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LA BATTAGLIA SPIRITUALE (anche Paolo)

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LA BATTAGLIA SPIRITUALE

Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio. (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes)

Preferiremmo forse pensare altre cose, circa la vita. Ma pare proprio che, chi ne sa più di noi, non l’abbia chiamata “parco divertimenti”, ma valle di lacrime. Pare proprio che non si sia quaggiù – terzo pianeta di questo sistema solare – per chiacchierare e invecchiare bene. Il fatto d’essere nati, non da noi voluto né programmato, è una evidenza. Che ci piaccia o meno siamo imbarcati, e non si tratta di una crociera.
Che uno se ne accorga o meno, siamo tutti dentro una Battaglia, cominciata talmente tanto tempo fa da parere quasi una fiaba.
Una Battaglia che altro non è che il vero volto della Storia (quella universale e quella personale, quella del mondo e quella di ognuno), come ha impareggiabilmente raccontato J.R.R. Tolkien ne “Il Signore degli Anelli”.

Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes).
La storia del nostro pianeta, delle civiltà, di ogni uomo – la stessa vita di ognuno di noi, dunque – è pervasa da una “lotta tremenda contro le potenze delle tenebre”. Non possiamo starne fuori, perché cercare di starne fuori significa rinunciare a combattere, significa soccombere.
La Battaglia nella quale siamo coinvolti ogni giorno è quindi parte di una Battaglia più grande, che coinvolge l’intero Universo, e che avrà termine solo con la Parusia, il glorioso Ritorno del Re.
Chi non crede a tutto questo, chi pensa che sia solo una bella fiaba …stile Tolkien, chi non accoglie la verità che Cristo è venuto a rivelare, se non chiude volutamente gli occhi o volutamente distolga lo sguardo – e creda quindi che la battaglia che infuria nella storia e nella società abbia cause materiali ed economiche (per cui vincendo la povertà, l’ignoranza e l’ingiustizia il mondo diverrebbe un paradiso…) – prenderà atto almeno della Battaglia che infuria nel proprio cuore. Almeno chi sia stato pellegrino verso Santiago o Roma o Gerusalemme, o altri santuari della cristianità – entrando nello spazio e tempo misteriosi che il pellegrinaggio a piedi spalanca, avrà preso consapevolezza della Battaglia che infuria nel proprio cuore, la santa inquietudine, la ricerca del vero. A meno che uno non goda della quiete letale, il falso armistizio che il Nemico concede per portarti dove vuole lui – l’abilità e finezza sue sono tali che nel mentre ti sembra di andare… “dove ti porta il cuore”.

San Paolo e la battaglia

Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione”. (Timoteo 2 cap.4)

(…) Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere”. (Efesini cap.6)

(…) In realtà, noi viviamo nella carne ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo”. (Corinzi 2, cap. 10)

(…) Questo è l’avvertimento che ti do, figlio mio Timòteo, in accordo con le profezie che sono state fatte a tuo riguardo, perché, fondato su di esse, tu combatta la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l’hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede; tra essi Imenèo e Alessandro, che ho consegnato a satana perché imparino a non più bestemmiare.” (Timoteo 1 cap.1)

(…) Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi rivelata dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere. A lui onore e potenza per sempre. Amen.” (Timoteo 1 cap.6)

San Pietro e la Battaglia

Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un pò afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime. (Prima lettera di Pietro 1, 6-9)

E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. E’ meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male. (Prima lettera di Pietro 3, 13-17)

Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti; chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente col peccato, per non servire più alle passioni umane ma alla volontà di Dio, nel tempo che gli rimane in questa vita mortale. Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano. Ma renderanno conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti. (Prima lettera di Pietro 4, 1-5)

Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome. E’ giunto infatti il momento in cui inizia il giudizio dalla casa di Dio; e se inizia da noi, quale sarà la fine di coloro che rifiutano di credere al vangelo di Dio?
E se il giusto a stento si salverà,
che ne sarà dell’empio e del peccatore?
Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si mettano nelle mani del loro Creatore fedele e continuino a fare il bene. (Prima lettera di Pietro 4, 12-19)

Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi. A lui la potenza nei secoli. Amen! Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente per mezzo di Silvano, fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio. In essa state saldi! Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio. Salutatevi l’un l’altro con bacio di carità. Pace a voi tutti che siete in Cristo! (Prima lettera di Pietro 5, 6-14)

Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori. (Seconda lettera di Pietro 1, 16-19)

Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio; non risparmiò il mondo antico, ma tuttavia con altri sette salvò Noè, banditore di giustizia, mentre faceva piombare il diluvio su un mondo di empi; condannò alla distruzione le città di Sòdoma e Gomorra, riducendole in cenere, ponendo un esempio a quanti sarebbero vissuti empiamente. Liberò invece il giusto Lot, angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per ciò che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie. Il Signore sa liberare i pii dalla prova e serbare gli empi per il castigo nel giorno del giudizio, soprattutto coloro che nelle loro impure passioni vanno dietro alla carne e disprezzano il Signore. Temerari, arroganti, non temono d’insultare gli esseri gloriosi decaduti, mentre gli angeli, a loro superiori per forza e potenza, non portano contro di essi alcun giudizio offensivo davanti al Signore. Ma costoro, come animali irragionevoli nati per natura a essere presi e distrutti, mentre bestemmiano quel che ignorano, saranno distrutti nella loro corruzione, subendo il castigo come salario dell’iniquità. Essi stimano felicità il piacere d’un giorno; sono tutta sporcizia e vergogna; si dilettano dei loro inganni mentre fan festa con voi; han gli occhi pieni di disonesti desideri e sono insaziabili di peccato, adescano le anime instabili, hanno il cuore rotto alla cupidigia, figli di maledizione! Abbandonata la retta via, si sono smarriti seguendo la via di Balaàm di Bosòr, che amò un salario di iniquità, ma fu ripreso per la sua malvagità: un muto giumento, parlando con voce umana, impedì la demenza del profeta. Costoro sono come fonti senz’acqua e come nuvole sospinte dal vento: a loro è riserbata l’oscurità delle tenebre. Con discorsi gonfiati e vani adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell’errore. Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto. Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. Si è verificato per essi il proverbio:
Il cane è tornato al suo vomito
e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel
brago. (Seconda lettera di Pietro 2, 4-22)

Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: «Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione». Ma costoro dimenticano volontariamente che i cieli esistevano gia da lungo tempo e che la terra, uscita dall’acqua e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio; e che per queste stesse cause il mondo di allora, sommerso dall’acqua, perì. Ora, i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina degli empi.
Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.
Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta. Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate d’essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace. (Seconda lettera di Pietro 3, 3-14)

III. LE VIE DELLA BELLEZZA – LA « VIA PULCHRITUDINIS »

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/cultr/documents/rc_pc_cultr_doc_20060327_plenary-assembly_final-document_it.html#3

LA VIA PULCHRITUDINIS

PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA

LA « VIA PULCHRITUDINIS », CAMMINO DI EVANGELIZZAZIONE E DIALOGO

III. LE VIE DELLA BELLEZZA.

Tre sviluppi si offrono a noi come vie privilegiate della Via pulchritudinis, per dialogare con le culture contemporanee:
III.1 La bellezza della creazione
III.2 La bellezza delle arti
III.3 La bellezza di Cristo, modello e prototipo della santità cristiana
La Bellezza di Dio, rivelata dalla bellezza singolare di suo Figlio, costituisce l’origine e il fine di tutto il creato. Se è possibile partire dal grado più elementare, per poi risalire, secondo un dinamismo inscritto nelle Sacre Scritture, dalla bellezza sensibile della natura alla Bellezza del Creatore, quest’ultima risplende in maniera unica sul volto di Cristo e su quello di sua Madre e dei santi. Per il cristiano «creazione» è inseparabile da «ricreazione», poiché se Dio ha giudicato buona e bella l’opera dei sei giorni (cf. Gn 1), il peccato, con il disordine, ha introdotto la bruttezza della morte e del male. «Felice colpa, che meritò di avere un così grande Redentore!», canta la liturgia di Pasqua: la Grazia, che si riversa sul mondo dal costato aperto di Cristo Salvatore, purifica e introduce in tutt’altra bellezza il mondo salvato che attende gemendo l’ora della trasformazione finale (Rm 8, 22).
III.1 La bellezza della creazione.
La Scrittura sottolinea il valore simbolico della bellezza del mondo che ci circonda: «Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere…Se…li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza» (Sap 13, 1.3). C’è, tuttavia, un abisso tra la bellezza ineffabile di Dio e le sue vestigia nella creazione, pertanto l’autore sacro non ritiene inutile precisare il quadro di tale «dialettica ascendente»: «…dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore » (v. 5). Occorre, perciò, superare le forme visibili delle cose della natura, per risalire fino al loro Autore invisibile, il Tutt’Altro, che noi professiamo nel Credo: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra».
A) La meraviglia davanti alla bellezza della creazione. «La natura è un tempio in cui dei pilastri vivi lasciano talvolta uscire confuse parole…» Se i poeti sono, con Baudelaire[16], particolarmente sensibili alle bellezze della creazione e al loro misterioso linguaggio, è perché dalla contemplazione di un paesaggio al tramonto, delle cime dei monti innevate sotto il cielo stellato, dei campi coperti di fiori inondati di luce, del rigoglio delle piante e delle specie animali nasce una varietà di sentimenti che ci invitano a «leggere dall’interno – intus-legere», per raggiungere dal visibile l’invisibile e dare risposta alle domande: chi è questo artefice dall’immaginazione così potente all’origine di tanta bellezza e grandezza, di una simile profusione di esseri nel cielo e sulla terra? [17].
Nello stesso tempo la contemplazione delle bellezze della creazione suscita la pace interiore e affina il senso dell’armonia e il desiderio di una vita bella. Nell’uomo religioso, lo stupore e l’ammirazione si trasformano in atteggiamenti interiori più spirituali: l’adorazione, la lode e l’azione di grazie verso l’Autore di tali bellezze. Così il salmista: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi… O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!» (Sal 8, 4-7.10). La tradizione francescana, con san Bonaventura e Giovanni Scoto Eriugena[18], riconosce una dimensione «sacramentale» alla creazione, che porta in se stessa le tracce delle sue origini. Inoltre, la natura stessa è considerata come un’allegoria, e ogni realtà creata simbolo del suo Creatore
B) Dalla creazione alla ricreazione. Tra le creature ce n’è una che presenta una certa somiglianza con Dio: l’uomo, creato «a sua immagine e somiglianza». Con la sua anima spirituale, egli porta in sé un «germe d’eternità irriducibile alla sola materia» (Gaudium et spes, 18). Ma l’immagine è stata alterata dal primo peccato, veleno che indebolisce la volontà nel suo orientamento verso il bene e, quindi, offusca l’intelligenza e vizia la sensibilità. La bellezza dell’anima, assetata di verità e slancio verso il beneamato, perde il suo splendore e diventa capace di operare il male, il brutto: un bambino testimone di un’azione cattiva non dice spontaneamente: «Non è bello»? Così la bruttezza – e dunque a fortiori il bene – appare nel campo della morale e si riflette sull’uomo, suo soggetto. Con il peccato, questi ha perso la sua bellezza e si vede nudo fino a provarne vergogna. La venuta del Redentore lo riporta alla sua bellezza originaria, anzi lo riveste di una bellezza nuova: la bellezza inimmaginabile della creatura elevata alla filiazione divina, la trasfigurazione promessa dell’anima redenta ed innalzata dalla grazia, lo splendore in tutte le fibre del suo corpo chiamato a resuscitare.
Se Cristo, Nuovo Adamo, «svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, 22), lo sguardo cristiano sulla bellezza della creazione trova il suo compimento nella sconvolgente notizia della ricreazione: il Cristo, rappresentazione perfetta della gloria del Padre, comunica all’uomo la sua pienezza di grazia. Egli lo rende «grazioso» vale a dire bello e gradito a Dio. L’Incarnazione è il centro focale, la giusta prospettiva in cui la bellezza assume il suo significato ultimo.:«”Immagine del Dio invisibile” (Col 1, 15), Cristo Signore è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata ad una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo». Torneremo ancora su questo argomento, la bellezza della santità che emana dall’uomo conformato a Cristo, sotto il soffio dello Spirito Santo, è una delle più belle testimonianze in grado di scuotere i più indifferenti e di far sentire loro il passaggio di Dio nella vita degli uomini.
In un’azione di grazie continua, il cristiano loda il Cristo che gli ha ridato vita e si lascia trasfigurare da questo dono glorioso che gli viene fatto. I nostri occhi avidi di bellezza si lasciano attrarre dal Nuovo Adamo, vera icona del Padre eterno, «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1, 3). Ai «puri di cuore» ai quali è stato promesso che vedranno Dio faccia a faccia, Cristo concede già di intravedere la luce della gloria nel cuore stesso della notte della fede.

Publié dans:MAGISTERO DELLA CHIESA (DAL) |on 24 septembre, 2012 |Pas de commentaires »

19 Marzo San Giuseppe (solennità): Esortazione Apostolica « redemptoris Custos » Giovanni Paolo II

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_15081989_redemptoris-custos_it.html

ESORTAZIONE APOSTOLICA
REDEMPTORIS CUSTOS
DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
SULLA FIGURA E LA MISSIONE DI SAN GIUSEPPE
NELLA VITA DI CRISTO E DELLA CHIESA

Ai Vescovi
ai sacerdoti e ai diaconi
ai religiosi e alle religiose
a tutti i fedeli

INTRODUZIONE

1. Chiamato ad essere il custode del redentore, «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sè la sua sposa» (Mt 1,24).

Ispirandosi al Vangelo, i padri della Chiesa fin dai primi secoli hanno sottolineato che san Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo (cfr. S. Irenaei, «Adversus haereses», IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694), così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine santa è figura e modello.

Nel centenario della pubblicazione dell’epistola enciclica «Quamquam Pluries» di papa Leone XIII (die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 175-182) e nel solco della plurisecolare venerazione per san Giuseppe, desidero offrire alla vostra considerazione, cari fratelli e sorelle, alcune riflessioni su colui al quale Dio «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 282; Pii IX, «Inclytum Patriarcham», die 7 iul. 1871: «l. c.» 331-335). Con gioia compio questo dovere pastorale, perché crescano in tutti la devozione al patrono della Chiesa universale e l’amore al Redentore, che egli esemplarmente servì.

In tal modo l’intero popolo cristiano non solo ricorrerà con maggior fervore a san Giuseppe e invocherà fiduciosamente il suo patrocinio, ma terrà sempre dinanzi agli occhi il suo umile, maturo modo di servire e di «partecipare» all’economia della salvezza (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s; Dottori della Chiesa e Sommi Pontefici, anche in base all’identità del nome, hanno indicato il prototipo di Giuseppe di Nazareth in Giuseppe d’Egitto per averne in qualche modo adombrato il ministero e la grandezza di custode dei più preziosi tesori di Dio Padre, il Verbo Incarnato e la sua Santissima Madre: cfr. v. g., S. Bernardi, «Super « Missus est » Hom.», II, 16: «S. Bernardi Opera», IV, 33s; Leonis XII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «l. c.» 179).

Ritengo, infatti, che il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo consentirà alla Chiesa, in cammino verso il futuro insieme con tutta l’umanità, di ritrovare continuamente la propria identità nell’ambito di tale disegno redentivo, che ha il suo fondamento nel mistero dell’Incarnazione.

Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazaret «partecipò» come nessun’altra persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso amore, per la cui potenza l’eterno Padre «ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5).

I

IL QUADRO EVANGELICO

Il matrimonio con Maria

2. «Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).

In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa.

L’evangelista Matteo spiega il significato di questo momento, delineando anche come Giuseppe lo ha vissuto. Tuttavia, per comprenderne pienamente il contenuto ed il contesto, è importante tener presente il passo parallelo del Vangelo di Luca. Infatti, riferendoci al versetto che dice: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18), l’origine della gravidanza di Maria «per opera dello Spirito Santo» trova una descrizione più ampia ed esplicita in quel che leggiamo in Luca circa l’Annunciazione della nascita di Gesù: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1,26-27). Le parole dell’angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28), provocarono un turbamento interiore in Maria ed insieme la spinsero a riflettere. Allora il messaggero tranquillizza la Vergine ed al tempo stesso le rivela lo speciale disegno di Dio a suo riguardo: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai e partorirai un figlio, e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre» (Lc 1,30-32).

L’Evangelista aveva poco prima affermato che, al momento dell’Annunciazione, Maria era «promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe». La natura di queste «nozze» viene spiegata indirettamente, quando Maria, dopo aver udito ciò che il messaggero aveva detto della nascita del Figlio, chiede: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,34). Allora le giunge questa risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Maria, anche se già «sposata» con Giuseppe, rimarrà vergine, perché il bambino, concepito in lei sin dall’Annunciazione, era concepito per opera dello Spirito Santo.

A questo punto il testo di Luca coincide con quello di Matteo (1,18) e serve a spiegare ciò che in esso leggiamo. Se, dopo le nozze con Giuseppe, Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo», questo fatto corrisponde a tutto il contenuto dell’Annunciazione e, in particolare, alle ultime parole pronunciate da Maria: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Rispondendo al chiaro disegno di Dio, Maria col trascorrere dei giorni e delle settimane si rivela davanti alla gente e davanti a Giuseppe come «incinta», come colei che deve partorire e porta in sé il mistero della maternità.

3. In queste circostanze «Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto» (Mt 1,19). Egli non sapeva come comportarsi di fronte alla «mirabile» maternità di Maria. Certamente cercava una risposta all’inquietante interrogativo, ma soprattutto cercava una via di uscita da quella situazione per lui difficile. «Mentre dunque stava pensando a queste cose, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: « Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te, Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati »» (Mt 1,20-21).

Esiste una stretta analogia tra l’«Annunciazione» del testo di Matteo e quella del testo di Luca. Il messaggero divino introduce Giuseppe nel mistero della maternità di Maria. Colei che secondo la legge è la sua «sposa», rimanendo vergine, è divenuta madre in virtù dello Spirito Santo. E quando il Figlio, portato in grembo da Maria, verrà al mondo, dovrà ricevere il nome di Gesù. Era, questo, un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che – secondo la promessa divina – adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù – Yehossua’, che significa: Dio salva.

Il messaggero si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo dovrà imporre tale nome al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazaret, a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre terreno nei riguardi del Figlio di Maria.

«Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Egli la prese in tutto il mistero della sua maternità, la prese insieme col Figlio che sarebbe venuto al mondo per opera dello Spirito Santo: dimostrò in tal modo una disponibilità di volontà, simile a quella di Maria, in ordine a ciò che Dio gli chiedeva per mezzo del suo messaggero.

II

IL DEPOSITARIO DEL MISTERO DI DIO

4. Quando Maria, poco dopo l’Annunciazione, si recò nella casa di Zaccaria per visitare la parente Elisabetta, udì, proprio mentre la salutava, le parole pronunciate da Elisabetta «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41). Oltre alle parole che si ricollegavano al saluto dell’angelo nell’Annunciazione, Elisabetta disse: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Queste parole sono state il pensiero-guida dell’enciclica «Redemptoris Mater», con la quale ho inteso approfondire l’insegnamento del Concilio Vaticano II che afferma: «La beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce» («Lumen Gentium», 58), «andando innanzi» (cfr. «Lumen Gentium», 63) a tutti coloro che mediante la fede seguono Cristo.

Ora, all’inizio di questa peregrinazione la fede di Maria si incontra con la fede di Giuseppe. Se Elisabetta disse della Madre del Redentore: «Beata colei che ha creduto», si può in un certo senso riferire questa beatitudine anche a Giuseppe, perché rispose affermativamente alla Parola di Dio, quando gli fu trasmessa in quel momento decisivo. Per la verità, Giuseppe non rispose all’«annuncio» dell’angelo come Maria, ma «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Ciò che egli fece è purissima «obbedienza della fede» (cfr. Rm 1,5; 16,26; 2Cor 10,5-6).

Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell’Annunciazione. Il Concilio insegna: «A Dio che rivela è dovuta « l’obbedienza della fede », per la quale l’uomo si abbandona totalmente e liberamente a Dio, prestandogli il « pieno ossequio dell’intelletto e della volontà » e assentendo volontariamente alla rivelazione da lui fatta» («Dei Verbum», 5). La frase sopracitata, che tocca l’essenza stessa della fede, si applica perfettamente a Giuseppe di Nazaret.

5. Egli, pertanto, divenne un singolare depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio» (cfr. Ef 3,9), come lo divenne Maria, in quel momento decisivo che dall’Apostolo è chiamato «la pienezza del tempo», allorché «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» per «riscattare coloro che erano sotto la legge», perché «ricevessero l’adozione a figli» (cfr. Gal 4,4-5). «Piacque a Dio – insegna il Concilio – nella sua bontà e sapienza di rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4)» («Dei Verbum», 2).

Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria – ed anche in relazione a Maria – egli partecipa a questa fase culminante dell’autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio. Tenendo sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti Matteo e Luca, si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione. Egli è anche colui che è posto per primo da Dio sulla via della «peregrinazione della fede», sulla quale Maria – soprattutto dal tempo del Calvario e della Pentecoste – andrà innanzi in modo perfetto (cfr. «Lumen Gentium», 63).

6. La via propria di Giuseppe, la sua peregrinazione della fede si concluderà prima, cioè prima che Maria sosti ai piedi della Croce sul Golgota e prima che ella – ritornato Cristo al Padre – si ritrovi nel Cenacolo della Pentecoste nel giorno della manifestazione al mondo della Chiesa, nata nella potenza dello Spirito di verità. Tuttavia, la via della fede di Giuseppe segue la stessa direzione, rimane totalmente determinata dallo stesso mistero, del quale egli insieme con Maria era divenuto il primo depositario. L’Incarnazione e la Redenzione costituiscono un’unità organica ed indissolubile, in cui l’«economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro» («Dei Verbum», 2). Proprio per questa unita papa Giovanni XXIII, che nutriva una grande devozione per san Giuseppe, stabilì che nel canone romano della Messa, memoriale perpetuo della Redenzione, fosse inserito il suo nome accanto a quello di Maria, e prima degli apostoli, dei Sommi Pontefici e dei martiri (cfr. S. Rituum Congreg., «Novis hisce temporibus, die 13 nov. 1962: AAS 54 [1962]).

Il servizio della paternità

7. Come si deduce dai testi evangelici, il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. E’ per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe – una relazione che lo colloca il più vicino possibile a Cristo, termine di ogni elezione e predestinazione (cfr. Rm 8,28s) – passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia.

Gli evangelisti, pur affermando chiaramente che Gesù è stato concepito per opera dello Spirito Santo e che in quel matrimonio è stata conservata la verginità (cfr. Mt 1,18-24; Lc 1,26-34), chiamano Giuseppe sposo di Maria e Maria sposa di Giuseppe (cfr. Mt 1,16.18-20.24; Lc 1,27; 2,5).

Ed anche per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe. Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la genealogia di Giuseppe. «Perché – si chiede santo Agostino – non lo dovevano essere attraverso Giuseppe? Non era forse Giuseppe il marito di Maria? (…) La Scrittura afferma, per mezzo dell’autorità angelica, che egli era il marito. Non temere, dice, di prendere con te Maria come tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Gli viene ordinato di imporre il nome al bambino, benché non nato dal suo seme. Ella, dice, partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù. La Scrittura sa che Gesù non è nato dal seme di Giuseppe, poiché a lui preoccupato circa l’origine della gravidanza di lei è detto: viene dallo Spirito Santo. E tuttavia non gli viene tolta l’autorità paterna, dal momento che gli è ordinato di imporre il nome al bambino. Infine, anche la stessa Vergine Maria, ben consapevole di non aver concepito Cristo dall’unione coniugale con lui, lo chiama tuttavia padre di Cristo» («Sermo 51», 10, 16: PL 38, 342).

Il Figlio di Maria è anche figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che li unisce: «A motivo di quel matrimonio fedele meritarono entrambi di essere chiamati genitori di Cristo, non solo quella madre, ma anche quel suo padre, allo stesso modo che era coniuge di sua madre, entrambi per mezzo della mente, non della carne» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia» I, 11, 12: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 2: PL 34, 1071; Eiusdem, «Contra Faustum», III, 2: PL 42, 214). In tale matrimonio non mancò nessuno dei requisiti che lo costituiscono: «In quei genitori di Cristo si sono realizzati tutti i beni delle nozze: la prole, la fedeltà, il sacramento. Conosciamo la prole, che è lo stesso Signore Gesù; la fedeltà, perché non c’è nessun adulterio; il sacramento, perché non c’è nessun divorzio» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia», I, 11, 13: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «Contra Iulianum», V, 12, 46: PL 44, 810).

Analizzando la natura del matrimonio, sia sant’Agostino che san Tommaso la collocano costantemente nell’«indivisibile unione degli animi», nell’«unione dei cuori», nel «consenso» (S. Augustini, «Contra Faustum», XXIII, 8: PL 42, 470s; Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 3: PL 34, 1072; Eiusdem, «Sermo 51», 13, 21: PL 38, 344s; S. Thomae, «Summa Theologiae», III, q. 29, a. 2, in conclus.), elementi che in quel matrimonio si sono manifestati in modo esemplare. Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l’umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena «libertà» il «dono sponsale di sé» nell’accogliere ed esprimere un tale amore (cfr. «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 88-92.148-152.428-431). «In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch’esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già all’inizio dell’Antico, c’è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l’opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell’amore e questa culla della vita» (Pauli VI, «Allocutio ad Motum « Equipes Notre-Dame», 7, die 4 maii 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 428. Luades Familiae Nazarethanae, quae domesticae communitatis perfectum habendum est exemplar, similes inveniuntur, v. g., apud Leonis XIII, «Neminem Fugit», die 14 iun. 1892: «Leonis XIII P. M. Acta», XII [1892] 149s; apud Benedicti XV, «Bonum Sane», die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 313-317).

Quanti insegnamenti da ciò derivano oggi per la famiglia! Poiché «l’essenza ed i compiti della famiglia sono ultimamente definiti dall’amore» e «la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa» («Familairis Consortio», 17), e nella santa Famiglia, in questa originaria «Chiesa domestica» («Familiaris Consortio», 49; cfr. «Lumen Gentium», 11; «Apostolicam Actuositatem», 11) che tutte le famiglie cristiane debbono rispecchiarsi. In essa, infatti, «per un misterioso disegno di Dio è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio: essa, dunque, è il prototipo e l’esempio di tutte le famiglie cristiane» («Familiaris Consortio», 85).

8. San Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente «ministro della salvezza» (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s). La sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del suo cuore e di ogni capacità nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa» («Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 110).

La liturgia, ricordando che sono stati affidati «alla premurosa custodia di san Giuseppe gli inizi della nostra redenzione» («Missale Romanum», Collecta «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M») precisa anche che «Dio lo ha messo a capo della sua famiglia, come servo fedele e prudente, affinché custodisse come padre il suo Figlio unigenito» («Missale Romanum», Praefatio «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M.»). Leone XIII sottolinea la sublimità di questa missione: «Egli tra tutti si impone nella sua augusta dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell’opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde conseguiva che il Verbo di Dio fosse sottomesso a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell’onore e quella riverenza che i figli debbono al loro padre» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 178).

Poiché non è concepibile che a un compito così sublime non corrispondano le qualità richieste per svolgerlo adeguatamente, bisogna riconoscere che Giuseppe ebbe verso Gesù «per speciale dono del Cielo, tutto quell’amore naturale, tutta quell’affettuosa sollecitudine che il cuore di un padre possa conoscere» (Pii XII, «Nuntius radiophonicus ad alumnos transmissus in Scholis Catholicis Foederatarum Americae Civitatum discentes», die 19 febr. 1958: AAS 50 [1958] 174).

Con la potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe l’amore corrispondente, quell’amore che ha la sua sorgente nel Padre, «dal quale prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra» (Ef 3,15).

Nei Vangeli è presentato chiaramente il compito paterno di Giuseppe verso Gesù. Difatti, la salvezza, che passa attraverso l’umanità di Gesù, si realizza nei gesti che rientrano nella quotidianità della vita familiare, rispettando quella «condiscendenza» inerente all’economia dell’Incarnazione. Gli evangelisti sono molto attenti a mostrare come nella vita di Gesù nulla sia stato lasciato al caso, ma tutto si sia svolto secondo un piano divinamente prestabilito. La formula spesso ripetuta: «Così avvenne, affinché si adempissero…» e il riferimento dell’avvenimento descritto a un testo dell’antico testamento tendono a sottolineare l’unità e la continuità del progetto, che raggiunge in Cristo il suo compimento.

Con l’Incarnazione le «promesse» e le «figure» dell’antico testamento divengono «realtà»: luoghi, persone, avvenimenti e riti si intrecciano secondo precisi ordini divini, trasmessi mediante il ministero angelico e recepiti da creature particolarmente sensibili alla voce di Dio. Maria è l’umile serva del Signore, preparata dall’eternità al compito di essere madre di Dio; Giuseppe è colui che Dio ha scelto per essere «l’ordinatore della nascita del Signore» (Origenis, «Hom. XIII in Lucam» 7: S. Ch. 87, 214), colui che ha l’incarico di provvedere all’inserimento «ordinato» del Figlio di Dio nel mondo, nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane. Tutta la vita cosiddetta «privata» o «nascosta» di Gesù è affidata alla sua custodia.

Il censimento

9. Recandosi a Betlemme per il censimento in ossequio alle disposizioni della legittima autorità, Giuseppe adempì nei riguardi del Bambino il compito importante e significativo di inserire ufficialmente il nome «Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret» (cfr. Gv 1,45) nell’anagrafe dell’impero. Tale iscrizione manifesta in modo palese l’appartenenza di Gesù al genere umano, uomo fra gli uomini, cittadino di questo mondo, soggetto alle leggi e istituzioni civili, ma anche «salvatore del mondo». Origene descrive bene il significato teologico inerente a questo fatto storico, tutt’altro che marginale: «Poiché il primo censimento di tutta la terra avvenne sotto Cesare Augusto, e tra tutti gli altri anche Giuseppe si fece registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta, poiché Gesù venne alla luce prima che il censimento fosse compiuto, a chi consideri con diligente attenzione sembrerà esprimere una sorte di mistero il fatto che nella dichiarazione di tutta la terra dovesse essere censito anche Cristo. In tal modo, con tutti registrato, tutti egli poteva santificare, con tutta la terra inscritto nel censimento, alla terra offriva la comunione con sè, e dopo questa dichiarazione tutti gli uomini della terra scriveva nel libro dei viventi, onde quanti avessero creduto in lui, fossero poi inscritti nel cielo con i Santi di colui a cui è la gloria e l’impero nei secoli dei secoli. Amen» («Hom. XI in Lucam», 6: S. Ch. 87, 194 et 196).

La nascita a Betlemme

10. Quale depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio», e che comincia a realizzarsi davanti ai suoi occhi «nella pienezza del tempo», Giuseppe è insieme con Maria, nella notte di Betlemme, testimone privilegiato della venuta del Figlio di Dio nel mondo. Così scrive Luca: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7).

Giuseppe fu testimone oculare di questa nascita, avvenuta in condizioni umanamente umilianti, primo annuncio di quella «spoliazione» (cfr. Fil 2,5-8), a cui Cristo liberamente accondiscese per la remissione dei peccati. Nello stesso tempo egli fu testimone dell’adorazione dei pastori, giunti sul luogo della nascita di Gesù dopo che l’angelo aveva recato loro questa grande, lieta notizia (cfr. Lc 2,15-16); più tardi fu anche testimone dell’omaggio dei magi, venuti dall’Oriente (cfr. Mt 2,11).

La circoncisione

11. Essendo la circoncisione del figlio il primo dovere religioso del padre, Giuseppe con questo rito (cfr. Lc 2,21) esercita il suo diritto-dovere nei riguardi di Gesù.

Il principio secondo il quale i riti dell’antico testamento sono l’ombra della realtà (cfr. Eb 9,9s; 10,1), spiega perché Gesù li accetti. Come per gli altri riti, anche quello della circoncisione trova in Gesù il «compimento». L’alleanza di Dio con Abramo, di cui la circoncisione era segno (cfr. Gen 17,13), raggiunge in Gesù il suo pieno effetto e la sua perfetta realizzazione, essendo Gesù il «sì» di tutte le antiche promesse (cfr. 2Cor 1,20).

L’imposizione del nome

12. In occasione della circoncisione, Giuseppe impone al bambino il nome di Gesù. Questo nome è il solo nel quale si trova la salvezza (cfr. At 4,12); ed a Giuseppe ne era stato rivelato il significato al momento della sua «annunciazione»: «E tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai i suoi peccati» (Mt 1,21). Imponendo il nome, Giuseppe dichiara la propria legale paternità su Gesù e, pronunciando il nome, proclama la di lui missione di salvatore.

La presentazione di Gesù al tempio

13. Questo rito, riferito da Luca (2,22s), include il riscatto del primogenito e illumina la successiva permanenza di Gesù dodicenne nel tempio.

Il riscatto dei primogenito è un altro dovere del padre, che è adempiuto da Giuseppe. Nel primogenito era rappresentato il popolo dell’alleanza, riscattato dalla schiavitù per appartenere a Dio. Anche a questo riguardo Gesù, che è il vero «prezzo» del riscatto (cfr. 1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,19), non solo «compie» il rito dell’antico testamento, ma nello stesso tempo lo supera, non essendo egli un soggetto da riscattare, ma l’autore stesso del riscatto.

L’Evangelista rileva che «il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33) e, in particolare, di ciò che disse Simeone, indicando Gesù, nel suo cantico rivolto a Dio, come la «salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli» e «luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele» e, più avanti, anche come «segno di contraddizione» (cfr. Lc 2,30-34).

La fuga in Egitto

14. Dopo la presentazione al tempio l’evangelista Luca annota: «Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,39-40).

Ma, secondo il testo di Matteo, prima ancora di questo ritorno in Galilea, è da collocare un evento molto importante, per il quale la divina Provvidenza ricorre di nuovo a Giuseppe. Leggiamo: «Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: « Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo »» (Mt 2,13). In occasione della venuta dei magi dall’Oriente, Erode aveva saputo della nascita del «re dei Giudei» (cfr. Mt 2,2). E quando i magi partirono, egli «mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù» (Mt 2,16). In questo modo, uccidendo tutti, voleva uccidere quel neonato «re dei Giudei», del quale era venuto a conoscenza durante la visita dei magi alla sua corte. Allora Giuseppe, avendo udito in sogno l’avvertimento, «prese con sè il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: « Dall’Egitto ho chiamato mio figlio »» (Mt 2,14-15; cfr. Os 11,1).

In tal modo la via del ritorno di Gesù da Betlemme a Nazaret passò attraverso l’Egitto. Come Israele aveva preso la via dell’esodo «dalla condizione di schiavitù» per iniziare l’antica alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la nuova alleanza.

La permanenza di Gesù al tempio

15. Dal momento dell’Annunciazione Giuseppe insieme con Maria si trovò in un certo senso nell’intimo del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio e che si era rivestito di carne: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Egli abitò in mezzo agli uomini, e l’ambito della sua dimora fu la santa Famiglia di Nazaret – una delle tante famiglie di questa cittadina della Galilea, una delle tante famiglie della terra di Israele. Ivi Gesù cresceva e «si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,40). I Vangeli riassumono in poche parole il lungo periodo della vita «nascosta», durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica. Un solo momento è sottratto da questo «nascondimento» ed è descritto dal vangelo di Luca: la pasqua di Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni.

Gesù partecipò a questa festa come un giovane pellegrino insieme con Maria e Giuseppe. Ed ecco: «Trascorsi i giorni della festa, mentre riprendeva la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero» (Lc 2,43). Passato un giorno, se ne resero conto ed iniziarono le ricerche «tra i parenti e i conoscenti». «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che lo udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,46-47). Maria domanda: «Figlio, perché ci hai fatto cosi? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). La risposta di Gesù fu tale che i due «non compresero le sue parole». Aveva detto: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49-50).

Udì questa risposta Giuseppe, per il quale Maria aveva appena detto «tuo padre». Difatti così tutti dicevano e pensavano: «Gesù era figlio, come si credeva, di Giuseppe» (Lc 3,23). Nondimeno, la risposta di Gesù nel tempio doveva rinnovare nella consapevolezza del «presunto padre» ciò che questi aveva udito una notte, dodici anni prima: «Giuseppe,… non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». Già da allora egli sapeva di essere depositario del mistero di Dio, e Gesù dodicenne evocò esattamente questo mistero: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio».

Il sostentamento e l’educazione di Gesù a Nazaret

16. La crescita di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» (Lc 2,52) avvenne nell’ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva l’alto compito di «allevare», ossia di nutrire, di vestire e di istruire Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre.

Nel sacrifico eucaristico la Chiesa venera la memoria anzitutto della gloriosa sempre Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe (cfr. «Missale Romanum», «Prex Eucharistica I»), perché «nutrì colui che i fedeli dovevano mangiare come pane di vita eterna» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol V, 282).

Da parte sua, Gesù «era loro sottomesso» (Lc 2,51), ricambiando col rispetto le attenzioni dei suoi «genitori». In tal modo volle santificare i doveri della famiglia e del lavoro, che prestava accanto a Giuseppe.

III

L’UOMO GIUSTO – LO SPOSO

17. Nel corso della sua vita, che fu una peregrinazione nella fede, Giuseppe, come Maria, rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio. La vita di lei fu il compimento sino in fondo di quel primo «fiat» pronunciato al momento dell’Annunciazione, mentre Giuseppe – come è già stato detto – al momento della sua «annunciazione» non proferì alcuna parola: semplicemente egli «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore» (Mt 1,24). E questo primo «fece» divenne l’inizio della «via di Giuseppe». Lungo questa via i Vangeli non annotano alcuna parola detta da lui. Ma il silenzio di Giuseppe ha una speciale eloquenza: grazie ad esso si può leggere pienamente la verità contenuta nel giudizio che di lui dà il Vangelo: il «giusto» (Mt 1,19).

Bisogna saper leggere questa verità, perché vi è contenuta una delle più importanti testimonianze circa l’uomo e la sua vocazione. Nel corso delle generazioni la Chiesa legge in modo sempre più attento e consapevole una tale testimonianza, quasi estraendo dal tesoro di questa insigne figura «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

18. L’uomo «giusto» di Nazaret possiede soprattutto le chiare caratteristiche dello sposo. L’Evangelista parla di Maria come di «una vergine, promessa sposa di un uomo… chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Prima che comincia a compiersi «il mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9), i Vangeli pongono dinanzi a noi l’immagine dello sposo e della sposa. Secondo la consuetudine del popolo ebraico, il matrimonio si concludeva in due tappe: prima veniva celebrato il matrimonio legale (vero matrimonio), e solo dopo un certo periodo, lo sposo introduceva la sposa nella propria casa. Prima di vivere insieme con Maria, Giuseppe quindi era già il suo «sposo»; Maria però, conservava nell’intimo il desiderio di far dono totale di sè esclusivamente a Dio. Ci si potrebbe domandare in che modo questo desiderio si conciliasse con le «nozze». La risposta viene soltanto dallo svolgimento degli eventi salvifici, cioè dalla speciale azione di Dio stesso. Fin dal momento dell’Annunciazione Maria sa che deve realizzare il suo desiderio verginale di donarsi a Dio in modo esclusivo e totale proprio divenendo madre del Figlio di Dio. La maternità per opera dello Spirito Santo è la forma di donazione, che Dio stesso si attende dalla Vergine, «promessa sposa» di Giuseppe. Maria pronuncia il suo «fiat».

Il fatto di esser lei «promessa sposa» a Giuseppe è contenuto nel disegno stesso di Dio. Ciò indicano entrambi gli evangelisti citati, ma in modo particolare Matteo. Sono molto significative le parole dette a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Esse spiegano il mistero della sposa di Giuseppe: Maria è vergine nella sua maternità. In lei «il Figlio dell’Altissimo» assume un corpo umano e diviene «il figlio dell’uomo».

Rivolgendosi a Giuseppe con le parole dell’angelo, Dio si rivolge a lui come allo sposo della Vergine di Nazaret. Ciò che si è compiuto in lei per opera dello Spirito Santo esprime al tempo stesso una speciale conferma del legame sponsale, esistente già prima tra Giuseppe e Maria. Il messaggero chiaramente dice a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Pertanto, ciò che era avvenuto prima – le sue nozze con Maria – era avvenuto per volontà di Dio e, dunque, andava conservato. Nella sua divina maternità Maria deve continuare a vivere come «una vergine, sposa di uno sposo» (cfr. Lc 1,27).

19. Nelle parole dell’«annunciazione» notturna Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l’ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì, la verità circa la propria vocazione. Quest’uomo «giusto» che, nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a questo amore.

«Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24); quello che è generato in lei «viene dallo Spirito Santo»: da tali espressioni non bisogna forse desumere che anche il suo amore di uomo viene rigenerato dallo Spirito Santo? Non bisogna forse pensare che l’amore di Dio, che è stato riversato nel cuore umano per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5), forma nel modo più perfetto ogni amore umano? Esso forma anche – ed in modo del tutto singolare – l’amore sponsale dei coniugi, approfondendo in esso tutto ciò che umanamente è degno e bello, ciò che porta i segni dell’esclusivo abbandono, dell’alleanza delle persone e dell’autentica comunione sull’esempio del mistero trinitario.

«Giuseppe… prese con sè la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio» (Mt 1,24-25). Queste parole indicano un’altra vicinanza sponsale. La profondità di questa vicinanza, la spirituale intensità dell’unione e del contatto tra le persone – dell’uomo e della donna – provengono in definitiva dallo Spirito, che dà la vita (Gv 6,63). Giuseppe, obbidiente allo Spirito, proprio in esso ritrovò la fonte dell’amore, del suo amore sponsale di uomo, e fu questo amore più grande di quello che «l’uomo giusto» poteva attendersi a misura del proprio cuore umano.

20. Nella liturgia Maria è celebrata come «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» («Collectio Missarum de Beata Maria Virgine», I, «Sancta Maria de Nazareth», Praefatio). Si tratta, infatti, di due amori che rappresentano congiuntamente il mistero della Chiesa, vergine e sposa, la quale trova nel matrimonio di Maria e Giuseppe il suo simbolo. «La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l’unico mistero dell’alleanza di Dio col suo popolo» («Familiaris Consortio», 16), che è comunione di amore tra Dio e gli uomini.

Mediante il sacrificio totale di sè Giuseppe esprime il suo generoso amore verso la Madre di Dio, facendole «dono sponsale di sé». Pur deciso a ritirarsi per non ostacolare il piano di Dio che si stava realizzando in lei, egli per espresso ordine angelico la trattiene con sè e ne rispetta l’esclusiva appartenenza a Dio.

D’altra parte, è dal matrimonio con Maria che sono derivati a Giuseppe la sua singolare dignità e i suoi diritti su Gesù. «E’ certo che la dignità di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più sublime; ma perché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il connubio è la massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei» (Leone XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta» IX [190] 177s).

21. Un tale vincolo di carità costituì la vita della santa Famiglia prima nella povertà di Betlemme, poi nell’esilio in Egitto e, successivamente, nella dimora a Nazaret. La Chiesa circonda di profonda venerazione questa Famiglia, proponendola quale modello a tutte le famiglie. Inserita direttamente nel mistero dell’Incarnazione, la Famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. Ed insieme – così come nella Incarnazione – a questo mistero appartiene la vera paternità: la forma umana della famiglia del Figlio di Dio – vera famiglia umana, formata dal mistero divino. In essa Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità derivante dalla generazione; eppure, essa non è «apparente», o soltanto «sostitutiva», ma possiede in pieno l’autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia. E’ contenuta in ciò una conseguenza dell’unione ipostatica: umanità assunta nell’unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l’assunzione dell’umanità, in Cristo è anche «assunto» tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche «assunta» la paternità umana di Giuseppe.

In base a questo principio acquistano il loro giusto significato le parole rivolte da Maria a Gesù dodicenne nel tempio: «Tuo padre ed io… ti cercavamo». Non è questa una frase convenzionale: le parole della Madre di Gesù indicano tutta la realtà dell’Incarnazione, che appartiene al mistero della Famiglia di Nazaret. Giuseppe, il quale sin dall’inizio accettò mediante «l’obbedienza della fede» la sua paternità umana nei riguardi di Gesù, seguendo la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all’uomo, certamente scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità.

IV

IL LAVORO ESPRESSIONE DELL’AMORE

22. Espressione quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro. Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l’intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l’Evangelista dopo l’episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l’obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell’ordine della salvezza e della santità è l’esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all’umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell’Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione.

23. Nella crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il lavoro un bene dell’uomo» che «trasforma la natura» e rende l’uomo «in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens», 9).

L’importanza del lavoro nella vita dell’uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti «per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e per approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di re» («Laborem Exercens», 24. Hac recentiore aetate Summi Pontifices assidue S. Ioseph tamquam operariorum opificumque «exemplum» exhibuerunt; cfr. v. g., Leonis XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889»: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 180; Benedicti XV, «Bonum Sane» die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 314-316; Pii XII, «Allocutio», die 11 mar. 1945: AAS 37 [1945] 72; Eiusdem, «Allocutio», die 1 maii 1955: AAS 47 [1955] 406; Ioannis XXIII, «Nuntius radiophonicus», die 1 maii 1960: AAS 52 [1960] 398).

24. Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono « grandi cose », ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

V

IL PRIMATO DELLA VITA INTERIORE

25. Anche sul lavoro di carpentiere nella casa di Nazaret si stende lo stesso clima di silenzio, che accompagna tutto quanto si riferisce alla figura di Giuseppe. E’ un silenzio, però che svela in modo speciale il profilo interiore di questa figura. I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe «fece»; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue «azioni», avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero «nascosto da secoli», che «prese dimora» sotto il tetto di casa sua. Questo spiega, ad esempio, perché santa Teresa di Gesù, la grande riformatrice del Carmelo contemplativo, si fece promotrice del rinnovamento del culto di san Giuseppe nella cristianità occidentale.

26. Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

Questa sottomissione a Dio, che è prontezza di volontà nel dedicarsi alle cose che riguardano il suo servizio, non è altro che l’esercizio della devozione, la quale costituisce una delle espressioni della virtù della religione (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 82, a. 3, ad 2).

27. La comunione di vita tra Giuseppe e Gesù ci porta a considerare ancora il mistero dell’Incarnazione proprio sotto l’aspetto dell’umanità di Cristo, strumento efficace della divinità in ordine alla santificazione degli uomini: «In forza della divinità le azioni umane di Cristo furono per noi salutari, causando in noi la grazia sia in ragione del merito, sia per una certa efficacia» (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 8, a. 1, ad 1).

Tra queste azioni gli evangelisti privilegiano quelle riguardanti il mistero pasquale, ma non omettono di sottolineare l’importanza del contatto fisico con Gesù in ordine alle guarigioni (cfr., ex. gr., Mc 1,41) e l’influsso da lui esercitato su Giovanni il Battista, quando entrambi erano ancora nel grembo materno (cfr. Lc 1,41-44).

La testimonianza apostolica non ha trascurato – come si è visto – la narrazione della nascita di Gesù, della circoncisione, della presentazione al tempio, della fuga in Egitto e della vita nascosta a Nazaret a motivo del «mistero» di grazia contenuto in tali «gesti», tutti salvifici, perché partecipi della stessa sorgente di amore: la divinità di Cristo. Se questo amore attraverso la sua umanità si irradiava su tutti gli uomini, ne erano certamente beneficiari in primo luogo coloro che la volontà divina aveva collocato nella sua più stretta intimità: Maria sua madre e il padre putativo Giuseppe (cfr. Pii XII, «Haurietis Aquas», III, die 15 maii 1956: AAS 48 [1956] 329s).

Poiché l’amore «paterno» di Giuseppe non poteva non influire sull’amore «filiale» di Gesù e, viceversa, l’amore «filiale» di Gesù non poteva non influire sull’amore «paterno» di Giuseppe, come inoltrarsi nelle profondità di questa singolarissima relazione? Le anime più sensibili agli impulsi dell’amore divino vedono a ragione in Giuseppe un luminoso esempio di vita interiore.

Inoltre, l’apparente tensione tra la vita attiva e quella contemplativa trova in lui un ideale superamento, possibile a chi possiede la perfezione della carità. Seguendo la nota distinzione tra l’amore della verità («caritas veritatis») e l’esigenza dell’amore («necessitas caritatis») (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 182, a. 1, ad 3), possiamo dire che Giuseppe ha sperimentato sia l’amore della verità, cioè il puro amore di contemplazione della verità divina che irradiava dall’umanità di Cristo, sia l’esigenza dell’amore, cioè l’amore altrettanto puro del servizio, richiesto dalla tutela e dallo sviluppo di quella stessa umanità.

VI

PATRONO DELLA CHIESA DEL NOSTRO TEMPO

28. In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 283). Il Pontefice sapeva di non compiere un gesto peregrino, perché a motivo dell’eccelsa dignità concessa da Dio a questo suo fedelissimo servo, «la Chiesa, dopo la Vergine Santa, sposa di lui, ebbe sempre in grande onore e ricolmò di lodi il beato Giuseppe, e di preferenza a lui ricorse nelle angustie» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta+, pars I, vol. V, 282s).

Quali sono i motivi di tanta fiducia? Leone XIII li espone così: «Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa, e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dall’essere egli sposo di Maria e padre putativo di Gesù… Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia… E’ dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 177-179).

29. Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi e nazioni dove – come ho scritto nell’esortazione apostolica « Christifideles Laici » – la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti», e che «sono ora messi a dura prova» (34). Per portare il primo annuncio di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa ha bisogno di una speciale «virtù dall’alto» (cfr. Lc 24,49; At 1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall’intercessione e dall’esempio dei suoi santi.

30. Oltre che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell’insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele.

Come è detto nella costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina Rivelazione, l’attegiamento fondamentale di tutta la Chiesa deve essere quello del «religioso ascolto della Parola di Dio» («Dei Verbum», 1), ossia dell’assoluta disponibilità a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio, rivelata in Gesù. Già all’inizio della Redenzione umana troviamo incarnato il modello dell’obbedienza, dopo Maria, proprio in Giuseppe, colui che si distingue per la fedele esecuzione dei comandi di Dio.

Paolo VI invitava a invocarne il patrocinio «come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sè, innanzitutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia della redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sè sufficiente ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Gv 15,5), non è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre, protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualissimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in San Giuseppe rifulgono» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

31. La Chiesa trasforma queste esigenze in preghiera. Ricordando che Dio ha affidato gli inizi della nostra Redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe, gli chiede di concederle di collaborare fedelmente all’opera di salvezza, di donarle la stessa fedeltà e purezza di cuore che animò Giuseppe nel servire il Verbo incarnato e di camminare sull’esempio e per l’intercessione del santo, davanti a Dio nelle vie della santità e della giustizia (cfr. «Missale Romanum», Collecta; Super oblata «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B. M. V.»; Post communio «in Missa votiva S. Ioseph»).

Già cento anni fa Papa Leone XIII esortava il mondo cattolico a pregare per ottenere la protezione di san Giuseppe, patrono di tutta la Chiesa. L’epistola enciclica «Quamquam Pluries» si richiamava a quell’«amore paterno» che Giuseppe «portava al fanciullo Gesù», ed a lui, «provvido custode della divina Famiglia», raccomandava «la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue». Da allora la Chiesa – come ho ricordato all’inizio – implora la protezione di san Giuseppe – «per quel sacro vincolo di carità che lo strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio» e gli raccomanda tutte le sue sollecitudini, anche per le minacce che incombono sulla famiglia umana.

Ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare nello stesso modo: «Allontana da noi, o padre amatissimo, questa peste di errori e di vizi…, assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre…; e come un tempo scampasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità» (cfr. «Oratio ad Sanctum Iosephum», quae proxime sequitur textum ipsius Epist. Enc. «Quamquam Pluries »» die 15 aug. 1889: «Leone XIII P. M. Acta», IX [1890] 183). Ancora oggi abbiamo perduranti motivi per raccomandare a san Giuseppe ogni uomo.

32. Auspico vivamente che il presente ricordo della figura di Giuseppe rinnovi anche in noi gli accenti della preghiera che un secolo fa il mio predecessore raccomandò di innalzare a lui. E’ certo, infatti, che questa preghiera e la figura stessa di Giuseppe acquistano una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo millennio cristiano.

Il Concilio Vaticano II ha di nuovo sensibilizzato tutti alle «grandi cose di Dio», a quell’«economia della salvezza», della quale Giuseppe fu speciale ministro. Raccomandandoci, dunque, alla protezione di colui al quale Dio stesso «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi e più grandi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P M. Acta», pars I, vol. V, 282), impariamo al tempo stesso da lui a servire l’«economia della salvezza». Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a ciascuno e a tutti: agli sposi ed ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a quelle chiamate all’apostolato.

L’uomo giusto, che portava in sè tutto il patrimonio dell’antica alleanza, è stato anche introdotto nell’«inizio» della nuova ed eterna alleanza in Gesù Cristo. Che egli ci indichi le vie di questa alleanza salvifica sulla soglia del prossimo millennio, nel quale deve perdurare e ulteriormente svilupparsi la «pienezza del tempo» ch’è propria del mistero ineffabile della Incarnazione del Verbo.

Che san Giuseppe ottenga alla Chiesa ed al mondo, come a ciascuno di noi, la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Dato a Roma, presso san Pietro, il 15 agosto – solennità dell’Assunzione della beata Vergine Maria – dell’anno 1989, undecimo di pontificato.

GIOVANNI PAOLO II

QUESTO È IL LINK ALLA « INNEFABILIS DEUS » LA BOLLA DELLA PROMULGAZIONE DELL’iMMACOLATA CONCEZIONE

http://fidesetforma.blogspot.com/2009/12/ineffabilis-deus.html

Publié dans:MAGISTERO DELLA CHIESA (DAL) |on 9 décembre, 2009 |Pas de commentaires »

LA PARUSIA OVVERO LA SECONDA VENUTA DEL SIGNORE NOSTRO GESÙ CRISTO

dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19150618_parusia-paolo_it.html

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

LA PARUSIA OVVERO LA SECONDA VENUTA
DEL SIGNORE NOSTRO GESÙ CRISTO
NELLE LETTERE DI SAN PAOLO APOSTOLO
 
Ai seguenti dubbi presentati, la Pontificia Commissione biblica ha deciso di rispondere come segue:

1. Per risolvere le difficoltà che si incontrano nelle lettere di San Paolo e degli altri apostoli quando si tratta della «parusia», come la chiamano, cioè della seconda venuta di nostro Signore Gesù Cristo, è permesso all’esegeta cattolico asserire che gli Apostoli, sebbene sotto l’ispirazione dello Spirito Santo non insegnino alcun errore, hanno ciononostante espresso i propri sentimenti umani nei quali può subentrare l’errore o l’inganno?

Risposta: No.

II. Avendo presente l’autentica nozione dell’ufficio apostolico e la indubbia fedeltà di San Paolo alla dottrina del Maestro, come anche il dogma cattolico dell’ispirazione e dell’inerranza delle Sacre Scritture, secondo il quale tutto ciò che l’agiografo asserisce, enunzia, insinua, si deve ritenere come asserito, enunciato, insinuato dallo Spirito Santo, e avendo esaminato i testi delle lettere dell’Apostolo in sé considerati, del tutto consoni al modo di parlare del Signore stesso, è opportuno sostenere che l’apostolo Paolo nei suoi scritti non abbia affermato alcuna cosa che non concordi perfettamente con quella ignoranza del tempo della parusia che Cristo stesso proclamò essere propria degli uomini?

Risposta: Sì.

III. Avendo prestato attenzione all’espressione greca «noi i vivi, i superstiti» e avendo considerata l’esposizione dei Padri, in primo luogo di San Giovanni Crisostomo, profondo conoscitore sia della lingua patria, sia delle lettere paoline, è lecito rifiutare come troppo forzata e priva di solido fondamento l’interpretazione tradizionale nelle scuole cattoliche (accettata anche dagli stessi riformatori del secolo XVI) che spiega le parole di Paolo in 1Ts 4,15-17 senza in alcun modo coinvolgere l’affermazione di una parusia tanto prossima che l’Apostolo conti se stesso e i suoi lettori fra i fedeli che superstiti andranno incontro a Cristo?

Risposta: No.

Il giorno 18 giugno 1915, nell’udienza benignamente concessa al Reverendissimo Segretario consultore sottoscritto, il nostro Santo Padre Benedetto Pp. XV ha ratificato le suddette risposte e ha comandato di pubblicarle.

Lorenzo JANSSENS, O.S.B.
Ab. tit. di Monte Blandino
Segretario consultore

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, UNITÀ E DIVERSITÀ NELLA CHIESA, III. UNITÀ E DIVERSITÀ NEL CORPUS PAOLINO

credo che  sia utile leggere almeno l’introduzione, dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19880411_unita-diversita_it.html#III._UNITÀ_E_DIVERSITÀ__NEL_CORPUS_PAOLINO

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

UNITÀ E DIVERSITÀ NELLA CHIESA

III.  UNITÀ E DIVERSITÀ NEL CORPUS PAOLINO

1. Le lettere cosiddette «proto-paoline»

Paolo si presenta come apostolos, l’infimo degli Apostoli (1Cor 15,9), ma apostolo al medesimo titolo (cf Gal 1-2), perché apostolo di Gesù Cristo (1Cor 1,1; 2Cor 1,1). La sua missione è quella di portare il Vangelo di Dio, annunziato dai Profeti, riguardante il Figlio risuscitato con potenza secondo lo Spirito di santificazione (Rm 1,1-4). Il problema dei rapporti tra le Chiese locali e l’universalità di un solo popolo di Dio non è trattato direttamente da Paolo; ma nelle sue lettere si trovano alcune discussioni e alcuni dati che possono aiutare la nostra riflessione sul problema: relazioni tra giudei e pagani, tra deboli e forti, tra poveri e ricchi, tra uomini e donne, rapporti dei fedeli con Paolo e con i suoi collaboratori, esistenza di parecchie Chiese domestiche (Rm 16,5; Fm 2), eresie, scismi e disordini, diversità di doni e di carismi…
Il nostro tema sarà illuminato in modo del tutto particolare dall’analisi di due situazioni concrete: 1. Come nella lettera ai Galati Paolo giudica le relazioni tra i pagani convertiti e i giudeo-cristiani? 2. Come nella 1 Corinzi e nella lettera ai Romani si vede la diversità nell’unità di queste due comunità?

1. In Gal 1-2, Paolo afferma l’unità dei credenti ponendo l’accento sull’unicità del Vangelo: la stessa grazia viene da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati per strapparci da questo «mondo perverso» (1,3-4). L’espressione Ekklêsía tou Theou (1,13) probabilmente ha già una risonanza più che locale.

Tuttavia non ci sono solo parecchie Chiese in Galazia (1,2) e altrove, il che è segno di vitalità. Ci sono anche serie tensioni causate dai giudaizzanti che deformano il vangelo del Cristo. Paolo racconta ciò che avvenne quando, con Barnaba, egli condusse Tito a Gerusalemme. Là egli espose il suo Vangelo alle «persone ragguardevoli»: esse riconobbero l’apostolato che gli era stato affidato. I partecipanti accettarono due diverse evangelizzazio­ni: una per i circoncisi, affidata a Pietro, l’altra per gli incirconcisi, affidata a Paolo. In occasione del conflitto di Antiochia, Paolo dimostrò che per tutti la giustificazione viene dalla fede in Gesù Cristo e non dalle opere della Legge. Rimproverando a Pietro, che evitava di prendere parte ai pasti con gli etnico-cristiani, di non camminare più secondo la verità del Vangelo (Gal 2,14), Paolo difese per i suoi pagani convertiti la libertà di fronte alla Legge.

2. Le divisioni nella Chiesa di Corinto, ricordate in 1Cor 1-3, sono causate dalle differenze tra partiti. Paolo non le ritiene legittime. Ma in 1Cor 12 e Rm 12 Paolo descrive la diversità necessaria, usando l’immagine del corpo e delle membra. Lo Spirito distribuisce a ciascuno i suoi doni secondo la sua volontà: «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6.15-22; Rm 14,2-3). Questa diversità, certamente voluta da Dio, non può diventare disordine. Dio, Gesù Cristo e lo Spirito devono garantire l’unità al livello fondamentale, ma la devono garantire anche, in altro modo e ciascuno a proprio titolo, il battesimo (Gal 3,27-28; Rm 6,3-4) e l’Eucaristia (1Cor 10,16-17), la fede (Rm 1,16; 3,22) e l’agape (1Cor 13; Rm 5,3-8).

3. Con l’appoggio di questi due esempi, possiamo delineare una sintesi paolina e iniziare una riflessione sui mezzi con i quali Dio assicura la coesione dei cristiani. In seguito sottolineeremo le esigenze di una diversità ben integrata.

Alcuni fattori d’unità tipici di Israele esercitano ora solo una funzione molto attenuata. Senza negare la santità, la giustizia e la bontà della Torah (Rm 7,12), Paolo in altri testi sottolinea il suo carattere esclusivo e nazionale (cf Gal 2,14). Respinge come principio di unità la circoncisione e le regole alimentari. Pur riconoscendo nel culto un privilegio di Israele (Rm 9,4), Paolo parla poco del Tempio, perché i cristiani stessi sono santuario (naós) di Dio (1Cor 3,16-17; 2Cor 6,16). Gerusalemme ha importanza soltanto a titolo di Chiesa-madre, prova della fedeltà di Dio alla sua Alleanza. Questa Chiesa ha autorità per i capi riconosciuti che vi si trovano. Essi sono considerati le colonne (styloi) della comunione (Gal 2,9); senza l’accordo con loro, Paolo ritiene che avrebbe «corso invano» (Gal 2,2). Non si parla di «Terra santa». Il cristiano si collega ad Abramo e al popolo eletto per mezzo della fede nel Cristo.
Paolo insiste, invece, sull’apostolato (Gal 1,1; 1Cor 9,1). È una funzione di universalità e di unità che non è limitata a una Chiesa locale. L’apostolo Paolo stesso costituisce, senza alcun dubbio, un legame di unità tra le Chiese particolari. La predicazione di un Vangelo comune unifica tutti i credenti delle diverse Chiese (1Cor 15,11). Tanto il battesimo quanto l’eucaristia (e i pasti comunitari) operano la comunione tra i cristiani. Si può dedurre da 1Cor 11,23ss. che l’Eucaristia è fondamentalmente la stessa a Corinto, ad Antiochia o a Gerusalemme.

Ugualmente, la complementarietà dei carismi è mediatrice di unità. Senza la diversità dei doni, il funzionamento del corpo sarebbe impossibile. Le norme, stabilite da Paolo e talvolta molto uniformi, servono all’unità; su questo punto Paolo ritiene di avere un potere (exousía, 2Cor 10,8; 13,10), anche se non vuole servirsene sempre. E infine, la comunione (koinônía) tra gli apostoli (Gal 2,9) favorisce l’unità tra le diverse Chiese. La molteplicità di queste potrebbe provocare la divisione, e ciò renderebbe vano l’apostolato. Il «ricordarsi dei poveri» di Gerusalemme (Gal 2,10) manifesterà concretamente la comunione. La colletta di cui parlano le lettere sarà un atto che esprime la solidarietà dei cristiani in un senso eminentemente ecclesiale.

Per quanto concerne la diversità, Paolo accetta come ricchezza del corpo le differenze tra le membra. A tale livello non esiste l’uniformità. Paolo si fa tutto a tutti, «giudeo con i Giudei» e «con coloro che non hanno legge, come uno che è senza legge» (1Cor 9,19-22). Dalle autorità di Gerusalemme esige che sappiano discernere ciò che è essenziale e che deve restare identico per tutti i cristiani. Egli rifiuta, dunque, ogni settarismo conformista. Senza promuovere formalmente i valori umani che variano a seconda delle razze, delle regioni e delle culture, Paolo si sforza di liberare i suoi etnico-cristiani dall’inculturazione religiosa dei Giudei. Perciò ci si può domandare se, secondo le prospettive di Paolo, le diverse Chiese locali non dovrebbero distinguersi per i loro carismi particolari e contribuire, così, alla legittima e arricchente diversificazione della Chiesa una e universale.

2. Le lettere cosiddette «della prigionia»

Su due di queste lettere ci dobbiamo soffermare: Colossesi ed Efesini. Le loro prospettive non sono più quelle delle Lettere protopaoline. Il Cristo è il capo di una Chiesa che è il suo corpo. L’escatologia vi appare più «realizzata», la cristologia più cosmica.

1. Nella Lettera ai Colossesi, l’autorità di Paolo è sottolineata di fronte ai pericoli dell’eresia. Ma la diversità nell’unità è enunciata più d’una volta. Il Cristo è «il capo del corpo che è la Chiesa» (1,18), «il capo dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e di legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio» (2,19). I cristiani sono chiamati alla pace di un solo corpo (3,15). L’origine di questo vocabolario è più cosmologico che politico. In Colossesi, la Chiesa ha una vocazione nel mondo. In essa il Vangelo fruttifica e si sviluppa (1,6); esso è annunziato ad ogni creatura sotto il cielo (1,23). I Colossesi devono pregare perché Dio apra la porta alla predicazione (4,3-4). I precetti morali indicano uno stile di vita a ciascun membro della grande famiglia: mariti, genitori, padroni da un lato, e spose, figli, schiavi dall’altro (3,18-4,1). Al di sopra di tutto, i cristiani debbono «rivestirsi» dell’«agape» che «è il vincolo della perfezione» (3,14).

2. La lettera agli Efesini ha sviluppato ulteriormente questa esortazione. Nel codice familiare di 5,21-6,9, l’unione tra il Cristo (capo, sposo, salvatore) e la Chiesa, suo corpo-sposa, serve d’esempio alle relazioni tra marito e moglie. Lo Spirito fa abitare, per la fede, il Cristo nei cuori dei cristiani, in modo che essi sono radicati e fondati nella carità (3,16-17). Dio fa conoscere «il mistero della sua volontà per ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (1,9-10). Il Paolo della lettera agli Efesini, che si autodefinisce «l’infimo fra tutti i santi», ha ricevuto la grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo (3,8). È la rivelazione della presenza attiva di Dio nel mondo.
Anche in Efesini, la Chiesa è il corpo di Cristo che ne è il capo. A questa Chiesa egli ha dato una grande diversità di ministeri per edificare il suo corpo (4,7.11-12). Da lui «tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (4,16). La Chiesa è anche paragonata a una costruzione-tempio, che ha per fondamento gli apostoli e i profeti, e per pietra angolare (akrogôniaios) il Cristo (2,20). Senza alcun dubbio il Cristo è la nostra pace. Egli della divisione tra Giudei e pagani ha fatto un’unità, un solo popolo. Per mezzo della sua croce Egli ha riconciliati tutti e due con Dio in un solo corpo (2,14-22). L’autore esorta i suoi cristiani: «Cercate di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati…; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (4,3-6). Sebbene non usi l’espressione «una sola Chiesa», egli afferma con forza l’unità del corpo che è la Chiesa.

3. Le lettere cosiddette «pastorali»

Per le Chiese locali di Efeso e di Creta, si nota in queste lettere un’evoluzione della situazione descritta negli altri scritti del Corpus paolino. Vi si trova un’organizzazione più articolata dei ministeri. La fede è presentata meno come un atto che come un «deposito» che si deve conservare, come una dottrina alla quale bisogna restare fedeli. La Chiesa è presentata meno come un soma («corpo») che come un oikos («casa»).

L’autore non parla esplicitamente dei rapporti tra queste Chiese e la Chiesa universale. Tuttavia bisogna notare come è accettata l’autorità di Paolo che trascende le varie località: a questo titolo è riconosciuta l’autorità dei suoi delegati, Timoteo e Tito. A Timoteo il dono della grazia è stato conferito per un intervento profetico, accompagnato dall’imposizione delle mani dal collegio degli anziani (1Tm 4,14) e da Paolo (2Tm 1,6). Timoteo stesso imporrà le mani ad altri. Qui dunque appare una specie di successione nell’esercizio dell’autorità legittima (vedi anche 2Tm 2,2).

Senza poter affermare che un’identica situazione sia esistita nelle altre comunità, si notano grandi somiglianze nelle due Chiese di Efeso e di Creta. Esse arrivano sino all’uniformità. Così Timoteo, che conosce le Scritture dalla sua giovinezza, deve difendere, come Tito, la fede e la sana dottrina dagli errori (1Tm 6,20-21; 2Tm 3,13; Tt 1,9; 3,10). Tutti e due debbono completare l’organizzazione delle Chiese. Tito, secondo le istruzioni di Paolo, stabilirà degli anziani in ogni città (Tt 1,5). Si trovano degli anziani anche in 1Tm 5,17-19. Le qualità richieste per il vescovo sono le medesime in 1Tm 3,2-7 e in Tt 1,7-9. Timoteo deve vigilare sulle qualità dei diaconi (1Tm 3,8-10; 12-13) ed anche delle donne (diaconesse?) in 3,11. Infine, essi devono esortare i loro cristiani secondo le direttive paoline affinché tutti, in ogni classe sociale (1Tm 5 e 6; Tt 2,1-10), si comportino in modo irreprensibile.
In tal modo l’unità della Chiesa, già debitamente strutturata, sarà custodita e mantenuta. I cristiani sono «la casa di Dio, la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). I cristiani fanno parte del popolo che appartiene a Gesù Cristo grazie al suo sacrificio (Tt 2,14).

Prima lettera ai Tessalonicesi – San Paolo e l’ecumenismo

dal sito:

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/weeks-prayer-doc/rc_pc_chrstuni_doc_20080117_fortino-ecumenismo_it.html

17 gennaio 2008 (vedi link)

PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI

RIFLESSIONE DI MONS. ELEUTERIO F. FORTINO*


Prima lettera ai Tessalonicesi – San Paolo e l’ecumenismo
L’attualità dell’iniziativa di padre Paul Wattson e
i fondamenti teologici nel Concilio Vaticano II 
 

« Ancora e ancora preghiamo il Signore ». Quest’invito del diacono, spesso ripetuto nel corso delle celebrazioni bizantine, sembra fare eco al tema scelto per la Settimana di preghiera per l’unità di quest’anno. A cento anni dall’inizio della prassi organizzata di una preghiera per l’unità dei cristiani, viene rivolto l’invito a « pregare continuamente », incessantemente, « senza interruzione » (1 Tessalonicesi 5, 17).

1. Il Decreto del Concilio Vaticano II sull’ecumenismo si chiude con l’affermazione che « questo santo proposito di riconciliare tutti i Cristiani nell’unica Chiesa di Cristo, una e unica, supera le forze e le doti umane », e « perciò » il Concilio « ripone tutta la sua speranza nell’orazione di Cristo per la Chiesa » (UR, 24). Quando il Decreto tratta l’esercizio dell’ecumenismo, chiede di situare le preghiere private e pubbliche in quel nucleo centrale che indica come « l’anima di tutto il movimento ecumenico », sottolineando che « queste preghiere in comune sono senza dubbio un mezzo molto efficace per impetrare la grazia dell’unità » (UR, 8).

2. In quest’anno 2008 ricorre il centenario dell’inizio della prassi di pregare regolarmente per l’unità dei cristiani per opera di padre Paul Wattson, un ministro episcopaliano (anglicano degli Stati Uniti), co-fondatore della Society of the Atonement (Comunità dei frati e delle suore dell’Atonement) a Graymoor (Garrison, New York), che in seguito aderì alla Chiesa cattolica; la sua iniziativa continua fino ai nostri giorni. A Roma la Congregazione dei Frati francescani dell’Atonement è presente e impegnata nella promozione della ricerca dell’unità dei cristiani attraverso il « Centro Pro Unione ».

Proprio per commemorare questo avvenimento, il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha chiesto alla Comunità dell’Atonement di Graymoor di ospitare il Comitato misto per la preghiera composto da rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e della Chiesa cattolica che annualmente prepara i sussidi che vengono poi divulgati nel mondo intero. Dal 1908 la prassi della preghiera per l’unità ha avuto una lenta, ma graduale evoluzione, nella sua impostazione e nella diffusione nel mondo.

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani nel 2008 celebra il centenario dell’istituzione dell’Ottavario per l’unità della Chiesa. Questo titolo scelto da padre Wattson è stato trasformato in Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani in seguito all’impostazione data dall’abbé Paul Couturier (1936). Il cambiamento di terminologia rispecchia lo sviluppo della storia della preghiera per l’unità. Per la Chiesa cattolica, il Decreto del Concilio Vaticano II ha dato un’impostazione teologicamente fondata ed ecumenicamente aperta tanto da rendere possibile un’ampia partecipazione degli altri cristiani alla preghiera comune. Dal 1968 si è instaurata una feconda collaborazione con il Consiglio ecumenico delle Chiese, elaborando e divulgando insieme i sussidi su un tema concordato, diverso di anno in anno.

In relazione a questo centenario, il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani ha chiesto alla Commissione ecumenica dei vescovi degli Stati Uniti di scegliere e di proporre un primo progetto per i sussidi dell’anno 2008. È stato scelto il tema « Pregate continuamente », indicando come testo base una breve pericope della Lettera di san Paolo ai primi cristiani di Tessalonica (1 Ts 5, 12a.13b-18), una delle più antiche lettere di Paolo. La prima comunità cristiana di Tessalonica era stata fondata da Paolo; in seguito egli aveva sentito che serie difficoltà, provenienti dall’esterno, ma anche da divisioni interne, agitavano quella comunità provocando divisioni e opposizioni. Informato, Paolo si indirizzò a quella comunità con due lettere.

3. Il breve ma denso testo biblico contiene una serie di consigli, esortazioni, ordini paterni emananti dall’amore che Paolo nutriva per questa comunità sorta dalla sua predicazione. Egli si rivolge ai Tessalonicesi con « Vi prego … vivete in pace tra voi » (1 Ts 5, 13b). I cristiani riconciliati in Cristo devono dare testimonianza della redenzione ricevuta e della comunione ristabilita con Dio. Il tema della riconciliazione e della pace tra i discepoli di Cristo è dominante nell’insegnamento di Paolo.

Anche ai primi cristiani di Efeso egli ricorda questo tema fondamentale e lo collega direttamente a quello della vocazione cristiana. « Vi scongiuro di tenere una condotta degna della vocazione a cui siete stati chiamati … studiandovi di conservare l’unità di spirito nel vincolo della pace » (Ef 4, 3). E ripresenta loro il fondamento teologico: « Non c’è che un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4, 5). La pace è un dono di Dio che i discepoli ricevono e che sono chiamati a tradurre nelle espressioni concrete della vita personale e comunitaria.

4. Nel corpo del testo scelto, Paolo dà alcune « indicazioni per risolvere le tensioni » della comunità di Tessalonica, indicazioni che vengono proposte come utili anche per la situazione attuale dei cristiani per la ricerca della loro riconciliazione e della loro piena unità. La divisione, e spesso le contrapposizioni polemiche tra i cristiani nel nostro tempo, vanno risolte per mezzo del dialogo teologico, ma vi è un grande spazio di relazioni fraterne da istituire e realizzare per creare nuove condizioni di vita fraterna e pacifica.

Il brano si conclude con l’affermazione che « questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi », verso i discepoli: fare il bene reciprocamente, evitare le ritorsioni al male ricevuto, sostenere i deboli, esercitare la pazienza con tutti, vivere nella letizia, rendere grazie a Dio in ogni cosa. Il testo paolino dà altre indicazioni valide pure come metodo per l’ecumenismo e come apertura al futuro: « Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie, esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono » (1 Ts 5, 19). Quest’ultima indicazione favorisce un atteggiamento positivo verso il patrimonio delle altre Chiese e Comunità ecclesiali con cui si può avere uno scambio di beni per la crescita cristiana e quindi ecumenica comune. Un tale processo nella storia dell’ecumenismo recente è stato indicato come « dialogo della carità », essenziale per ristabilire il clima di fraternità, necessario per una cooperazione di tutti verso l’unità. Paolo non presenta questo orientamento come semplice strumento utilitaristico di politica ecclesiastica, ma lo riconduce a Dio stesso. Questa è la volontà di Dio in Cristo verso l’insieme dei discepoli. In questa prospettiva Paolo auspica che « il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione » (1 Ts 5, 23).

5. Tra le indicazioni date da san Paolo vi è il consiglio che è stato proposto come titolo del tema della preghiera per l’unità di quest’anno: « Pregate continuamente » (1 Ts 5, 17), pregate di continuo, « senza interruzione » (adialèiptos), « incessantemente », « senza intermissione », secondo altre traduzioni. In « ogni tempo e luogo », come richiede la preghiera delle ore nella Chiesa bizantina. Il paradossale consiglio di san Paolo – pregare senza interruzione – ha fatto molto riflettere gli uomini spirituali. I Racconti di un pellegrino russo hanno inizio proprio con questo problema: « Come è possibile pregare senza interruzione? ». Eppure il consiglio di san Paolo si riferisce a tutti i discepoli di Cristo. Il Comitato misto che ha proposto il tema applica il consiglio della preghiera ininterrotta anche alla promozione dell’unità di tutti i cristiani. La proposta della preghiera non è limitata ad « una » settimana, ma si estende all’intero anno.

In un’indicazione sull’uso dei sussidi, il Comitato misto, che ha preparato i testi, afferma: « Incoraggiamo i fedeli a considerare il materiale presentato in questa sede come un invito a trovare opportunità in tutto l’arco dell’anno per esprimere il grado di comunione già raggiunto tra le Chiese e per pregare insieme per il raggiungimento della piena unità che è il volere di Cristo stesso. Il testo viene proposto nella convinzione che, ove possibile, venga adattato agli usi locali, con particolare attenzione alle pratiche liturgiche nel loro contesto socio-culturale e alla dimensione ecumenica ».

Cento anni or sono ha avuto inizio la pratica della preghiera per l’unità. Quest’anno si celebra quell’inizio per una nuova sollecitazione. Si incoraggia a continuare la preghiera per l’unità e a farla « senza interruzione ». Il pellegrinaggio verso la piena unità ha bisogno assoluto del viatico della grazia di Dio da invocare ogni giorno. La piena unità è dono di Dio.

6. La prassi della preghiera per l’unità offre l’opportunità a tutti i battezzati di partecipare al movimento ecumenico e non si limita a coloro che vivono in contesti interconfessionali, ma a tutti coloro che professano la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.

Nell’enciclica sull’ecumenismo (UUS, 22) il servo di Dio Giovanni Paolo II ha sottolineato l’importanza della preghiera comune e continua: « Sulla via ecumenica verso l’unità, il primato spetta senz’altro alla preghiera comune, all’unione orante di coloro che si stringono insieme attorno a Cristo stesso ».

* Sottosegretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

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