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IL RAPIMENTO MISTICO DI SAN PAOLO NELL’INTERPRETAZIONE DI SAN BONAVENTURA E DEI SUOI MAESTRI

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IL RAPIMENTO MISTICO DI SAN PAOLO NELL’INTERPRETAZIONE DI SAN BONAVENTURA E DEI SUOI MAESTRI

Creato: 17 Giugno 2009

Pubblichiamo stralci di una delle relazioni tenute al 57 Convegno di studi bonaventuriani a Bagnoregio.
di Aleksander Horowski
Istituto Storico dei Cappuccini, Roma

Il rapimento di san Paolo al terzo cielo, testimoniato dallo stesso apostolo in modo piuttosto fugace nella Seconda lettera ai Corinzi (12, 1-4), affascinò i Padri della Chiesa e i teologi medievali in modo tale da diventare per loro non solo modello di ogni rapimento mistico, ma in qualche misura anche della visione beatifica e, in generale, della visione di Dio che l’uomo può avere nella vita terrena.
Le basi della riflessione su questo fenomeno furono poste – nell’ambito della teologia latina – da sant’Agostino, che dedicò gran parte del libro xii del De genesi ad litteram alla spiegazione di quelle poche righe in cui san Paolo svela la sua straordinaria esperienza.
Agli albori della grande scolastica medievale il rapimento di Paolo non trova ancora un posto fisso nei trattati di teologia, ma appare piuttosto nei commenti biblici. Tuttavia, all’inizio del xIII secolo appaiono ormai diverse questioni disputate dedicate ex professo a questo tema.
Nei commenti alle Sentenze il tema appare accidentalmente e non in tutti i teologi. Anche nel Commento di Bonaventura i riferimenti al rapimento sono pochissimi. Eppure, per il Dottor Serafico era un tema importantissimo, come dimostrano le Collationes in Hexaëmeron in cui intendeva presentare una visione globale della conoscenza umana, un vero e proprio cammino verso la sapienza cristiana, organizzato in sei gradi ascendenti, costituiti da sei visioni, corrispondenti ai sei giorni della creazione. Secondo il progetto, il rapimento mistico avrebbe costituito l’oggetto della sesta visione, sostenuta dai cinque gradi precedenti, inclusa la profezia (la visione del quinto giorno). Ma, conclusa la quarta visione, quella della contemplazione, Bonaventura – a causa della nomina cardinalizia e dell’incarico di preparare il secondo concilio di Lione – dovette interrompere i suoi discorsi, che rimasero incompiuti. Ciò nonostante le anticipazioni pertinenti il rapimento che il Dottor Serafico disseminò lungo le Collationes in Hexaëmeron sono molto importanti per lo studio di questo argomento, specie se lette alla luce di quanto afferma nelle altre opere mistico-spirituali.
Sembra inoltre che si possa attribuire a Bonaventura anche un documento autografo – conosciuto come manoscritto 186 del Sacro Convento di Assisi, Fondo Antico Comunale – contenente almeno due questioni disputate dal Dottor Serafico: una De prophetia e un’altra De raptu. Si è pensato così di poter quasi completare o ricostruire la sezione mancante delle Collationes in Hexaëmeron. Un tentativo fu compiuto in parte da Joseph Ratzinger, che si servì della questione De prophetia – o piuttosto di ampi brani di essa – nella trascrizione parziale di Bruno Decker. In seguito, però, la paternità bonaventuriana del manoscritto fu contestata.
Uno dei possibili campi di ricerca è quello dell’influsso dei primi maestri francescani sul concetto del raptus Pauli in Bonaventura. L’esplorazione del pensiero di Alessandro di Hales e di Giovanni de La Rochelle apre infatti la strada a una rilettura approfondita dei testi bonaventuriani sul rapimento mistico di Paolo.
Alessandro di Hales dedica alla straordinaria esperienza mistica di Paolo un’apposita questione disputata, anteriore al suo ingresso tra i francescani nel 1236. Altro materiale si trova sparso nella sua Glossa alle sentenze e in diverse questioni disputate (antequam e postquam) e testimonia non solo che tale tema non fu periferico o marginale per Alessandro, ma ci permette inoltre di intravvedere una certa evoluzione di alcuni aspetti del suo pensiero.
Nelle sue analisi il Doctor Irrefragabilis presta molta attenzione all’analisi psicologica del rapimento mistico, cercando di definire precisamente quale sia l’attività delle potenze dell’anima in questo fenomeno. L’argomento viene sviscerato a partire da diverse prospettive: il legame tra il rapimento e la visione; la relazione tra la visione nel rapimento e la visione beatifica; la distinzione tra la visione nel rapimento e gli altri fenomeni spirituali (la profezia, la contemplazione, il torpore e l’estasi); la sottolineatura dell’aspetto « violento » del raptus; l’inserimento della riflessione sul rapimento paolino nel contesto della storia della salvezza (il progresso della conoscenza); l’analogia tra la visione paolina e quella degli angeli della terza gerarchia; il rapporto tra il rapimento di Paolo e le teofanie concesse a Mosè.
Giovanni de La Rochelle (morto nel 1245) stese un ampio commento a tutto il corpus paulinum, che è conosciuto anche con il titolo: Summa super epistolas sancti Pauli. Di questa opera esegetica si sa ancora molto poco.
Il commento del rupellense adotta una struttura tipica per l’esegesi scolastica della sua epoca. I suoi elementi fondamentali, nel caso del dodicesimo capitolo della Seconda lettera ai Corinzi, sono: la divisio textus, la expositio e le quaestiunculae. Queste ultime sono ben diciassette nella parte relativa all’esposizione dei versetti 1-2 e soltanto due per i versetti successivi.
Entrando nel merito, si nota soprattutto che secondo Giovanni de La Rochelle Paolo sperimentò il rapimento per due volte e sulla base di questi due eventi mistici egli stabilì la fondamentale distinzione tra due tipi di rapimento. Il primo, avvenuto sulla via per Damasco (cfr. Atti, 9, 3-9), viene definito come rapimento al terzo cielo, pertinente all’estasi oppure all’eccesso della conoscenza. Esso è anche relazionato alla visione delle cose ignote e all’intelligenza della profondità delle realtà divine. Il secondo rapimento, realizzatosi nel tempio di Gerusalemme (cfr. Atti, 22, 17), viene definito come rapimento al paradiso, e sarebbe relativo a un altro tipo di estasi, ossia all’eccesso di affetto. Questo secondo tipo di rapimento si riferisce ai misteri che vengono svelati mediante le figure. I versetti 1-2 del capitolo XII della Seconda lettera ai Corinzi sarebbero quindi in relazione al primo rapimento di Paolo, mentre i versetti 3-4, al secondo. Il primo rapimento viene descritto, secondo il rupellense, sotto quattro aspetti: la condizione, il tempo, il modo e il luogo (terminus).
Si può dire che Bonaventura ereditò dai primi maestri della scuola francescana vari elementi della dottrina sul rapimento mistico di san Paolo. Di Alessandro di Hales, per esempio, utilizza gli approfondimenti sull’ancoraggio storico-salvifico della teologia. Nella teologia dell’halensis, infatti, il rapimento paolino viene inserito nel contesto della progressiva crescita della conoscenza umana su Dio, realizzatasi nella storia della salvezza scandita dalle rivelazioni concesse nel rapimento mistico ad Adamo, all’apostolo Paolo e all’evangelista Giovanni, corrispondenti ai tre stadi della Chiesa.
Queste intuizioni trovarono un meraviglioso sviluppo nel pensiero di Bonaventura, specialmente nelle sue successive sintesi sulla conoscenza mistica e spirituale: nel Breviloquium, nell’Itinerarium mentis in Deum, nelle Collationes in Hexaëmeron, Paolo diventa modello e maestro per eccellenza delle diverse forme della conoscenza di Dio, gerarchizzate come una scala che porta l’uomo verso l’unione con il suo Creatore.
Da Giovanni de La Rochelle il Dottor Serafico attinge alcune intuizioni sui due tipi di rapimento mistico, che gli permettono di elaborare una propria teoria del rapporto tra il raptus e l’extasis, tra l’aspetto intellettuale e affettivo della conoscenze mistica. Alla luce della dottrina dei suoi predecessori, il pensiero di Bonaventura apre di fronte agli studiosi nuove prospettive di lettura e di reinterpretazione.
(L’Osservatore Romano – 18 giugno 2009)

IL MONDO È « VESTIGIO DELLA SAPIENZA DI DIO » – BONAVENTURA DA BAGNOREGIO

http://disf.org/bonaventura-libro-natura-dio

IL MONDO È « VESTIGIO DELLA SAPIENZA DI DIO » – BONAVENTURA DA BAGNOREGIO

Il libro della natura

Bonaventura da Bagnoregio
1273
da Collationes in Hexämeron, XII, 14-17 – XIII, 12

Rifacendosi implicitamente alla visione del libro in Ap 5,1 e forse di Ez 2,9, per Bonaventura la natura, ovvero la creatura sensibile, è un libro scritto fuori; le creature razionali, sono un libro scritto dentro, perché posseggono una coscienza; la Sacra Scrittura è un libro scritto sia dentro (significati impliciti da trarre), sia fuori (significati espliciti). Questi sono i tre “aiuti” mediante i quali la ragione e la fede ascendono alla contemplazione delle idee esemplari del Creatore

14. Sia la ragione sia la fede conducono alla considerazione di questi splendori esemplari, ma vi è anche un ulteriore triplice aiuto per raggiungere le ragioni esemplari; ed è l’aiuto della creatura sensibile, l’aiuto della creatura spirituale, e l’aiuto della Scrittura sacramentale, che contiene i misteri. Riguardo al mondo sensibile, tutto il mondo è ombra, via, vestigio; ed è il libro scritto di fuori. Infatti in ogni creatura rifulge l’esemplare divino; ma rifulge permisto alla tenebra; ed è come una certa opacità mista alla luminosità. Inoltre tutto il mondo è anche una viache conduce nell’esemplare. Come tu puoi osservare che un raggio di luce che entra attraverso una finestra viene diversamente colorato a seconda dei diversi colori delle diverse parti; così il raggio divino rifulge in modo diverso nelle singole creature e nelle diverse proprietà. È detto nella Sapienza: Nelle sue vie si manifesta [Sap 6,16]. Ancora, il mondo è vestigio della sapienza di Dio. Onde la creatura non è che un certo simulacro della sapienza di Dio, e quasi una certa scultura. E da tutto questo il mondo risulta come un libro scritto al di fuori.
15. Quando, dunque, l’anima mira queste cose, le sembra che si dovrebbe passare dall’ombra alla luce, dalla via alla meta, dal vestigio alla verità, dal libro alla vera scienza che è in Dio. Leggere questo libro è possibile solo agli uomini di altissima contemplazione; ma non è possibile ai filosofi naturali, che conoscono solo la natura delle cose; ma non la riconoscono come vestigio.
16. Altro aiuto per raggiungere l’esemplare eterno, è offerto dalla creatura spirituale, che è come lume, come specchio, come immagine, come libro scritto all’interno. Infatti, ogni creatura o sostanza spirituale è lume; onde è detto nel Salmo: Risplende su di noi, Signore, la luce del tuo volto [Sal 4,7]. Ma assieme a questo, la sostanza spirituale e anche specchio, perché accoglie e rappresenta in se stessa tutte le cose; ha poi anche la natura del lume, affinché giudichi anche intorno alle cose. Infatti tutto il mondo si descrive nell’anima. Inoltre, la sostanza spirituale è anche immagine dell’esemplare eterno; poiché, infatti, è lume e specchio che raccoglie le immagini delle cose, per questo è anche immagine. Infine, come conseguenza di tutto questo, la sostanza spirituale è anche il libro scritto all’interno. Onde nessuno e nessuna cosa può entrare nell’intimità dell’anima, tranne il semplice. Questo poi significa entrare nelle potenze dell’anima; perché, secondo Agostino [De Trinitate, XII, 1, 1], l’intimità dell’anima è la sua sommità; e quanto una potenza è più intima, tanto più è sublime. Questi aiuti li hanno anche i maghi del Faraone.
17, I maghi del Faraone non ebbero però il terzo aiuto, che è quello della Scrittura sacramentale. Ora, tutta la Scrittura è il cuore di Dio, la bocca di Dio, la penna di Dio, il libro scritto fuori e dentro. È detto nel Salmo: Effonde il mio cuore liete parole, io canto al re il mio poema. La mia lingua è stilo di scriba veloce [Sal 44,2]. Dove tutto viene indicato: il cuore è di Dio; la bocca è del Padre; la lingua è del Figlio; lo stilo è dello Spirito santo. Infatti, il Padre parla per mezzo del Verbo o della lingua; ma chi porta a compimento e lo affida alla memoria è lo stilo dello scriba. La Scrittura, dunque, è la bocca di Dio; onde Isaia rimprovera: Guai a voi!… Siete partiti per scendere in Egitto [Is 30,1-2]. Cioè, vi dedicate alle scienze mondane, e non avete interrogato la bocca di Dio [Is 30,2], cioè non interrogate la sacra Scrittura. Infatti, non deve taluno rifugiarsi e confidare nelle altre scienze per conoscere la verità con certezza, se non ha la testimonianza a monte; cioè la testimonianza di Cristo, di Elia, di Mosè; la testimonianza cioè del nuovo testamento, dei profeti e della Legge. Inoltre, la Scrittura è la lingua di Dio; onde si dice nel Cantico: C’è miele e latte sotto la tua lingua [Ct 4,11]; e nel Salmo: Quanto sono dolci al mio palato le tue parole; più del miele per la mia bocca [Sal 118,103]. Questa lingua dà sapore ai cibi, onde questa Scrittura è paragonata ai pani, che hanno sapore e ristorano. Ancora, la Scrittura è la penna di Dio, e questi è lo Spirito santo. Poiché, come chi scrive può attualmente scrivere le cose passate, le cose presenti, e le cose future; così sono contenute nella Scrittura le cose passate, le cose presenti e le cose future. Onde la Scrittura è il libro scritto al di fuori, perché contiene belle narrazioni storiche e ammaestramenti sulle proprietà delle cose. Ed è anche il libro scritto all’interno, perché contiene misteri e letture diverse.
È certo che l’uomo non decaduto aveva cognizione delle cose create, e, mediante la loro rappresentazione si portava in Dio per lodarlo, venerarlo, amarlo. Per questo sono appunto le creature, e pertanto così si riconducono in Dio. Ma l’uomo, decadendo a causa del peccato, perdette questa cognizione e non vi era più chi riconducesse le cose in Dio. Onde questo libro, cioè il mondo, era come morto e cancellato. Si rese pertanto necessario un altro libro, mediante il quale il libro del mondo fosse illuminato, e che accogliesse le metafore delle cose. Ora la Scrittura è proprio questo libro che pone le similitudini, le proprietà e le metafore delle cose, scritte nel libro del mondo. Pertanto, il libro della Scrittura è restauratore di tutto il mondo, per conoscere, lodare e amare Dio.

Bonavenutura da Bagnoregio, Collationes in Hexämeron, tr. it.: La sapienza cristiana. Le collationes in Hexaemeron, a cura di V. Cherubino Bigi e I. Biffi, Jaca Book, Milano 1985, pp. 175-177, 183-184

BENEDETTO XVI – SAN BONAVENTURA 1

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100303.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 3 marzo 2010

SAN BONAVENTURA

San Bonaventura 2 e 3
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100310.html
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100317.html

Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio. Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro. La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione. Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.
Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.
Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì.
La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: “Che cosa devo fare della mia vita?”. Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate: “Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo” (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura. Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di “baccelliere biblico” e di “baccelliere sentenziario”. Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.
Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni. Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, “Legenda” significa un testo autorevole, “da leggersi” ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. Tale programma, egli scriveva nella Lettera Novo Millennio ineunte, si incentra “in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (n. 29).
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale. Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il II Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilimento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca. Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento. Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: “Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini… Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare” (cfr J.G. Bougerol, Bonaventura, in A. Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol. VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p. 91).
Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole: “Sulla terra… possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi … entreremo nel gaudio di Dio” (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).

 

SAN PAOLO, SAN BONAVENTURA E JOSEPH RATZINGER

http://www.zenit.org/it/articles/san-paolo-san-bonaventura-e-joseph-ratzinger

SAN PAOLO, SAN BONAVENTURA E JOSEPH RATZINGER

25 GIUGNO 2009

DI PIETRO MESSA, OFM*

ROMA, giovedì, 25 giugno 2009 (ZENIT.org).- Nel Prologo dell’Itinerarium mentis in Deum, dopo aver innalzato la preghiera all’eterno Padre della luce affinché ci illumini sulla via della pace, Bonaventura prosegue: «Poiché dunque, seguendo l’esempio del beatissimo padre Francesco, questa pace cercavo con spirito ardente, io peccatore che, benché indegno, sono il settimo suo successore nel governo dell’Ordine, accadde che trentatrè anni dopo la sua morte, mi recai per volere divino sul monte della Verna, come a un quieto rifugio ove cercare la pace dello spirito; e là, mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè alla visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò stavo meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad essa conduce».
Certamente i numeri indicati sono in contemporanea dati storici, ma anche dal forte significato teologico; considerando che san Francesco è morto nel 1226 e che Bonaventura sale a la Verna trentatrè anni dopo, si deduce che egli ha scritto l’Itinerarium mentis in Deum nel 1259, ossia due anni dopo la sua elezione a ministro generale ad opera del capitolo di Roma del 1257. Quindi quest’anno ci troviamo nel 750 anniversario della composizione di tale testo. Proprio per tale motivo è stato organizzato un incontro, distinto in due sessioni (Santuario La Verna il 26 settembre e Antonianum di Roma il 27 ottobre 2009), su come quest’opera bonaventuriana è stata recepita da alcuni teologi e filosofi del secolo XX in modo da cogliere la posterità del pensiero di Bonaventura nel secolo che ci ha preceduto. Dei teologi che saranno presi in considerazione certamente quello che desta più interesse è Joseph Ratzinger, sia perché oggi, divenuto papa Benedetto XVI, la comprensione dei suoi studi su Bonaventura è essenziale per comprendere il suo pensiero, ma anche perchè egli ha approfondito la teologia della storia bonaventuriana, un sistema complesso che ha visto la convergenza di più correnti di pensiero, tra cui quella gioacchimita, non sempre facile da decifrare. Joseph Ratzinger nel suo studio sulla teologia della storia in san Bonaventura fa riferimento soprattutto alle Collationes in Hexaëmeron, abbondantemente citate. Tuttavia vi sono rimandi anche ad altre opere bonaventuriane, tra cui anche all’Itinerarium mentis in Deum.
Così, nel capitolo secondo, dedicato a descrivere “Il contenuto della speranza di salvezza in Bonaventura” indica pax e revelatio come i beni salvifici del tempo ultimo. Dopo aver affermato che «il vero contenuto di questo tempo di salvezza viene riassunto nella parola “pace”» egli cerca le fonti di questa convinzione bonaventuriana e tra le altre indica «la posizione dominante che lo stesso Francesco aveva riservato nel suo ordine al saluto e al messaggio di pace». In nota Ratzinger ricorda che «Bonaventura pone un particolare accento su questo tratto fondamentale del messaggio di Francesco» nell’Itinerarium mentis in Deum, riportando un brano del Prologo: «pace che predicò e donò Cristo nostro Signore, di cui fu apostolo il nostro padre Francesco, che l’annunziava al principio e alla fine di ogni discorso, l’augurava in ogni saluto, e in ogni contemplazione sospirava alla pace dell’estasi, quasi concittadino della Gerusalemme perfetta. Di questa pace parla quell’uomo pacifico che si conservava in pace anche con quanti la pace odiavano. Chiedete quanto arreca pace a Gerusalemme. Egli ben sapeva che il trono di Salomone è fondato sulla pace, come è scritto: La sua sede è nella pace, e in Sion è la sua dimora».
Sempre nel capitolo, Ratzinger evidenzia la presenza della teologia di Dionigi l’Areopagita nelle opere bonaventuriane, facendo notare come «la teologia dionisiana di Bonaventura culmini sempre più nel concetto di rivelazione, con il quale originariamente non ha nulla a che fare, che contribuisce infine a crearne l’impronta essenziale». Infatti «per il Dottore Serafico erano sempre esistiti motivi sufficienti per aderire ad una dottrina che, quale sommo vertice dello slancio creaturale verso Dio, insegnasse un contatto con questo Dio in modo completamente non cognitivo e superintellettuale». Continuando afferma: «A questo si aggiunge ancora un altro processo che assicura a quello appena descritto la sua piena portata: dapprima nell’Itinerarium mentis in Deum e poi ancora con nuova enfasi nell’Hexaëmeron questo contatto mistico viene indicato come “rivelazione”». Il rimando in nota è al capitolo conclusivo dell’Itinerarium mentis in Deum: «In questa ascesa, perché sia perfetta, è necessario che si abbandonino tutte le operazioni dell’intelletto, e che l’apice dell’affetto sia segretissimo, che non lo può conoscere chi non lo sperimenta, e non lo riceve se non chi lo desidera, né lo desidera se non colui che il fuoco dello Spirito Santo, che Cristo mandò sulla terra, profondamente infiamma. Per questo l’Apostolo dice che questa sapienza mistica è stata rivelata per mezzo dello Spirito Santo». Bonaventura conclude questo brano rinviando a quanto affermato da san Paolo in 1Cor 2,10ss.
Nel paragrafo conclusivo del capitolo secondo, Ratzinger illustra «la sintesi decisiva a partire dalla quale si costruisce la speranza escatologica della rivelazione in Bonaventura e il concetto di rivelazione che ne costituisce la base». Prima di tutto mostra come Bonaventura ha trasformato in senso storico la concezione cosmica delle gerarchie di Dionigi; successivamente ha mostrato che a questo sviluppo storico-gerarchico «corrisponde anche uno sviluppo della conoscenza di fede fino alla forma suprema di un contatto con Dio super-intellettuale e affettivo-mistico». Secondo Ratzinger «il concetto che sostiene e fonda questa sintesi complessa mi pare essere quello dei Serafini. La visione di San Francesco, al quale Cristo crocifisso apparve nella figura di un Serafino, non ha più abbandonato san Bonaventura dopo il suo ritiro sul monte della Verna. Allo spirito del teologo in meditazione doveva infatti apparire indubitabile che in questa visione si annunciasse l’essenza dell’esperienza piena di mistero: il modo di cogliere Dio si è qui realizzato al supremo livello dell’amore, al livello dei Serafini. Come le stigmate, dunque, attestavano l’identità del Poverello quale “angelus cum signo Dei vivi”, allo stesso modo l’apparizione del Signore nella figura del Serafino, indicava la collocazione gerarchica di Francesco e la sua ora storica; egli doveva coseguentemente appartenere alla Chiesa serafica del tempo ultimo. Nella strana duplice figura di quella visione si cela dunque già la sintesi comprendente il pensiero delle gerarchie, la mistica e la storia, con cui Bonaventura tentava di dominare l’eredità teologica e religiosa del suo tempo».
Nel momento che Ratzinger accenna al ritiro di Bonaventura a la Verna, rimanda in nota al Prologo dell’Itinerarium mentis in Deum. Continuando Bonaventura spiega il perché del forte significato simbolico del Serafino apparso a san Francesco: «Le sei ali del Serafino, infatti, possono ben simboleggiare i sei gradi dell’illuminazione, attraverso i quali l’anima, come per gradini o vie, si dispone a salire al godimento della pace nei rapimenti estatici della sapienza cristiana. Per questa via non si va se non sospinti dall’ardentissimo amore del crocifisso che rapì Paolo al terzo cielo, trasformandolo al punto che esclamò: Con Cristo sono confitto in croce. Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questo amore assorbì la mente di Francesco al punto che ciò che era nella mente si manifestò nella carne, portando per due anni impresse nel corpo, fino alla morte, le sacre stimmate della Passione. Dunque, la visione delle sei ali del Serafino suggerisce le sei illuminazioni ascendenti, che partono dalle creature e conducono fino a Dio, nel quale nessuno penetra rettamente se non tramite il Crocifisso».
Come si vede il rimando è a san Paolo, rapito fino al terzo cielo, e trasformato in Cristo, come dice sempre l’Apostolo in un testo che può essere definito come il più grande della mistica cristiana: Christo confixus sum cruci, iam non ego; vivit vero in me Christus. Lo stesso passo paolino Bonaventura lo usa all’inizio del capitolo XIV della Vita beati Francisci in cui narra la morte del santo: «Francesco, ormai confitto nella carne e nello spirito con Cristo alla Croce, non solo ardeva di amore serafico verso Dio, ma era anche assetato, con Cristo crocifisso, della salvezza degli uomini». Tuttavia Bonaventura non è il primo ad applicare Gal 2,19-20 a san Francesco; infatti egli si pone in quella che ormai era diventato un patrimonio dell’agiografia francescana diffusa anche mediante l’iconografia francescana.
Ratzinger nel Prologo dell’Itinerarium si sofferma soltanto sulla figura del Serafino alato in forma di Crocifisso e la sua importanza nel pensiero bonaventuriano, ma tale brano è pienamente comprensibile soltanto se si completa con quello successivo in cui il riferimento è proprio Paolo apostolo. Infatti nella spiegazione dell’evento della Verna, Bonaventura non solo attinge abbondantemente dagli scritti paolini, ma l’esperienza stessa di san Paolo rapito al terzo cielo è presa come riferimento per comprendere ciò che avvenne a san Francesco quando gli apparve il serafino.
Sarà a conclusione dei Miracoli, posti al termine della Vita beati Francisci, che Bonaventura sintetizzerà la sua lettura teologica della vita del Santo d’Assisi con un intreccio di citazioni bibliche – soprattutto paoline – in cui l’Itinerarium mentis in Deum, denominato anche Speculatio pauperis in deserto, fa come da sfondo: «Indubbiamente, questo mistero grande e mirabile della croce, nel quale sono nascosti così profondamente da risultare nascosti ai sapienti e ai prudenti di questo mondo i carismi della grazia, i meriti delle virtù, i tesori della sapienza e della conoscenza, fu svelato in tutta la sua pienezza a questo piccolino di Cristo, tanto tutta la sua vita non fu che seguire sempre e solo le vestigia della croce, gustarne la dolcezza, predicarne la gloria. Perciò egli ha potuto dire veramente con l’Apostolo, all’inizio della sua conversione: “Quanto a me invece non vi sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo”. Con non minor verità ha potuto ripetere, nello svolgimento della sua vita: “E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia”. E con pienezza di verità, nel compimento della sua vita terrena, ha potuto soggiungere: “Io porto le stigmate del Signore Gesù nel mio corpo!”. Ma noi desideriamo sentire ogni giorno da lui anche queste parole: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia col vostro spirito, fratelli. Amen”. Gloriati, dunque, ormai sicuro, nella gloria della croce, o glorioso alfiere di Cristo; tu che, cominciando dalla croce, sei progredito seguendo la regola della croce e nella croce hai portato a compimento la tua opera. Gloriati, dunque ora che prendendo a testimonio la croce, manifesti a tutti i fedeli quanto è grande la tua gloria nel cielo. Ormai ti seguano sicuri coloro che escono dall’Egitto: la forza del legno della croce di Cristo farà dividere davanti a loro il mare ed essi passeranno il deserto, e traghettato il Giordano di questa vita mortale e, sorretti dalla meravigliosa potenza della croce, entreranno nella terra promessa dei viventi. Che qui ci introduca il vero condottiero e salvatore dei popoli, Gesù Cristo crocifisso, per i meriti del suo servo Francesco, a lode e gloria di Dio uno e trino; che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen».

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*Padre Pietro Messa è Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma

BONAVENTURA DA BAGNOREGIO – 15 LUGLIO

http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/autori/htm/bonaventura_bagnoregio.htm

BONAVENTURA DA BAGNOREGIO – 15 LUGLIO

Vita e opere. Giovanni (nome di battesimo di Bonaventura) da Fidanza, nato intorno al 1217 a Bagnoregio, nell’Italia centrale, oblato nel convento dei francescani di Bagnoregio a 17 o 23 anni, fu poi a Parigi negli anni 1235-1243, studente alla Facoltà delle Arti; nel 1243 entrò effettivamente nell’ordine francescano, e forse iniziò gli studi in teologia sotto la guida di Alessandro di Hales. Nel 1248 iniziò a commentare la Scrittura come baccelliere biblico e nel 1250-1252, come baccelliere sentenziario, scrisse il commento alle Sentenze. Alla fine del 1253 o ai primi anni del 1254 divenne maestro reggente nell’Università di Parigi. Dal 1257 divenne ministro generale dell’ordine francescano da lui interamente riorganizzato. Nel 1273 fu nominato arcivescovo di Albano e cardinale. Bonaventura morì durante il Concilio di Lione del 1274. Lo scritto fondamentale del Doctor seraphicus è senza dubbio il Commentarius in quattuor libros Sententiarum, composto a partire dal 1248, durante il suo insegnamento parigino. Il suo capolavoro mistico è l’Itinerarium mentis in Deum (1259). Altri scritti di notevole importanza sono il De scientia Christi, le Quaestiones disputatae, il Breviloquium, le Collationes in Hexaëmeron. Bonaventura scrisse inoltre molti opuscoli mistici, sermoni e scritti relativi al suo operato all’interno dell’ordine francescano. Mentre negli scritti teologici Bonaventura accoglie come punto di partenza il pensiero di Agostino per riassumere tutta la tradizione scolastica, negli opuscoli mistici egli trova ispirazione nella mistica di Bernardo, nei Vittorini (Ugo e Riccardo di San Vittore).
La scienza e la necessità dell’illuminazione della fede. Per il Doctor seraphicus, rispetto alle verità di fede, è maggiore l’adesione alla verità che si ottiene attraverso la fede. Infatti, rispetto alle altre verità, la fede possiede una certezza di adesione maggiore rispetto alla certezza di speculazione della scienza. L’adesione implica un affectus, mentre la speculazione il puro intellectus. La certezza della scienza è un puro fatto teoretico, indubitabile relativamente al campo in cui resta costretta; non esige l’adesione che è senza dubbio l’impegno personale del fedele. Fede e scienza, o fede e opinione possono tuttavia coesistere. Il fedele può possedere non solo l’adesione alle proprie verità di fede, ma può anche sostenerle attraverso molte ragioni probabili. In tal modo la scienza coadiuva la fede, che tuttavia non esclude la scienza perché è da molti punti di vista superiore ad essa: si può infatti dimostrare indubitabilmente che Dio esiste ed è uno; ma scrutare l’essenza divina accettando la sua coesistenza con la pluralità delle persone, necessita l’illuminazione della fede. La fede implica l’impegno dell’essere umano nei confronti della verità.
La conoscenza. Alla questione, se ogni conoscenza derivi dai sensi, il Doctor seraphicus risponde di no: l’anima conosce se stessa e tutto ciò che è al suo interno senza l’aiuto dei sensi esterni; tuttavia l’anima non può fornire la conoscenza intera. Quest’ultima deve provenire, per la maggior parte, dall’esterno, veicolata dai sensi. Tutto ciò costituisce una forte concessione all’aristotelismo. In particolare sembra di poter affermare che Bonaventura dell’aristotelismo assume specialmente il linguaggio: nei commenti alla Scrittura e alle Sentenze il francescano non si sottrae alla generale influenza dell’aristotelismo; tuttavia, pur accettandone la terminologia e i concetti fondamentali, come atto e potenza, forma e materia, sostanza e accidente, ne legge le dottrine all’interno di una prospettiva agostiniana che ne modifica anche profondamente il significato. Dai sensi, infatti, non può che pervenire il materiale della conoscenza: le species (le similitudini delle cose, quasi pitture delle cose stesse) e i termini oggettivi da cui la conoscenza risulta. In realtà l’anima è stata creata nuda (In Sententiarum), priva delle species. In questo, per Bonaventura, ha ragione Aristotele, che affermava che l’anima è una tabula rasa. Ma la conoscenza, sebbene necessiti dell’ausilio dei sensi, è condizionata e fondata su quei principi che sono indipendenti dai sensi, innati ed infusi direttamente da Dio. Affermando questa linea fondante della conoscenza, il Doctor seraphicus riprende in modo completo la tesi fondamentale dell’agostinismo. La certezza della conoscenza è garantita all’anima umana da un lumen directivum, da una directio naturalis. Tale lumen proviene direttamente da Dio. Nel De scientia Christi il francescano afferma a chiare lettere, basandosi sulle parole e l’autorità di Agostino, che la mente, nella sua conoscenza certa deve essere guidata da norme immutabili ed eterne, non da una sua disposizione (habitus). Il nostro intelletto risulta quindi congiunto con la Verità eterna. Attraverso l’analisi dell’Itinerarium è possibile stabilire quali siano le condizioni a priori della conoscenza umana. Il mondo esterno entra nell’anima attraverso i sensi, producendo nell’essere umano l’apprendimento, il giudizio e il diletto. Nell’anima entrano tuttavia non le sostanze stesse delle cose, bensì le species, cioè le immagini delle cose. Il giudizio astrae la specie sensibile, portandola dai sensi all’intelletto. Già l’atto del giudizio implica l’illuminazione divina: infatti il giudizio è l’atto della ragione che astrae dal luogo e dal mutamento. Quindi il giudizio è eterno, e ciò che è eterno è Dio stesso. Le species astratte dal giudizio sono l’oggetto dell’attività intellettuale, che si esplica in tre momenti: la percezione dei termini, delle proposizioni e delle illazioni. La percezione dei termini procede la successiva definizione di un termine con il ricorso ad un termine superiore, cioè più esteso, fino ad arrivare a termini supremi per estensione. Il termine più esteso è quello di essere. L’essere può essere anche imperfetto; ma poiché, secondo quanto afferma Averroè, la negazione non può intendersi se non in base all’affermazione, possiamo comprendere l’imperfezione dell’essere solo in relazione all’Essere completissimo, attualissimo e purissimo. Così funzionano anche gli altri due tipi di comprensione: la nostra mente, per natura mutevole, non potrebbe comprendere la verità immutabile delle proposizioni, se non per illuminazione di una luce immutabile, né potrebbe, senza questa luce, formulare delle illazioni in cui le conclusioni discendono direttamente dalle premesse. L’intelletto è subordinato alla volontà per una iniziale spinta al bene detta sinderesi. Nell’Itinerarium la sinderesi è l’apex mentis ed è fatta coincidere con l’ultimo grado dell’ascesa a Dio, che precede di poco il rapimento finale.
Metafisica e teologia. Bonaventura accoglie il principio dell’ilemorfismo universale da Avicebron e dall’aristotelismo ebraico. Una materia deve essere attribuita non solo agli esseri corporei, ma anche a quelli spirituali. L’essere spirituale risulta quindi non essere affatto semplice: è composto di potenza ed atto, traducibili con materia e forma. La materia spirituale non è soggetta, come quella delle cose corporee, alla privazione e alla corruzione: non è estesa, non è quantitativa, generabile o corruttibile. Essa è pura potenza e costituisce, con la materia corporea, un’unica materia omogenea. Questa dottrina diventa uno dei capisaldi dell’agostinismo francescano. Ogni essere creato è quindi costituito di materia e forma. Ma quale sarà la sua individuazione? Non dipenderà da un principio esterno, ma dall’unione e dalla communicatio tra la materia e la forma. La materia è per il Doctor seraphicus potenza non solo passiva, ma anche attiva, capace di trarre da sé le forme. La potenza attiva della materia è la ratio seminalis. La luce è la prima forma di tutti i corpi, a questa forma si aggiunge l’informatio specialis di ciascun esistente attraverso le successive forme che costituiscono gli esseri nella loro concretezza. Secondo Bonaventura la natura interessa come luogo della manifestazione di Dio. È questa la tesi dell’esemplarismo, che indaga il mondo creato per ritrovarvi le orme di Dio. In questo senso la natura, l’insieme delle creature, può costituire una delle « vie » della dimostrazione dell’esistenza di Dio: non però l’unica né la privilegiata. Nella Quaestio disputata de mysterio Trinitatis, che risale agli anni 1253-57 (gli anni dell’insegnamento parigino) Bonaventura si chiede se l’esistenza di Dio sia una verità indubitabile e risponde di sì, seguendo una « triplice via »: sostiene infatti che (1) è una verità naturalmente impressa in ogni intelligenza; (2) è proclamata da ogni creatura; (3) è verissima e certissima in se stessa. Nella prima e nella terza via l’esistenza di Dio è in verità, più che dimostrata, mostrata intuitivamente, seguendo un percorso per molti aspetti vicino a quello di Anselmo d’Aosta, il cui Proslogion è richiamato più di una volta. La seconda via si sviluppa secondo dieci argomenti, di cui a mo’ di esempio ricordiamo il primo: se c’è un ente che viene dopo, c’è un ente che viene prima; ma il primo relativo rinvia a un primo assoluto, che è Dio; nelle creature c’è un prima e un dopo, dunque c’è un primo principio.
Itinerarium mistico. L’Itinerarium vuol essere una guida per ascendere alla contemplazione di Dio attraverso i gradini scanditi dal carattere di vestigium e di imago Dei della realtà, rispettivamente infraumana e umana, per compiere poi il balzo oltre l’umano (supra nos). È stato già detto come, relativamente all’Itinerarium e agli opuscoli mistici, i veri punti di riferimento siano Bernardo e i Vittorini. Al pari di Ugo di San Vittore, Bonaventura ravvisa tre occhi o facoltà della mente umana: il primo occhio è rivolto alle cose esterne ed è la sensibilità; il secondo è lo spirito, rivolto a se stesso; l’ultimo, rivolto al disopra di sé, è la mente. Ognuna di queste facoltà può scorgere Dio per speculum, cioè attraverso l’immagine di Dio riflessa negli enti creati, o in speculo, cioè attraverso la traccia che l’essere di Dio lascia nelle cose stesse. Le facoltà determinano sei potenze dell’anima. Seguendo il cisterciense Isacco della Stella, Bonaventura enumera le sei potenze: il senso, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, l’apex mentis o scintilla della sinderesi. Ad ognuna di queste potenze dell’anima corrisponde uno dei sei gradi dell’ascesa dell’anima a Dio. Nel primo le cose sono considerate nel loro ordine, nella loro bellezza e nella loro origine divina. Il secondo grado coincide nella considerazione delle cose nell’anima umana che ne apprende le species e le purifica, astraendole dalle condizioni sensibili, attraverso il giudizio. Nel terzo grado si contempla l’immagine di Dio nella memoria, intelletto e volontà, poteri naturali dell’anima. Nel quarto si contempla Dio nell’anima umana illuminata e perfezionata dalle tre virtù teologali. Nel quinto Dio è contemplato nel suo primo attributo, l’essere. Nel sesto Dio è contemplato nella sua massima potenza, il bene, per il quale si diffonde nelle tre persone della Trinità. Al termine di questa fase “attiva” di ascesa a Dio, l’anima completa e perfeziona la sua ascesa mistica attraverso l’attuazione di una sorta di trascendenza radicale rispetto alle cose e a se stessa, e tramite l’abbandono di tutte le operazioni intellettuali per porre tutto l’affetto in Dio. Questa è la condizione di estasi (excessus mentis), descritta da Bonaventura con le parole dello ps. Dionigi: una sorta di docta ignorantia, un momento non più intellettuale, ma unione vivente dell’uomo con Dio, attraverso la quale l’uomo è ammesso a penetrare l’essenza del suo Creatore. (EC)

PAPA BENEDETTO, INCONTRO CON I SEMINARISTI DI FREIBURG, SU UNO SCRITTO DI SAN BONAVENTURA

http://www.gliscritti.it/blog/entry/1045

« SAN BONAVENTURA DISSE UNA VOLTA CHE GLI ANGELI, OVUNQUE VADANO, PER QUANTO LONTANO, SI MUOVONO SEMPRE ALL’INTERNO DI DIO ».  L’INCONTRO DI BENEDETTO XVI CON I SEMINARISTI DEL SEMINARIO DI FREIBURG IM BREISGAU

Riprendiamo sul nostro sito il discorso di Benedetto XVI nell’incontro con i seminaristi nella Cappella di San Carlo Borromeo del Seminario di Freiburg im Breisgau, del 24 settembre 2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. 

Il Centro culturale Gli scritti (26/9/2011)

Cari seminaristi, cari fratelli e sorelle!
È per me una grande gioia poter incontrarmi qui con giovani, che si incamminano per servire il Signore; che ascoltano la sua chiamata e vogliono seguirlo. Vorrei ringraziare in modo particolarmente caloroso per la bella lettera, che il Rettore del seminario e i seminaristi mi hanno scritto. Mi ha veramente toccato il cuore vedere come avete riflettuto sulla mia lettera e su di essa avete sviluppato le vostre domande e risposte; con quale serietà accogliete ciò che ho tentato di proporre e, in base a questo, sviluppate la vostra propria via.
Certamente la cosa più bella sarebbe se potessimo avere un dialogo insieme, ma l’orario del viaggio, al quale sono obbligato e devo obbedire, purtroppo, non permette cose del genere. Posso quindi soltanto cercare di sottolineare ancora una volta alcuni pensieri alla luce di ciò che avete scritto e di ciò che io avevo scritto.
Nel contesto della domanda: “Di che cosa fa parte il seminario; che cosa significa questo periodo?” in fondo, mi colpisce sempre più di tutto il modo in cui san Marco, nel terzo capitolo del suo Vangelo, descrive la costituzione della comunità degli Apostoli: “Il Signore fece i Dodici”. Egli crea qualcosa, Egli fa qualcosa, si tratta di un atto creativo.
Ed Egli li fece, “perché stessero con Lui e per mandarli” (cfr Mc 3,14): questa è una duplice volontà che, sotto certi aspetti, sembra contraddittoria. “Perché stessero con Lui”: devono stare con Lui, per arrivare a conoscerlo, per ascoltarlo, per lasciarsi plasmare da Lui; devono andare con Lui, essere con Lui in cammino, intorno a Lui e dietro di Lui. Ma allo stesso tempo devono essere degli inviati che partono, che portano fuori ciò che hanno imparato, lo portano agli altri uomini in cammino – verso la periferia, nel vasto ambiente, anche verso ciò che è molto lontano da Lui.
E tuttavia, questi aspetti paradossali vanno insieme: se essi sono veramente con Lui, allora sono sempre anche in cammino verso gli altri, allora sono in ricerca della pecorella smarrita, allora vanno lì, devono trasmettere ciò che hanno trovato, allora devono farLo conoscere, diventare inviati. E viceversa: se vogliono essere veri inviati, devono stare sempre con Lui. San Bonaventura disse una volta che gli Angeli, ovunque vadano, per quanto lontano, si muovono sempre all’interno di Dio.
Così è anche qui: come sacerdoti dobbiamo uscire fuori nelle molteplici strade in cui si trovano gli uomini, per invitarli al suo banchetto nuziale. Ma lo possiamo fare solo rimanendo sempre presso di Lui. Ed imparare ciò, questo insieme di uscire fuori, di essere mandati, e di essere con Lui, di rimanere presso di Lui, è – credo – proprio ciò che dobbiamo imparare nel seminario. Il modo giusto del rimanere con Lui, il venire profondamente radicati in Lui – essere sempre di più con Lui, conoscerLo sempre di più, sempre di più non separarsi da Lui – e al contempo uscire sempre di più, portare il messaggio, trasmetterlo, non tenerlo per sé, ma portare la Parola a coloro che sono lontani e che, tuttavia, in quanto creature di Dio e amati da Cristo, portano nel cuore il desiderio di Lui.
Il seminario è dunque un tempo dell’esercitarsi; certamente anche del discernere e dell’imparare: Egli mi vuole per questo? La vocazione deve essere verificata, e di questo fa poi parte la vita comunitaria e fa parte naturalmente il dialogo con le guide spirituali che avete, per imparare a discernere ciò che è la sua volontà. E poi apprendere la fiducia: se Egli lo vuole veramente, allora posso affidarmi a Lui. Nel mondo di oggi, che si trasforma in modo incredibile e in cui tutto cambia continuamente, in cui i legami umani si scindono perché avvengono nuovi incontri, diventa sempre più difficile credere: io resisterò per tutta la vita. Già per noi, ai nostri tempi, non era tanto facile immaginare quanti decenni Dio avrebbe forse inteso darmi, quanto sarebbe cambiato il mondo.
Persevererò con Lui così come Gliel’ho promesso?… È una domanda che, appunto, esige la verifica della vocazione, ma poi – più riconosco: sì, Egli mi vuole – anche la fiducia: se mi vuole, allora anche mi sorreggerà; nell’ora della tentazione, nell’ora del pericolo sarà presente e mi darà persone, mi mostrerà vie, mi sosterrà. E la fedeltà è possibile, perché Egli è sempre presente, e perché Egli esiste ieri, oggi e domani; perché Egli non appartiene soltanto a questo tempo, ma è futuro e può sorreggerci in ogni momento.
Un tempo di discernimento, di apprendimento, di chiamata… E poi, naturalmente, in quanto tempo dell’essere con Lui, tempo di preghiera, di ascolto di Lui. Ascoltare, imparare ad ascoltarlo veramente – nella Parola della Sacra Scrittura, nella fede della Chiesa, nella liturgia della Chiesa – ed apprendere l’oggi nella sua Parola. Nell’esegesi impariamo tante cose sull’ieri: tutto ciò che c’era allora, quali fonti vi sono, quali comunità esistevano e così via. Anche questo è importante. Ma più importante è che in questo ieri noi apprendiamo l’oggi; che Egli con queste parole parla adesso e che esse portano tutte in sé il loro oggi, e che, al di là del loro inizio storico, recano in sé una pienezza che parla a tutti i tempi.
Ed è importante imparare questa attualità del suo parlare – imparare ad ascoltare – e così poterne parlare agli altri uomini. Certo, quando si prepara l’omelia per la Domenica, questo parlare… , o Dio, è spesso così lontano! Se io, però, vivo con la Parola, allora vedo che non è affatto lontana, è attualissima, è presente adesso, riguarda me e riguarda gli altri. E allora imparo anche a spiegarla. Ma per questo occorre un cammino costante con la Parola di Dio.
Lo stare personalmente con Cristo, con il Dio vivente, è una cosa; l’altra cosa è che sempre soltanto nel “noi” possiamo credere. A volte dico: san Paolo ha scritto: “La fede viene dall’ascolto” – non dal leggere. Ha bisogno anche del leggere, ma viene dall’ascolto, cioè dalla parola vivente, dalle parole che gli altri rivolgono a me e che posso sentire; dalle parole della Chiesa attraverso tutti i tempi, dalla parola attuale che essa mi rivolge mediante i sacerdoti, i Vescovi e i fratelli e le sorelle.
Fa parte della fede il “tu” del prossimo, e fa parte della fede il “noi”. E proprio l’esercitarsi nella sopportazione vicendevole è qualcosa di molto importante; imparare ad accogliere l’altro come altro nella sua differenza, ed imparare che egli deve sopportare me nella mia differenza, per diventare un “noi”, affinché un giorno anche nella parrocchia possiamo formare una comunità, chiamare le persone ad entrare nella comunanza della Parola ed essere insieme in cammino verso il Dio vivente.
Fa parte di ciò il “noi” molto concreto, come lo è il seminario, come lo sarà la parrocchia, ma poi sempre anche il guardare oltre il “noi” concreto e limitato al grande “noi” della Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, per non fare di noi stessi il criterio assoluto. Quando diciamo: “Noi siamo Chiesa” – sì, è vero: siamo noi, non qualunque persona. Ma il “noi” è più ampio del gruppo che lo sta dicendo. Il “noi” è l’intera comunità dei fedeli, di oggi e di tutti i luoghi e tutti i tempi.
E dico poi sempre: nella comunità dei fedeli, sì, lì esiste, per così dire, il giudizio della maggioranza di fatto, ma non può mai esserci una maggioranza contro gli Apostoli e contro i Santi: ciò sarebbe una falsa maggioranza. Noi siamo Chiesa: Siamolo! Siamolo proprio nell’aprirci e nell’andare al di là di noi stessi e nell’esserlo insieme con gli altri!
Credo che, in base all’orario, dovrei forse concludere. Vorrei soltanto dirvi ancora una cosa. La preparazione al sacerdozio, il cammino verso di esso, richiede anzitutto anche lo studio. Non si tratta di una casualità accademica che si è formata nella Chiesa occidentale, ma è qualcosa di essenziale. Sappiamo tutti che san Pietro ha detto: “Siate sempre pronti ad offrire a chiunque vi domandi, come risposta, la ragione, il logos della vostra fede” (cfr 1Pt 3,15).
Il nostro mondo oggi è un mondo razionalistico e condizionato dalla scientificità, anche se molto spesso si tratta di una scientificità solo apparente. Ma lo spirito della scientificità, del comprendere, dello spiegare, del poter sapere, del rifiuto di tutto ciò che non è razionale, è dominante nel nostro tempo. C’è in questo pure qualcosa di grande, anche se spesso dietro si nasconde molta presunzione ed insensatezza. La fede non è un mondo parallelo del sentimento, che poi ci permettiamo come un di più, ma è ciò che abbraccia il tutto, gli dà senso, lo interpreta e gli dà anche le direttive etiche interiori, affinché sia compreso e vissuto in vista di Dio e a partire da Dio.
Per questo è importante essere informati, comprendere, avere la mente aperta, imparare. Naturalmente, fra vent’anni saranno di moda teorie filosofiche totalmente diverse da quelle di oggi: se penso a ciò che tra noi era la più alta e la più moderna moda filosofica e vedo come tutto ciò ormai sia dimenticato… Ciononostante non è inutile imparare queste cose, perché in esse ci sono anche elementi durevoli. E soprattutto con ciò impariamo a giudicare, a seguire mentalmente un pensiero – e a farlo in modo critico – ed impariamo a far sì che, nel pensare, la luce di Dio ci illumini e non si spenga.
Studiare è essenziale: soltanto così possiamo far fronte al nostro tempo ed annunciare ad esso il logos della nostra fede. Studiare anche in modo critico – nella consapevolezza, appunto, che domani qualcun altro dirà qualcosa di diverso – ma essere studenti attenti ed aperti ed umili, per studiare sempre con il Signore, dinanzi al Signore e per Lui.
Sì, potrei dire ancora tante cose, e dovrei forse farlo… Ma ringrazio per l’ascolto. E nella preghiera tutti i seminaristi del mondo sono presenti nel mio cuore – non così bene, con i singoli nomi, come li ho ricevuti qui, ma tuttavia in un cammino interiore verso il Signore: che Egli benedica tutti, a tutti dia luce ed indichi loro la strada giusta, e ci doni molti buoni sacerdoti. Grazie di cuore.

UN INEDITO DI RATZINGER TEOLOGO – È LA SUA TESI DI DOTTORATO SU SAN BONAVENTURA – DI SANDRO MAGISTER

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1340075

UN INEDITO DI RATZINGER TEOLOGO. DI 54 ANNI FA, MA SEMPRE ATTUALE

È LA SUA TESI DI DOTTORATO SU SAN BONAVENTURA E LA TEOLOGIA DELLA STORIA. CON SULLO SFONDO LA VISIONE DI GIOACCHINO DA FIORE E DI UNA NUOVA CHIESA TUTTA « SPIRITUALE ». IL TESTO INTEGRALE DELLA PREFAZIONE SCRITTA OGGI DAL PAPA

DI SANDRO MAGISTER

ROMA, 18 settembre 2009 – La pubblicazione in tedesco delle « opera omnia » di Joseph Ratzinger prosegue a ritmo accelerato. Dei sedici tomi previsti, il primo è uscito meno di un anno fa. Il secondo è stato presentato al suo autore domenica 13 settembre a Castel Gandolfo (vedi foto). Un terzo uscirà a novembre.
L’interesse del primo volume – propriamente l’undicesimo tomo del disegno generale  – era accresciuto dal desiderio dell’autore di ripubblicare per primi i suoi scritti riguardanti la liturgia, da lui definita nella prefazione « attività centrale della mia vita ».
L’interesse di questo secondo volume sta invece nel fatto che dà finalmente alle stampe un testo di Ratzinger che era rimasto fin qui inedito nella sua integralità: la tesi da lui presentata nel 1955 per l’abilitazione alla libera docenza di teologia nelle università tedesche.
Dopo i primi studi su sant’Agostino, al giovane teologo Ratzinger fu proposto di indagare sul più agostiniano dei teologi medievali, il francescano san Bonaventura da Bagnoregio, e in particolare sulle sue tesi riguardanti la divina rivelazione e la teologia della storia.
Ratzinger si impegnò a fondo nella ricerca. E scoprì che in Bonaventura c’era un forte legame con la visione di Gioacchino da Fiore, il francescano che aveva profetizzato l’avvento imminente di una terza età dopo quelle del Padre e del Figlio, una età dello Spirito, con una Chiesa rinnovata e tutta « spirituale », povera, riconciliata con greci ed ebrei, in un mondo restituito alla pace.
La tesi non piacque a uno degli esaminatori, il professor Michael Schmaus. Ma Ratzinger si salvò dalla bocciatura ripresentando la sola seconda parte del suo scritto, che non aveva raccolto obiezioni. Negli anni successivi si ripromise di curare una nuova pubblicazione aggiornata del tutto, ma non vi riuscì. Da cardinale si ripromise di occuparsene quando sarebbe andato in pensione. Ma fu eletto papa e il proposito inesorabilmente sfumò.
Ripubblicata ora nella sua stesura originale e integrale, la tesi appare qua e là superata dagli studi successivi. Ratzinger lo riconosce. Ma ritiene che « la questione dell’essenza della Rivelazione, che è il tema del libro, ha ancora oggi una urgenza, forse anche maggiore che in passato ».
A leggere la sua prefazione a questo secondo volume delle « opera omnia » – riprodotta più sotto –  si ricava che Benedetto XVI giudica tuttora attuale la sfida che Bonaventura dovette affrontare come superiore generale dell’ordine francescano: la « tensione drammatica fra i ‘realisti’ che volevano utilizzare l’eredità di san Francesco secondo le possibilità concrete della vita dell’ordine quale era stata tramandata, e gli ‘spirituali’ che invece puntavano alla novità radicale di un periodo storico nuovo ».
Henri De Lubac, uno dei più grandi teologi cattolici del Novecento, dedicò un imponente saggio in due volumi a quella che chiamò « la posterità intellettuale di Gioacchino da Fiore ».
A giudizio di De Lubac, la visione di Gioacchino – il frate « di spirito profetico donato » che Dante collocò nel Paradiso – ha traversato i secoli e continua a influenzare larga parte della cultura d’oggi, anche cattolica: una cultura che sogna « una nuova Chiesa in cui l’amore deve prendere il posto della legge ».
Tutto l’opposto di quella « Caritas in veritate » che intitola l’ultima enciclica di Benedetto XVI e che innerva l’intero suo magistero.
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PREFAZIONE AL SECONDO VOLUME DEI MIEI SCRITTI

DI JOSEPH RATZINGER

Dopo la pubblicazione dei miei scritti sulla liturgia segue ora nell’edizione generale delle mie opere un libro con studi sulla teologia del grande francescano e dottore della Chiesa Bonaventura Fidanza. Fin dall’inizio è stato evidente che quest’opera avrebbe contenuto anche i miei studi sul concetto di Rivelazione in san Bonaventura, condotti assieme all’interpretazione della sua teologia della storia, negli anni 1953-1955, ma finora inediti.
Per completare tutto questo lavoro il manoscritto avrebbe dovuto essere rivisto e corretto secondo le moderne modalità editoriali, cosa che io non mi sono sentito in grado di fare. La professoressa Marianne Schlosser di Vienna, profonda conoscitrice della teologia medievale e in particolare delle opere di san Bonaventura, si è degnamente offerta di svolgere tale lavoro necessario e di certo non facile. Per questo non posso che ringraziarla di tutto cuore. Discutendo del progetto ci siamo subito trovati d’accordo che non si sarebbe tentato di rielaborare il libro dal punto di vista contenutistico e di portare la ricerca allo stato attuale. Più di mezzo secolo dopo la stesura del testo, questo avrebbe significato in pratica scrivere un nuovo libro. Inoltre desideravo fosse un’edizione « storica », che offrisse così com’era un testo concepito in un lontano passato, lasciando alla ricerca la possibilità di trarne utilità anche oggi. Della cura editoriale svolta tratta l’introduzione della professoressa Schlosser, che con i suoi collaboratori ha investito molto tempo e molto impegno dedicato all’allestimento di un’edizione storica del testo, confidando nel fatto che teologicamente e storicamente valesse la pena renderlo accessibile a tutti nella sua interezza.
Nella seconda parte del libro viene nuovamente presentata « La teologia della storia di san Bonaventura » come fu pubblicata nel 1959. I saggi che seguono sono tratti, con poche eccezioni, dallo studio sull’interpretazione della Rivelazione e della teologia della storia. In alcuni casi sono stati adattati per poter costituire un testo in sé completo, modificandoli leggermente secondo il contesto.
L’idea di aggiornare il manoscritto e presentarlo come libro al pubblico dovetti abbandonarla temporaneamente assieme al progetto di uno studio commentato dell’ »Hexameron », perché l’attività di esperto conciliare e le esigenze della mia docenza accademica erano così impegnative  da  rendere  impensabile la ricerca medievalistica. Nel periodo postconciliare la situazione teologica mutata e la nuova situazione nell’università tedesca mi assorbirono così tanto che rimandai il lavoro su Bonaventura al periodo successivo al pensionamento. Nel frattempo il Signore mi ha condotto lungo altre vie e così il libro viene pubblicato ora nella sua forma presente. Auspico che altri possano svolgere il compito di commentare l’ »Hexameron ».
In un primo momento l’esposizione del tema dell’opera potrebbe apparire sorprendente e di fatto lo è. Dopo la mia tesi sul concetto di Chiesa di sant’Agostino, il mio maestro Gottlieb Söhngen mi propose di dedicarmi al medioevo e in particolare alla figura di san Bonaventura, che fu il più significativo rappresentante della corrente agostiniana nella teologia medievale.
Per quanto riguarda il contenuto, ho dovuto affrontare la seconda importante questione di cui si occupa la teologia fondamentale, ovvero il tema della Rivelazione. A quel tempo, in particolare a motivo della celebre opera di Oscar Cullmann « Christus und die Zeit [Cristo e il tempo] » (Zürich, 1946), il tema della storia della salvezza, specialmente il suo rapporto con la metafisica, era diventato il punto focale dell’interesse teologico. Se la Rivelazione nella teologia neoscolastica era stata intesa essenzialmente come trasmissione divina di misteri, che restano inaccessibili all’intelletto umano, oggi la Rivelazione viene considerata una manifestazione di sé da parte di Dio in un’azione storica e la storia della salvezza viene vista come elemento centrale della Rivelazione. Mio compito era quello di cercare di scoprire come Bonaventura avesse inteso la Rivelazione e se per lui esistesse qualcosa di simile a un’idea di « storia della salvezza ».
È stato un compito difficile. La teologia medievale non possiede alcun trattato « de Revelatione », sulla Rivelazione, come invece accade nella teologia moderna. Inoltre, dimostrai subito che la teologia medievale non conosce neanche un termine per esprimere da un punto di vista contenutistico il nostro moderno concetto di Rivelazione. La parola « revelatio », che è comune alla neoscolastica e alla teologia medievale, non significa, come si è andato evidenziando, la stessa cosa nella teologia medievale e in quella moderna. Per questo ho dovuto cercare le risposte alla mia impostazione del problema in altre forme linguistiche e di pensiero e addirittura modificarla rispetto a quando mi ero avvicinato all’opera di Bonaventura. Innanzitutto bisognava condurre difficili ricerche sul suo linguaggio. Ho dovuto accantonare i nostri concetti per capire cosa Bonaventura intendesse per Rivelazione. In ogni caso si è dimostrato che il contenuto concettuale di Rivelazione si adattava a un gran numero di concetti:  « revelatio », « manifestatio », « doctrina », « fides », e così via. Soltanto una visione d’insieme di questi concetti e delle loro asserzioni fa comprendere l’idea di Rivelazione in Bonaventura.
Il fatto che nella dottrina medievale non esistesse alcun concetto di « storia della salvezza » nel senso attuale del termine, è stato chiaro fin dall’inizio. Tuttavia due indizi dimostrano che in Bonaventura era presente il problema della rivelazione come cammino storico.
Innanzitutto si è presentata la doppia figura della Rivelazione come Antico e Nuovo Testamento, che ha posto la questione della sintonia fra l’unità della verità e la diversità della mediazione storica posta sin dall’età patristica e poi affrontata anche dai teologi medievali.
A questa forma classica della presenza del problema del rapporto tra storia e verità, che Bonaventura condivide con la teologia del suo tempo e che tratta a suo modo, si aggiunge in lui anche la novità del suo punto di vista storico, nel quale la storia, che è proseguimento dell’opera divina, diviene una sfida drammatica.
Gioacchino da Fiore (morto nel 1202) aveva insegnato un ritmo trinitario della storia. All’età del Padre (Antico Testamento) e all’età del Figlio (Nuovo Testamento, Chiesa) doveva seguire un’età dello Spirito Santo, nella quale con l’osservanza del Discorso della Montagna si sarebbero manifestati spirito di povertà, riconciliazione fra greci e latini, riconciliazione fra cristiani ed ebrei, e sarebbe giunto un tempo di pace. Grazie a una combinazione di cifre simboliche l’erudito abate aveva predetto l’inizio di una nuova età nel 1260. Intorno al 1240 il movimento francescano si imbatté in questi scritti che su molti ebbero un effetto elettrizzante: questa nuova età non era forse iniziata con san Francesco d’Assisi? Per questo motivo all’interno dell’Ordine si venne a creare una tensione drammatica fra « realisti », che volevano utilizzare l’eredità di san Francesco secondo le possibilità concrete della vita dell’Ordine quale era stata tramandata, e « spirituali », che invece puntavano alla novità radicale di un periodo storico nuovo.
Come ministro generale dell’Ordine, Bonaventura dovette affrontare l’enorme sfida di questa tensione, che per lui non era una questione accademica, ma un problema concreto del suo incarico di settimo successore di san Francesco. In questo senso la storia fu improvvisamente tangibile come realtà e come tale dovette essere affrontata con l’azione reale e con la riflessione teologica. Nel mio studio ho cercato di spiegare in che modo Bonaventura affrontò questa sfida e mise in rapporto la storia della salvezza con la Rivelazione.
Dal 1962 non avevo più ripreso in mano lo scritto. Quindi per me è stato entusiasmante rileggerlo dopo così tanto tempo. È chiaro che l’impostazione del problema così come il linguaggio del libro sono influenzati dalla realtà degli anni Cinquanta. Oltre tutto per le ricerche linguistiche non esistevano i mezzi tecnici che abbiamo ora. Per questo motivo l’opera ha i suoi limiti ed è evidentemente influenzata dal periodo storico in cui è stata concepita. Tuttavia, rileggendola ho ricavato l’impressione che le sue risposte siano fondate, sebbene superate in molti dettagli, e che ancora oggi abbiano qualcosa da dire. Soprattutto mi sono reso conto che la questione dell’essenza della Rivelazione e il fatto di riproporla, che è il tema del libro, hanno ancora oggi una loro urgenza, forse anche maggiore che in passato.
Al termine di questa prefazione desidero aggiungere al ringraziamento alla professoressa Schlosser anche quello al vescovo di Ratisbona Gerhard Ludwig Müller, che attraverso la fondazione dell’Institut Papst Benedikt XVI. ha reso possibile la pubblicazione di quest’opera e ha seguito, con attiva partecipazione, il processo editoriale dei miei scritti. Ringrazio inoltre i collaboratori dell’Istituto, il professor Rudolf Voderholzer, il dottor Christian Schaller, i signori Franz-Xaver Heibl e Gabriel Weiten. Non da ultimo ringrazio l’editrice Herder, che si è occupata della pubblicazione di questo libro con l’accuratezza che la caratterizza.

Dedico l’opera a mio fratello Georg per il suo ottantacinquesimo compleanno, grato per la comunione di pensiero e di cammino di tutta una vita.

Roma, solennità dell’Ascensione di Cristo 2009.

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