragici della storia del XX secolo è stato la persecuzione antiebraica. iniziata pretestuosamente la « notte dei cristalli » del 9 novembre 1938, e messa a punto dalla Conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942) « per preparare la soluzione finale della questione ebraica ».1 Consumata con la sistematicità e i mezzi che sappiamo, segnerà per sempre la coscienza umana e religiosa delle future generazioni. Davanti alla shoah, grida e silenzi rimarranno nella memoria degli Ebrei e dei Cristiani, una memoria che non potrà mai essere identica per i due popoli. Ma Ebrei e Cristiani si ritrovano uniti davanti alla domanda: « Dio dove era? ». Le risposte non sono e non saranno che balbettii…

La shoah è una forza provocante e inquietante. Perciò non può allontanarsi dalla memoria di chiunque ami il coraggio dell’utopia di un mondo mai sufficientemente umano. Per noi Cristiani si tratta anche di una vera e propria teshuvah per imparare a leggere il passato, amare e pensare il presente sociale, politico, religioso e teologico occhi e cuore purificati.

« La storia delle relazioni tra Ebrei e Cristiani è una storia tormentata. Lo ha riconosciuto anche il santo padre Giovanni Paolo II nei suoi ripetuti appelli ai Cattolici a considerare il nostro atteggiamento nei confronti delle relazioni con il popolo ebraico »2.

Il dialogo cristiano-ebraico è un dovere urgente, affascinante e spinoso ad un tempo. Queste pagine raccolgono appunti radunati sotto tre titoli. Innanzitutto si percorrono rapidamente alcune tappe del dialogo cristiano-ebraico dal dopoguerra ad oggi. Il lettore troverà a piè di pagina una piccola quantità di riferimenti bibliografici; senza alcuna pretesa di completezza, sono una semplice indicazione per quanti vorranno riprendere i testi emanati dai vari organismi in questi ultimi sessant’anni. La seconda parte, Il dialogo cristiano-ebraico, accenna ad alcuni temi, e alle loro conseguenti problematiche, che possono costituire l’oggetto del dialogo tra le due fedi e sui quali già sono state avviate discussioni. Infine, Il dialogo: donazione e accoglienza offre una breve descrizione delle condizioni e delle finalità dell’incontro di due interlocutori che intendono raggiungere una conoscenza e un riconoscimento reciproci.

1. Alcune tappe del dialogo dal 1945

Dopo la Grande Guerra nascono Consigli e Associazioni di amicizia ebraico-cristiana che avviano un tempo assolutamente nuovo di riavvicinamento reciproco e cercano faticosamente vie di mutua conoscenza, trovandosi spesso insieme nella lotta contro l’antisemitismo.3 Molti documenti testimoniano la volontà cristiana di guardare all’Ebraismo con occhi nuovi.4

Ricordo innanzitutto l’appello consegnato alle Chiese dall’International Council of Christians and Jews nei Dieci punti di Seelisberg (Ginevra, 1947).5 Questo documento è il punto di partenza del cammino di dialogo cristiano-ebraico ormai senza ritorno ed è anche il riferimento ispirazionale di successive dichiarazioni comuni e di varie confessioni cristiane.

Infatti non pochi tratti si ritroveranno nel n. 4 della Dichiarazione Nostra aetate (28 ottobre 1965) del Concilio Ecumenico Vaticano II.6 Finalmente, e in termini inequivocabili, vi viene espresso il desiderio di apertura accogliente all’Ebraismo, dopo secoli di condanne, incomprensioni e azioni repressive:

« Questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro [Cristiani ed Ebrei] la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo ».

E’ stata la grande svolta della Chiesa cattolica.

Sulla base dei Dieci punti, il Consiglio Ecumenico delle Chiese interverrà più volte denunciando l’antisemitismo nelle Assemblee generali di Amsterdam (1948), di Evanston (1954) e di New Delhi (1961).7

Per quanto concerne la Chiesa cattolica, dopo la Dichiarazione Nostra aetate sono stati emessi pochi ma significativi documenti e discorsi ufficiali: Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate (1° dicembre 1974), della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo8; Un fraterno dialogo fra Cristiani ed Ebrei a vantaggio dell’umanità (12 marzo 1979)9 e Una catechesi oggettiva sugli Ebrei e sull’Ebraismo (6 marzo 1982)10, di Giovanni Paolo II; Ebrei ed Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. Sussidi per una corretta presentazione (24 giugno 1985), della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo11; Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (16 marzo 1998), della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo.12

Data la sua rilevanza ai fini della riflessione teologica, è opportuno segnalare qui il discorso che Giovanni Paolo II rivolse ad esponenti della comunità ebraica a Magonza (17 novembre 1980).13 Nell’occasione, il papa richiama due dimensioni del dialogo.

« La prima dimensione di questo dialogo, cioè dell’incontro tra il popolo di Dio dell’Antico Testamento, da Dio mai denunziato (cfr. Rm 11,29) e quello del Nuovo Testamento, è allo stesso tempo un dialogo all’interno della nostra Chiesa. (…) Una seconda dimensione del nostro dialogo — la vera e la centrale — è l’incontro tra le odierne Chiese cristiane e l’odierno popolo dell’alleanza conclusa con Mosè« .

E’ facile rendersi conto che riconoscere l’attuale permanenza del popolo dell’alleanza sinaitica è intanto « un atto dovuto » dalla correttezza teologica, date le premesse paoline (Rm 11). Non solo: lo stesso « atto dovuto » costituisce un’apertura su di una serie di conseguenze enormi nel ripensare l’Ebraismo, conseguenze sinceramente impegnative, che esigono un onesto impegno intellettuale da parte cristiana.

Nel frattempo l’International Catholic-Jewish Liaison Commitee (ILC)14 inizia i suoi lavori con l’Assemblea di Parigi (1971); rilascerà poi la Dichiarazione sull’Antisemitismo nell’Assemblea di Praga (1990)15 seguita dalla Raccomandazione sulla educazione nei seminari e nelle scuole di teologia cattolici ed ebraici (New York, 2001).16

Numerosi sono stati, particolarmente in questi ultimi anni, gli interventi di vari episcopati cattolici regionali e di vari organismi protestanti.17

Un fenomeno interessante si è verificato lo scorso anno negli Stati Uniti: di propria iniziativa, un gruppo di intellettuali ebrei ha firmato una dichiarazione che intende « offrire otto brevi affermazioni sulle modalità con cui Ebrei e Cristiani potrebbero intessere il loro rapporto ».18 La risposta dell’episcopato americano non si è fatta attendere. Oltre ad esprimere vivo apprezzamento per l’iniziativa, i vescovi invitano i Cattolici degli Stati Uniti « a leggere il documento con attenzione, rispetto e amore » nella « speranza che esso venga adottato come base per colloqui in corso fra parrocchie e sinagoghe in tutto il Paese ».19

Non si possono poi tacere due avvenimenti che in se stessi sono più eloquenti delle parole pronunciate: le visite del papa Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma (13 aprile 1986) e in Israele (2000). L’abbraccio del papa con il rabbino capo Elio Toaff e la sua presenza in Terra di Israele sono simboli di un desiderio di riconciliazione e di una volontà di teshuvah che non saranno dimenticati né dai Cattolici né dagli Ebrei. A Roma, il papa ha affermato il privilegiato rapporto intrinseco ed unico esistente tra il Cristianesimo e l’Ebraismo:

« La religione ebraica non ci è « estrinseca », ma in un certo qual modo, è intrinseca alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori ».20

L’affermazione è chiara. Eppure stupisce che ancora si faccia fatica, nel parlare comune e nei documenti, a considerare i rapporti dei Cristiani con l’Ebraismo in maniera diversa dai rapporti con tutte le religioni non cristiane… Per la verità, dobbiamo notare che la Congregazione per il Clero nel Direttorio generale per la catechesi dedica un paragrafo alla « Catechesi in relazione all’Ebraismo » ed un altro alla « Catechesi nel contesto di altre religioni ».21

Quanto alla visita del papa in Israele, basti citare il significativo commento del rabbino Michael Melchior:

« [Quando il papa ha toccato il Muro occidentale] è stato come se una porta, chiusa per così tanti secoli, cominciasse ad aprirsi alla riconciliazione e alla pace tra Cristiani ed Ebrei ».22

Il breve excursus storico può terminare con uno sguardo ecumenico. La versione definitiva della Charta oecumenica — approvata lo scorso 22 aprile dall’Assemblea generale del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee e della Conferenza delle Chiese Europee a Strasburgo — dedica il n. 10 alla « comunione con l’Ebraismo ». Vale la pena rileggere il testo, che offre un sintetico richiamo dei punti nodali circa le prese di posizione nella storia e dell’impegno di lavoro:

« Una speciale comunione ci lega al popolo di Israele, con il quale Dio ha stipulato un’eterna alleanza. Sappiamo nella fede che le nostre sorelle e i nostri fratelli ebrei ´sono amati (da Dio), a causa dei Padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!ª (Rm 11,28-29). Essi posseggono ´l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne…ª (Rm 9,4-5). Noi deploriamo e condanniamo tutte le manifestazioni di antisemitismo, i ´pogromª, le persecuzioni. Per l’antigiudaismo in ambito cristiano chiediamo a Dio il perdono e alle nostre sorelle e ai nostri fratelli ebrei il dono della riconciliazione. E’ urgente e necessario far prendere coscienza, nell’annuncio e nell’insegnamento, nella dottrina e nella vita delle nostre Chiese, del profondo legame esistente tra la fede cristiana e l’Ebraismo, e sostenere la collaborazione tra Cristiani ed Ebrei »23.

Alcune osservazioni finali.

I dieci punti di Seelisberg sono nati con l’intento di attirare l’attenzione sul pericolo della sopravvivenza dell’antisemitismo. Tuttavia le quattro « insistenze » positive (« Ricordare… ») e le sei negative (« Evitare… »), insieme ai tre « suggerimenti » finali indirizzate alle Chiese, avviano indubbiamente le ricerche, le iniziative e le mentalità che hanno già dato i frutti della stagione nuova. Le Chiese e l’Ebraismo oggi non presentano più le stesse rigidità comportamentali e di pensiero che hanno tormentato secoli di storia. Alle Chiese rimane però ancora un lungo cammino di teshuvah nel quale dobbiamo avventurarci con coraggio e speranza. I motivi per avere coraggio e per sperare non poggiano solo sui confortanti dati della storia recente del dialogo, ma anche, ed in primo luogo, sul « Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe », che è un « Dio della vita » (Es 3,6 e Mc 12,26).

La Charta oecumenica non è stata firmata dal Consiglio Ecumenico delle Chiese24, né dalla Santa Sede. Pur non essendo l’espressione di tutte le Chiese di tutto il mondo, il documento manifesta l’opinione e la volontà d’impegno di 34 Conferenze Episcopali e di circa 120 Chiese d’Europa, perciò la sua portata è tutt’altro che trascurabile. Ai fini del dialogo cristiano-ebraico, non si può ignorare quanto detto nel già citato n. 10. E’ probabile che sia maturo il tempo di compiere uno studio sistematico dei documenti che sono stati emanati dal 1947 al 2001, così da ottenere una prima puntualizzazione del cammino compiuto dai Cristiani e dalle diverse Chiese cristiane.

2. Il dialogo cristiano-ebraico

Prima di entrare nel merito, solleviamo una questione di fondo: il dialogo tra le due fedi può svolgersi su piani di parità, così come si svolge tra Chiese diverse? La domanda può essere rilanciata in forma più radicale, come ebbe occasione di sostenere Paolo De Benedetti: il dialogo può essere paritario, o non piuttosto sarà sempre sbilanciato, dal momento che i Cristiani hanno bisogno degli Ebrei, mentre gli Ebrei non hanno bisogno dei Cristiani?

Si impone subito un distinguo: se gli Ebrei non hanno bisogno dei Cristiani per comprendersi, questo può essere vero solo sul piano teologico e limitatamente ai fini della comprensione dell’Ebraismo biblico. Non pare ozioso tuttavia chiedersi se il Cristianesimo sia del tutto inutile per la comprensione dell’Ebraismo post-biblico; mi sia perciò concesso il dubbio in proposito. In altri termini, la domanda è la seguente: è possibile che l’Ebraismo nella sua storia post-biblica sia stato in qualche modo influenzato dal Cristianesimo?

Sul piano storico, invece, se si riconosce che Gesù e il movimento da lui originato sono nati nell’Ebraismo e da esso non intendevano staccarsi, allora gli Ebrei non possono trascurare questo « fenomeno giudaico » messianico e apocalittico che l’Ebraismo del I secolo e.v. ha espresso, con cui ha vissuto, ha discusso e non sempre polemicamente né per puro antagonismo.25

Per quanto concerne i Cristiani, sono le loro origini a rendere quantomeno necessario il dialogo. Tuttavia riconoscere l’origine ebraica del Cristianesimo comporta sia una rilettura della storia delle sue origini sia una revisione del contenuto della sua teologia.26 Le conseguenze dunque sono molteplici e irte di difficoltà. Il lavoro è iniziato da poco ma deve essere proseguito dagli storici, dai biblisti e dai teologi.

Gli studi della storia del Cristianesimo del I sec. e.v. non sono ancora giunti ad una sintesi. Infatti siamo ancora nel pieno del dibattito sul problema del legame tra il giudeo-cristianesimo e i « giudaismi » contemporanei.27 Per quanto la teologia cristiana abbia poco rivisitato la cristologia, l’ecclesiologia, la soteriologia ecc., non sono pochi i risultati messi a disposizione dei lettori. Indico solo alcuni esempi.

Riguardo alla persona di Gesù di Nazaret: è stato riconosciuto ciò che per secoli è stato dimenticato, la sua ebraicità.28 Ma questa non è che una sorta di premessa, dalla quale devono essere tratte le conseguenze. E’ necessario mostrare non solo come Gesù si relazioni con i « Giudaismi » del tempo, ma anche come la sua predicazione, i suoi gesti, le sue chiamate siano o non siano in continuità con la Tradizione.29

Se è relativamente facile « rileggere » Gesù nel contesto giudaico del tempo, l’impresa si fa assai più problematica nel caso di Paolo di Tarso.30 Intanto non sarebbe male se si evitasse di parlare della sua « conversione », parola che, applicata a Paolo, continua ad essere quantomeno ambigua. E’ vero che nel NT la « conversione » ha spesso come soggetto i Giudei (Mt 3,2; 12,41; Lc 1,16; At 2,38; 3,19 ecc.); ma è anche vero che Paolo, riferendosi all’evento di Damasco, usa un vocabolario differenziato (Gal 1,16; 1Cor 9,1; 15,8; Fil 3,12), riservando il concetto di conversione a soggetti di origine gentile (1Ts 1,9; 2Cor 12,21; Gal 4,9). Mantenere la distinzione paolina nell’uso delle parole aiuterebbe a superare l’equivoco latente, secondo il quale il Dio dei Cristiani è « altro » dal Dio dei Giudei, non è il comune Dio dei patriarchi e delle promesse. Pertanto è bene ricordare che Paolo si è convertito solo nel senso che — a seguito della « rivelazione di Gesù Cristo » (cfr. Gal 1,16) — ha operato il passaggio da un movimento giudaico ad un altro.31 Mi piace riportare le osservazioni di A. Chouraqui:

« Paolo è un polemista nato, sia che si batta nel campo dei farisei, sia che, dopo la sua conversione, porti la parola del Messia Jeshua’ fino alle estremità del mondo. Il suo conflitto personale trova una soluzione soltanto nella fede assoluta in Jeshua’ il messia, questo Gesù Cristo che egli annunzia alle nazioni. In lui, non c’è più giudeo né greco, né uomo né donna, né libero né schiavo, né ricco né povero. Tutto in lui, è uno, per il miracolo dell’amore crocifisso di cui Jeshua’ rappresenta la perfetta incarnazione. Questa certezza, follia agli occhi del mondo, gli fa scoprire la sorgente di ogni pace e di ogni gioia in una illuminazione che è quella del messia, salvatore attuale e potenziale dell’intera umanità. Questa certezza è liberatrice: ´Tutto posso in colui che mi dà forzaª (Fil 4,13) ».

E ancora:

« Seguire Jeshua’ ben Josef proclamandolo messia non implica per Paolo una rottura con l’Ebraismo. (…) Ogni partito, ogni setta, ogni capo politico o religioso, sospinto dalla tragica situazione, è convinto di essere il solo a detenere le chiavi della sopravvivenza della nazione. Da qui l’accanimento dei conflitti intestini che non oppongono gli « Ebrei » ai « Cristiani », ma, all’interno della casa di Israele, i Cristiani ai Farisei o ai Sadducei o agli Erodiani, e questi tra di loro, in uno scontro generazionale che non risparmia nessuno ».32

Venendo a questioni di sostanza, il primo grande nodo — tra i tanti — da sciogliere è costituito dalle argomentazioni davvero complesse e dure di Paolo relative alla Torah. Secondo la lettura tradizionale delle lettere ai Galati e ai Romani e soprattutto secondo una certa interpretazione di Rm 10,4 (« il termine [sic!] della legge è Cristo », nella traduzione della C.E.I.33) Paolo avrebbe pronunciato il « giudizio finale » negativo della Torah. Proprio per questa ragione anche da parte ebraica i giudizi negativi su Paolo non mancano.34 Pertanto il senso comune conserva tuttora, nonostante le nuove prospettive indicate in particolare da E.P. Sanders35, H. Räisänen36 e J.D.G. Dunn37, l’idea sommaria secondo la quale « il tempo della legge » è definitivamente chiuso e con esso il tempo della religione legalistica. Non essendo questo il momento di esaminare i passi controversi,38 mi limito a ricordare che è a partire dalla cristologia con le sue implicanze soteriologiche e missiologiche che Paolo muove uno sguardo retrospettivo alla Tradizione dei Padri e non viceversa:

« Il momento rivelatore, grazie al quale Paolo legge la storia, è costituito dalla sua stessa missione di apostolo dei Gentili, dal momento in cui Dio gli aveva rivelato il proprio Figlio (Gal, 1,16) ».39

Un secondo nodo non meno facile da affrontare è il ruolo che Paolo attribuisce a Israele nei cc. 9-11 della lettera ai Romani, una sezione che — come ha fatto giustamente rilevare J.N. Aletti40 — mette in causa non solo Israele, ma Dio stesso, e la cui interpretazione errata è stata alle origini della « teoria della sostituzione » di Israele.

Vi sono altre tematiche di studio su cui in primo luogo i Cristiani devono impegnarsi. Ne accenniamo alcune.

Il concetto di alleanza è denso di implicanze, puntualmente sintetizzate da Norbert Lohfink in un suo importante contributo:

« La questione non è tanto che cosa significhino precisamente le parole ebraiche o greche che noi traduciamo con ‘alleanza’, ma come la storia della rivelazione e della salvezza, designata da tale parola, si sia svolta e con quale gruppo concreto sia ora da identificare il ‘popolo’ attraverso cui Dio muove la storia. Poiché quindi il Cristianesimo e l’Ebraismo costituiscono di fatto due diverse pretese di essere il luogo dell »alleanza’, tutto il problema si concretizza nella questione di come queste due pretese debbano essere giudicate e di come si rapportino l’una all’altra ».41

Queste poche parole sono sufficienti per mostrare che l’ »alleanza » è un ‘luogo teologico’ nel quale sono messi in gioco i ripensamenti della soteriologia e dell’ecclesiologia o, in altri termini, il concetto stesso di « popolo di Dio ». Quando il papa a Magonza ha parlato dell’ »incontro tra il popolo di Dio dell’antica, ma mai revocata alleanza, e quello della nuova alleanza », ha implicitamente affermato che il popolo ebraico di oggi è popolo di Dio. Infatti, i Sussidi scrivono chiaramente: « esso [Israele] resta il popolo prescelto ».42 Tuttavia anche la Chiesa si autodefinisce popolo (di Dio) (cfr. At 15,14; 18,10; Rm 9,24; 1Pt 2,9-10): ne consegue per la Chiesa la necessità di ripensare la propria identità di popolo di Dio, identità che non può annullare quella del popolo ebraico.43 A questo proposito, si deve notare che il Catechismo della Chiesa Cattolica44 non presenta mai una chiara teologia sostituzionista. Tuttavia « il rapporto della Chiesa con il popolo ebraico » è collocato all’inizio del capitoletto dedicato a « La Chiesa e i non cristiani » e introdotto con la breve frase « Quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, in vari modi sono ordinati al popolo di Dio » (citazione di Lumen gentium 16). Il contenuto dei due paragrafi (nn. 839-840) sembra piuttosto incerto: nonostante il richiamo ai passi decisivi di Rm 9,4-5 e 11,29 sulla permanenza delle prerogative di Israele, si parla senza specificazioni del ‘legame con gli Ebrei’, ‘popolo di Dio dell’Antica Alleanza’, con la Chiesa ‘popolo di Dio della Nuova Alleanza’. Pare più esplicito il Catechismo degli adulti per le Chiese in Italia45, che afferma l’inesistenza della « sostituzione »:

« L’idea di un « nuovo » popolo di Dio non ha alcun rilievo negli scritti del Nuovo Testamento. Non c’è la sostituzione di Israele, ma il suo perfezionamento: Dio non ricomincia daccapo, va avanti » (n. 435).

Si riconosce poi la permanenza di Israele in quanto popolo di Dio e il suo ruolo nella storia di oggi:

« Gli Ebrei, intimamente solidali con la comunità cristiana, rimangono il popolo di Dio. Congiunti pertanto al mistero della Chiesa, che ha la pienezza dei mezzi della salvezza, cooperano anch’essi all’edificazione del regno di Dio; svolgono ‘un servizio all’umanità intera’. Non si può parlare di due vie parallele di salvezza neppure di sostituzione di una con l’altra » (n. 443).

Insomma, non si può ignorare che la ridefinizione della propria identità porta a riconsiderare il significato soteriologico di Gesù, Cristo e Signore, e della Chiesa stessa.

Infine la questione del rapporto tra i due Testamenti. Come scrive provocatoriamente E. Zenger, devono « cambiare i paradigmi nell’approccio all’Antico Testamento ». Il biblista cattolico domanda:

« Che cosa significa per la Chiesa che, in questa componente della Bibbia, gli Ebrei incontrano il Dio dell’alleanza in modo pienamente valido e indipendentemente dalla confessione di fede in Gesù, il Cristo? Che cosa significa che Ebrei e Cristiani condividono queste ‘Sacre Scritture’? Ma leggono propriamente le stesse ‘Scritture’? E’ davvero possibile un approccio genuinamente cristiano al cosiddetto Antico testamento, un modo di accostarvisi che lo rispetti nel suo carattere di ‘Bibbia ebraica’ ed al tempo stesso ponga la Sacra Scrittura cristiana al centro della propria vita? ».46

Le linee di risposta alle domande conducono al riconoscimento pieno e autonomo della portata teologica dell’Antico Testamento47, senza negare l’unità di contenuti tra i due Testamenti. Appare allora inevitabile abbandonare la tradizionale concezione cristiana che affida all’Antico Testamento la funzione semplicemente « preparatoria » al Nuovo48, e che impone al primo solo e sempre un’interpretazione tipologica o cristologica.49

Scrive ancora E. Zenger:

« Se il Primo e il Secondo Testamento hanno un ‘centro’ questo non potrà essere che JHWH, il Dio che salva e giudica in ‘contesti di vita’ sempre nuovi. In ultima analisi, anche il Nuovo Testamento, nella sua complessità, non è ‘cristocentrico’ ma ‘teocentrico’ ».50

Concludendo questa terza tappa di riflessione, desidero far notare che i grandi nodi teologici, almeno quelli che abbiamo considerato, sono stati sollevati in un tempo abbastanza recente. Molto rimane da studiare e pregare, e tanta polvere deve scendere, in attesa che si faccia chiarezza dell’immagine e del patrimonio cristiani. Lo svolgimento di tanto lavoro non può che avvenire all’interno del dialogo, in quanto donazione e accoglienza, con coloro che sono la nostra radice (cfr. Rm 11,18).

Noi Cristiani, mentre riconosciamo con onestà e umiltà che abbiamo bisogno degli Ebrei, chiediamo a loro di essere aperti e disponibili ad accompagnarci nella fatica, poiché

« Davanti a Dio entrambi, Ebreo e Cristiano, sono operai impegnati nella stessa opera. Egli non può rinunciare a nessuno dei due. In tutti i tempi egli ha creato ostilità fra i due, stringendoli però sempre con vincoli strettissimi ».51

Le parole del cardinale E. Cassidy bene riassumono lo scopo del dialogo cristiano-ebraico e ci portano al termine del nostro percorso:

« Quando noi Cattolici parliamo di dialogo teologico con gli Ebrei o con altre religioni, assolutamente non pensiamo a questo dialogo in termini di conduzione alla conversione o alla rinuncia. (…) Quando parlo di dialogo teologico con rappresentanti ebrei non parlo di unità della fede ma di un dialogo che permette ai dialoganti di comprendersi e accettarsi reciprocamente come sono, così che possano essere ciò che Dio vuole che siano nella società di oggi, nonostante le fondamentali differenze ».52

3. Il dialogo: donazione e accoglienza

Dialogare è un’arte ed una virtù. Richiede una sorta di sensibilità naturale, ma anche un lavoro su di sé. Quando poi il dialogo è un’attività di credenti, allora il lavoro su di sé presuppone il rimando a ciò che lo precede e lo accompagna: la domanda della sapienza amorosa, perché la ricerca del vero e del bello non sia mai disgiunto dall’amore illuminante. Non si nasce dialoganti: al dialogo ci educhiamo, lasciandoci anche istruire da Dio (theodidaktoi; cfr. 1Ts 4,9). Se « traffichiamo » i doni intellettuali e dell’esperienza, ci teniamo lontani dall’illusione di aver imparato abbastanza.

Siccome per dialogare bisogna essere almeno in due, si impone la considerazione dell’altro. Questi non sempre è disponibile o capace o interessato o educato a dialogare. Perciò altre virtù devono intervenire nel dialogante affinché l’altro non sia squalificato né si senta giudicato agli occhi nostri per la sua diversità di opinioni o di sentimenti.

Il dialogo dunque si costruisce: ciascuno porta la propria arte, le proprie virtù e la coscienza dei propri limiti; ciascuna parte mette a disposizione il proprio patrimonio e si apre per accogliere l’altra.

Poste queste premesse di ordine generale e di principio, riprendiamo alcune caratteristiche del dialogo.53

La curiosità o filom£qeia. Così intesa è una forza che spinge a cercare. In quanto desiderio amoroso, dispone gli occhi della mente a cercare con limpidità intellettuale e morale l’oggetto nella sua luminosità, purificandolo dalle impurità che lo rendono opaco e brutto. Cercare significa porre domande e lasciarsi interrogare, ben sapendo che ogni domanda rimanda ad un’altra. In quanto amore desiderante, non rende mai sazio colui che cerca, anzi mantiene vivo il desiderio, impedisce l’appropriazione dell’oggetto e suscita ammirazione per l’orizzonte che via via si va allargando.

La coscienza riflessa della propria identità. Il dialogo, particolarmente quando tocca dimensioni interiori ed esistenziali, mette in gioco tutta la persona. Se l’interlocutore non conosce se stesso e non ha fatto chiarezza del proprio patrimonio e della propria esperienza il dialogo non avviene. La confusione del suo pensiero e del suo vissuto si estende fino a regnare sovrana. Invece la diversità resa possibile dalla propria identità e dalla fedeltà ad essa, trasforma i dialoganti in « alterità », una dimensione da cui partire per avventurarsi nella ricerca. L’identità ovviamente richiede la verifica costante e il radicamento solido delle convinzioni, dei fondamenti storici, filosofici, teologici ai quali si è consegnata la propria vita.

La verità che ha permesso la descrizione della propria identità è la stessa che conduce alla confessione della propria fede. La confessione è un atto di rispetto della propria fede, ma presuppone l’accoglienza altrettanto rispettosa della fede dell’altro. Quando la confessione è libera e rispettosa, l’oggetto del dialogo si fa luminoso ed illuminante: i dialoganti « vedono » i valori, i nodi e i limiti del patrimonio in causa e da essi sono guidati.

La finalità del dialogo si trova — forse paradossalmente e primariamente — in continuità con quanto detto sopra: la rinnovata identità del dialogante affiora anche dallo specchiarsi nell’interlocutore che ne riflette l’immagine. L’identità allora rende possibile il dialogo e da questi è resa possibile. In questo circolo senza fine si raggiunge allora la conoscenza dell’altro che si manifesta e al quale ci si manifesta. Avviene una sorta di reciproca ri-conoscenza. Nell’interrogare e nell’interrogarsi si comprendono le ragioni della fede dell’altro, i percorsi della sua storia, le fatiche e le gioie, i fallimenti e le speranze che si rincorrono nel suo cuore e nella sua mente. Io finalmente posso comprendere l’altro a partire dall’altro, e non da ciò che penso che lui pensi, da ciò che so che lui sa.54

Incominciare dalla tolleranza? Si pensa, a ragione, che la tolleranza sia la condizione primaria di qualsiasi dialogo, poiché essa è riconoscere all’altro almeno il diritto di esistere e di esprimersi. Tuttavia dobbiamo ammettere che un simile riconoscimento è una meta decisamente minimalista e non offre una grande consolazione. Ritengo, dunque, che sia necessario andare oltre. E’ auspicabile e bello che il dialogo sia sostenuto e animato da valori più esigenti, quali il rispetto, la stima, l’ammirazione. Dobbiamo arrivare a dire apertamente all’altro: « Sono contento che tu ci sia, sei importante ed hai un significato per me, per noi ».

Riassumendo: spinti dalla curiosità, possiamo avvicinarci e rivolgerci all’altro disposti a dire e « fare » la verità. Se l’identità di ciascuno è manifestata nei suoi contorni veri, la conoscenza e la ri-conoscenza non potranno non trasformarsi in ricchezza. Solo nella reciprocità dei sentimenti e degli intenti — cercati nelle loro forme più alte — l’incontro sarà davvero tale, un dia-logo e non un mono-logo camuffato da dialogo.

NOTE

1. Il verbale della Conferenza è reperibile in traduzione italiana nel sito web di Olokaustos www.olokaustos.org/archivio/documenti/wannsee/.

2. Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, « Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah » (16 marzo 1998), III, in Il Regno 7(1998)202.

3. Si veda la conferenza di Lea Sestieri « Sviluppi nelle relazioni ebraico-cristiane (Dalla Nostra aetate n. 4 al Giubileo del 2000) », in Sestieri L., Ebraismo e Cristianesimo. Percorsi di mutua comprensione, Milano 2000, Paoline, pp. 201-224; cfr. Wahle H., Ebrei e cristiani in dialogo. Un patrimonio comune da vivere, Milano 2000, Paoline, pp. 171-182.

4. Croner H. (ed.), Stepping Stones to Further Jewish-Christian Relations: An Unabridged Collection of Christian Documents, London-New York 1977; Hoch M.T. – Dupuy B., Les Eglises devant le Judaïsme. Documents officiels 1948-1978, Paris 1980, Cerf ; Rendtorff R. – Henrix H.H., Die Kirchen und das Judentum. Dokumente von 1945 bis 1985, Paderborn-München 1989, II ed; Sestieri L. – Cereti G., Le chiese cristiane e l’ebraismo (1947-1982), Casale Monferrato 1983, Marietti (Radici 1); Croner H. (ed.), More Stepping Stones to Jewish-Christian Relations: An Unabridged Collection of Christian Documents, 1975-1983, New York 1985; International Catholic-Jewish Liaison Commitee, Fifteen Years of Catholic-Jewish Dialogue. 1970-1985, Città del Vaticano 1988, Libreria Editrice Vaticana; In dialogo con i « fratelli maggiori ». Documenti, Roma 1988, AVE.

5. Sestieri L. – Cereti G., Le chiese cristiane e l’ebraismo, pp. 1-3. Documenti successivi dell’ICCJ (sito web: www.iccj.org) in International Council of Christians and Jews, The New Relationship between Christians and Jews. Documentation of Major Statements, Heppenheim 1999. Del Consiglio fanno parte attualmente 33 membri distribuiti in 30 Paesi.

6. Concilio Ecumenico Vaticano II, « Nostra aetate », in EV 1/861-868; Sestieri L. – Cereti G., Le chiese cristiane e l’ebraismo, pp. 73-75.

7. Rispettivamente in V/58; V/168; V/306 (Risoluzione sull’antisemitismo).

8. EV 5/772-793; Sestieri L. – Cereti G., Le chiese cristiane e l’ebraismo, pp. 196-203.

9. Discorso ad esponenti delle organizzazioni ebraiche, in Sestieri L. – Cereti G., Le chiese cristiane e l’ebraismo, pp. 286-289.

10. Discorso ai Delegati delle Conferenze episcopali per i rapporti con l’Ebraismo, in Sestieri L. – Cereti G., Le chiese cristiane e l’ebraismo, pp. 337-340.

11. EV 9/1651-1658.?

12. EV 17/520-550.

13. Sestieri L. – Cereti G., Le chiese cristiane e l’ebraismo, pp. 331-334.

14. Lo schema delle attività nel sito web www.bc.edu/bc_org/research/cjl/news/ILC.htm. I testi delle prime dodici sessioni in International Catholic-Jewish Liaison Commitee, Fifteen Years of Catholic-Jewish Dialogue. 1970-1985, Città del Vaticano 1988, Libreria Editrice Vaticana.

15. Testo italiano nel sito web di Le nostre Radici www.nostreradici.it/Doc_Praga.htm.

16. Testo inglese nel sito web di Chrétiens et Juifs pour un enseignement de l’Estime www.chretiens-et-juifs.org/Documents_Dialogue/ICJLC_on_Education.htm.

17. Ad esempio: per parte italiana: « Sui rapporti ebraico-cristiani oggi (1 aprile 1988) », in ECEI 4/1010-1013; per parte francese, la dichiarazione dell’episcopato L’attitude des chrétiens à l’égard du judaïsme (1973) e il recente contributo Comité Épiscopal Français pour les Relations avec le Judaïme, Lire l’Ancien Testament. Contribution à une lecture catholique de l’Ancien Testament pour permettre le dialogue entre juifs et chrétiens, Paris 1997; per parte americana: Guidelines for Catholic-Jewish Relations (1967 e 1985, Revision). Molti documenti sono reperibili nel sito web di Jewish-Christian Relation www.jcrelations.net/statemt.htm.

18. « Dabru emet. Dichiarazione di intellettuali ebrei sui cristiani e il cristianesimo » (2000), in Il Regno 21(2000)695-696. Volume di accompagnamento: Aa.Vv., Christianity in Jewish Terms, Boulder 2000; commenti in Sidic 3(2000) e 1(2001).

19. Comitato Episcopale per gli Affari Ecumenici e Interreligiosi, « Il potere delle parole. Risposta cattolica a Dabru emet » (18 ottobre 2000), in Il Regno 17(2001)588.

20. Il discorso alla Sinagoga in Il Regno 9(1986)279-280. Lo stesso concetto (« connessi e vicini sul piano della rispettiva identità religiosa ») fu espresso con altre parole nei Discorsi ad esponenti delle organizzazioni ebraiche (p. 287, nota ) e ai Delegati delle Conferenze episcopali (p. 338, v. nota ), e sarà ripreso dai Sussidi (n. 2, 9/1618, v. nota ).

21. Congregazione per il Clero, « Direttorio generale per la catechesi » (15 agosto 1997), 199 e 200, in EV 16/1027 e 1028-1029; cfr. Sinodo dei Vescovi, « Elenco finale delle proposte del Sinodo per l’America » (11 dicembre 1997), Proposte 62 e 63, in EV 16/1784 e 1785.

22. Osservatore Romano del 22 marzo 2000.

23. KEK-CCEE, « Charta oecumenica. Linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa » (22 aprile 2001), in Il Regno 9(2001)315-318. E’ interessante notare che la bozza della Charta (luglio 1999) [Il Regno 19(1999)656] dedicava il n. 9 alle « Relazioni con le altre religioni »; quindi, dopo due brevi e poco incisivi paragrafi dedicati all’Ebraismo, veniva prestata attenzione ai musulmani e ai membri delle altre religioni. Le proteste e le osservazioni in merito che da molte parti inviammo sono state accolte

24. Attualmente, appartengono al Consiglio 342 Chiese sparse in 120 Paesi. Come sappiamo, la Chiesa Cattolica Romana non ne è membro ufficiale, anche se vi partecipa attivamente ai lavori.

25. Cfr. Boccaccini G., Il medio giudaismo. Per una storia del pensiero giudaico tra il terzo secolo a.e.v. e il secondo secolo e.v., Genova 1993, Marietti.

26. Se uso l’espressione « cristiano-ebraico » in luogo di quella più comune « ebraico cristiano » è proprio per sottolineare la necessità per il Cristianesimo in primo luogo a dialogare con l’Ebraismo. Quindi non è semplicemente perché considero il dialogo dall’angolazione che mi appartiene, quella cristiana, né tantomeno per una svista dell’ordine storico con cui le due fedi sono apparse.

27. Si vedano per es. i contributi di Flusser D., Il Giudaismo e le origini del cristianesimo, Genova 1995, Marietti (Radici 15) [or. 1988] ; Vouga F., Les premiers pas du christianisme, Genève 1997; Manns F., Le judéo-christianisme, mémoire ou prophétie?, Paris 2000.

28. « Gesù è ebreo e lo è per sempre »: Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, « Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. Sussidi per una corretta presentazione » (24 giugno 1985), III,1, in EV 9/1636.

29. Si vedano, per es. i contributi del protestante Young B.H., Jesus the Jewish Theologian, Peabody 1995; e del cattolico Meier J.P., A marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus, vol. I: The Roots of the Problem and the Person, New York 1991; vol. II: Mentor, Message and Miracles, New York 1994; vol. III: Companions and Competitors, New York 2001.

30. La storia della ricezione di Paolo mostra come molto presto nel secolo XX l’interesse per l’ebraicità di Paolo da parte cristiana e da parte ebraica si è fatto sempre più intenso e con risultati d’indagine spesso opposti. Si vedano per es. Hübner H., « Paulusforschung seit 1945. Ein kritischer Literaturbericht », in ANRW, vol. II,25.4 (1987), pp. 2649-2840; Merk O., « Paulus-Forschung 1936-1985″, in ThR 53(1988)1-81; anche i brevi articoli di Stegner W.R.,, « Jew, Paul the », e di Hafemann S.J., « Paul and His Interpreters », in Hawthorne G.F. – Martin R.P. – Reid D.G. (a cura di), Dictionary of Paul and His Letters, Downes Grove – Leicester 1993, rispettivamente alle pp. 503-511 e 666-679. Attualmente le « biografie » di Paolo e i commenti alle sue lettere hanno quasi del tutto abbandonato la tendenza inaugurata da A. Deissmann (1911) a spiegare la sua persona e il suo pensiero a partire dal sottofondo ellenistico. Uno studio originale è quello di Young B.H., Paul the Jewish Theologian. A Pharisee among Christians, Jews, and Gentiles, Peabody 1997.

31. Cfr. Boccaccini G., « Paolo ebreo », in Aa.Vv., Ebrei e Cristiani alle origini delle divisioni, Torino, A.E.C. (Quaderno n. 4), p. 48.

32. Chouraqui A., Gesù e Paolo Figli d’Israele, Magnano 2000, Qiqajon [or. 1988], pp. 68 e 71-72.

33. Già nel 1641 Giovanni Diodati aveva tradotto: « il fin della legge è Christo ».

34. Klausner J., From Jesus to Paul, New York 1943 (Paolo ha liberato i cristiani dai vincoli delle leggi ma li ha legati coi duri vincoli dei dogmi); Schoeps H.-J., Paulus. Die Theologie des Apostels im Lichte der jüdischen Religionsgeschichte, Tübingen 1959 (Paolo ha frainteso la Legge); Sandmel S., The Genius of Paul: A Study in History, New York 1970 (Paolo ha dato una caricatura della Legge).

35. Sanders E.P., Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Brescia 1986, Paideia [or. 1977]; Paolo, la legge e il popolo giudaico, Brescia 1989, Paideia [or. 1983];

36. Räisänen H., Paul and the Law, Tübingen 1983.

37. Dunn J.D.G., Jesus, Paul and the Law, Louisville 1990.

38. Un’ampia analisi in Aletti J.-N., Comment Dieu est-il juste? Clefs pour interpréter l’épître aux Romains, Paris 1991.

39. Sanders E.P., San Paolo, Genova 1997, Il Melangolo [or. 1991], p. 109; cfr. Aletti J.-N., Comment Dieu est-il juste?, pp. 241-242.

40. Aletti J.N., « Israele in Romani. Una svolta nell’esegesi », in Cipriani S. (ed.), La lettera ai Romani ieri e oggi, Bologna 1995, EDB, pp. 107-123.

41. Lohfink N., « L’alleanza mai revocata. Riflessioni esegetiche per il dialogo tra cristiani ed ebrei », in GdT 201(1991)14 [or. 1989]. Si vedano anche Thoma C., Teologia cristiana dell’ebraismo, Casale Monferrato 1983, Marietti (Radici 3) [or. 1978]; Mussner F., Il popolo della promessa. Per il dialogo ebraico-cristiano, Roma 1982, Città Nuova [or. 1979]; Rossi De Gasperis F., « Israele e la radice santa della nostra fede », in Rassegna di teologia 1(1980)1-15; « Israele e la radice santa della nostra fede », in Rassegna di teologia 2(1980)116-129; Gräßer E., Il patto antico nel nuovo, Brescia 2001, Paideia (Studi biblici 132) [or. 1985]; Sarason R.S., « The Interpretation of Jeremias 31:31-34 in Judaism », in Petuchowski J.J., When Jews and Christians Meet, New York 1988, pp. 101-103; Lohfink N., « Alliance, torah et pélérinage des nations au Mont Sion », in Sidic 24 /2-3(1991)3-14; Lohfink N., « Il concetto di alleanza nella teologia biblica », in CivCatt 142(1991)353-367.

42. VI,1; EV 9/1656. Poco prima (II,10; EV 9/1634) è detto: « il popolo dell’antica e della nuova alleanza… ». Ma poi (IV,2; EV 9/1652), citando la NA 4, si ribadisce: « …anche se è vero che ‘la Chiesa è il nuovo popolo di Dio’ ».

43. E’ noto che la 1Pt 2,9-10 è il passo principale dal quale esegeti e teologi ricavano (indebitamente) la « teologia della sostituzione ». Un esempio tra i tanti si trova nel commento di Schelkle K.H., Le lettere di Pietro. La lettera di Giuda, Brescia 1981, Paideia (CTNT XIII/2) [or. 19805; 19611]: « [La lettera enumera] una serie di titoli che, nell’AT, originariamente riguardavano Israele come popolo eletto da Dio. Il vero Israele è la chiesa (Fil 3,3; Gal 6,16). Perciò ad essa sono riservate tutte le promesse fatte ad Israele e tutte le qualificazioni che ne indicano la dignità » (p. 124).

44. Città del Vaticano 1992, Libreria Editrice Vaticana.

45. Conferenza Episcopale Italiana, La verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti, Città del Vaticano 1995, Libreria Editrice Vaticana.

46. Zenger E., Il Primo Testamento. La Bibbia ebraica e i Cristiani, Brescia 1997, Queriniana (GdT 248). [or. 19922; 19911].

47. Rendtorff R., Cristiani ed Ebrei oggi. Nuove consapevolezze e nuovi compiti, Torino 1999, Claudiana [or. 1998], cap. III.

48. Dello stesso parere Fitzmyer J.A., The Biblical Commission’s Document « The Interpretation of the Bible in the Church ». Text and Commentary, Roma 1995, PIB (Subsidia biblica 18), p. 73. Si veda anche M. Pesce M., « Può la teologia cristiana rispettare la natura ebraica della Bibbia? », in Aa.Vv. Ebrei e Cristiani alle origini delle divisioni, Torino, A.E.C. (Quaderno n. 4), pp. 87-112.

49. Cfr. Sussidi, II,3-8; EV 1627-1632. Riconoscere l’autonomia teologica dell’AT di per sé non contraddice né impedisce la lettura tipologica o cristologica in uso nella Chiesa fin dall’antichità.

50. Il Primo Testamento, p. 212.

51. Rosenzweig F., La stella della redenzione, Casale Monferrato 1985, Marietti, p. 444 [or. 1976].

52. Citato da Dujardin J., « The Future Task of Christian Jewish Dialogue », in Sidic 33 3(2000)11.

53. Cfr. Maffeis A., Il dialogo ecumenico, Brescia 2000, Queriniana (Piccola Biblioteca delle Religioni 23), pp. 145-164.

54. Questo principio, applicato al dialogo cristiano-ebraico, è affermato chiaramente negli Orientamenti, Prologo, in EV 5/774; Sestieri L. – Cereti G., Le chiese cristiane e l’ebraismo, p. 197.

PAOLO VERSO ROMA – ATTI 28, 1-31– CONSIDERAZIONE SULL’ULTIMO CAPITOLO

PAOLO VERSO ROMA - ATTI 28, 1-31– CONSIDERAZIONE SULL’ULTIMO CAPITOLO

testo di Atti 28, 1-31 dal sito:

http://www.bibbiaedu.it/pls/bibbiaol/GestBibbia.Ricerca?Libro=Atti%20degli%20Apostoli&Capitolo=28

stralcio da: Bianchi F., Atti degli Apostoli, Città Nuova Editrice, Roma 2003

pagg. 302-304

l’autore prima di iniziare l’esegesi dell’ultimo capitolo degli Atti propone un excursus per una migliore comprensione di questa parte, che tratta del viaggio di Paolo dopo il naufragio, ossia da Malta verso Roma:

« Il libro degli Atti si conclude con questo capitolo nel quale Luca ricapitola molti temi e riprende generi letterari già incontrati durante il racconto. Questa grande ricapitolazione inizia in At 28, 1-10 dove si narra, sulla base di alcune notizie relative allo sbarco dell’apostolo e dei suoi compagni a Malta, la conclusione del naufragio in un ambiente in un ambiente « barbaro » per molti versi vicino a quello di Listra. La sezione contiene un racconto di miracolo e un racconto di guarigione: entrambi presentano Paolo, che gode della protezione di Dio e che in suo nome opera guarigioni. In questa descrizione l’apostolo segue l’esempio stesso di Gesù, come dimostra l’eco di almeno due episodi evangelici sia nel serpente che morde Paolo (Lc 10,19) sia nella guarigione del Padre di Publio che ricorda la guarigione della suocera di Pietro (Lc 4,38). La seconda sezione del capitolo, At 28, 11-16 traccia l’ultima parte dell’itinerario alla prima persona plurale che condurrà Paolo e gli altri naufraghi da Malta fino a Pozzuoli e da qui a piedi fino a Roma: nella capitale dell’impero la corsa della parola, superato ogni ostacolo, ha l’ultimo e più importante traguardo. Nelle notizie desunte da questo itinerario, Luca ha inserito l’incontro di Paolo con i cristiani di Roma e l’inizio della custodia militaris dell’apostolo, guardato a vista da un soldato. La terza parte, At 28,17-22, ci introduce all’ultima scena del libro. Paolo invita nella propria casa i maggiorenti della comunità ebraica di Roma, per riassumere la propria vicenda giudiziaria e per ribadire la propria innocenza: se il loro silenzio diplomatico sulla vicenda dell’apostolo e la loro ignoranza del cristianesimo sono storicamente poco verosimili , nondimeno la loro presenza nell’economia del racconto lucano è funzionale alla scena culminante del libro cioè At 28, 23-31. È proprio in questa sezione, che tanti temi dell’opera lucana, come il cantico di Simeone (Lc 2), l’incredulità di Israele (Lc 8, 10) o la predicazione dello stesso Paolo ad Antiochia di Pisidia (At 13), trovano la loro preziosa ricapitolazione: la riflessione sul passato missionario di Paolo si interseca così con la situazione presente e si apre al futuro di salvezza per le genti. In conformità con la propria strategia missionaria, Paolo può annunciare ai giudei che abitano la capitale dell’impero quanto aveva predicato durante i propri viaggi missionari: l’annunzio provocherà anche in questo caso una profonda divisione all’interno del giudaesimo, esemplificata nella citazione della profezia di Is 6,9 secondo la versione greca della Settanta, e giustificherà l’inizio dell’annuncio ai pagani. Gli ultimi versetti del libro, quasi una sorta di , descrivono Paolo nella propria stanza, intento ad annunciare ai suoi visitatori il regno di Dio e d insegnare il messaggio di Gesù Cristo. Ciò avviene oramai lontano dalla sinagoga, ma in tutta libertà e senza la minima opposizione da parte dell’autorità romana: questa chiusa, che tace il martirio dell’apostolo presupposto dal discorso di Mileto, ha spinto gli esegeti a trovare una spiegazione al silenzio di Luca. Alcuni autori hanno ipotizzato che Luca avesse completato la propria opera prima della morte dell’apostolo, ma l’ipotesi non appare molto verosimile; altri suppongono che il martirio dell’apostolo avrebbe dovuto costituire un libro a sé stante, ma anche in questo caso l’evidenza è assai debole; altri autori ancora, sulla scorta delle notizie fornite da Eusebio, credono che l’apostolo sarebbe stato liberato dopo che l’autorità romana non era riuscita ad istruire il processo a suo carico nei due anni di carcerazione preventiva: egli avrebbe visitato la Spagna e avrebbe subito una seconda prigionia in Asia minore, conclusasi col martirio, durante la persecuzione di Nerone. L’ipotesi ha trovato diversi sostenitori, ma alla lue di quanto detto, sembra preferibile pensare che al termine dei due anni di prigionia, verso il 62 d.C. Paolo abbia subito il martirio.

sto cominciando a dare una forma a tutti gli scritti che ho messo…

si, ci vuole un po’ di tempo, anzi tanto tempo per capire Paolo, poi ci vuole tempo per trovare dei buoni testi e scegliergli, per catalogarli e dividerli; ci vuole ancora più tempo perché io stessa cominci a scrivere qualche riflessione « seria » su Paolo, pensieri ed intuizioni ne ho tante, ma voglio scriverle quando mi sento un po’ più convinta di quello che scrivo, perché, giorno dopo giorno, mi accorgo di quanto Paolo sia grande, di quanto della Chiesa  e della nostra fede abbia il suo fondamento in Paolo;

c’è la storia di Paolo, i dipinti che lo ritraggono, le esegesi, tuttavia vi è altro ancora, molto di più, come sto cominciando a fare, non solo i testi nella liturgia di ogni giorno, ma tutta la liturgia quanto è « fondata » naturalmente sul Signore, ma anche sul pensiero di Paolo;

poi c’è la preghiera, così perfetta che si riesce a difficoltà a dargli un ordine, e questo non solo io, ma persone più preparate di me fanno fatica;

poi ci sono i Padri della Chiesa, è un materiale enorme, che non sarà possibile proporre che in parte;

poi ci sono i Santi, alcuni quanto hanno basato la propria fede in Paolo, per dire solo due nomi: Sant’Agostino, ogni suo scritto è « colmo » dei pensieri di Paolo, come se fondasse la sua vita sull’Apostolo; poi, direi anche, San Francesco, in una chiesetta, vicino casa, c’è un dipinto, ritrae il momento in cui San Francesco riceve le stimmate, ma il pittore sotto l’immagine ha messo non una citazione da San Francesco, ma da San Paolo, quando dice che porta le stimmate del Signore;

ci sono i Papi, Papa Benedetto, come vedete già ho messo molto di quanto ha scritto come Papa, ma dai libri che ha scritto precedentemente, c’è tantissimo; poi c’è Papa Giovanni Paolo II, anche lui fa spesso riferimento a Paolo;

vorrei fare qualcosa di ordinato e schematico, ma credo, nonostante faccio e cercherò di fare del mio meglio, so che sarà difficile, è tutta la storia della nostra fede, la nostra fede, che continua ad avere, comunque, per Padre San Paolo;

questo Blog per me è come un cammino, come una preghiera, un luogo per trovare e ritrovare l’Apostolo, io sfoglio libri, navigo su internet, studio, ma ho l’impressione che niente, ancora, è paragonabile a Paolo, niente lo comprende veramete, credo che quest’anno « paolino » sarà un grande dono per la chiesa e per tutti, con l’aiuto di Dio e dell’Apostolo, un grande rinnovamento una grande speranza;

Giovanni Paolo II, Liturgia della Parola con gli Indiani del Canadà – San Paolo, molte citazioni da Lettere diverse

dal sito: 

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1984/documents/hf_jp-ii_hom_19840915_santuario-huronia_it.html

VIAGGIO APOSTOLICO IN CANADA

LITURGIA DELLA PAROLA CON GLI INDIANI DEL CANADA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Santuario dei Martiri canadesi (Huronia)
Sabato, 15 settembre 1984

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo.

1. Chay. Con questa tradizionale parola di benvenuto huroniana, voglio salutarvi tutti. E vi saluto anche in nome di Gesù Cristo che vi ama e che vi ha chiamati da ogni tribù, lingua, popolo e nazione (Ap 5, 9), per essere una sola cosa nel suo corpo, la Chiesa. I canadesi sono veramente un popolo dalle molte razze e lingue, ed è perciò motivo di grande gioia per me poter pregare con voi in questo luogo sacro, il santuario dei Martiri, che è per noi simbolo dellunità della fede in una diversità di culture. Saluto quelli di voi che sono venuti da luoghi lontani come lestremo Nord e da zone rurali dellOntario, quelli delle città del Sud, quelli che sono venuti da altre province e dagli Stati Uniti. Desidero salutare in particolar modo gli autoctoni del Canada, i discendenti dei primi abitanti di questo Paese, gli indiani nord-americani. 2. Siamo riuniti in questo luogo, Midland, che riveste una grande importanza nella storia del Canada e nella storia della Chiesa. Qui si trovava una volta il santuario di Sainte Marie, destinato nel 1644 da uno dei miei predecessori papa Urbano VIII ad essere luogo di pellegrinaggi, il primo del genere nel Nord America. Qui i primi cristiani di Huronia trovarono una

casa di preghiera e un luogo di pace. E qui si trova oggi il santuario dei Martiri, simbolo di speranza e di fede, simbolo del trionfo della croce. La lettura del brano della lettera di san Paolo ai Romani che abbiamo proprio ora ascoltata ci aiuta a comprendere il significato di questo posto sacro, e da dove i martiri attinsero il coraggio di dare la loro vita in questo Paese. Ci aiuta a comprendere la potenza che attrasse alla fede le popolazioni autoctone. E questa potenza era lamore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8, 39).

3. San Paolo ci parla anche della sua incrollabile fiducia nellamore di Cristo e nel suo potere di superare tutti gli ostacoli: Chi ci separerà dunque dallamore di Cristo? (Rm 8, 35). Sono parole che procedono dalla profondità del suo essere e dalla sua esperienza personale di apostolo. Questo grande missionario dovette infatti affrontare molte prove e difficoltà nel suo zelante impegno a proclamare il Vangelo. Ai Corinzi scrive: Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese (2 Cor 11, 26-28). Eppure san Paolo si gloria in mezzo a queste avversit

à e dice che in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati (Rm 8, 37). Egli sopporta con gioia tutte queste avversità perché è convinto dellamore di Cristo, e che niente potrà separarlo dal suo amore.

4. La stessa fiducia nellamore di Dio guidò la vita dei martiri che sono venerati in questo santuario. Come Paolo, essi stimavano che lamore di Cristo fosse il più grande di tutti i tesori. Essi credevano inoltre che lamore di Cristo fosse così forte che nulla avrebbe potuto separarli da esso, neanche la persecuzione e la morte. I martiri nordamericani rinunciarono alla vita per amore del Vangelo, per portare la fede agli autoctoni che servivano. Sappiamo infatti che la loro fede era così grande da indurli a chiedere la grazia del martirio. Ricordiamo per un momento questi eroici santi che sono venerati in questo luogo e che ci hanno lasciato un prezioso retaggio. Sei di essi erano Gesuiti francesi: Jean de Br

ébeuf, Isaac Jogues, Gabriel Lalemant, Antoine Daniel Charles Garnier e Noël Chabanel. Infiammati di amore per Cristo e ispirati da santIgnazio di Loyola, da san Francesco Saverio e da altri grandi santi della Compagnia di Gesù, questi sacerdoti vennero nel Nuovo Mondo per proclamare il Vangelo di Gesù Cristo alle popolazioni autoctone di questo Paese. Perseverarono fino alla fine nonostante difficoltà di ogni genere.

Facevano parte del gruppo di missionari due fratelli laici: René Goupil e Jean de la Lande. Con uguale coraggio e fervore, aiutarono i sacerdoti nella loro opera, diedero prova di grande dedizione e spirito di servizio agli indiani, e con il sacrificio della vita conseguirono la corona del martirio. Mentre davano la loro vita, questi missionari guardavano al futuro, al giorno in cui gli autoctoni avrebbero raggiunto la piena maturit

à e assunto un ruolo di leadership nella loro Chiesa. San Giovanni de Brébeuf sognava una Chiesa pienamente cattolica e pienamente huroniana.

Una giovane donna di discendenza algonquina e mohawk è anchessa meritevole oggi di un particolare riconoscimento: la beata Kateri Tekakwitha. Chi non ha sentito parlare della sua straordinaria testimonianza di purezza e santità di vita? Appena quattro anni fa ebbi la gioia personale di dichiarare beata questa donna di grande coraggio e di grande fede, conosciuta da molti come il Giglio dei Mohawk. A quelli di voi che vennero a Roma per la sua beatificazione dissi allora: La beata Kateri si pone a noi come simbolo del retaggio che è vostro, di voi indiani nord-americani (22 giugno 1980). 5. Mentre siamo oggi qui riuniti in preghiera nel santuario dei Martiri, vogliamo ricordare il grande impegno della Chiesa, cominciato tre secoli e mezzo fa, a portare il Vangelo di Cristo nella vita degli autoctoni del Nord-America. I martiri qui venerati costituiscono solo una piccola rappresentanza di tutti quegli uomini e di tutte quelle donne che parteciparono a questo grande sforzo missionario. Diamo il nostro riconoscimento anche a tutti quelli che, come la beata Kateri, abbracciarono gioiosamente la fede cristiana, e rimasero fedeli nonostante le numerose prove e avversit

à. Di grande importanza per la Chiesa di Huronia è Joseph Chiwatenwa, che con la consorte Aonnetta, il fratello Joseph e altri membri della famiglia attesta ancora una volta la verità di cui fu testimone lapostolo Paolo: Chi ci separerà dallamore di Cristo?. Una statua commemora oggi la vita e la missione di Joseph Chiwatenwa. È particolarmente impressionante la testimonianza di san Carlo Garnier nelliscrizione: In questo cristiano ponevamo la nostra speranza in Dio. Questi uomini e queste donne non solo professarono la fede e abbracciarono lamore di Cristo, ma diventarono a loro volta evangelizzatori, e ancora oggi ci offrono un modello eloquente di ministero dei laici.

Vogliamo anche ricordare come le degne tradizioni delle tribù indiane furono rafforzate e arricchite dal messaggio evangelico. Questi nuovi cristiani sapevano per istinto che il Vangelo, lungi dal distruggere i loro autentici valori e costumi, aveva il potere di purificare ed esaltare il patrimonio culturale che avevano ricevuto. Nella sua lunga storia la Chiesa si è costantemente arricchita delle nuove tradizioni che sono venute via via ad aggiungersi alla sua vita e al suo retaggio. Oggi noi siamo grati per il ruolo che le popolazioni autoctone svolgono non solo nel tessuto multiculturale della societ

à canadese, ma nella vita della Chiesa cattolica. Cristo stesso è incarnato nel suo corpo, la Chiesa. E attraverso la sua azione la Chiesa vuole aiutare tutti i popoli a trarre, dalle proprie tradizioni vive, espressioni originali di vita cristiana, di celebrazione e di pensiero (Catechesi Tradendae, 53).

Così lunica fede viene espressa in modi diversi. Escludendo che si possa in alcun modo adulterare la parola di Dio o svuotare della sua potenza la croce, la realtà è invece questa: Cristo anima il centro stesso di ogni cultura, per cui non solo il cristianesimo interessa tutte le popolazioni indiane, ma Cristo, nei membri del suo corpo, è egli stesso indiano. La rinascita della cultura indiana sar

à inoltre una rinascita di quegli autentici valori che essi hanno ereditato e custodito, che sono purificati e nobilitati dalla rivelazione di Gesù Cristo. Attraverso il suo Vangelo, Cristo conferma le popolazioni autoctone nella loro fede in Dio, nella loro consapevolezza della sua presenza, nella loro capacità di scoprirlo nel creato, nella loro dipendenza da lui, nel loro desiderio di adorarlo, nel loro senso di gratitudine per questo Paese, nella loro gestione responsabile della terra, nella riverenza per tutte le sue grandi opere, nel loro rispetto per i loro anziani. Il mondo ha bisogno di vedere questi valori – e tanti altri ancora che possiede – perseguiti nella vita della comunità e incarnati in un intero popolo.

Infine è nel sacrificio eucaristico che Cristo, unito ai suoi membri, offre al Padre tutto ciò che costituisce la vita e le culture. In questo sacrificio egli consolida tutto il suo popolo nellunità della sua Chiesa e ci chiama tutti alla riconciliazione e alla pace. Come il buon samaritano, siamo chiamati a fasciare le ferite del nostro prossimo in difficolt

à. Insieme a san Paolo, dobbiamo dire: Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione (2 Cor 5, 18). È veramente arrivato per i canadesi il momento di mettere da parte tutte le divisioni sorte con il passare dei secoli tra i popoli originalmente presenti e quelli che si insediarono successivamente nel continente. Questo appello è rivolto a tutti gli individui e tutti i gruppi, a tutte le Chiese e a tutte le comunità ecclesiali del Canada. Diciamo ancora una volta, con le stesse parole di san Paolo: Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza (2 Cor 6, 2).

6. Carissimi fratelli e sorelle in Cristo, questo santuario dei Martiri di Huronia testimonia del ricco retaggio che è stato trasmesso a tutta la Chiesa. È anche un luogo di pellegrinaggio e di preghiera, un memoriale dei benefici accordati da Dio nel passato, unispirazione quando ci volgiamo al futuro. Lodiamo dunque Dio per la sua previdente sollecitudine e per tutto ciò che abbiamo ereditato dal passato.

Mentre proseguiamo nel nostro cammino raccomandiamoci allintercessione dei martiri nordamericani, alla beata Kateri Tekakwitha, a san Giuseppe patrono del Canada, e a tutti i santi, insieme a Maria, Regina dei santi. E, uniti a tutta la Chiesa – nella ricchezza della sua diversità e nella potenza della sua unità – proclamiamo con la testimonianza della nostra vita che né morte né vita . . . né alcunaltra creatura potrà mai separarci dallamore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8, 38-39).

Publié dans:PAPA GIOVANNI PAOLO II |on 28 mai, 2008 |Pas de commentaires »

P. Marco Adinolfi: « Per voi diventò povero essendo ricco » (2Cor 8,) – post n. 2

« PER VOI DIVENTÒ POVERO ESSENDO RICCO » (2Cor 8, 9)

P. MARCO ADINOLFI

stralcio dal libro: L’incarnazione l’attualità di un messaggio, studio interdisciplinare a cura di Vincenzo Battaglia, Edizioni O.R. – Milano 1985;

la traslitterazione è quella del professore, ma non ho la possibilità di mettere gli accenti;

71-75

« 3.  

2Cor 8,9 è considerato comunemente molto vicino a Fil 2, 6-11, al punto che si è potuto chiamarlo il suo commento o un quasi suo parziale. Pur mostrando però con esso affinità sostanziali (natura divina – svuotamento esaltazione in Fil, ricchezza – impoverimento – arricchimento in 2Cor), il nostro passo se ne discosta per il timbro soteriologico. In Fil è in Cristo che alla catabasi dell’autospogliazione segue l’anabasi della glorificazione da parte di Dio Padre. In 2Cor invece l’autoimpoverimento di Cristo è intrapreso per gli uomini, così come l’arricchimento che ne segue non riguarda Cristo ma gli uomini. È quanto risulta anche dalla posizione preminente riservata al pronome voi:

(di’hymas)

diventò povero

essendo ricco

perché voi (hina hymeis)

con la sua povertà diventaste ricchi>

Come in altri casi, anche qui il dia con l’accusativo (di’hymas) oltre alla causa denota anche lo scopo: voi siete il movente e l’obiettivo dell’impoverimento di Cristo. Per cui non sembra che questo di’hymas sia hyper hymon soteriologici> il cui significato è invece e in .

4.

La povertà che diventa mezzo di ricchezza (ptocheiai è dativo strumentale): un paradosso come altri di stile paolino che presentano l’insondabile mistero della salvezza messianica recata da Cristo.

Alcuni esempi:

per noi (hyper hemon)

lo rese peccato

perché noi (hina hemeis)

diventassimo giustizia di Dio in lui> (2Cor 5,21).

ci ha riscattati

dalla maledizione della legge

divenendo lui stesso per noi

maledizione> (Gal 3,13)

nato da donna

nato sotto la legge

per riscattare

coloro che erano sotto la legge

perché ricevessimo

l’adozione filiale> (Gal 4, 4-5)

Secondo Paolo Cristo si carica del peccato degli uomini (si rende ) perché gli uomini diventino santi, accetti a Dio (siano ); si fa per liberarci dalla maledizione meritata come violatori della legge; si rende figlio di una creatura umana per farci figli adottivi di Dio, nasce sotto la legge per affrancarci dalla legge accusatrice dei suoi trasgressori. Si vorrebbe scorgere in questi tre brani e nel nostro lo stesso dramma che si svolge in tre tempi. 1° tempo: da una parte il Figlio di Dio infinitamente perfetto (, ), dall’altra gli uomini oppressi da ogni miseria (operatori di peccati, oggetto di maledizione, semplici mortali, schiavi della legge). 2° tempo: il figlio di Dio si incarna assumendo tutte le miserie umane ( , si fece e , nacque da una donna e sotto la legge). 3° tempo: gli uomini sono liberati dalle loro miserie (diventano ricchi e giusti, sono riscattati dalla maledizione e dalla legge, sono resi figli adottivi di Dio).

Dei tre brani citati, 2Cor 5, 21 è stilisticamente più vicino al nostro, sia per l’enfasi data ai destinatari della salvezza ( , , cfr. , ), sia per l’antitesi tra il Salvatore e i salvati (Cristo-peccato e uomini giustizia; cfr. Cristo povero e uomini ricchi). È possibile infatti al seguente sinossi:

2 Cor 8,9 2Cor 5,21

a) per voi c) colui che non conosceva peccato

b) diventò povero a) per noi

c) essendo ricco b) lo rese peccato

d) perché voi d) perché noi

e) con la sua povertà f) diventassimo giustizia.

f) diventaste ricchi.

C’è ancora da chiedersi: che cosa è la ricchezza di 2Cor 8,9 per cui gli uomini sono diventati ricchi? Nella sua omelia di commento al nostro passo San Giovanni Crisostomo affermava: . Più concisamente, la ricchezza di cui sono stati dotati gli uomini è l’opulenza dei beni messianici, la pienezza escatologica che Paolo chiama altrove salvezza, (soteria). Meditando per esempio sul rifiuto degli Israeliti di credere in Gesù Cristo, l’apostolo osserva che soteria) alle genti>, e subito dopo soggiunge che ploutos) del mondo> (Rm 11, 11.12).

5. (8,7)

Il valore inestimabile del quadro soteriologico di 2Cor 8,9 non deve far perdere di vista lo scopo specifico per cui è stato tracciato. Paolo ha inteso presentare il modello e la fonte della generosità che i Corinzi sono invitati a mostrare in favore della comunità madre di Gerusalemme. Non poche volte l’apostolo esorta i fedeli a riprodurre esistenzialmente l’esperienza concreta di Gesù per quanto riguarda, ad esempio, la sopportazione delle sofferenze a causa del vangelo (cfr. 1Ts 1,6; Rm 5, 1-3), il compiacimento del prossimo e non di se stessi (Fil 2,5ss), il perdono delle offese (Col 3,13). Semplificando, si può dire che per Paolo l’esemplarità di Gesù riguarda soprattutto l’abnegazione, la rinuncia a far prevalere se stesso e i propri diritti e interessi personali. Ciò che in « Cor 8,9 viene chiamato povertà, ptocheia. Ma riprodurre l’esperienza cristica dell’abnegazione, della povertà, non è questione di ascesi, intesa questa come sforzo puramente umano. È obbedienza al Signore Gesù che dà ai Corinzi il comando e insieme la grazia (charis), e dunque la capacità, di seguirlo per una strada che egli ha percorso per primo fino in fondo. Ai cristiani dell’Istmo non sarà dunque difficile essere generosi con i fedeli di Gerusalemme. essendo stati arricchiti da Cristo, non avranno che da riversare su quei bisognosi le infinite risorse, di cui sono stati colmati, per mezzo di aiuti economici. Da donatari sarà loro agevole trasformarsi in donatori. Così facendo, saranno ancora infinitamente distanti dal loro Signore che si è impoverito per arricchirli.

la vostra abbondanza

supplisca alla loro indigenza

perché anche la loro abbondanza

supplisca alla vostra indigenza.> (8,14).

I Corinzi non diventeranno poveri aiutando i fratelli gerosolimitani, ma si arricchiranno di più. In cambio dei beni materiali di cui si saranno privati, riceveranno dai loro assistiti beni spirituali.

* * *

Impoverirsi per arricchire. È una costante paradossale della storia della salvezza. Soltanto con l’autosvuotamento dell’abnegazione si può riempire il vuoto deplorevole degli altri. È quanto ha realizzato il Signore nostro Gesù Cristo secondo 2Cor 8,9. Pur conservando la in abdicabile natura divina (), ha assunto la natura umana con tutti i suoi limiti umilianti, assoggettandosi alla nascita e alla morte e finanche alla povertà economica ( ). Lo ha fatto per colmare l’abisso della nostra miseria con i tesori della sua grazia ( ). È quanto ha realizzato San Paolo. In difesa dell’autenticità del suo ministero apostolico, presenta la sua carta d’identità dichiarando tra l’altro: ptochoi) mentre arricchiamo (ploutizontes) molti>. (2Cor 6,10). Rinunziando generosamente a ogni risorsa umana, ha fatto spazio a Dio: (12,9). E il signore ha riempito quello spazio con la sua grazia che traboccava fino a raggiungere e irrorare copiosamente i molti conquistati del messaggio del vangelo. È quanto ha realizzato San Francesco d’Assisi e con lui tutti quelli – e sono legione nella storia della Chiesa – che si sono messi alla scuola di colui che si è autodefinito ‘anaw, povero, vocabolo che la traduzione greca, secondo una seducente interpretazione del P. Joüon, avrebbe poi sdoppiato ed esplicitato con l’espressione (Mt 11, 29).

P. Marco Adinolfi: « Per voi diventò povero essendo ricco » (2Cor 8, 9) – post n. 1

« PER VOI DIVENTÒ POVERO ESSENDO RICCO » (2Cor 8, 9)

di questo studio faccio due post;

P. MARCO ADINOLFI

stralcio dal libro: L’incarnazione l’attualità di un messaggio, studio interdisciplinare a cura di Vincenzo Battaglia, Edizioni O.R. – Milano 1985;

la traslitterazione è quella del professore, ma non ho la possibilità di mettere gli accenti;

pagg. 67-75

« 

Prima di Origene la risposta a questa dottrina platonica l’ha già data più volte San Paolo. In 2 Cor 8,9, per esempio, oggetto del presente studio: < Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: per voi diventò povero essendo ricco, perché voi con la sua povertà diventaste ricchi (Ginoskete gar ten charin tou kyriou hemon Iesou Christou, hoti di ‘hymas eptocheusen plousios on, hina hymeis tei eieinou ptocheiai ploutesete)>.

1

Il testo fa parte dei capitolo 8 e 9 della seconda lettera ai Corinzi, dedicati alla colletta da destinare ai (Rm 15,26).

È nota la sollecitudine che, anche in ossequio agli impegni assunti (Gal 2,10), Paolo mostra nello stimolare i fedeli provenienti dal paganesimo a inviare aiuti alla comunità della Chiesa madre. Per l’apostolo è un debito contratto dai gentili nei riguardi di coloro da cui è partito il vangelo di Gesù con tutte le sue infinite ricchezze. (Rm 15,27).

Per quanto concerne 2Cor 8-9, nulla riflette meglio il pensiero paolino dei termini con cui si accenna alla colletta ecumenica. È chiamata prodigalità (adrotes: (, 20), messa in comune (koinonia: 9,13) servizio (diakonia: 8,4; 9, 1.12.13), servizio sacro (leitourgia: 9,2), benedizione (elogia: 9, 5), grazia (charis: 8, 4.6.7.9).

Proprio intorno a charis sembra ruotare il pensiero di Paolo. Il quale ricorda prima la (8,1) concessa da Dio ai prodigali Macedoni che hanno dato anche oltre le loro possibilità. Si augura poi che i Corinzi eccedano nella (8, 7) così come si segnalano già per la fede, l’eloquenza, la scienza, lo zelo e l’amore. Evoca infine, come ben nota alla comunità dell’Istmo (), (8, 9).

Ci troviamo con 8, 9 di fronte a una solenne affermazione dottrinale classificata dal Dibelius come parenesi attuale o occasionale, in quanto esortazione etico-religiosa finalizzata a un azione specifica, l’invio appunto dei soccorsi a Gerusalemme. Si accenna a Gesù presentato secondo la titolatura completa che ne sottolinea la sovranità universale (Signore nostro), l’umanità (Gesù) e la messianicità (Cristo).

Di Gesù si rileva la charis, grazia vocabolo complesso che esprime fondamentalmente il dono del generoso e gratuito amore salvifico di Dio in Gesù Cristo. È questo amore divino che ispira e muove la generosità dell’amore umano, colorato di riconoscenza nei riguardi di Dio e di Cristo, e di disinteresse nei riguardi del prossimo. Paolo invita qui i Corinzi alla charis di Gesù, alla sua autoblazione spontanea e misericordiosamente magnanima.

2.

In che consiste la grazia di Cristo? .

Quanto alla ricchezza di Gesù, non merita considerazione la stravagante opinione di Buchnan, secondo cui Gesù sarebbe nato abbondantemente fornito di beni di fortuna che avrebbe poi donato a una setta. È chiaro che Paolo allude a Cristo preesistente e alla ricchezza infinita della sua divinità: al dire di Sant’Agostino,

È stato notato che la ricchezza diventa per l’apostolo . In realtà Paolo esalta spesso la ricchezza di Dio, ricchezza di gloria (Rm 9,23; Ef 3, 16) e di grazia (Ef 1, 7; 2,7), di bontà pazienza longanimità (Rm 2, 4) e misericordia (Ef 2,4). E di Cristo celebra la ricchezza (Ef 3,8), la ricchezza verso chi lo invoca (Rm 10, 12), i tesori di sapienza e di scienza (Col 2,3) e la pienezza della divinità (Col 2,9).

D’accordo generalmente sul Gesù ricco, gli esegeti si dividono in un ventaglio piuttosto ampio di opinioni per quanto concerne il Gesù impoveritosi.

Qualcuno, tanto per cominciare, traduce eptocheusen con . Secondo la massima parte degli autori, invece, ci si trova davanti a un aoristo ingressivo (aoristo forma passiva del verbo) che, nei verbi indicanti condizione o stato, esprime l’inizio della condizione o dello stato. per cui eptocheusen va tradotto con [nella Bibbia CEI: si è fatto povero].

E Cristo divenne povero anzitutto assumendo e vivendo la misera natura umana. Dopo essersi chiesto Sant’Agostino prosegue: .

Con San Paolo allude all’incarnzione. Divenendo vero uomo, Gesù si consegnò in preda alla morte oltre che ai limiti, rischi e scacchi di qualsiasi esistenza umana. .

Sulla scia di Sant’Ireneo Origene segnala la correlazione necessaria esistente tra la nascita di Gesù e la sua vita culminata nel mistero pasquale: . E conclude: . Nello stesso senso, parlando della povertà di 2Cor 8,9, San Giovanni Crisostomo si esprime così:

Gesù assumendo la condizione ordinaria dei semplici figli di Adamo. E dunque, per usare espressioni paoline (cfr. 1Cor 15, 42-43.53), scelse, oltre alla mortalità invece dell’immortalità, anche la corruzione invece dell’incorruttibilità, lo squallore e il disonore invece dello splendore e della gloria, la debolezza invece della potenza.

Risulta invece più concreto il se si tiene presente la dottrina di molti Padri della Chiesa sul mistero del Verbo incarnato. In forza della kenosi (cfr. Fil 2,7), Gesù non si è spogliato, rinunziandovi, della divinità: plousios on significa . Si è molto svuotato, abdicandovi, degli attributi e delle prerogative della divinità. Della onnipresenza, per esempio, della onnipotenza, della onniscienza.

Se l’impoverimento di Gesù si identifica, come si identifica, con l’incarnazione vista in tutta la sua concretezza, il discorso può proseguire.

Il contesto parla degli aiuti economici ai poveri della Chiesa madre di Gerusalemme, verso i quali i Macedoni hanno già mostrato la loro generosità e i Corinzi sono esortati a mostrarla. Non si corre il pericolo di andare oltre il pensiero paolino o di interpretarlo inadeguatamente se con molti esegeti si dà a e a anche un senso socio-economico.

Gesù avrebbe potuto scegliersi un’esistenza umana al riparo da ogni vulnerabilità, all’insegna della ricchezza o almeno dell’agiatezza e della tranquillità. Ha preferito invece privarsi di qualsiasi possibilità di sicurezza e di difesa. Ha optato per una vita peggiore di quella delle bestie del campo e dell’aria. Si è condannato a non avere dove posare il capo (Mt 8,20). Ha rinunciato a crearsi una famiglia propria. Si è votato all’incomprensione dei familiari (Gv 7,2-9) e al rifiuto dei concittadini (Lc 4, 16-30). Si è lasciato costringere, perseguitato e braccato, a trasferirsi da una località all’altra per sottrarsi alla prigione e alla morte prima che scoccasse l’ora fissata.

Un impoverimento così assoluto, se da una parte rivela l’abisso di abnegazione a cui è giunto Gesù Cristo, dall’altra mostra proprio l’infinita potenza della sua ricchezza. .

Giovanni Paolo II – approfondimento Ef 5,2

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1983/documents/hf_jp-ii_aud_19830921_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 21 settembre 1983

1. Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore (Ef 5, 2). Con queste parole lapostolo Paolo ci mette davanti agli occhi la passione e la morte di Cristo servendosi dellimmagine classica, ben nota ai suoi contemporanei, del sacrificio. Fu un sacrificio gradito e accetto a Dio.

Cerchiamo di approfondire il significato di questo termine che era più familiare agli antichi che non a noi. Gli Ebrei infatti avevano lesperienza dei molti sacrifici offerti nel Tempio; anche i Greci e i Romani, per non dire degli altri popoli dellantichità, offrivano e immolavano frequentemente sacrifici di ringraziamento o di propiziazione alle loro divinità. Non fa meraviglia quindi che gli Apostoli e i primi discepoli di Gesù abbiano compreso la morte di Cristo come il vero, il grande sacrificio offerto una volta per sempre, per la salvezza di tutti gli uomini. A dire il vero, Ges

ù stesso nellultimo incontro effettuato nellintimità con i Dodici, durante lultima Cena pasquale, li aveva avviati a comprendere il significato della sua morte preannunciandola come il sacrificio della nuova alleanza, la quale sarebbe stata suggellata con il sangue. Conosciamo con sicurezza le sue parole riferite dagli evangelisti e da san Paolo: Questo è il mio corpo . . . Questo è il mio sangue, dellalleanza, versato per molti, in remissione dei peccati (Mt 26, 26-28).

Certo è che linterpretazione della morte di Cristo come sacrificio campeggia in tutto il Nuovo Testamento. Nel passo citato dellultima Cena è chiara lallusione al rituale compiuto da Mosè nellatto di celebrare lalleanza tra Dio e il popolo ebraico al monte Sinai. In tale circostanza Mosè prese la metà del sangue delle vittime sacrificate e la versò sullaltare che rappresentava Dio e, dopo aver letto ai presenti il libro della Legge, prese laltra metà del sangue e ne asperse il popolo dicendo: Ecco il sangue dellalleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole (cf. Es 24, 4-8). Con tale rito il medesimo sangue veniva a unire Dio e il popolo in un vincolo sacro inscindibile di reciproca fedeltà: lantica alleanza. 2. Ma anche ad altri sacrifici poterono far riferimento i discepoli di Ges

ù per comprendere la sua morte in favore degli uomini. Tra essi vi era il sacrificio dellagnello pasquale. Levangelista Giovanni vide adempiersi chiaramente nella morte di Gesù la figura dellagnello pasquale (cf. Gv 19, 36). Nella stessa linea interpretativa, lapostolo Paolo scriveva ai Corinzi: Cristo nostra pasqua è stato immolato (1 Cor 5, 7).

Siamo così rimandati nuovamente al libro dellEsodo dove fu fissato da Mosè il rituale dellimmolazione dellagnello, segno della partenza del popolo dalla schiavitù dellEgitto e del passaggio allo stato di libertà. Il sangue dellagnello, segnato sugli stipiti delle porte, era garanzia di liberazione dalla distruzione e dalla morte (cf. Es 12, 1-14) e segno di chiamata alla libertà. Il collegamento fra questo rito e la morte di Cristo fu suggerito dal fatto che essa avvenne nel momento in cui si immolavano nel tempio gli agnelli per la cena pasquale. Vi

è, infine, un terzo genere di sacrificio a cui viene riferita la morte di Gesù nel Nuovo Testamento. È il sacrificio del grande Giorno dellespiazione, destinato, secondo quanto è scritto nel libro del Levitico, ad espiare e cancellare tutte le colpe e le impurità contratte dal popolo nel corso dellanno. Secondo precise indicazioni rituali (cf. Lv 16, 1-16), il Sommo Sacerdote entrava nella parte più sacra del santuario, nel Santo dei santi, si avvicinava allarca dellalleanza, e col sangue delle vittime immolate aspergeva il propiziatorio (il Kapporet), collocato sullarca tra le immagini dei cherubini e considerato il luogo della presenza di Dio. Quel sangue rappresentava la vita del popolo e con laspersione di esso nel luogo santissimo della sua Presenza si esprimeva la volontà irrevocabile di aderire a lui e di entrare in comunione con lui, eliminando la separazione e la distanza provocata dal peccato.

Soprattutto lautore della Lettera agli Ebrei ha interpretato, con laiuto di questo rituale, la morte di Gesù in Croce notando lefficacia sovreminente del sacrificio di Cristo, il quale entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e vitelli, ma col proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna (Eb 9, 12). 3. Ges

ù compì questo sacrificio come nostro rappresentante, a nome nostro e per noi, in virtù di quella solidarietà che egli acquistò con la nostra natura umana grazie allincarnazione. E lo effettuò come un atto di amore e di spontanea obbedienza, realizzando così il disegno di Dio che lo aveva costituito Nuovo Adamo e mediatore, per tutti gli uomini, della sua giustizia salvifica e della sua misericordia.

Per questo san Paolo non esita a indicare nella Croce il nuovo Kapporet, il nuovo propiziatorio, sul quale Cristo ha versato per noi il sangue della riconciliazione e della ritrovata comunione dellumanità con Dio: Tutti hanno peccato – egli scrive – e sono privi della gloria di Dio; ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione, per mezzo della fede nel suo sangue (Rm 3, 23-25).

Per mezzo della fede: ecco la grande parola, il grande mezzo personale per attingere pienamente i frutti dellazione salvatrice di Cristo. I tre aspetti complementari dellalleanza santificatrice della redenzione liberatrice e dellespiazione purificatrice si integrano a vicenda per darci una qualche intelligenza dellatto globale di amore, col quale Cristo ci ha salvati, ottemperando al disegno misericordioso del Padre. Possiamo quindi dire che il sacrificio di Cristo ci ha aperto un passaggio dal peccato alla grazia, dalla servitù alla libertà, dalla morte alla comunione e alla vita.

Ad alcuni gruppi di lingua francese

Je salue tous les pèlerins de langue française, des différents pays, spécialement ceux qui sont venus accomplir le Jubilé en commun, comme les diocésains de Langres. Jai noté aussi la présence des méritants missionnaires de la Congrégation du Saint-Esprit, Pères, Frères et Soeurs. Je suis heureux d’évoquer ici, après les célébrations de Brazzaville, le centenaire de l’évangélisation du Congo, en accueillant un groupe de pèlerins de ce pays. Que Dieu vous fortifie dans la foi reçue, et vous donne den témoigner, de la répandre encore! A tous, ma Bénédiction Apostolique.

Ai fedeli di espressione inglese

Dear brothers and sisters,

I offer a warm word of welcome to all the English-speaking visitors who are present today.

I wish to extend special greetings to all the pilgrims who have come to Rome during this Jubilee of the Redemption. In particular, I greet the members of the national pilgrimage from Malta and the Holy Year Pilgrims from the Diocese of Salford. I welcome, too, the many groups of pilgrims from the United States: from the Archdioceses of Mobile and Oklahoma City; and from the Dioceses of Burlington, Saint Petersburg, Salt Lake City, Stockton, Gallup and Juneau.

It is a joy to welcome the new seminarians of the Venerable English College and the Pontifical Irish College. During these years of your preparation for the priesthood, seek to deepen your love for Christ by listening to the word of God and putting it into practice.

May God bless you all.

A gruppi di lingua tedesca

Mit diesem aufruf begrüße ich alle Gruppen und Einzelbesucher aus den Gegenden deutscher Sprache, darunter vor allem die Pilger der Katholischen Arbeitnehmerbewegung aus Osnabrück.

Einen besonderen mitbrüderlichen Gruß an eine Gruppe von Priestern aus der Diözese Paderborn!

A fedeli di lingua spagnola

Amadísimos hermanos y hermanas,

A los miembros de los grupos de lengua española que acaban de ser anunciados, y a cada persona en concreto, quiero dar mi cordial saludo y bienvenida a este encuentro. Sobre todo a los aquí presentes que tienen título de especial consagración al Señor; a los componentes de las varias asociaciones de seglares, y a cuantos forman parte de grupos parroquiales de diversos lugares de España, de la parroquia de Cristo Rey, de Bogotá, y de la arquidiócesis de México. Un particular saludo y aliento en su vida de fe a los sacerdotes y miembros de la peregrinaci

ón diocesana de Teruel, venida a Roma con motivo del Año Santo. Que esta visita os consolide en vuestra fidelidad a Cristo.

Y una especialísima mención para el grupo de Radio Bilbao, en el que se hallan víctimas de las recientes inundaciones que tanto daño causaron en dicha ciudad y en otras localidades de la zona. Os renuevo, queridos hermanos, mi cercanía y afecto, que extiendo a cuantos han sufrido y sufren a causa de la catástrofe. Pido por todos, y confío en que los ejemplos de admirable solidaridad manifestados desde el primer momento, continúen en el futuro; hasta que pueda rehacerse con dignidad la vida de todos los afectados.

A oltre 500 pellegrini polacchi

Pragnę pozdrowić wszystkich obecnych na tej audiencji pielgrzymów z Polski oraz z emigracji, a więc księży biskupów: księdza Biskupa Siedleckiego i Biskupa Sufragana z Warmii, księży z archidiecezji krakowskiej oraz z Gniezna, księży z diecezji siedleckiej, ojców Redemptorystów, pielgrzymów ze Szczecina – parafia Najświętzego Serca Pana Jezusa. Prócz tego studentów krakowskiej Akademii Wychowania Fizycznego, siostry Albertynki, delegację polską na Kongres Mariologiczny na Malcie oraz obecnych z innych stron Ojczyny; z poza Polski: Polonię z Les Creusot z Francji, Uniwersytet Polonijny z Kanady, grupę pielgrzymów ze Stanów Zjednoczonych.

Ai pellegrini italiani

Un cordiale saluto desidero indirizzare ai vari gruppi e ai singoli pellegrini di lingua italiana, che sono presenti a questa Udienza; in modo particolare porgo il mio benvenuto al pellegrinaggio della diocesi di Mantova, la quale, nello spirito di S. Pio X e di San Luigi Gonzaga, in questanno è impegnata a riflettere sul tema: La dimensione morale nella società del benessere; saluto il pellegrinaggio della diocesi di Bergamo, sempre ricordando la mia visita alla loro città e a Sotto il Monte; saluto i pellegrini della diocesi di Chioggia e quelli della diocesi di Grosseto; un saluto anche al Gruppo Alpino della Valle Olona.

A voi tutti, partecipanti a questo incontro, che si svolge nel corso dellAnno Giubilare della Redenzione, rivolgo lauspicio che questo evento ecclesiale sia sprone per una sincera conversione e per un profondo rinnovamento interiore, secondo le finalità che ho inteso dare alla celebrazione dellAnno Santo Straordinario. Che il Signore illumini le vostre menti e muova i vostri cuori, perch

é possiate dare una continua testimonianza di fede ardente e di operosa carità nellambiente delle vostre famiglie e del vostro posto di lavoro e di professione.

A voi, ai vostri familiari ed alle persone care la mia Apostolica Benedizione.

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Ed ora rivolgo il mio saluto a voi, cari giovai, mentre il mio pensiero va alla festività liturgica odierna, che ricorda S. Matteo Apostolo ed Evangelista. Cercate anche voi, con laiuto dello Spirito Santo, di avvertire la vostra responsabilità nella costruzione della comunità ecclesiale, di scoprire il vostro posto e la vostra missione in tale altissima ed esaltante prospettiva, la quale, se non vi risparmierà i sacrifici, non potrà deludervi nelle vostre speranze. La mia benedizione vi sostenga nel vostro impegno.

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Carissimi ammalati, mi rivolgo a voi, salutandovi con affetto: San Matteo è un esempio ed un intercessore anche per voi; egli, come Evangelista e Testimone di Cristo diffuse e diffonde nel mondo tanta luce. La vostra condizione umana, cari fratelli, benché spesso sia conosciuta solo da pochi intimi, se offerta in sacrificio al Signore, quanto è grande e preziosa! E una luce che si affida a Lui e con la quale Egli stesso, nei modi e nei tempi che Egli solo sa, illumina e salva il mondo. Vi sostenga lintercessione di San Matteo e vi accompagni la mia Benedizione.

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Carissimi sposi novelli, il mio saluto è adesso per voi. Il patto damore che vi siete da poco giurati ha in realtà qualcosa di grande, di santo, di eroico; è il vostro Vangelo, il Vangelo che dovete annunciare al mondo, perché, sì, il matrimonio cristiano è un vero mistero di salvezza che si tratta di annunziare, con laiuto della grazia, agli uomini innanzitutto mediante un esempio di fedeltà e di vero amore. Questa visuale vi assimila, in un certo senso, alla grande missione di S. Matteo, per quanto diversa dalla vostra sia stata la sua vocazione specifica. La sostanza è la medesima: annunziare il Vangelo di Cristo! Vi sono vicino con la mia Benedizione.

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