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LA DANZA – SEGNO DI GIOIA E DI GRATITUDINE

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LA DANZA – SEGNO DI GIOIA E DI GRATITUDINE

La Danza, nella Bibbia è intesa soprattutto come lode, manifestazione di gioia spirituale ed espressione liturgica. Si danza per festeggiare una vittoria ottenuta con l’intervento divino; per il ritorno di una persona cara, e in occasione di nascite e matrimoni.
La profetessa Miriam, sorella d’Aronne, esterna la sua esultanza e ringrazia Dio, dopo il passaggio del Mar Rosso, “formando cori di danze” con le altre donne, suonando i timpani e cantando (Cf Es 15,20). Un’altra danza molto famosa è quella che fece Davide, in occasione del trasferimento dell’arca a Gerusalemme.
Danzando e saltellando agilmente, il re d’Israele manifesta con tutto il suo essere la gioia incontenibile che prova per il singolare avvenimento.
“Allora Davide andò e trasportò l’Arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. (…) Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Davide era cinto di un efod Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportarono l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba” (2Sam 6,12; 6,14-15).
Per descrivere l’esultanza del re Davide di fronte all’arca dell’Alleanza, l’autore sacro usa le parole: “gioia” e “con tutte le forze”, rimarcando così il coinvolgimento totale della persona nel movimento ritmico della danza.

Simbologia rituale
Nell’Arca sono custodite le Tavole della Legge date da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Danzando davanti all’arca, Davide indossa un costume sacerdotale succinto, una specie di perizoma adatto a compiere i sacrifici: l’efod di lino. Il testo sacro ci fa capire che la nudità del re e la sua danza sono in rapporto con gli “olocausti e i sacrifici di comunione” che egli si appresta ad offrire davanti al Signore.
Il modo in cui Davide esprime la sua gioia per la Legge (Torà), è ritenuto sconveniente dalla figlia di Saul che se ne scandalizza. “Mentre l’Arca del Signore entrava nella città di David, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo” (2Sam 6,16). Più tardi il re chiarirà alla donna il senso rituale del suo gesto: “L’ho fatto dinanzi al Signore, (…) ho fatto festa davanti al Signore” (2Sam 6,21).
Gli ebrei di oggi, al termine della festa dei Tabernacoli (Sukkot), celebrano nelle sinagoghe la Simchat Torà – o gioia della Legge – danzando, a saltelli ritmati, con i rotoli della Torà e cantando inni in onore dell’Eterno. La danza è anche in questo caso un gesto liturgico che esprime il rapporto di tutto l’essere con Dio. È un’espressione di gioia e di “festa davanti al Signore”, per il dono della Torà. Ed è ancora con la danza che gli ebrei chassidici [i], dopo le preghiere quotidiane, esternano il loro entusiasmo religioso.

La Danza in cerchio: hag
Ai tempi biblici, le processioni danzanti di uomini e donne caratterizzavano le tre grandi feste di pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli. Sembra che tali danze ritmate avvenissero in modo circolare, ed è forse per questo motivo che nell’ebraismo, la danza in cerchio è chiamata hag: festa.
In cerchio si danza intorno ad un luogo sacro, o durante una cerimonia religiosa, esprimendo così il clima gioioso e comunitario della festa. La simbologia della danza in cerchio ci dice che nessuno può ritenersi più importante dell’altro, mentre tutti sono rivolti verso Colui che è al centro della vita di ognuno.

Rito Bizantino: la triplice danza
Ritroviamo il movimento circolare nella celebrazione del matrimonio cristiano nel Rito bizantino, la cui liturgia prevede una triplice danza in cerchio del sacerdote e degli sposi. Dopo essersi recati presso l’iconostasi, essi girano per tre volte intorno all’altare, mentre si cantano alcuni tropari.

Rito Romano
Col progredire dell’inculturazione, il Rito Romano si va arricchendo di gesti e simboli appartenenti ad altre culture. Sempre più frequentemente, anche grazie al mezzo televisivo, si possono vedere celebrazioni liturgiche in cui la danza, la musica e il canto di altri popoli, trovano uno spazio adeguato.
“I gesti e gli atteggiamenti dell’assemblea, in quanto segni di comunità e di unità, favoriscono la partecipazione attiva esprimendo e sviluppando l’intenzione e la sensibilità dei partecipanti. Nella cultura di un paese, si sceglieranno gesti e atteggiamenti del corpo che esprimano la situazione dell’uomo davanti a Dio, dando ad essi un significato cristiano, in corrispondenza, se possibile, con i gesti e gli atteggiamenti provenienti dalla Bibbia.
Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono avere il loro posto nell’azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo”.[ii]

[i] Chassidismo, da Chassid: pio, devoto. È un movimento ebraico sorto in Europa intorno al 1750. I suoi membri pongono l’accento sulla gioia del cuore e sulla retta intenzione.
[ii] Da: “ La Liturgia romana e l’inculturazione” (III, 41-42) – Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 25 gennaio 1994.

 

LE CORBUSIER «FAR DI PIETRE INERTI UN DRAMMA»

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LE CORBUSIER «FAR DI PIETRE INERTI UN DRAMMA»

di Carlo Maria Acerbi e Lorenzo Margiotta

06/11/2012 – Oggi qualunque oggetto di uso quotidiano porta il segno della sua opera. Con la razionalità della tecnica e la spiritualità della natura, progetta mettendo al centro l’uomo. Per commuoverlo. Seconda puntata della serie sull’architettura

Gli edifici in cui abitiamo, le città in cui viviamo, le autostrade sulle quali viaggiamo o, più semplicemente, le poltrone o le sedie su cui sediamo; di tutto questo niente è rimasto invariato dopo essere stato ridisegnato da Le Corbusier. Icona del razionalismo, tanto quanto Picasso lo è del cubismo e Andy Warhol della pop art, Le Corbusier è architetto, scultore, pittore, geniale pensatore del suo tempo e padre della moderna urbanistica. A lui il Maxxi di Roma dedica la mostra « L’Italia di Le Corbusier » (dal 17 ottobre al 13 gennaio, a cura di Marida Talamona). Le Corbusier, che significa “il corvo”, è lo pseudonimo con cui Charles-Édouard Jeanneret (1887-1965) firma i suoi primi articoli che lo rendono famoso in tutto il mondo. Da allora non lo lascerà più. Nato nel 1886 a La Chaux du Fonds, nella Svizzera francese, passerà la maggior parte della sua vita a Parigi. Il padre lavora nell’industria dell’orologeria; la madre è pianista e insegnante di musica. Saranno questi due fattori – la razionalità della tecnica e la spiritualità della natura – ad accompagnarlo per tutta la vita. Éduard studia alla scuola di arti decorative ma la sua vera formazione saranno i viaggi; le immagini dei luoghi che gli resteranno impresse negli occhi costituiranno un archivio della memoria cui tornerà sempre. «Ho avuto la fortuna di non essere mai stato a scuola e di avere viaggiato, tra i venti e i ventidue anni, con il mio zaino, nei Balcani, in Grecia, in Turchia, in Asia Minore. Per sette mesi viaggiai con ogni mezzo, osservando ovunque l’architettura. Vidi i templi e per giorni interi non feci altro che osservare intorno a me fattorie, case, costruzioni, i più modesti edifici in pietra che mi hanno permesso di capire che le costruzioni spontanee nel loro evolversi attraverso i secoli recano con sé l’architettura». Con i cinquecento franchi guadagnati con il progetto della sua prima casa parte per l’Italia – a Firenze, Ravenna, Padova, Venezia, Trieste. «1907. Ho 19 anni. Prendo contatto per la prima volta con l’Italia. In piena Toscana, la Certosa di Ema, coronando una collina, lascia vedere le feritoie formate da ciascuna delle celle dei monaci a picco su un immenso muro della roccaforte. La feritoia si apre sugli orizzonti toscani. L’infinito del paesaggio, la compagnia di se stessi. Mi sento pervaso da una sensazione di armonia straordinaria. Mi rendo conto che si è colmata un’aspirazione umana autentica: il silenzio, la solitudine; ma anche il contatto quotidiano con i mortali; e ancora, l’accesso alle effusioni verso l’inafferrabile». Nel corso dei viaggi scrive lunghe lettere ai genitori e disegna su semplici taccuini, i leggendari Croquis de voyages. Sono i suoi laboratori d’idee, annotazioni e considerazioni sull’architettura appresa sul campo. «Comprai una piccola Kodak, ma poi mi resi conto che affidando le mie emozioni all’obiettivo dimenticavo di guardare. Così abbandonai la macchina fotografica e presi un taccuino e una matita e da allora ho sempre disegnato, dappertutto, anche nella metropolitana. Se trasferisco qualcosa alla mano la ricordo, mentre se premo un pulsante non avverto alcuna partecipazione». Visita le capitali dell’architettura contemporanea e lavora dai più grandi architetti del tempo. Da ognuno impara qualcosa. A Parigi è nell’atelier di August Perret, che gli insegna a credere nella forza della struttura e nelle straordinarie potenzialità del cemento armato; a Berlino da Peter Behrens, dove lavorano anche Gropius e Mies van der Rohe, altri due grandi maestri del ‘900.

L’UOMO AL CUORE DELL’ARCHITETTURA. LE MODULOR «Dobbiamo riscoprire l’uomo, dobbiamo riscoprire la linea retta che congiunge l’asse delle leggi fondamentali: biologia, natura, il cosmo. Una linea retta che si stende come l’orizzonte del mare». Nella sua indomita indagine artistica Le Corbusier cavalca ogni corrente d’avanguardia, inventando forme ed espressioni sempre nuove. La sua poetica incredibilmente varia lo porta a essere in diverse fasi regionalista, funzionalista, purista, brutalista, espressionista. La pratica architettonica va di pari passo con un’assidua attività teorica che segna di libro in libro le pietre miliari del suo pensiero. Ma il punto su cui s’incardinano le sue ricerche è l’uomo, considerato ultimo destinatario e protagonista di ogni architettura. Tra le immagini-simbolo che sono associate al suo nome, quella del Modulor è una delle più rappresentative: un uomo stilizzato, con il braccio alzato e la mano aperta, a cui ogni edificio, ogni manufatto, ogni oggetto d’uso quotidiano deve commisurarsi. «Il sistema metrico è astratto e noi abbiamo disumanizzato il nostro sistema di misurazione. Ho creato un sistema dimensionale che risponde a tutte le esigenze dell’uomo – seduto, in piedi, sdraiato ecc».

L’OSSO E LA CONCHIGLIA. L’INSEGNAMENTO DELLA NATURA «Ho un debole per le conchiglie fin da quando ero bambino. Non c’è niente di più bello di una conchiglia che si basa sulla legge dell’armonia e su un’idea molto semplice. Si sviluppa in una spirale o si irradia, all’interno o all’esterno. Questi oggetti si possono trovare ovunque. Il punto è vederli, osservarli. Essi riassumono le leggi della natura e offrono il migliore insegnamento». La seconda protagonista degli edifici di Le Corbusier è la natura, che informa tutti i suoi progetti, dalle case ai piani urbani. Con essa Le Corbusier instaura un rapporto fisico e profondo. Non si tratta di mimetismo, di riprodurre la natura attraverso l’architettura – esse rimangono sempre distinte – quanto di un’aspirazione continua che è animata da uno sguardo di meraviglia per il creato, che corrisponde alla sua dimensione più autenticamente religiosa. «Io preferisco un sasso sulla spiaggia creato da Dio, una farfalla o un vecchio osso se levigato dall’oceano a un oggetto che rappresenta colombe che si abbracciano. Sono un architetto. Lavoro con piani, alzati e sezioni. Ebbene, un osso ti offre tutto questo. Un osso è un oggetto mirabile fatto per resistere a qualsiasi colpo e sostenere sforzi dinamici. La sezione di un osso può insegnare molto e anch’io ho molto da imparare».

QUATTRO ARCHITETTURE Tra le decine di opere di Le Corbusier che si trovano nei manuali di storia dell’architettura, ce ne sono alcune che parlano più apertamente del loro autore. La prima è Ville Savoye, costruita nel 1929 a Poissy, nella periferia ovest di Parigi. È l’opera cardine del Le Corbusier modernista, la machine a habiter (macchina per abitare), che trascrive i cinque punti professati in Verso una architettura, il suo libro-manifesto del 1923: finestre “a nastro”, tetto giardino, facciata libera, pianta libera, pilotis (pilastri che sollevano la casa da terra). Per rifondare un’architettura agonizzante, che riproduce ordini e stili del passato, Le Corbusier progetta la casa dell’uomo europeo del Novecento. Forme semplici, volumi che si leggono chiaramente. È l’inizio di una lunghissima ricerca sull’abitazione, che ha il suo epilogo nel Cabanon di Roq-Cape-Martin, dove trascorrerà gli ultimi anni di vita. La seconda architettura è l’Unité d’Habitation di Marsiglia (1947-‘52), poi costruita anche a Nantes, a Firminy e in altre città francesi. L’Unité si presenta come un organismo unitario, un grande blocco edilizio dalla struttura standardizzata, e costituisce un elemento fondamentale della città ideale lecorbuseriana, la Ville Radieuse (città radiosa). Lo sviluppo urbano tipico della città ottocentesca, ottenuto dalla ripetizione infinita degli isolati, appartiene al passato. «Le città sono diventate disumane, ostili all’uomo, pericolose per la sua salute fisica e morale», dice Le Corbusier. Nella Ville Radieuse, invece, le persone vivono in edifici alti che si stagliano in grandi pianure verdi, collegati da una circolazione veloce e razionalizzata. «Un avvenimento di importanza rivoluzionaria: sole, spazio, verde, un luogo dove la famiglia viva nell’intimità, nel silenzio, conforme alla natura… Le case saranno alte 50 metri. Bimbi, giovani e adulti avranno a disposizione il parco intorno all’edificio. La città sarà immersa nel verde e sul tetto delle case troveremo gli asili per i piccoli. Quando sarete nel vostro appartamento, guarderete il mare o le montagne grazie a una finestra di quindici metri quadrati. Due vedute straordinarie di cui nessuno dei residenti di Marsiglia gode». Degli stessi anni è la Cappella di Notre Dame du Haut, a Ronchamp (1950-’55). Qui protagonista è la luce: quella che entra dalle strombature nel profondissimo muro sul lato principale, colorata dalle vetrate; quella tagliente che si infila nella fessura tra i muri e il grande tetto in cemento armato, e che lo fa apparire sospeso; quella potente, zenitale, che cade dall’alto nelle tre cappelle con gli altari secondari. Qui trova compimento quel rapporto con la natura da lui sempre cercato e finalmente, definitivamente trovato. La cappella domina la pianura. Le sue linee curve accolgono i quattro orizzonti, tutti diversi l’uno dall’altro: visitandola si percepisce una reale compartecipazione con il paesaggio. «Architettura è costruire rapporti emozionali con materiali grezzi. L’architettura è al di là dell’utile. La passione fa di pietre inerti un dramma». La cappella di Ronchamp non è l’unica architettura sacra di Le Corbusier. Due anni dopo, nel 1957, il domenicano Marie-Alain Couturier (direttore de L’Art Sacrè dal 1936 e protagonista del dibattito sul rinnovamento dell’arte e dell’architettura cristiane), lo chiama per il convento di Santa Maria de La Tourette (Eveux-sur-l’Arbresle, Lione, 1957). Un incarico a cui Le Corbusier tiene molto, «perché padre Couturier mi aveva spiegato il rituale domenicano, che è vecchio di ottocento anni e molto umano». Costruito su un pendio con materiali «i più radicalmente semplici», il convento racchiude un’altra grande invenzione di Le Corbusier: le celle dei monaci non guardano verso la corte interna, come la tipologia dei chiostri imporrebbe, ma all’esterno, verso la valle, riaffermando una volta di più il rapporto tra natura e religiosità. «Quando andai alla cerimonia di inaugurazione, celebrata con una messa solenne e magnifici canti gregoriani, rimasi davvero colpito. L’obiettivo era stato raggiunto e credo che tutti siano rimasti colpiti. Persino l’arcivescovo di Lione, che pronunciò un breve discorso, disse di essersi convertito a Le Corbusier, che fino a quel giorno aveva sempre considerato un demonio. Aveva capito che sono capace di creare un’arte che forse non è religiosa ma che è propria dei luoghi di preghiera e meditazione, i fenomeni e le manifestazioni del sacro nel cuore dell’uomo».

Publié dans:ARTE, ARTE - ARCHITETTURA |on 31 mars, 2016 |Pas de commentaires »

L’URLO DI MUNCH (Golgotha di Munch) vedi (1)

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L’URLO DI MUNCH

(Golgotha di Munch) vedi (1)

L’URLO DI MUNCH  (Golgotha di Munch) vedi (1) dans ARTE

“Estate del 1893. Il sole stava calando sul fiordo, le nuvole erano color rosso sangue. Improvvisamente, ho sentito un urlo che attraversava la natura. Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi. [...] Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare… Ma nessuno mi stava ascoltando: Ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori. Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io. [...]” L’Urlo di Edvard Munch, un’opera che rappresenta la ricca, quanto esistenzialmente tormentata figura di pittore, di cui quest’anno si celebra il centocinquantesimo anniversario della nascita. L’arte di Munch esprime il dolore più profondo dell’uomo, come un grido d’angoscia che sale dall’inconscio. L’uomo che urla è Munch stesso, urla perché ha paura della morte, urla perché è già morto, la testa è un teschio, il corpo è molle e filamentoso, non è un corpo ma uno spirito, il centro pittorico del quadro è la bocca spalancata, da quella bocca escono le onde sonore dell’urlo che deformano ondularmente il paesaggio, come fanno in uno stagno le onde concentriche prodotte dal tonfo di una pietra. L’Urlo è da ritenersi il manifesto dell’angoscia, della solitudine e dell’incomunicabilità degli interrogativi dell’uomo contemporaneo «La mia arte affonda le sue radici nella mia ricerca di una spiegazione alle incoerenze della vita: Perché non ero come gli altri? Perché ero nato quando non mi era stato chiesto? ». Un grido che sale dall’anima, un’invocazione. Nell’arte di Edvard Munch, troviamo anticipati tutti i grandi temi dell’espressionismo: dall’angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi, dalla solitudine umana, l’incomunicabilità, all’incombere della morte; dall’incertezza del futuro alla disumanizzazione di una società borghese e moralista. “Io avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere”. Edvard Munch nasce il 12 dicembre del 1863 a Loten (Norvegia), cittá situata a pochi chilometri da Christiania, (Oslo). Sin dall’infanzia si trova a dover convivere con le immagini della malattia, del dolore, della morte. « La malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che si affacciavano sulla mia culla e mi seguirono per tutta la vita » La madre del pittore muore di tubercolosi, quando Edvard aveva cinque anni; pochi anni dopo anche la sorella Sophie che si era occupata di lui in assenza della madre, muore allo stesso modo all’etá di sedici anni. Un’altra sorella impazzisce; nel 1889 muore suo padre e poi suo fratello. Anche la sua salute è molto precaria, ricoveri e malattie punteggiano la sua vita. Il disegno e la pittura si rivelano da subito per il giovane Edvard strumenti molto efficaci per ricordare, per far rivivere a quei morti che hanno riempito la sua vita e per permettergli di convivere con essi, con l’angoscia e il dolore, esorcizzando la stessa morte. “L’arte è un mezzo con cui si possono esprimere le proprie emozioni ed espiare i propri dolori”.
Nel dipinto La madre morta e la bambina (1899-1900) – Munch rappresenta ciò che vide all’età di cinque anni, il letto di morte della madre, la sorella di sei anni con gli occhi sbarrati dal terrore, muta, « le mani sulle orecchie per allontanare l’urlo silenzioso della morte » (Bishoff, 1994). Del capolavoro Bambina malata (1886) replicato per ben cinque volte, egli «scava» letteralmente il quadro con infiniti colpi di pennello, lo raschia lo espone alle intemperie, lo riprende e lo rinnova; sarà uno dei temi ossessivi della sua pittura. Di quest’opera disse: «Credo che nessun pittore abbia vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto La bambina malata [...]. Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte venne a prenderli…Nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora, io vivo con i morti; mia madre, mia sorella, mio nonno, mio padre — lui soprattutto”. Ovviamente incompreso, le sue opere esposte a Oslo e a Berlino vennero definite dalla critica come « la produzione pseudopittorica di un nevrastenico ». L’arte era allora ancora sinonimo di bellezza, di armonia, non di deformazione e di dolore, i quadri di Munch dagli accostamenti cromatici insoliti, dalle forme incomplete, accennate, deformate furono per lungo tempo derisi, giudicati come delle ridicole bozze non finite. Per comprendere la produzione artistica di Munch, è necessario considerare il periodo storico in cui si realizza Quel processo di modernizzazione che ha coinvolto l’Europa soprattutto dal secolo XVIII, e che ha posto lentamente in crisi quel mondo “governato da Dio” che da sempre dava senso e sicurezza, e che ora invece sembra soffocarlo, nascondendogli quella verità “oggettiva” che il progresso scientifico gli offre pur senza dare le risposte alle domande fondamentali: chi siamo? Perché viviamo? cosa c’é dopo la morte?”
“ La presenza umana nel mondo diviene spesso incubo…. un essere gettato violentemente nel mondo… alla libertá… gratuita e inutile”. La sua vita trascorre senza amore rifiuta il matrimonio propostogli più volte da Tulla. “La donna che amministra la vita – scrive Munch – amministra anche la morte…un potere distruttivo”. Nel quadro “Madonna”, ad esempio, l’estasi amorosa è simile a un abbandono doloroso, in cui l’altro, l’uomo, vittima o carnefice che sia, è assente. Così nell’opera Va mpiro è espresso un abbraccio, sotto i lunghi capelli rossi, il sangue che uccide. Tuttavia nonostante l’incomunicabilità e l’angoscia Munch non fu un disperato, partecipò alla vita intellettuale di Christiania, fu amico di scrittori e poeti, e fu acclamato come il più grande artista, principalmente in Germania, conobbe la filosofia di Nietzsche e più tardi s’imbatté in quella di Kierkegaard « La sofferenza più profonda rende l’animo nobile ». Solo il dolore immenso, quel dolore lento e prolungato che brucia in noi come legna al fuoco ci obbliga a spingerci dentro noi stessi in profondità (…) ci spinge a farci domande più profonde, rigorose (…) ” “Senza paura e malattia – aggiunge Munch -la mia vita sarebbe una barca senza remi”. Quale fu la fede di Munch? Edvard nacque in una famiglia protestante e praticante. Ma il contatto con la vita anticonformista bohèmien, lo allontanò dalla fede paterna. Nel 1929 scrisse: «Si potrebbe dire che sono stato uno scettico, ma che non ha mai negato né preso in giro la religione. Il mio dubbio era più un attacco al superpietismo che ha dominato la mia educazione». A quel Dio ancora visibile scrive: «Tu sei una cosa inconcepibile che si trova in profondità all’interno del protoplasma…, Dio, l’inconcepibile, oltre il pensiero, il grande segreto, la giustizia. Se ho peccato sarò tormentato per sempre. Non l’ho chiesto io, questo mondo […] e ho sentito una voce dentro di me: Uomo, nessuno è cattivo, goditi il sole come le piante, che girano le foglie verso la luce, amatevi gli uni gli altri, siate tolleranti gli uni con gli altri. E quando verrà il tempo di morire, quando raggiungerai il sospirato traguardo, allora lascia te stesso volentieri all’aria e alla terra, e gioisci».
(1)
Golgotha (1900) È il dipinto più esplicitamente religioso di Munch, a fare da manifesto al suo confuso credere: un povero uomo nudo crocifisso vede scorrere intorno una folla irriverente e beffarda. Il cielo è colore della terra attraversato da una opprimente nube rossastra all’orizzonte.. e l’uomo in primo piamo col suo sguardo fisso….E’ un’opera che anticipa la domanda scandalosa del XX secolo “ Dove era Dio ad Auschwitz? cui hanno risposto Dietrich Bonhoeffer e Pavel Florenskj con un cammino di fede sino al martirio nei lager.
Nel 1934 Munch scrive: «La mia dichiarazione di fede: Mi inchino di fronte a qualcosa che, se si vuole, si potrebbe chiamare Dio; l’insegnamento di Cristo mi sembra il più bello che c’è”.

 

Publié dans:ARTE |on 14 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

L’ARMONIA È L’ALTRO VOLTO DEL BENE – DI GIANFRANCO RAVASI

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Verso l’incontro di Benedetto XVI con gli artisti

(L’Osservatore Romano 24 ottobre 2009)

L’ARMONIA È L’ALTRO VOLTO DEL BENE

DI GIANFRANCO RAVASI

« La bellezza è come una ricca gemma, per la quale la montatura migliore è la più semplice ». Questa deliziosa annotazione dei Saggi di Francesco Bacone è una salutare sferzata sia a un’arte che si raggomitola su se stessa seguendo canoni stilistici sempre più indecifrabili, sia a una critica che adotta un esoterismo oracolare tale da impedire, piuttosto che facilitare, l’accesso al senso profondo dell’opera d’arte. Alle soglie dell’incontro tra Benedetto XVI e gli artisti, che si svolgerà il 21 novembre prossimo in quella vera « ricca gemma » che è la Cappella Sistina, non vogliamo ora riproporre il tema centrale di quell’evento, ossia il rinnovato dialogo tra fede e arte, ritessendo un’alleanza che in quest’ultimo secolo si è infranta, nonostante il vigoroso appello che 45 anni fa, nel 1964, Paolo VI aveva rivolto agli artisti di allora nella stessa straordinaria cornice spaziale.
È nostra intenzione, invece, suggerire una modesta e semplificata analisi su quel « grande codice » della nostra arte che è pur sempre la Bibbia, l’atlante iconografico sfogliato per secoli e ora relegato sullo scaffale polveroso dell’oblio negli atelier degli artisti. Non punteremo però su un’analisi dell’influsso esercitato dalle Scritture Sacre sull’esercizio artistico espresso in un immenso catalogo di opere, quanto piuttosto su un argomento molto delicato e anch’esso accantonato ai nostri giorni, quello della bellezza. Le stesse cattedre o i saggi di estetica cercano di star lontani dall’interrogarsi su questo soggetto così fluido e inafferrabile, anche perché ogni definizione o verifica risulterebbe simile a uno stampo freddo che congela l’incandescenza della bellezza. Aveva ragione Ezra Pound quando nel suo Artista serio osservava che « non ci si mette a discutere su un vento d’aprile: semplicemente gli si va incontro e si è rianimati. Lo stesso accade quando ci si imbatte in un pensiero di Platone che vola veloce o in un affascinante profilo di un volto o di una statua ».
Consapevoli di questo limite, ci accontenteremo di vedere come la Bibbia riesce a dire a suo modo qualcosa sul bello, ovviamente lasciando tra parentesi il bello che tanti autori sacri hanno manifestato attraverso le loro opere « ispirate » (un nome per tutti, Giobbe). « In confronto col pensiero greco colpisce anzitutto la scarsa importanza che il concetto del bello ha nell’Antico Testamento. Complessivamente questo problema non riscuote l’interesse del pensiero biblico ». Così scriveva Walter Grundmann nella voce kalòs, « bello », di uno dei monumenti dell’esegesi tedesca, il Grande Lessico del Nuovo Testamento. A lui faceva eco Joachim Wanke quando, in un altro strumento importante come il Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, osservava che « in entrambi i Testamenti il bello nel senso della concezione platonica ed ellenistica non è preso in considerazione ». Anzi, lo stesso autore – evocando indirettamente le parole paoline sulla croce « scandalo » e « stoltezza » per la cultura ambiente nella quale il cristianesimo è sbocciato e fiorito – notava che « la croce è certo la più radicale dissoluzione del concetto classico di perfezione e bellezza ».
Ora, è indubbio che il mondo greco-latino – sia pure in forme molto variegate – ha dedicato al tema del bello riflessioni di straordinaria intensità e fascino, anche se in senso stretto la filosofia estetica è una branca del sapere piuttosto recente, essendo stata codificata – almeno a livello terminologico – solo nel Settecento col pensatore tedesco Alexander Baumgarten. È evidente, però, che la grande metafisica greca e la sua gnoseologia avevano già offerto le basi per esaltare il nesso tra essere, vita e bellezza, così da poter affermare col filosofo Plotino che il bello è « la fioritura dell’essere », la sua perfezione. Inoltre la contemplazione pura e libera dell’armonia delle forme costituiva una componente dell’arte e della letteratura di quella civiltà.
Tutto questo – bisogna riconoscerlo – non appassiona gli autori sacri dai quali è assente l’atteggiamento « romantico » di chi si sofferma abbacinato e affascinato davanti alle meraviglie cosmiche o allo splendore delle forme (anche se qualche eccezione, come vedremo, è possibile). Si ha, infatti, una concezione molto più funzionale del bello, al punto tale che si verifica già a livello lessicale un fenomeno molto significativo. Il principale termine estetico ebraico è tôb: esso ricorre 741 volte e ha significati molto fluidi che vanno dal « buono » al « bello », all’ »utile » e al « vero », al punto tale che la stessa antica traduzione greca della Bibbia detta « dei Settanta » è ricorsa ad almeno tre aggettivi greci diversi per rendere questo vocabolo (agathòs, « buono », kalòs, « bello » e chrestòs, « utile »).
Similmente nel greco neotestamentario il termine kalòs, che ricorre 100 volte, è normalmente sinonimo dell’altra parola greca, agathòs, « buono », tranne in un unico caso, quando Luca (21, 5) ricorda che, davanti al tempio erodiano di Gerusalemme, « alcuni parlavano delle sue belle pietre (lìthoi kaloì) ». Il vocabolo è destinato, invece, sempre a delineare le qualità morali di un atto o di una persona o di una realtà, oppure la sua capacità operativa. Così, tanto per fare qualche esempio, si parla di « opere buone », di « buona condotta », di « buona coscienza », usando sempre l’aggettivo kalòs. Cristo, come è noto, si autodefinisce nel Vangelo di Giovanni (10, 11.14) come « pastore kalòs », ma il significato primario – come si ha nelle versioni – è quello di « buon pastore », e così accade in altri usi di quell’aggettivo (« buon diacono, buon soldato, buoni amministratori, buon maestro »).
San Paolo usa il verbo kalopoièin per dire « fare il bene » (2 Tessalonicesi, 3, 13) ed è suggestiva l’esclamazione della folla che, di fronte ai miracoli di Gesù, esclama: « Ha fatto kalôs ogni cosa! » (Marco, 7, 37), laddove è evidente che quel « bello » è in realtà un « bene ». Potremmo andare avanti a lungo in queste esemplificazioni per scoprire sempre che il « bello » neotestamentario – anche su influsso dell’Antico Testamento e dell’ebraico – altro non è che il « buono », il « bene », la bravura, la legittimità o anche l’utilità come « il buon frutto, seme, perla, pesce, albero », sempre espressi con l’aggettivo kalòs. Detto questo, bisogna, però, fare un ulteriore passo. Non è che gli autori sacri ignorino la bellezza in quanto tale, tant’è vero che esiste un altro termine ebraico, jafeh, che significa « stupendo, incantevole, bello » in senso stretto, come na’weh è « affascinante ». Solo che raramente la finalità di questa ammirazione è meramente estetica.
Così, quando il salmista « contempla il Tuo (di Dio) cielo, opera delle Tue dita, la Luna e gli astri che tu hai fissato », apparentemente abbandonandosi alla scoperta della bellezza imponente degli spazi siderali, la domanda che si pone rivela la vera finalità di quella contemplazione che è, invece, di taglio teologico-esistenziale: « Che cos’è mai l’uomo perché te ne ricordi, l’essere umano perché te ne curi? » (Salmo, 8, 4-5). Anche il profeta Geremia – che pure è considerato da alcuni come il poeta biblico più attento alla bellezza della natura e ai suoi ritmi – quando, ad esempio, si sofferma ad ammirare « un ulivo verde e maestoso » o « un tamerisco nella steppa, in luoghi aridi e desertici e in una terra di salsedine » (11, 16; 17, 6), lo fa con un atteggiamento « morale » e non estetico, pronto com’è a cavarne subito una lezione etica per Israele.
Similmente la straordinaria e potente evocazione presente nelle 16 interrogazioni rivolte da Dio a Giobbe nel primo dei due discorsi divini finali di quel libro non ha lo scopo di dipingere un meraviglioso arazzo di scene cosmiche e animali quasi « a colori » – come sembrerebbe al lettore immediato – bensì di rivelare all’uomo l’esistenza di una ‘esah, di un « progetto » trascendente insito al creato e di affermarne la legittimità, la coerenza, nonostante l’apparente incomprensibilità per la razionalità umana. Anche un libro che nasce in piena atmosfera greca come quello della Sapienza (siamo verso la fine del I secolo prima dell’era cristiana) non ha dubbi sul fatto che « belle sono le realtà che si contemplano » (13, 7) ma l’autore premette subito questa limpida considerazione: « Dalla grandezza e dalla bellezza delle creature per analogia si contempla il loro artefice » (13, 5). È quella che la filosofia definirà appunto come « l’analogia » per risalire dal creato al Creatore attraverso un percorso di conoscenza « naturale ».
Era ciò che appariva simbolicamente in una pagina poetica mirabile, il Salmo 19. Lo sfolgorare del sole, comparato a uno sposo che esce all’alba dalla stanza nuziale o a un eroe atletico che si scatena nella corsa lungo la sua orbita è in realtà epifania di una parola divina cosmica: « I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani. Il giorno al giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la conoscenza » (19, 2-3). La colossale coreografia cosmica che il Salmo 148 suppone non è tanto una sfilata di 22 (o 23) creature, tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico, da ammirare con stupore; è, invece, un coro di alleluia che si leva al Creatore all’interno di una sorta di cattedrale cosmica. Lo stesso si deve ripetere per altri testi salmici, a prima vista simili a « uno schizzo del mondo, dipinto in pochi tratti », come definiva il Salmo 104 il padre della moderna climatologia e oceanografia, Alexander von Humboldt (1769-1859): in realtà, anche in quel caso il poeta biblico vuole esaltare l’opera del Creatore che « manda il suo spirito » per dar origine alla vita e « rinnovare la Terra ».
In questa stessa linea dobbiamo collocare anche quella straordinaria capacità narrativa svelata dalle 35 parabole di Gesù (72, se si allarga l’elenco anche alle immagini o alle metafore sviluppate). Sappiamo, infatti, che Cristo è un oratore affascinante. Egli parte dal mondo dei suoi uditori fatto di terreni aridi, di semi e seminatori, di erbacce e di messi, di vigne e di fichi, di pecore e di pastori, di cagnolini, di uccelli, di gigli, di cardi, di senapa, di pesci, di scorpioni, serpi, avvoltoi, tarli, di venti, di scirocco e tramontane, di lampi balenanti e piogge o arsure. Ci sono nei suoi discorsi bambini che giocano sulle piazze, cene nuziali, costruttori di case e di torri, braccianti e fittavoli, prostitute e amministratori corrotti, portieri e servi in attesa, casalinghe e figli difficili, debitori e creditori, ricchi egoisti e poveri ridotti alla fame, magistrati inerti e vedove indifese ma coraggiose, ci sono monete piccole e grandi, ci sono tesori nascosti e mense con cibi puri e impuri secondo le regole kasher dell’ebraismo e altro ancora.
Tuttavia, noi sappiamo che Cristo non si ferma davanti ai voli degli uccelli o alla fragranza delicata e sontuosa dei gigli del campo per comporre una lirica, bensì per condurre chi li sta contemplando verso altre mete. Non per nulla le parabole iniziano spesso così: « Il Regno dei cieli è simile a ». L’estetica è, quindi, funzionale all’annunzio, bellezza e verità s’intrecciano, l’armonia è un altro volto del bene. In questo senso si ammonisce l’annunciatore a dire Dio in modo bello (quanto questo monito è stato disatteso nella storia della predicazione e lo è ancor oggi, ad esempio, nell’arte sacra!). Non per nulla già il salmista esortava i fedeli così: « Cantate a Dio con arte! » (Salmi, 47, 8). E la « gloria » divina è sempre raffigurata nella Bibbia come immersa nello splendore della luce e nella pienezza della perfezione.
Dobbiamo, però, riconoscere che si assiste anche a un processo in cui la bellezza acquista un suo spazio rilevante, sia pure sempre nella cornice di quella finalità teologica a cui l’autore biblico tende. È significativo il caso della creazione descritta nel capitolo 1 della Genesi. Là, infatti, al termine dei singoli atti creativi di Dio è apposta una « formula di approvazione », ribadita sette volte (1, 4.10.12.18.21.25.31), che suona così: « Dio vide che era tôb ». Sappiamo già che questo termine significa sia « buono » sia « bello ». È evidente che qui l’aspetto estetico, a nostro avviso, ha un certo primato. La « visione » stessa, la soddisfazione per l’opera compiuta, l’immagine del Creatore-artista inducono a rendere quella frase così: « Dio vide che era bello », oppure: « Dio vide: era bello! ». Certo, non si esclude la positività dell’essere creato, ma è indubbio che la qualità estetica – come annotava un esegeta, Claus Westermann – « non è qualcosa di aggiunto alla creazione, ma appartiene al suo stesso statuto e alla sua struttura ».
Dopo tutto, anche la Bibbia riconosce che « belle » erano Rebecca, Sara, Betsabea, la regina persiana Vasti, Ester, Giuditta, come lo erano anche il piccolo Mosè, Davide, il suo figlio Adonia, i giovani ebrei di Babilonia. È su questa scia che dobbiamo porre quel gioiello poetico che è il Cantico dei cantici nel quale l’accento sulla dimensione estetica della natura e della persona umana è marcato, sia pure senza mai dimenticare la finalità dell’esaltazione dell’amore, la realtà superiore e trascendente celebrata da quei versi mirabili. Al centro, infatti, si ha un « giardino chiuso », anzi, un « paradiso » (pardes) vegetale (4, 13), che spesso si trasforma in vigne lussureggianti con viti in fiore; si ha un vero e proprio « erbario » dominato dal giglio rosso palestinese (o forse l’anemone), accompagnato dal narciso, mentre folto è il bosco dell’amore con cedri, ginepri, meli, melograni, palme, alberi odorosi, fichi, mandragore, rovi, alberi selvatici, noci e così via. Monti, colline, rupi, valli, deserti, campi, sorgenti, fiumi, acque, laghi, fiamme, scintille si stendono davanti al lettore. Su questa terra, avvolta in una dolce primavera (2, 8-17), vola la colomba, l’uccello-simbolo per eccellenza, emblema di amore, tenerezza, bellezza e fedeltà, corrono gazzelle e cerbiatti, altrettanto rilevanti a livello simbolico, appaiono i greggi, i cavalli, i leoni, i leopardi, le volpi, i corvi, mentre latte e miele rimandano a vacche e api.
Ma è soprattutto il corpo umano, femminile e maschile, dipinto in tavole colme di eros (4, 1-5; 5, 10-16; 6, 4; 7, 10), a costituire il vertice della bellezza creata, come è attestato dall’esclamazione stupita e reiterata: « Quanto sei affascinante (jafah), compagna mia, quanto sei affascinante! (…) Quanto sei affascinante, mio amato, quanto sei incantevole (na’îm) » (1, 15-16). « Tutta affascinante (jafah) sei, compagna mia, difetto non c’è in te! » (4, 7). La stessa natura è descritta nella sua bellezza attraverso una sorta di transfert: il paesaggio, infatti, si trasforma in uno specchio dell’anima e delle sue sensazioni di felicità, di armonia, di pienezza. Tuttavia, come già si affermava, la dimensione somatica non è mai meramente estetica, ma è il punto di partenza e d’arrivo di un reticolo di relazioni interpersonali, di sensazioni interiori, di esperienze psicologiche e spirituali. Sta di fatto, però, che questa meta trascendente è raggiunta attraverso un’intensa e creativa contemplazione estetica ed estatica della corporeità che, nel mondo biblico, non è mai solo fisicità ma unità psico-fisica della persona.
L’esaltazione della bellezza nelle sue epifanie cosmiche ha, però, una sua espressione particolare in una pagina biblica tarda, all’interno di un inno collocato nella sezione finale dell’opera del Siracide, un sapiente del II secolo prima dell’era cristiana. L’inno inizia in 42, 15 e si conclude in 43, 33. La prospettiva, da noi sempre sottolineata, dell’intreccio tra estetica e teologia permane, ma è evidente il fiorire limpido della contemplazione lirica della bellezza del creato. L’aspetto teologico è esplicito in apertura e chiusura del canto allorché Dio si leva sull’universo con l’efficacia della sua parola, lo splendore della sua gloria, la sua trascendenza e onniscienza. Per la Bibbia la natura è sempre « creato », è un « cosmo » ordinato che risponde a un progetto e a un disegno capace di riflettere il suo autore: « Come il Sole che sorge illumina tutto il creato, così della gloria del Signore è piena la sua opera » (42, 16). Per questo, di fronte all’architettura cosmica, l’uomo non può che esclamare: « Egli è tutto! » (43, 27).
Il Siracide, però, rivela in modo più esplicito rispetto alla precedente tradizione un atteggiamento lirico. Egli s’affaccia con stupore sulle meraviglie dell’universo e le fa sfilare davanti ai suoi occhi abbacinati da tanta bellezza. È questo il contenuto della parte centrale, vero cuore poetico dell’inno. Questa sequenza, che è quasi pittorica o filmica, parte dal firmamento limpido e luminoso, nel quale irrompe innanzitutto il Sole a cui è riservato un bozzetto che marca l’incandescenza del suo irraggiarsi (43, 1-5). Subentra naturalmente il quadretto dedicato alla Luna, celebrata soprattutto nella sua funzione « cronologica », essendo la matrice del calendario lunare liturgico e civile (43, 6-8). A essa si associano le stelle, concepite come sentinelle che vegliano nella notte (43, 9-10). Ecco, subito dopo, irrompere maestoso l’arcobaleno, tracciato nel cielo dalla stessa mano divina (43, 11-12). La serie successiva, pur connettendosi alla volta celeste, ha una sua autonomia: entra, infatti, in scena la meteorologia col suo apparato di fulmini, dotati di « raggi giustizieri », delle nubi che « volano come uccelli da preda », dei chicchi di grandine simili a polvere, del tuono che fa sobbalzare la terra, dei venti impetuosi (43, 13-17).
Sempre lungo il filo dei fenomeni meteorologici, una sorta di deliziosa miniatura è dedicata alla neve la cui caduta lieve è comparata al volo degli uccelli e degli stormi di cavallette: « il suo candore abbaglia gli occhi e, al vederla fioccare, il cuore rimane estasiato » (43, 18). A essa è associata la brina, simile a grani di sale che rendono brillanti come cristalli i rami su cui essi si posano (43, 19). Queste immagini invernali trascinano con sé l’evocazione della gelida tramontana che fa ghiacciare le superfici delle acque, rivestendole quasi di una corazza (43, 20). Paradossalmente la scena del gelo ha effetti analoghi a quelli estivi perché anch’esso brucia la vegetazione come accade quando domina l’arsura (43, 21): in tal modo il poeta riesce a trasferire il lettore nell’estate infuocata, ove è attesa la rugiada che feconda la terra riarsa (43, 22). L’ultima sequenza di immagini ci sposta sul mare ove sono « piantate » come oasi o fiori le isole. Del suo mistero fatto di abissi, di tempeste imponenti, di mostri e terrori, ben noti alla cosmologia biblica, restano le testimonianze dei naviganti che possono solo affidarsi alla parola divina che salva (43, 23-26).
L’esclamazione iniziale dell’inno, scandita da un interrogativo retorico, è l’ideale espressione di un’ammirazione lirica che scopre il fulgore della bellezza: « Ogni opera supera la bellezza dell’altra: chi può stancarsi di contemplare il loro splendore? » (42, 25). La dimensione estetica è, quindi, riconosciuta, anche se – lo ripetiamo ancora una volta – essa non è mai del tutto fine a se stessa ma diventa sempre, più o meno esplicitamente, una via pulchritudinis, un percorso bello e glorioso per approdare al Creatore, al suo progetto e alla sua opera. E la stessa bellezza letteraria di molte pagine bibliche ha come meta ultima la proclamazione dell’infinita bellezza e verità della Parola divina.

Publié dans:ARTE, c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 14 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

LA BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO – GIANFRANCO RAVASI

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LA BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO.

LECTIO MAGISTRALIS DI MONS. GIANFRANCO RAVASI

Premessa

Desidero anch’io ricambiare il saluto che mi è stato rivolto. Questa sera mi trovo in un orizzonte che mi è particolarmente caro per ovvie ragioni: le mie origini sono adiacenti alle vostre, a questa città, che in un certo senso mi ha accompagnato fin da quando ero fanciullo. Bergamo è sempre stato per me un punto di riferimento.
Desidero riflettere insieme a voi sul tema dell’incontro, così complesso ed impegnativo per la vastità, la mutevolezza e l’iridescenza che lo caratterizzano, ma vorrei sviscerarlo in modo semplice, oserei dire spontaneo, tralasciando gli aspetti accademici per giungere a sintesi immediate e dirette. Anche io vorrei partire dalla considerazione che è stata fatta in apertura, anche se mettere un titolo come questo “La bellezza salverà il mondo?” può sembrare forse una scelta un po’ stereotipata. È una frase oramai troppe volte usata ed abusata, che appartiene tra l’altro ad un romanzo che ha una straordinaria carica metafisica oltre che estetica. Presente nel capitolo quinto della terza parte dell’“Idiota”, la traduzione del termine russo non rende giustizia alla carica emotiva voluta dall’autore al fine di riuscire a comprendere pienamente il significato di queste parole: “la bellezza salverà il mondo”. Questa sera vorrei proporvi un modo nuovo per affrontare ed analizzare l’argomento in esame e vorrei avvalermi dell’estetica per proporvi un trittico di “quadri” al fine di dipingere nei vostri occhi delle immagini, iniziando però da una premessa che tenti di esplicitare la difficoltà nel parlare della bellezza. Una difficoltà prima di tutto di natura contingente perché, dobbiamo confessarlo senza paura, mai come in questo tempo siamo consapevoli di essere immersi in un grembo che è fatto di bruttura e bruttezza. Questi termini in italiano non sono sinonimi: “bruttura” ha una dimensione etica, “bruttezza” una dimensione estetica. Eppure si intrecciano e convivono pienamente ai nostri giorni, camminano come sorelle e dominano nelle piazze delle nostre città, ma soprattutto nell’areopago della politica e della società. Un’ulteriore difficoltà di natura oggettiva, che rende peraltro arduo questo discorso, è che la bellezza per sua natura è ineffabile. Esiste una sublime espressione adottata da Thomas Manley nell’indicare in tedesco l’azione compiuta dalla bellezza, lui usa il verbo “durchstechen”: cioè “trafiggere”, colpisce anche quando non la si cerca o la si interpreta. Vorrei prendere a prestito le parole più chiare ed immediate di Esna Paund che scrisse: “Non ci si mette a discutere su un vento d’aprile quando lo si incontra, ci si sente spontaneamente rianimati, così come quando si incontra un pensiero folgorante di Platone, oppure si incontra il profilo affascinante di un volto femminile o di una statua.” Una bellezza non si spiega, la si intuisce, ed è per questo allora che è difficile parlarne, eppure è del tutto indispensabile, e lo si ricordava anche prima in quella bella introduzione, è indispensabile vivere, cibarsi di bellezza in un mondo di bruttura e di bruttezza.
Come Vescovo, come ecclesiastico, ma soprattutto come uomo vorrei lasciare la parola al messaggio che l’8 dicembre 1965 il Concilio Vaticano II ha lanciato a tutti gli artisti: “Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza come la verità è ciò che depone, che mette gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione”. La contemplazione, l’ammirazione, queste sono le uniche vie, non la parola, per comprendere la bellezza. La bellezza è inattesa, ti rende diverso, non tanto più bello e sorridente esteriormente, ma più bello dentro e quindi più buono.

L’estetica simbolica. La bellezza come armonia.
Il primo di questo trittico di “quadri” che desidero dipingere, tra i mille e più possibili, nei vostri occhi, ha un titolo particolarmente solenne: l’estetica simbolica, la bellezza esteriore del simbolo. Riprendendo il concetto espresso dal dott. Rocchetti nella sua introduzione, egli cita una pagina della Bibbia dove si dichiara che al termine di ogni opera, e quindi per sette volte, “Dio vide che era cosa tov”. Questo aggettivo della lingua ebraica è presente per ben settecentoquarantadue volte nell’Antico Testamento e viene tradotto in greco con tre aggettivi diversi, fatto questo che sottolinea ancora una volta che il termine bellezza non può essere ricondotto al solo significato di bello. Il primo aggettivo greco utilizzato è “kalos” il cui significato è “bello”, ma alcune volte troviamo l’aggettivo “agafos” cioè “buono”, ed in altri casi riscontriamo il termine “krestos” il cui significato è “utile, prezioso, significativo”. Nel momento in cui Dio contempla il frutto della sua opera, immagine questa in cui è rappresentato come l’artista che modella, plasma la sua creazione – in dottrina in senso figurato appare spesso descritto come un vasaio – “vide che era cosa buona”. Questo primo termine, “buona”, ha la forza di riassumere in sè anche gli altri termini: il creato non è solo “buono”, ma anche “bello” ed “utile”. È significativo osservare come il primo termine discenda dalla visione che Dio ha della sua opera: la percezione del “buono” avviene tramite la visione, “Dio vide che era cosa bella”. Ecco quindi lo stupore, l’ammirazione verso la bellezza che ciascun uomo nutre dentro di sè. Dio stesso, contemplando il suo operato, avverte il senso mirabile della sua opera: perché il creato non è solo bello, ma anche utile, ma, fatto fondamentale ed unico, è l’intreccio delle diverse dimensioni che si fondono e confluiscono armonicamente nel creato. Tutta la grande arte ha la capacità di far convivere insieme il bello, il buono ed il vero. Lo stesso Platone in uno dei dialoghi meno noti, il “Fileto”, afferma che la potenza del bene si è rifugiata nella natura del bello e lo raffigura in continua ricerca della sua patria, del suo orizzonte, cioè nel bello. Kant, per avvicinarci ai nostri giorni, dichiara nella “Critica del Giudizio” che “il bello è il simbolo del bene morale”. Ecco le ragioni che mi hanno indotto a parlare nel primo quadro dell’estetica simbolica.
Soffermiamoci un attimo sulla parola “simbolo”, in greco “symbolon”: letteralmente significa “mettere insieme”, “tenere insieme”. Come potete osservare, nel nostro mondo ed anche nell’arte e nella cultura quasi mai si è operato simbolicamente, ma anzi “diabolicamente”. Sempre in greco il termine “diabolos” si riferisce al diavolo, cioè a colui che separa, divide, scinde, frantuma l’armonia dell’insieme. Questa è la ragione per cui il bello ha una propria direzione che gli fa perdere il suo senso compiuto: quello di custodire dentro di sè il bene. Anche quest’ultimo disgiunto dal bello si muove in modo pedante, mentre il vero si isola in asserti che non raggiungono il cuore ma si limitano ad interessare il cervello, la ragione. Ecco quindi l’importanza di ritrovare l’estetica simbolica, peraltro testimoniata in modo estremamente illuminante dal testo capitale della nostra fede, della nostra cultura: il Nuovo Testamento. Ma desidero affrontare questo esame rivolgendomi al testo originale che è stato redatto in greco, confrontandolo con la traduzione in italiano, per meglio evidenziare le differenti sfumature. “Cosi risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al padre che è nei cieli”, questa frase, tratta dal discorso della montagna di Gesù, letteralmente in greco è: “Cosi risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere belle e diano gloria al padre che è nei cieli”. Certo sono opere buone ma sono anche belle, perché hanno un’armonia in sé, che unisce le dimensioni diverse della realtà e non le scinde e le disperde rendendo pedante il bene e il bello del tutto indifferente a qualsiasi valore. Oppure nella seconda lettera che San Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica – capitolo 3, versetto 13 – parla dell’agire bene come norma fondamentale di vita, facendo quindi appello ad agire bene, a fare il bene.
Ecco quindi in questa prima immagine proposta, la necessità di riuscire a trovare nella bellezza una pienezza, un’armonia d’insieme, che ci consenta, superati i nostri limiti e fragilità, di raggiungere alla fine la trascendenza. Per questo l’arte tendenzialmente si volge all’infinito, all’eterno, al divino e tenta di intrecciare dentro di sé tutte le dimensioni della verità, della bellezza e della bontà. Un poeta francese, La Forg, affermava che l’arte è l’ignoto, mentre un grande pittore catalano, Mirò, quando descriveva la sua opera diceva che l’arte non rappresenta mai il visibile, cioè il mondo reale, ma si avvale di questo per rappresentare l’invisibile nascosto nel visibile.

La parola estetica deriva dal greco “aistetikos” che vuol dire “percezione”, ma non la percezione della superficie esteriore, ma la percezione di quel “nodo d’oro” che coniuga insieme mistero e realtà. La bellezza allora, non è la sola conoscenza piena, intesa in senso orizzontale, ma assume valore verticale, congiungendo lo zenit celeste con il nadir della tenebra, del mistero oscuro, bene e male, gioia e dolore, riso e lacrime, mistero della grandezza e mistero della miseria dell’uomo, tutto in sé riunito, in un’armonia che è bellezza, per cui persino il male e il dolore in armonia con il bene diventano sorgente di bellezza.

L’estetica della parola. La parola come fonte di bellezza.
Passiamo ora al secondo dei tre quadri annunciati, abbiamo osservato con un rigore teorico un aspetto della bellezza: l’essere simbolica. Vorrei ora dissertare con una diversa visuale su un ulteriore aspetto estetico: l’estetica della parola. Siamo in presenza di un argomento per alcuni versi problematico, ma ci avvarremo nell’analisi del supporto del nostro grande codice culturale, cioè la Bibbia, che rappresenta la piattaforma della cultura ebraico-cristiana, dove si evidenzia l’esaltazione della Parola, fatto quest’ultimo presente anche in altre culture vicine alla nostra, come ad esempio quella islamica. Nella ricerca del bello all’interno della parola, vale rammentare l’inizio della Bibbia. Non si introduce una immagine visiva: “Dio che vede”, ma l’esperienza di “Dio che crea”, di “come Dio crea”. E questo atto non discende da un’azione di fatica, ma semplicemente dalla parola, dal Verbo o parola di Dio: «Dio disse “Sia luce” e luce fu». Assistiamo ad una Parola che crea, che rende mirabile il Nuovo Testamento: in principio c’era la Parola, tutto è stato fatto a mezzo di essa, nulla esisteva di ciò che è.
Quando Mosè deve rappresentare l’esperienza fatta nel Sinai, usa una frase bellissima – capitolo 4 del Deuteronomio, quinto libro della bibbia, versetto 12 – “Ricorda Israele, Dio vi parlò dal fuoco. Voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura. Vi era soltanto una voce”. Via gli occhi dal vitello d’oro che è un idolo e che appare arte a prima vista. La prima grande bellezza è quindi nella Parola. Tu non ti fari ancora immagine di ciò che è nel cielo né di ciò che è sulla terra né sotto terra. Ecco quindi questa grande, vera, sorpresa: noi abbiamo uno strumento fondamentale, il linguaggio, che ai nostri giorni sta degenerando; osservate il linguaggio imbarbarito, involgarito, talmente semplificato e astratto da essere ricondotto semplicemente a dei segni: il linguaggio tipico dei cellulari. Così facendo perdiamo una dimensione della bellezza che è fondamentale all’interno non solo dell’uomo, ma della nostra grande cultura occidentale. Tentazione talmente forte da avere lentamente anche cambiato il modo di dire Dio: mi riferisco anche ad una certa teologia che a partire dal Settecento, cioè dall’Illuminismo, ha spazzato via tutta la bellezza della parola e dei simboli contenuti nella Bibbia. La tesi allora dominante era che il pensiero puro deve spazzare via come vento cristallino la nebula dei simboli, dei miti e delle immagini. Un primo tentativo era stato effettuato già nel Seicento da parte di un filosofo francese, Malbrunsh, che aveva coniato una frase veramente curiosa per la sua paradossalità: affermava che “l’immaginazione è la pazza dell’appartamento”, intendendo dire che nell’appartamento del nostro cranio risiedeva una pazza, cioè l’immaginazione. Come potete osservare, si cercava di ridurre, di parlare di Dio utilizzando tesi astratte, il più possibile “pure”, cioè lontane dalla ricchezza delle immagini affidate dalla Bibbia alla Parola, alla forza dei simboli propri della Bibbia. Questo grande codice della cultura occidentale ha creato un arsenale iconografico straordinario, sebbene abbia sempre proibito l’immagine, abbia sempre evitato la rappresentazione attraverso statue, eppure osservate cosa sia riuscito a creare dal punto di vista della rappresentazione artistica.

Ecco quindi l’importanza di considerare la parola come un mezzo epifanico, rivelatore della bellezza, parola che giustifica, “rende pura”, “libera da colpa” tutta la poesia, parola che ugualmente giustifica tutta la rappresentazione letteraria, tutta la musica, che in molti casi, in virtù della bellezza, diventa suono supremo. Pensiamo, ad esempio, alla purezza assoluta di un testo musicale di Bach: la sua felice architettura in cui riescono a coesistere sia tutta la verità del pensiero, in virtù del rigore matematico, sia lo splendore del suono, diventando così armonia suprema, confessione di fede o di amore, senza la necessità di ulteriori parole; se poi queste ci saranno, bibliche o liturgiche, daranno un ulteriore sapore e colore. Desidero soffermarmi su due esempi che celebrano la parola come fonte di bellezza, come luogo epifanico della bellezza, della parola utilizzata all’interno di tutte le grandi culture, privilegiando quelle della nostra matrice ebraico-cristiana. Il primo esempio, quello più facile, è relativo alla parola di Cristo. Come vi parla? Sappiamo tutti che Cristo predilige il linguaggio figurato. La bellezza del suo racconto riesce a conquistare letteralmente il suo uditorio, non assomiglia a quella immensa distesa di prediche che sono state rivolte all’intera umanità, anche se questa si meritava il giudizio, lo sberleffo cattivo, ma non sempre immotivato, di Voltaire che soleva affermare: “l’eloquenza sacra delle prediche è come la spada di Carlo Magno, lunga e piatta, perché i predicatori quello che non sanno dare in profondità te lo danno in lunghezza”. Ebbene, Cristo è l’esatto contrario, le sue trentacinque parabole con il supporto dei simboli e delle metafore allargate diventano settantadue. Ma Cristo come vi parla? Coinvolge i vostri occhi e le vostre orecchie; la bellezza, il messaggio, vengono comunicati attraverso un’esperienza globale: gli occhi riescono a vedere ciò che le parole dicono, e questo perché il suo è un discorso che parte dal basso, dai piedi dei suoi ascoltatori e non da un vago orizzonte mentale. Le Sue parabole parlano dei segni, dei pesci, della donna che ha perso la moneta nel terreno, delle case, dei quartieri di notte, dei figli difficili, di tutto quello che accade nella quotidianità, ma Egli le trasfigura, le fa diventare il Regno dei Cieli. Non so se ricordate il capitolo 7 di Giovanni: c’è una scena molto significativa che a volte nella sola lettura può passare inosservata. Un giorno, siamo ancora agli inizi della predicazione di Cristo, i capi dei sommi sacerdoti danno ordine alla loro polizia del tempio, di arrestare Gesù. Costoro vanno per portarlo di fronte ai sommi sacerdoti, ma tornano a mani vuote. Viene loro domandato come mai non lo avessero preso e portato lì e la loro risposta, anche se appare come la risposta di una persona semplice, dimostra però la forza creatrice della parola, la forza estetica: mai nessuno ha parlato come questo uomo, e le loro mani sono cadute lungo i fianchi, non sono state capaci di stringere i ceppi addosso a lui. Osserviamo un altro esempio: Cristo, nelle parabole, vede, camminando nel deserto, una specie di piccolo oggetto, sembra biancastro. È in realtà un particolare animale che esiste nel deserto, velenoso, che assomiglia ad un uovo di piccione. Riuscite a capire allora il significato di quella frase? Se un figlio chiede ad un padre un uovo, quest’ultimo gli darà forse uno scorpione? Vedete come Gesù riesca a lasciare una profonda traccia sulla mente dei suoi ascoltatori attraverso un’ immagine povera, elementare, ma assolutamente determinante.
Contrariamente ad alcuni che affermano la morte immediata di una parola una volta che questa è stata detta, io, come anche una poetessa americana, dico che proprio allora la parola inizia a vivere. Quando noi nella nostra vita abbiamo sbagliato una parola, abbiamo detto una parola cattiva contro una persona, quanto è durato il momento? Due o tre secondi? Sappiamo, invece, di odi tra fratelli, dopo una parola cattiva, che durano vent’anni. La fecondità e la forza della bellezza di una parola è anche nel male – esiste infatti l’estetica della perversione, della crudeltà – ecco perché dobbiamo cercare di custodire la parola ed impedire, evitare che questa diventi chiacchiera.
Desidero parlavi anche della musica, in un tempio così, in una città come questa dove ad un musicista è stato dedicato questo teatro non posso esimermi dal farvi riferimento. Io direi che come nella parola e nella comunicazione, esiste anche un estetica del suono, dell’armonia. La sguaiataggine imperante nei nostri giorni, è indubbiamente disarmonia, non è quella raffinata della musica colta che segna un dramma, ma è semplice volgarità. La sguaiataggine cancella invece la bellezza e il fascino della parola. Vorrei portarvi un esempio, forse un po’ sorprendente, che qualche volta faccio quando sono in presenza di un ambiente più ristretto di questo, peraltro è un ragionamento breve. Mi avvarrò di alcuni suoni ebraici, non ve li spiegherò, basterà solo che li ascoltiate. Li traggo dal Cantico dei Cantici, capitolo 2 e capitolo 16. Ascoltate con attenzione come suona la parola, anche se non sapete l’ebraico riuscirete a comprendere ciò che vuol dire il poeta, che usa la parola in modo sonoro, continuo, musicale, aiutato dal fatto che la metrica ebraica è qualitativa e non quantitativa. Siamo in presenza di una donna che deve dire che ama e che è tutta se stessa con il suo amato, l’uno non esiste senza l’altro, vera donazione d’amore, che tiene insieme e che dà significato all’eros e al sesso: la donazione reciproca. Il poeta, allora, usa il pronome della prima e della terza persona perché io/lui siamo una cosa sola. Voi provate ad ascoltare questa frase e sentirete che in ebraico ci sono due suoni che vibrano continuamente: «dodî lî wa’anî lô… ‘anî ledôdî wedôdî lî, « il mio amato è mio e io sono sua… io sono del mio amato e il mio amato è mio » (2, 16; 6, 3). Basta il suono a far capire che sono insieme, è un unico impasto, un suono unico. “Il mio amato è mio e io sono sua”, e la traduzione già dilaga, dapprima era solo un suono, poi diventa un armonia sottile; ecco perché dico che c’è anche un’estetica del suono, ed è per questo che Mosè dice “voi la ascoltaste solo un suono di parole”.

L’estetica della carne. La bellezza come manifestazione della trascendenza.
Esaminiamo ora il terzo e ultimo dei quadri preannunciati: l’estetica della “sarx”, della carne, il logos verbo, versetto primo “In principio c’era il verbo”, versetto 14 “Il verbo divenne “sarx”, carne, cioè storia, e quindi se diventa storia diventa visibile, diventa immagine concreta e non più solo parola. Per questo l’arte cristiana spezzerà il rigido precetto aniconico del decalogo che non voleva immagini, lo spezza perché il Verbo, la parola, è diventata volto, è diventata uomo, è diventata persona: Gesù Cristo. Nella lettera di San Paolo ai Colossesi, capitolo 1 versetto 15, si ha questa definizione di Cristo: è l’icona del padre, il quadro, l’immagine, ed è per questo che l’arte diventa teofania; la bellezza, l’estetica della storia, diventa un estetica concreta e bisognerà combattere contro la tentazione puritana, come affermavo prima per la cancellazione dei simboli, di parlare solo con la logica formale, non con il linguaggio della Bibbia, non con il linguaggio di Gesù, creando testi aridi, freddi. Allo stesso modo, anche per l’arte si è tentati di cedere alla bella tentazione dell’iconoclastia. Se siete stati in Cappadocia, nelle Chiese rupestri erette per ognuno dei 365 giorni dell’anno, ve ne sono alcune che rappresentano il momento iconoclasta: sono visibili gli sfregi dei volti già dipinti o le deturpazioni anche di modelli geometrici per impedire che Dio non potesse essere rappresentato da una icona. Ecco la grande battaglia che farà santo, un Dottore della Chiesa di origine siriana di Damasco, Giovanni Damasceno, il quale si batterà per le immagini, proprio in virtù di Cristo icona: “e Lui ti dirà: se viene da te un pagano e ti chiede che cosa è la vostra fede, tu non rispondergli, prendilo per mano e conducilo nello splendore del tempio e mostragli tutte le sacre icone ed i quadri”. Adesso sarebbe meglio che in molte Chiese non conducessimo l’ateo perché diventerebbe più ateo ancora. Ma vedete il significato profondo che aveva l’arte: arte teofania, arte epifania di Dio, la bellezza come manifestazione della trascendenza. Nel 1300 gli artisti Senesi, avevano deciso di darsi sull’arte, uno statuto. Questo contemplava nel primo articolo, che vi leggo nell’italiano di allora, “ Noi” dicevano gli artisti di Siena, “siamo manifestatori agli uomini che non sanno lettura delle cose miracolose operate per virtù della fede” (“Noi manifestiamo agli uomini che non sano leggere le meraviglie della fede”). Ecco allora che nasce veramente quella grande arte che attinge per secoli ininterrottamente al grande codice della Bibbia, ai grandi simboli, alle grandi narrazioni, alle grandi figure, ai grandi temi, alla figura soprattutto di Cristo e di Maria. Ed è a questo punto che prende corpo quella frase divenuta famosa di un pittore ebreo del Novecento, Chagal, che descrisse quello che è avvenuto per secoli ed ora non più. Egli diceva, non potendo prescindere quasi da quella matrice: “I pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia, lì trovavano il loro lessico iconografico, il loro albo di immagini e la stessa cultura letteraria”.
Pensate a Nietzsche, uno che combatterà con tutta la sua opera il cristianesimo, considerandolo come una degenerazione, come una maledizione, un sudario di morte piombato sull’Europa. Egli dovette però riconoscere, suo malgrado, in una sua opera minore, che “tra ciò che si prova alla lettura di Pindaro o di Petrarca ed alla lettura dei Salmi, esiste la stessa differenza tra la terra straniera e la patria”. Lui era protestante, quindi a maggior ragione se sente Pindaro o Petrarca va bene, sono mirabili, però quando sente i Salmi, sente la sua terra, la sua patria. Per secoli è stato così, ecco perché esiste una bellezza del passato che noi dobbiamo custodire, una bellezza che ci deve ancora alimentare, nutrire, una bellezza capace di manifestarsi in tante forme e modi. Voglio sottolinearvi tre esempi, tre modelli di bellezza discendenti dall’eredità biblica che possono diventare per noi ancora motivo di riflessione, di bellezza e di contemplazione. È proprio per questo che vorrei proporvi di rifare un’esperienza: la prossima settimana avrete nella vostra città l’occasione straordinaria di visitare una mostra, per la quale vi chiederei di non avvalervi di una visita guidata. Purtroppo, quando ero direttore della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, situata accanto alla Biblioteca, ho avuto modo di osservare troppe volte visite di studenti accompagnati dai professori, i quali approssimativamente e stancamente insegnavano alcune cose, peraltro banali, sulle opere esposte. Pensiamo alla “Canestra di frutta” di Caravaggio, che io custodivo all’Ambrosiana. Questa pittura di esclusivo contenuto metafisico, è una meditazione sulla nozione del tempo che passa e che scava, corrode dal profondo lo splendore dell’essere. Si è in presenza del contrasto tra vitalità e disfacimento, tra floridezza e morte; osservate la ramificazione gelida della morte espressa dalla foglia che si raggrinzisce, oppure osservate la mela che inizia a bacarsi. Qui non siamo in presenza di una attività di studio del passato, del Seicento, ma veniamo interrogati, interpellati sulla caducità della vita.
Come primo esempio, desidero farvi osservare che l’arte tenta di attualizzare la Bibbia, di renderla presente a noi, vicina a noi, all’interno del gioco dell’oggi. Vi propongo un dipinto di Gauguin che forse non conoscete: è intitolato “Dopo il sermone”, dopo la predica. Questo dipinto si trova ad Edimburgo, nella National Gallery of Scotland; lì,in questo piccolo quadro, in primo piano si vedono le tipiche cuffie bretoni e vengono raffigurate tre donne che sono uscite dalla Chiesa, appunto dopo il sermone. Di che cosa ha parlato il prete? In questo caso deve essere stata una buona predica che ha impressionato i fedeli. Ha parlato di una delle pagine più belle, misteriosa ed affascinante, della Genesi capitolo 34: la lotta di Giacobbe con l’essere misterioso che nella tradizione diventa l’angelo. Ma questo essere misterioso non è altri che Dio: Giacobbe lotta con Dio e non ne esce indenne! Noi possiamo anche lottare con Dio, Dio ci ascolta ma nello stesso tempo ci trasfigura. L’indomani, quando risorge il sole, Giacobbe, che zoppica all’anca, ha oramai un altro nome, è diventato un’altra persona dopo l’incontro con Dio. Così queste donne escono e vedono la piazza del paese diventata color sangue, dove l’angelo e Giacobbe continuano a lottare tra di loro. In altri termini: quello che tu ha sentito è nella piazza, devi solo ritrascriverlo nella vita. Ecco perché affermavo che l’arte attualizza la Bibbia. È necessario ritrovare ancora tutte quelle pagine attraverso l’arte, attraverso la bellezza dell’arte, ritrovare il messaggio antico che è nella piazza, nel crocevia, nella famiglia.
Nel secondo modello desidero parlare di quando l’arte, certe volte, ha sfregiato, è stata un po’ blasfema, ma non di un’accezione di blasfemia come nell’arte contemporanea, che è quasi un gioco di società, come questi atei che considerano l’interlocutore della fede un reperto del paleolitico culturale, peraltro ostinato. I veri grandi atei rappresentavano con veemenza il confronto con il mistero che negavano e vivevano nella solitudine assoluta, sotto un cielo che non ha nessun Dio, che non ha nessuna stella spirituale: un’esistenza la loro davvero drammatica. Prendo ad esame un libro biblico che è un capolavoro assoluto, l’estetica della parola, che narra di Giobbe. Però non intendo presentarlo in tutte le immagini che sono state fatte, a volte sbagliate, di un Giobbe paziente: sappiamo infatti che non lo era. Esaminiamolo solo all’inizio ed alla fine, perché è un antico racconto spesso citato. Giobbe è per eccellenza impaziente, grida, urla: “Tu Dio sei come un leopardo che affila gli occhi su di me, sei come un arciere sadico che cerca di trapassarmi il cuore, il fegato e reni, sei come un generale trionfatore che mi sfonda il cranio”: è quasi blasfemo. La rappresentazione non è autentica, ma degenerata. Voglio ricordarvi invece un libro particolare, la risposta a Giobbe di Jung, uno dei padri della psicanalisi. Egli infatti immagina che Dio nella sua onnipotenza decida lui ciò che è bene e ciò che male e tutti gli uomini, dovendo temere il suo giudizio, si dovranno adeguare. Ebbene, cosa fa l’autore? Rende diverso Giobbe, lo fa diventare tutta un’altra cosa, e sebbene questa sia una degenerazione, diventa sorgente di estetica. Dio scopre che c’è un uomo che si erge ritto contro di lui: “Tu Dio devi spiegarmi perché questo è bene e questo è male, perché c’è la gioia e il dolore”. E questo uomo è Giobbe. Dio vorrebbe annientare questo unico ribelle, però si incuriosisce, e che cosa fa? Manda suo figlio, il quale essendo uomo è pari a Giobbe, riesce a sentire le ragioni dell’uomo che si interroga sul mistero del male, che non capisce il perché del dolore, che ha dentro tutte quelle nostre domande. Ed allora, anche se io ho semplificato molto il significato di questo libro, quando Dio è pronto a scatenare la sua ira perché ci sono uomini che si ribellano come Giobbe, accanto a lui c’è sempre suo figlio che ferma l’ira ventura. Vedete che Giobbe è tutt’altra cosa rispetto al testo originale, che probabilmente è una grande riflessione sul mistero dell’io, più che del dolore.
Concludo con l’ultimo esempio: quello che chiamerei trasfigurativo. L’arte può prendere i grandi valori, i grandi temi e renderli presenti all’oggi, ma può anche girarli, torcerli e renderli ancora più importanti, più significativi, nonostante una lettura blasfema. Ma esiste anche la grande trasfigurazione: noi riusciamo a vivere la bellezza proprio perché ereditiamo una grande tradizione e questa continua a parlarci. Desidero offrirvi l’esempio della musica: è la musica, infatti, ad essere uno degli emblemi più alti che riappacifica la quiete e la tormenta. La musica non è soltanto pace, c’è anche lo spirito dionisiaco della musica. Pensate per esempio a Bach. Nella maggior parte delle sue partiture egli scriveva in alto “s. d. g.” ed in basso “J. J.”, che voleva dire “sono deo gloria” e sotto “Jesus juvat” “suono la gloria di Dio” e in basso diceva, “Gesù aiutami”. Lui impastava la fede con la musica, la faceva diventare epifania mirabile di verità, di bellezza e di bontà. Se volete posso fare un esempio di arte che ci permette di vedere come la trasfigurazione avvenga tramite l’arte, che ci fa capire, che ci spiega e ci squadra davanti agli occhi ciò che noi dovremmo spiegare. Siete stati qualche volta a Roma nella chiesa dedicata a San Luigi dei Francesi? Siete andati a vedere la “Vocazione di San Matteo” del Caravaggio? La “Vocazione di San Matteo” non è solo una storia di vocazione, ma è una storia di creazione e di ricreazione. Avete in mente la scena di Cristo che appare all’improvviso mentre Matteo è seduto al tavolo davanti alle sue monete? Cristo entra in scena e punta l’indice su di lui e Matteo mette la sua mano sul petto per rispondere alla chiamata. Ma quale è l’elemento più significativo? Caravaggio riprende l’indice di Michelangelo della Cappella Sistina: l’indice della creazione di Adamo. Ed allora in quel momento il Dio Creatore diviene il Dio Redentore che trasforma e ricrea la storia di un nuovo creato. In ultima analisi è come un messaggio, il messaggio della redenzione che viene trasfigurato attraverso l’arte, attraverso la bellezza.

Suggestioni.
Ai nostri giorni purtroppo noi assistiamo ad un divorzio che speriamo di poter ricomporre. Da un lato in alcune Chiese si ricalcano moduli del passato, dall’altro si usano moduli artigianali privi di significato, come affermava Padre Maria Turoldo quando diceva: “ Purtroppo abbiamo tante delle nostre Chiese che sono architettura, non sono oggetti, sono architetture ma sono dei garage sacrali, dove è parcheggiato Dio, mentre i fedeli sono allineati davanti a Lui”. La fede se ne è andata per un percorso solitario e dall’altra parte l’arte si è rinchiusa in ricerche stilistiche, di elaborazioni del tutto autoreferenziali che hanno cercato la provocazione, che si è rinchiusa, o meglio diretta, anche in forme esoteriche, stravaganti, incomprensibili. Abbiamo parlato di estetica simbolica, estetica della parola, di estetica della carne e cioè dell’immagine e allora, lasciamo in finale la parola a loro, ai grandi, alcuni tra i mille che si potrebbero citare. Ne ho scelti tre, l’ultimo obbligatoriamente, perché era il punto di partenza: Dostoevskij. Cerchiamo qualche altra voce un po’ strana. Conoscete tutti Herman Hesse? Secondo lui, arte significa: “dentro ogni cosa mostrare Dio”. Questa è arte. Non diranno mai la parola di Dio ma mostreranno la trascendenza, l’invisibile. Un altro scrittore americano , lontano e ostile al cristianesimo, Henry Miller, diceva che la croce di Cristo è segno di umiliazione. Noi dobbiamo combattere tali asserzioni. Egli, in un suo saggio, affermava che l’arte non insegna niente, tranne il senso della vita. E allora “la bellezza salverà il mondo”: abbiamo bisogno dell’arte perché ci insegna il senso, la vita. L’arte appare inutile da un punto di vista pratico, è come la poesia, ma non si può vivere senza, come l’amore. Ci fa diventare apparentemente stupidi davanti agli occhi degli altri, ci fa scialare sia sui sentimenti, sia sugli aspetti economici. Ma si può vivere senza amore? Può anche capitare, ma in tal caso è una vita disgraziata. L’ultima parola la lasciamo a Dostoevskij, che ci dice una verità; lasciamoci con le sue parole, con i due volti, i due tagli della bellezza: gioia ed angoscia, quella bellezza che taglia il cuore, che trafigge, ma anche la bellezza tremenda e orribile, la bellezza simbolica, dove gli opposti si toccano, là vivono tutte insieme le condizioni, là si muovono le tenebre, là risplende la luce.

DA PREGARE CON L’ICONA: SAN PANCRAZIO

http://www.piccoloeremodellequerce.it/gliko/Preghiere%20con%20l’icona/san_Pancrazio.htm

DA PREGARE CON L’ICONA: SAN PANCRAZIO

DA PREGARE CON L'ICONA: SAN PANCRAZIO dans ARTE san-Pancrazio01

““Lo Sposo è il Verbo, la Sposa è la nostra umanità”
sant’Agostino

INTRODUZIONE

La riscoperta delle icone orientali è uno dei frutti più vistosi della comunione spirituale tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente. Oggi le icone sono un po’ dappertutto: nelle chiese, nelle cappelle, nelle abitazioni. Sono l’angolo bello, il luogo della chiesa domestica, l’armoniosa presenza della continuità fra liturgia e vita che rendono familiare la comunione con i santi, con Cristo, con la Madre di Dio e invitano alla preghiera. Se vogliamo andare al di là della moda, le icone diventano ambienti di preghiera contemplativa, quindi un forte invito al raccoglimento, una presenza che attira, una via alla contemplazione del mistero.
Questa icona in particolare raffigura il giovane martire Pancrazio, ritto in piedi con l’armatura di soldato, in un’ambientazione tutta d’oro. Sullo sfondo, le montagne, dalle quali svetta la croce del martirio. Ai suoi piedi, il Maligno nell’immagine apocalittica del drago e, in alto a sinistra, la mano benedicente di Dio che fuoriesce dal globo.
L’icona presenta il grande tema della lotta contro il male e ne annuncia la vittoria definitiva grazie al sangue di Cristo che, per mezzo della croce, ha schiacciato il capo del nemico antico (cfr. Ef 2,13-19, Gn 3,15-3; Sal 68,22).

IL TESTO BIBLICO (Ef 6,10-20)
«Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere».
E’ sul fondamento della Scrittura che si radica il tema della lotta – la panoplia – contro “i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Già l’Antico Testamento infatti presenta Jahvé come un guerriero “che prenderà per armatura il suo zelo e armerà il creato per castigare i nemici; indosserà la giustizia come corazza e si metterà come elmo un giudizio infallibile; prenderà come scudo una santità inespugnabile; affilerà la sua collera inesorabile come spada e il mondo combatterà con lui contro gli insensati” (Sap 5,17ss). Ora l’Apostolo Paolo, riecheggiando questa simbologia, esorta i cristiani ad equipaggiarsi adeguatamente per affrontare il combattimento spirituale, identificando l’esistenza dell’uomo con un campo di battaglia in cui si schierano, in lotta perenne, il bene e il male.
Ma chi sono veramente gli avversari contro cui ferve la lotta? I demoni, con a capo Satana, la cui forza distruttiva cerca di soffocare la speranza dell’uomo ed impedirgli di guardare in alto. La Bibbia indica l’influsso del Maligno sulla storia con termini impressionanti:

è “il principe di questo mondo” (Gv 12,31);
“il grande drago, il serpente antico…che seduce tutta la terra” (Ap 12,9);
“omicida fin da principio…e padre della menzogna” (Gv 8,44),
“colui che della morte ha il potere (Eb 2,14);
“colui che domina tutto il mondo” (1Gv 5,9).
Bisogna dunque vedere in lui “un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore” (Paolo VI) che, attraverso un’illusione di vita, organizza sistematicamente la perdizione e la morte. La lingua mobile e lo sguardo trasversale, non diretto, del drago che qui lo rappresenta, ne esprime bene la forza seduttrice che inganna con le sue macchinazioni subdole e perverse.

Tuttavia, se è pur vero che siamo fragili e vulnerabili e se è inquietante la forza del male e tremenda la lotta contro le sue insidie, molto più potente, anzi infinitamente più potente, è la forza che viene da Dio in Cristo Gesù. E’ lui “il più forte” (Lc 11,22) che viene – e viene continuamente nella nostra vita! – per vincere il Maligno, strappandogli l’armatura iniqua della malvagità nella quale confida per manipolare e traviare il cuore dei credenti. Possiamo vincere infatti solo ricorrendo “al più forte di lui”, consapevoli d’aver bisogno del sostegno divino perché la nostra volontà non ceda dinanzi all’astuzia del male. Non a caso l’Apostolo Paolo ci esorta ad attingere potenza nel Signore e nella forza del suo vigore pregando incessantemente. La preghiera è infatti è come una cerniera che unisce e rende salda in noi l’armatura di Dio.
Di questa armatura è equipaggiato il giovane martire Pancrazio, come dimostra la sua stessa vita consegnata fiduciosamente alla morte per la fede in Cristo. Ecco come ce la presenta la Leggenda aurea:
« Pancrazio era di origine nobilissima. Perse i genitori in Frigia, e fu lasciato sotto la tutela dello zio Dionisio. Rientrarono tutti e due a Roma, dove avevano vasti possedimenti. Proprio in quella zona si stava nascondendo, con i suoi fedeli, il papa Cornelio. Dionisio e Pancrazio ricevettero da lui la fede. Dionisio più tardi morì in pace. Pancrazio invece fu catturato e portato al cospetto dell’Imperatore. Aveva allora circa quattordici anni. Diocleziano gli disse: Ragazzetto, stai attento, che rischi di morire male. Tu sei giovane, ed è facile che ti ingannino; sei di famiglia nobile, e sei stato un caro amico di mio figlio. Voglio da te che tu lasci perdere questa pazzia, e ti considererò come uno dei miei figli. Pancrazio rispose: Anche se il mio aspetto è quello di un ragazzo, il cuore che ho in petto è quello di un uomo maturo. A noi cristiani, per virtù del mio Signore Gesù Cristo, la vostra prepotenza fa paura né più né meno che questi dipinti che noi vediamo. I tuoi dèi, quelli che mi vuoi spingere ad adorare, sono degli impostori; si stupravano tra fratelli, e non risparmiavano neanche i genitori: se tu vedessi far cose simili ai tuoi servi, li faresti subito uccidere. Mi stupisco anzi come tu non ti vergogni ad adorare dèi del genere. L’imperatore, sentendosi battuto dal ragazzo, lo fece decapitare lungo la via Aurelia; era attorno all’anno 287 dopo Cristo. La senatrice Ottavilla fece seppellire il suo corpo.
Dice Gregorio di Tours che se qualcuno giura il falso presso il suo sepolcro, prima di arrivare al cancello del coro, o è preso dal demonio o esce di senno, oppure cade a terra e muore subito. Successe una volta che due persone ebbero una grave lite. Il giudice, che già sapeva bene chi era il colpevole, preso da uno scrupolo di giustizia, li portò davanti all’altare di Pietro, e là il colpevole cominciò a protestare la sua innocenza ­quella che fingeva di avere. Chiese all’apostolo di indicare con un qualche segno la verità. Avendo lui giurato e non essendogli successo nulla, il giudice, che conosceva bene la malizia di quell’uomo, disse: Qui il vecchio Pietro o è troppo indulgente, o per modestia mostra deferenza nei confronti di un suo inferiore: andiamo allora dal giovane Pancrazio, e chiediamo a lui. Giunti là, il colpevole ebbe l’impudenza di giurare il falso, ma non poté ritrarre la mano, e lì poco dopo morì. Tuttora molti badano che, nei casi difficili e dubbi, si giuri sulle reliquie di san Pancrazio » (Iacopo da Varazze, Leggenda Aurea).
Qual è l’armatura di Dio di cui è cinto il giovane martire?
Si tratta di armi spirituali.
“Cingete i fianchi con la verità/fedeltà” – La cintura della verità di Dio è un tutt’uno con la fedeltà. In ebraico infatti verità e fedeltà hanno un’unica radice, aman, che indica fermezza, stabilità, costanza. Fermi, dunque, stabili e costanti, come Cristo, “il Fedele e Verace” (Ap 19,11). Fedele e perciò affidabile, nella verità del suo Vangelo che esige uno stile coerente di vivere e di agire.
“Indossate come corazza la giustizia” – E’ la giustizia di Dio, che ci rende giusti; è il suo modo di rivelarsi a noi nella misericordia, nel dono della libera grazia che continuamente ci salva. E’ quella giustizia che salva i poveri e umilia i peccatori, gridando, come Cristo: “A Dio ciò che è di Dio”.
“Calzari ai piedi il vostro slancio per annunciare il vangelo della pace” – E’ quella prontezza d’animo che ci rende zelanti, come il Battista, nel preparare la via al Signore (cfr. Mt 3,3), ambasciatori solleciti della bella notizia del Vangelo: “come sono belli i piedi del messaggero che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza” (Is 52,7). Pace, “shalom”, che nel linguaggio ebraico racchiude una serie di beni: la salute, la prosperità, la salvezza, la benevolenza, la gioia, la sicurezza, la serenità, la beatitudine, il perdono.
“Afferrate lo scudo della fede” – E’ l’elemento essenziale dell’armatura. Con essa il credente spegne e neutralizza le frecce infuocate del Maligno. Infatti, dice Origene, “non si combatte con il vigore del corpo, ma con la forza della fede”, che è piena adesione a Dio, a qualunque costo, e rifiuto della mentalità del mondo di peccato che ci spinge a interpretare cose e situazioni nella miopia dello sguardo incredulo e indifferente.
“Prendete l’elmo della salvezza” – Più precisamente: ‘la salvezza della speranza’, che è fiduciosa consegna nelle mani di Colui che dona la salvezza, mentre “schiaccia la testa del drago sulle acque” della nostra umanità continuamente esposta alla tentazione del peccato (Sal 74,13).
“Prendete la spada dello Spirito” – Cioè la Parola di Dio, attraverso cui lo Spirito agisce efficacemente, suggerendo cosa dire e cosa fare nei momenti di prova.
Infine, “Pregate incessantemente” – Pregare per essere capaci di parrhesia, ossia di coraggio e franchezza nel “far conoscere il mistero delle fede”, soprattutto nel tempo della persecuzione, divenendo per Cristo “ambasciatori in catene”, sempre aperti alla lode e inclini alla supplica.

LETTURA DELL’ICONA
Contempliamo ora l’icona. L’adolescente Pancrazio pone i suoi piedi sopra il drago: può infatti camminare sul male perché rivestito dell’armatura di Dio, i cui elementi gli conferiscono fortezza e audacia nella persecuzione. Il suo modo di ergersi sul male è deciso, quasi naturale, come se tale vittoria fosse semplice da ottenersi. Sembra infatti annientare il male senza alcuno sforzo. Ciò gli è dato per la forza e la potenza di quella mano benedicente che lo sostiene e lo conforta. Il principe delle tenebre non può essere infatti sconfessato dalle forze umane: il demonio non è mai obbediente alla parola dell’uomo, però indietreggia sempre davanti alla Parola di Dio. E la Parola di Dio che questo ragazzo proclama è: ”Meglio obbedire a Dio che agli uomini, meglio servire Dio che altri idoli”.
Per questo il ragazzo è rappresentato in un atteggiamento fiero, così come si manifesterà lungo tutto l’interrogatorio e il martirio. Si offre serenamente perché è rivestito di Cristo. L’abito che indossa – la corazza della fede – lo annuncia con le sue sfumature dorate: egli è davvero dentro la luce piena di Dio, nella genuinità della fede di fanciullo e, al contempo, nella maturità adulta dell’uomo fedele. Il mantello rosso richiama invece il sangue dato e versato ed è simbolo della sua stessa missione. Quando si è chiamati ad una particolare missione, infatti, si prende il colore che identifica quel progetto in atto. In questo caso la sua vita “data” per tutti.
Il volto orribile del drago spaventa sempre l’uomo, ma in questo caso si coglie il dominio che il giovane martire ha sul male. Solitamente nell’iconografia il Maligno è rappresentato dentro un antro tenebroso. Qui invece è in un prato di erba molto scura dove striscia insinuandosi con astuzia, così come è stata insidiosa la modalità di processare il giovane Pancrazio. Ancora: il male è sempre rappresentato come qualcosa di animale, di selvaggio, ed appartiene alla terra, mentre ciò che è spirituale è elevato, così come è retta, imponente la figura di questo giovane. E’ una contrapposizione netta, visibile anche nella nostra vita: lo strisciare in basso proprio di colui che cede al peccato, e l’elevarsi verso l’alto di colui che invece si abbandona alla contemplazione del Bello e del Buono.
Il modo celeste, spirituale, il mondo della benedizione è il globo divino da cui fuoriesce la mano. E’ l’altro grande elemento di questa icona. Questo scenario è importante: la mano benedicente esprime infatti la protezione solenne nei confronti di chi vuole vivere autenticamente. E noi, quando la percepiamo? Quando ci ritroviamo riuniti nella semplicità della preghiera, quando ci percepiamo rivestiti di “benevolenza, umiltà, mitezza, magnanimità, sopportazione, perdono, carità, pace e rendimento di grazie (cfr. Col 3,9b-14). Allora è come se fossimo benedetti da quella mano celeste. Ed è allora che nasce il desiderio di lasciar calare nella vita la Parola del Signore che ci indica e ci offre il suo amore. Sì, quando lasciamo riecheggiare in noi parole salmiche che leniscono e rinnovano, quando ci abituiamo a benedire, a raccontar bene del Signore dentro la nostra storia; quando impariamo a lodare Dio per la bellezza e le meraviglie che Lui compie in noi, quando guardiamo gli altri, il mondo e le cose, con gli stessi occhi dell’Altissimo, mentre Lui con la mano benedicente ci guarda e ci ama, come suggerisce l’icona, intercettando la nostra prontezza nel condividere, amare e d essere fedeli.
Il cielo da cui fuoriesce la mano è l’universo con gli astri oscurati dalla presenza del Padre che conforta il giovane nella sua testimonianza di fede.
Le rocce accentuano la simbologia di tutta l’icona. Nel linguaggio iconografico la roccia infatti sottolinea sempre la manifestazione di Dio, una teofania chiara, luminosa che penetra e rinnova.
Le piccole piante poste ai piedi della roccia richiamano la fertilità al cambiamento di vita che avverrà quando san Pancrazio sarà chiamato alla pienezza della vita nell’eternità dell’Amore.
Contemplando quest’icona si percepisce una grande presenza di Dio, di un Dio che veglia sulla fede dei suoi figli e su tutto ciò che accade nella storia di ciascuno. Davanti ad essa si snodano sia i momenti luminosi della fierezza, della forza, dell’impegno, sia i momenti tristi della lotta e martirio. Ma nell’uno e nell’altro caso, Dio è sempre lì, pronto a benedire e consolare, sempre disposto ad essere pienezza di misericordia. Ecco perché possiamo affermare che contemplando questa icona noi impariamo a vedere dentro le fatiche della nostra storia la presenza e l’azione di Dio che ci salva continuamente.

PER LA MEDITAZIONE
Mi sembrano utili, a questo punto, quattro osservazioni.
- Anzitutto che spesso anche noi ci troviamo in una situazione rischiosa. È infatti ‘pericoloso’ vivere il Vangelo fino in fondo. Avere il senso del rischio, delle difficoltà è realismo, un realismo che ci permette di vedere le vie dell’avversario, le vie attraverso le quali il Male si fa insidia subdola. Ma sentendoci pieni della forza di Dio. Una profonda analisi e sintesi del mistero della perversione, fatta con l’aiuto della sacra Scrittura, ci mette davanti alle avversità senza paura perché ci è dato di cogliere, insieme alla vastità del male, la potenza di Cristo che opera continuamente nella storia.
- Seconda osservazione: si tratta di una lotta che non ha né sosta, né quartiere, contro un avversario astuto e terribile che è fuori di noi e dentro di noi. Questo, oggi, lo si dimentica spesso, vivendo in un’atmosfera di ottimismo deterministico per cui tutte le cose devono andare di bene in meglio, senza pensare alla drammaticità e alle lacerazioni della storia, senza sapere che la storia ha le sue tragiche regressioni e i suoi rischi che minacciano proprio chi non se l’aspetta, e vive cullandosi nella visione di un evoluzionismo storico che procede sempre per il meglio.
- La terza osservazione: solo chi si arma di tutto punto potrà resistere, dal momento che il nemico si aggira attorno a noi per scoprire se c’è almeno un varco aperto, un elemento mancante nell’armatura cosi da farci cadere nel combattimento.
- L’ultima osservazione, assai importante: tutte le armi, tutti gli elementi dell’armatura vanno continuamente affinati nell’esercizio della preghiera che non li supplisce – non supplisce lo zelo, l’impegno, lo spirito di fede, la capacità di donarsi -, ma è la realtà nella quale tutti siamo avvolti e veniamo ritemprati per la lotta.
Quella in cui il cristiano è ingaggiato è una guerra propriamente escatologica, ossia un battaglia risolutiva per le sorti del mondo e prelude alla definitiva sconfitta delle potenze del male. Non va poi trascurato il risvolto battesimale del termine « indossare » o « rivestirsi » spesso usato da san Paolo. In GaI. 3,27 leggiamo: «Quanti siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo». Cosa comporti rivestirsi di Cristo è esplicitato poi in Col 3,9b-14, un testo che si potrebbe definire il « guardaroba del cristiano » con i suoi dieci capi di vestiario: misericordia, benevolenza, umiltà, mitezza, magnanimità, sopportazione, perdono, carità, pace e rendimento di grazie.
Con il battesimo il cristiano s’impegna a rimanere sempre in tenuta militare, perché – al dire dei Padri – egli è un «miles pugnans», un soldato che combatte (CIPRIANO, Lettere, 58,4) e le armi che indossa sono quelle stesse che caratterizzano l’equipaggiamento di Cristo.

Quale l’allenamento adeguato per affrontare tale guerra ?
1. Aprire cuore, bocca, mano rispettivamente a giustizia, verità e pace:
togliendo dal cuore quanto è negativo, malvagio, egocentrico;
esprimendo con la bocca sincerità ed evitando falsità, ipocrisia, maldicenza;
offrendo segni concreti di pacificazione, di riconciliazione, di amicizia, di solidarietà.
2. In ogni situazione difficile ricorrere alla parola illuminante che «trafigge il cuore» (cf At 2,37), attingendola alle Scritture e lasciandocene impregnare in profondità.
3. Affidarci alla potenza della preghiera « incessante », che è la « preghiera del cuore »: «Signore,liberaci dal Male», prendendo via via coscienza dai mali che ci minacciano: quelli annidati nel cuore e quelli che ci vengono dall’esterno. Possiamo fare nostra una preghiera di Isacco di Ninive (306c.-372), monaco siriano:

PER LA PREGHIERA
Sant’Agostino ci avverte che nel combattimento spirituale occorre affidarsi costantemente alla grazia del Signore. Combatte e non è vinto colui che non presume delle proprie forze, colui che «confida in Chi ordina di combattere e vince il nemico aiutato da Chi dà tale ordine» (Enarrationes in pasalmos, 35,6). Ripetiamo:

Liberaci dal male!
Ti lodo, Padre, medico dei corpi, fonte di Sapienza, che ci prodighi una vita senza male, che dissipi il timore, madre delle angosce, e che custodisci il mio cuore nella purezza, grande è presso di te la redenzione. Ti preghiamo

Liberaci dal male!
Santo sei tu, Signore, che conosci ciascuno per nome, che tutto hai creato per mezzo del tuo Verbo. Santo sei Tu, che sei più forte di ogni forza e che superi ogni lode. Ti preghiamo

Liberaci dal male!
Infinitamente profondi sono i tuoi pensieri, Signore. Signore, ho cercato di penetrarli: Tu sei l’insondabile, il tuo Spirito abita abissi inaccessibili e il tuo pensiero è un mistero inesauribile, perché forte è il tuo amore per noi e la tua fedeltà dura in eterno,

Liberaci dal male!
«Manda soccorso, Signore,
a quelli che si levano nelle difficili battaglie dei demoni,
[condotte] sia manifestamente sia di nascosto,
e la nube della tua grazia li ricopra (cf Lc 1,35)
e poni sul capo della loro mente « l’elmo della salvezza » (Ef 6,17)
e umilia davanti a loro la potenza dell’avversario
e li sostenga sempre il vigore della tua destra,
perché per i loro pensieri non vengano meno
allo sguardo continuo [rivolto] a te,
e fa’ rivestire loro l’arma dell’umiltà,
così che da loro spiri sempre un odore soave,
secondo il tuo beneplacito».
Isacco di Ninive

 

Publié dans:ARTE, immagini e testi, |on 27 mai, 2014 |Pas de commentaires »

LA PASQUA NELL’ARTE. CIÒ CHE L’OCCHIO NON VIDE MAI.

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LA PASQUA NELL’ARTE. CIÒ CHE L’OCCHIO NON VIDE MAI.

Dall’era paleocristiana fino a oggi, l’arte a servizio della Chiesa ha descritto il « prodigioso duello » di cui parla l’inno, ora in maniera astratta, ora in modo allusivo, presentando Cristo crocifisso in vesti regali e sacerdotali, o con gli occhi aperti, o sostenuto (rialzato) dal Padre.

Pienezza della fede in Cristo è accoglienza della sua risurrezione e del potere che ne promana: è l’atto d’adesione intellettuale ed esistenziale al paradosso di un’umiliazione che sfocia in gloria, di una morte che si trasmuta in vita. In tale adesione consiste infatti la sapienza cristiana, e san Paolo – nel medesimo passo in cui ricorda ai credenti di Corinto d’aver predicato loro il vangelo senza argomentazioni filosofiche, ritenendo « di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso » (1 Corinzi, 2, 2-4) – afferma comunque di parlare « sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, divina, misteriosa, che è rimasta nascosta » così che « nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla », perché (dice) « se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria » (1 Corinzi, 2, 7-8).
Paolo mutua questa frase « Signore della gloria », da un antico inno ebraico celebrante la traslazione dell’arca dell’alleanza dall’esterno all’interno delle mura di Gerusalemme: « Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche, ed entri il re della gloria » (Salmi, 24, 7). Nel suo ragionamento, cioè, aprire la mente e la vita al paradosso di Cristo crocifisso, risorto e glorioso è come spalancare le porte di una città fortificata; anzi, è come demolirle del tutto per far entrare il conquistatore vittorioso. Per Paolo « il re della gloria » infatti è Cristo, e chi apre a lui riceve Dio, come nel salmo che domanda, « Chi è questo re della gloria? », e poi subito risponde: « Il Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia » (Salmi, 24, 8).
Dalle catacombe fino a oggi, molti artisti hanno reso visibile quest’interiore accoglienza del Risorto. Hanno offerto cioè non evocazioni di idee teologiche, non illustrazioni di fatti storici, ma traduzioni visive della più misteriosa, profonda e personale esperienza di ogni cristiano e di tutti i cristiani, del singolo credente e della Chiesa universale: l’esperienza di resa davanti al conquistatore, di porte antiche che si alzano e si spaccano, pur di farlo entrare. Grandi maestri di pittura e scultura hanno creato immagini di un processo individuale e collettivo in sé « inimmaginabile », come dice ancora san Paolo nel passo sopraccitato. Dopo l’affermazione che gli uccisori di Cristo non avevano la sapienza derivante dalla fede, l’Apostolo descrive tale sapienza come l’insieme di « quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo » ma che « Dio ha preparato per coloro che lo amano » (1 Corinzi, 2, 9-10; cfr. Isaia, 64, 3); e aggiunge: « Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito ».
Le immagini del Risorto sono pertanto visualizzazioni di ciò che « occhio non vide mai », racconti di quanto nessun orecchio ha mai udito, appelli emotivi a una gioia mai entrata in cuore umano se non infrangendo limiti posti dalla ragione, se non demolendo barriere erette dalla logica, se non per pura fede. Tra tutte le immagini che riguardano Cristo, queste infatti sono le più religiose, le immagini che cioè inabissano nel vero mistero del Salvatore.
Come tutti sanno, il Nuovo Testamento non descrive l’evento decisivo della fede cristiana, la risurrezione di Cristo, parlando solo della scoperta della sua tomba vuota il mattino di Pasqua. In verità non si tratta di un evento, come il Battesimo o l’Ultima Cena, ma di un processo, un graduale dispiegarsi di energie spirituali, morali e fisiche tale che la morte non riesce a tenere il Salvatore nel suo amplesso. La risurrezione è implicita nell’esistenza stessa di Gesù, possiamo dire, perché – Verbo di Dio – « in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini » (Giovanni, 1, 4). È già definita come traguardo nei primi tempi del suo ministero, quando – parlando con Nicodemo – Cristo afferma che, « come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna » (Giovanni, 3, 14-15). Su questo tema ritornerà dopo l’ingresso trionfale a Gerusalemme quando dice ancora: « Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me » (Giovanni, 12, 32). Il processo risurrezionale inizia veramente durante la Cena, quando – dopo aver lavato i piedi ai suoi discepoli, dopo aver loro comandato di amarsi gli uni gli altri come lui li ha amati, promettendo loro lo Spirito consolatore e la pace – Cristo alza gli occhi al cielo e dice: « Padre, è giunta l’ora, glorifica il figlio tuo, perché il figlio glorifichi te.
Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse » (Giovanni, 17, 1-5).

« E ora, Padre, glorificami »: ma, subito dopo, chi parlava fu arrestato, giudicato, giustiziato!
Significa forse che il Padre lo ha disatteso, non concedendogli la gloria rivendicata? La fede cristiana afferma il contrario, proclamando che Dio gliela concessa ma come processo paradossale, uno spiegamento di forze all’interno della debolezza, una gloria emergente dall’umiliazione, la vita che lotta con la morte e vince. Mors et vita duello, conflixere mirando: dux vitae mortuus regnat vivus: sono le parole di un inno pasquale del medioevo, e ben descrivono quest’eroica lotta al cuore dell’essere: « La morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa ».
Dall’era paleocristiana fino a oggi, l’arte a servizio della Chiesa ha descritto il « prodigioso duello » di cui parla l’inno, ora in maniera astratta, ora in modo allusivo, presentando Cristo crocifisso in vesti regali e sacerdotali, o con gli occhi aperti, o sostenuto (rialzato) dal Padre. Tra le più splendide articolazioni di questo tema, vi è il monumentale Risorto in croce di Giuliano Vangi, eseguito nel 1999 per il presbiterio del duomo di Padova, dove l’artista visualizza il discorso escatologico del vangelo di Luca, in cui Cristo descrive il suo ritorno con linguaggio drammatico: « Come il lampo, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno », dice, alludendo al « giorno » della Parusia, il « giorno senza tramonto », l’ »ottavo giorno » dell’eternità (cfr. Luca, 17, 24). È il testo più adatto a quest’opera che, infatti, lampeggia, guizza, brilla. Realizzato in un’inconsueta lega d’argento e nichel, con elementi d’oro e bronzo, si distingue radicalmente dall’apparato decorativo del duomo e perfino dalle altre figure di Vangi nel presbiterio, concepite in marmo bianco di Carrara, giallo di Siena, rosso veronese, pietra tunisina color miele e nel blu reale del Portogallo: materiali, colori e incastri tradizionali che troviamo nella scultura tardo imperiale, in quella della fine del Rinascimento, e nei monumenti barocchi della stessa cattedrale padovana.
Il Cristo invece si distingue. È avveniristico, quasi tecnologico, quest’uomo che emana luce dalla croce « tirata come un cristallo » (al dir dell’artista): una croce alta sei metri, la cui gamma cromatica va dal blu scuro della base (la notte in cui l’uomo soffre e perde speranza) al « dolce color d’oriental zaffiro » che rincuorò l’Alighieri (cfr. Purgatorio, 1, 13), e infine al bianco limpido, incandescente della luce in cui abita il Padre.
Sono materiali e colori moderni – qualcuno dirà « da discoteca » – e nel contempo antichi, plasmati dall’immaginazione dei profeti, dalle visioni nella notte del tempo. « Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco che splendeva tutt’intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente », dice un profeta d’Israele (Ezechiele, 1, 4). Bronzo lucido e topazio, un firmamento simile a cristallo splendente, carboni ardenti come torce agitate, il fuoco che sprigiona bagliori: ecco l’immaginario degli inizi del sesto secolo avanti Cristo, il linguaggio sacrale del figlio di Buzi, il sacerdote Ezechiele che, sulle rive del Chebar, vide aprirsi i cieli (Ezechiele, 1, 1).
Questo linguaggio visionario, che ritroviamo nel libro di Daniele e infine nell’Apocalisse, è quello preferito da Cristo stesso, nel già citato passo lucano e in numerosi altri passi, per descrivere il suo « giorno », « quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli e si siederà sul trono della sua gloria » (Matteo, 25, 31). Ed è il linguaggio in cui Vangi fa vedere i cieli aperti, il Figlio dell’uomo che brilla da un capo all’altro come un lampo, la croce come trono di gloria, il « giorno » del testimone fedele, del primogenito dei morti e principe dei re della terra, di colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, facendo di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre; l’ »oggi » in cui Cristo « viene sulle nubi e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero » (Apocalisse, 1, 7). Al centro del presbiterio, dove in persona Christi il vescovo celebra la liturgia eucaristica, l’artista cioè strappa il velo che copre i nostri occhi, traducendo in lingua corrente un celebre affresco del Risorto di Ambrogio Borgognone in Sant’Ambrogio a Milano, dove Cristo proclama (in parole scritte su un drappo d’onore sotto i suoi piedi): « Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi » (Apocalisse, 1, 17-18).
È significativo che questo Cristo di Vangi, raffigurato mentre passa da morte a vita, sia stato concepito per l’altare di una chiesa. In immagini legate alla liturgia, come nella liturgia stessa, i credenti sono invitati a cercare, oltre ciò che vedono, qualche cosa di più, magari non vista perché ancora nel futuro o che c’è ma rimane nascosta, ma che in ogni caso muta radicalmente il senso e l’aspetto delle cose viste. L’immagine si pone come epifania e apocalisse, manifestazione e rivelazione: è il caso di una splendida pala d’altare senese, opera di Giovanni di Paolo oggi alla Pinacoteca Nazionale di Siena, in cui vediamo Cristo umiliato che regge la croce, a sinistra, mentre a destra, risorto e trionfante giudica vivi e morti, mostrando le piaghe come trofei. Frammezzo, fra l’imago pietatis e l’imago gloriae di questa doppia immagine, è raffigurato lo Spirito, operatore dei cambiamenti che conducono alla vita eterna (tra cui quello eucaristico: il cambiamento del pane e vino nel corpo e sangue di Cristo). La colomba è collocata all’apice dell’immagine, sopra il punto in cui il sacerdote, consacrando, invoca lo Spirito Santo sui doni, ed è come se scendesse contemporaneamente su Cristo sofferente per risuscitarlo alla gloria, e sul pane e vino per transustanziarli. Quando si celebrava la messa davanti a quest’immagine, l’ostia e il calice innalzati tra le due raffigurazioni di Cristo comunicavano che, come Cristo è risorto nello Spirito e sotto lo stesso Spirito il pane diventa suo corpo, anche noi che ci nutriamo di questi elementi siamo destinati a mutare forma. « Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste: in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba noi saremo trasformati » (1 Corinzi, 15, 49-52).
In modo analogo, il Crocifisso di Vangi ripropone l’intuizione dell’autore dell’Apocalisse, che colloca la sua visione della fine delle cose nel contesto della domenica e di un’esperienza mistica della liturgia. « Rapito in estasi nel giorno del Signore – dice – udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: quello che vedi, scrivilo in un libro » (Apocalisse, 1, 10). Giovanni vide sette candelabri d’oro in mezzo ai quali si muoveva il sommo Sacerdote dei beni futuri, simile a un figlio d’uomo ma con gli occhi fiammeggianti come fuoco e che teneva nella destra sette stelle (Apocalisse, 1, 12-15).
Il nuovo Crocifisso sopra l’altare riporta l’Eucaristia a questo contesto escatologico. Tra i santi della città e diocesi (Prosdoscimo, Giustina, Antonio, Gregorio Barbarico) scolpiti dallo stesso Vangi in atteggiamenti ruminativi, ora esplode Cristo. La comunione dei santi – la comunione dei padovani con questi quattro santi patroni, la comunione di ogni credente con coloro che lo hanno preceduto – ora ritrova il suo centro in Lui, nel suo corpo e sangue offerti sulla croce.
Così ora nel presbiterio del Duomo di Padova contempliamo il Vivente rivelato nella comunione dei santi, sopra un altare che sembra la pietra sepolcrale « rotolata via » dagli angeli che la sostengono, esprimenti una sorta di tripudio cosmico. Perché, a differenza del Cristo del Borgognone a Milano, in cui predominano i segni dell’umiliazione – e a differenza dell’altro grande crocifisso a Padova, quello di Donatello all’altare del santo – qui è il trionfo di Cristo che viene proclamato, la gloria della sua vita nuova. Scriveva infatti Vangi nel 1999, per l’inaugurazione del Crocifisso: « Ho cercato di esprimere tramite gli occhi aperti la vita, la vittoria di Cristo sulla morte, la risurrezione e quindi la Parusia, la gloria finale promessa per tutti da Gesù nel passo di Giovanni: « Quando sarò innalzato attirerò tutti a me ». Il Signore qui non è inchiodato ma quasi appoggiato alla croce, con le braccia spalancate non nel supplizio ma piuttosto in quest’abbraccio redentivo per l’intera umanità ».
Le mani del Salvatore non inchiodate ma « appoggiate » alla croce, i chiodi diventati punti di luce: fa pensare alla mistica tavola conservata nella stessa Cattedrale, nella sagrestia dei Canonici, opera di Nicoletto Semitecolo raffigurante il Figlio crocifisso davanti al Padre, ma senza la croce. Le mani del Figlio, con i segni della sua obbedienza, sono semplicemente « appoggiate » alle mani estese del Padre che lo sostiene con il suo amore. Le parole di Cristo sulla Croce, « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », vengono così riportate al loro contesto d’origine: al salmo che sia Gesù che coloro che l’ascoltarono conobbero, e che, dall’iniziale senso d’abbandono, porta all’affermazione conclusiva che Dio « non ha disprezzato né sdegnato l’afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto ma, al suo grido d’aiuto, lo ha esaudito » (Salmi, 21, 25). E poi le ultime parole: « Io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: « Ecco l’opera del Signore »" (Salmi, 21, 30-32).
Questo Cristo sulla croce azzurra è già in cielo, Signore delle generazioni future, Redentore del terzo millennio, Salvatore di popoli nascituri. Nel mistero del corpo crocifisso che, splendente e senza sofferenza, vive davanti al Padre, Vangi rivela l’Uno di cui l’Antico Testamento affermava: « Il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: là si cela la sua potenza » (Abacuc, 3, 4).

Timothy Verdon

(©L’Osservatore Romano, 9 aprile 2009)

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