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L’IMITAZIONE DI CRISTO SOFFERENTE – DI TOMÁŠ ŠPIDLÍK

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L’IMITAZIONE DI CRISTO SOFFERENTE – DI TOMÁŠ ŠPIDLÍK

“Un cristiano – dice San Giovanni Climaco – è uno che imita Cristo nella misura possibile all’uomo, in parole, in azioni, e in pensieri”. I semplici cristiani non devono credere facilmente di essere capaci di stati mistici. Ma una cosa è certa. La me­ditazione di Cristo sofferente non deve degenerare in qualche ‘dolorismo’ non naturale. Deve, al contrario, aiutarci a scoprire il senso positivo del dolore umano… Nelle scuole dell’antico impero romano c’era anche un programma di insegnamento morale. Lo si faceva in modo molto concreto. Si proponevano ai giovani esempi da seguire: dei saggi, degli eroi morti per la patria, dei grandi strateghi, e degli uomini di governo. Quando dopo la pace di Costantino l’impero divenne ufficialmente cristiano, questo programma non corrispondeva più alle esigenze dei tempi. Si cercarono quindi di sostituire questi esempi pagani con esempi cristiani, cioè con i santi  sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, dei martiri e dei cristiani perfetti apparsi nella storia della Chiesa. Essi furono commemorati anche nella liturgia. Si è formato anche un calendario che propone l’esempio di un determinato santo quel giorno o quell’altro dell’anno. Nello stesso tempo i fedeli furono convinti che i santi sono come “un riflesso del sole e dell’acqua”. Qui si può osservare la luce senza essere accecati dallo splendore. Ma resta pur vero che il primo esempio ad essere contemplato e seguito è  lo stesso Gesù Cristo.I suoi primi discepoli non avevano altro libro da imparare che tenere davanti ai loro occhi ciò che avevano veduto nel loro Maestro. Perciò nella storia della spiritualità il tema della imitazione di Cristo occupa un posto importante. “Un cristiano – dice San Giovanni Climaco – è uno che imita Cristo nella misura possibile all’uomo, in parole, in azioni, e in pensieri”. Eppure ogni tanto venne qualche dubbio e qualche obiezione contro questo ideale. Lo espresse presempio Martin Lutero. Pensava che uno che imita un altro finisce per vederlo davanti a sè, separato da sè. In tal modo Cristo appare un ideale così sublime che l’uomo non può pretendere di essere capace imitarlo. Bisogna quindi che Cristo sia non “davanti a noi”, ma “dentro di noi”. In altre parole si dice, dobbiamo vivere non “secondo Cristo”, ma “in Cristo”, identificarci con Lui. Così si esprime già San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). La risposta a queste obiezioni è facile. E’ certo che Cristo non si può imitare come qualche eroe umano. Non ne abbiamo la forza. Ma i cristiani sono consapevoli che Cristo vive in loro per mezzo del suo Spirito ricevuto nel battesimo ed è in forza di questo Spirito che possiamo imitarlo secondo le nostre possibilità, lasciando che Lui stesso compia la sua opera in noi. I predicatori amano illustrare questo aspetto con un esempio. Si racconta che un giovane pittore sia stato un grande ammiratore del famoso maestro Domenichino. Decise di imitare uno dei suoi quadri in una chiesa. Lavorava con successo fino a quando doveva riprodurre il volto della persona. Per quanti sforzi facesse, il risultato era sempre negativo, usciva fuori sempre un volto differente. Disperato, buttò il pannello per terra. In quel momento si avvicinò un vecchio signore che già da lungo lo osservava, prese il pennello e con poca fatica finì il quadro. E questa volta era la vera riproduzione del grande maestro. Il giovane lo gurdò sbalordito: “Signore, lei è un angelo!”. Il vecchio sorrise: “No non sono un angelo, sono Domenichino”. I santi hanno una simile esperienza. Dopo tanti fallimenti e dopo tante debolezze, sentono che Cristo vive in loro e che Lui stesso dipinge la sua immagine nel loro cuore. I pittori umani insegnano ai loro discepoli il metodo da seguire, il Mestro divino comunica a loro anche il suo talento. Allora la via della imitazione di Cristo diventa facile. Lo si può illustrare con un altro esempio. La leggenda racconta che il santo principe Venceslao portava ai poveri legna e cibo nel duro inverno e in questa occasione andava a piedi nudi attraverso la neve. Il paggio che lo seguiva non sopportava il freddo e si lamentava. Allora il santo gli consigliò di mettere i suoi piedi accuratamente nelle sue tracce, nelle impronte sulla neve. Facendo così il paggio si sentì meravigliosamente riscaldato. Frequentemente nei luoghi di pellegrinaggio è costruita una Via Crucis in forma vistosa. Ad ogni “stazione”  è consacrata una cappella speciale. Le preghiere cor­rispondenti esortano i fedeli a meditare sui diversi mo­menti della passione del Salvatore e a riflettere sulla pro­pria vita, perché anch’essa è un cammino doloroso, ad imitazione di Gesù. Del resto una Via crucis si osserva in tutte le chiese cattoliche di rito latino. Ma si sentono anche voci contrarie. Alcuni fanno obiezioni contro questo ‘dolorismo’ medievale e porta­no l’esempio delle icone delle Chiese orientali dove Cri­sto è rappresentato come glorioso, cioè come colui che ha vinto il male e tutte le sue conseguenze. Vederlo so­lo nella nella sua sofferenza diminuisce il suo valore e dissua­de dalla gioia di seguirlo. Inoltre vi si nota un modo di pensare troppo analitico che separa due aspetti di per sé indivisibili. Nella vita di Cristo vi è una “umiliazione fino alla morte’ e insieme la ‘glorificazione’ infinita. Sa­rebbero una ‘dopo’ l’altra, o vanno piuttosto insieme? Nella prima metà di questo secolo il teologo orien­tale Sergej Bulgakov propose la sua spiegazione della ke­nosi di Cristo interpretando il testo fondamentale di San Paolo ai Filippesi: «Cristo Gesù, pur essendo di na­tura divina… spogliò se stesso (in greco ekenosen, lette­ralmente: evacuò se stesso), facendosi obbediente fino alla morte e alla morte della croce; per questo Dio l’ha esaltato…» (Fil 2,5 ss). L’autore non vuol negare 1′inse­gnamento tradizionale secondo il quale Cristo ha sof­ferto eroicamente come uomo. Tuttavia, per compren­dere la sofferenza dell’uomo, si deve partire da Cristo Dio, non vi può essere una incoerenza fra l’atteggiamento umano e l’atteggiamento divino. Anche nella vita divina in seno alla SS. Trinità il Fi­glio si ‘spoglia’, non tiene niente come proprio, rice­vendo tutto il pensiero, tutta la volontà dal Padre. Ma questa ‘umiliazione celeste’ costituisce la sua gloria e la sua beatitudine infinita, senza qualsiasi traccia di sof­ferenza. Incarnandosi, facendosi uomo, Cristo trasferi­sce questo stesso atteggiamento nella realtà del mondo peccaminoso che si ribella al Padre.  Ed a causa di que­sta resistenza del mondo peccaminoso, l’umiliazione del Figlio di Dio comporta la sofferenza che è insepara­bile da ogni situazione peccaminosa. Ma con questo non dobbiamo immaginarci che la beatitudine di Cristo Dio non esista più. In modo misterioso, la sofferenza e la beatitudine sono unite. La beatitudine è come un fuo­co che progressivamente brucia la sofferenza per arri­vare allo stato glorioso anche nell’umanità. Questo vale solo per il Cristo individuale o anche per il Cristo mistico, per i suoi santi? I diari dei mistici ci insegnano che anche nella loro vita le grandi sofferen­ze si trasformavano in una gioia indicibile. Solo così poteva scrivere santa Teresa d’Avila: «O patire o mori­re», cioè senza la sofferenza la vita non mi interessa più. In altro luogo attesta che soffriva molto, ma che Dio non l’ha mai lasciata patire senza una consolazione particolare. I semplici cristiani non devono credere facilmente di essere capaci di stati mistici. Ma una cosa è certa. La me­ditazione di Cristo sofferente non deve degenerare in qualche ‘dolorismo’ non naturale. Deve, al contrario, aiutarci a scoprire il senso positivo del dolore umano con la ferma convinzione che questo viene progressivamente superato dal fuoco divino, dalla luce splendente dello Spirito che risiede nei nostri cuori.  

P. Tomáš Špidlík, insigne gesuita,cardinale dal 2003, nasce il 17 dicembre 1919 a Boskovice, in Moravia. I suoi studi vengono più volte interrotti a causa del lavoro giovanile forzato, imposto prima dai soldati tedeschi, poi dai soldati romeni, quindi dai russi.Nel 1949 Špidlík è ordinato sacerdote a Maastricht. Nel 1951 viene chiamato a Roma alla Radio Vaticana. I programmi di quella emittente, specie per i Paesi d’oltre cortina, erano un prezioso aiuto ad una libertà in pericolo di essere soffocata lentamente ma inesorabilmente. Dal suo impegno alla Radio Vaticana scaturirà una speciale missione che l’accompagnerà sempre e che lo farà conoscere in patria nonostante il dominio comunista. Le prediche domenicali in lingua ceca di p. Špidlík hanno suscitato un tale interesse da essere pubblicate e tradotte in varie lingue dell’Europa dell’Est, come in ceco, polacco, romeno., ma anche in italiano. L’opera di p. Špidlík è frutto di anni e anni di diligente ricerca e riflessione, insieme ad una grande, artistica sensibilità per la cultura contemporanea.Riportiamo una meditazione che parla del giusto rapporto con il Dio di Gesù Cristo che rifugge da ogni tipo di dolorismo, e non si accontenta di imitare la santità, ma cerca di viverla con la forza dello Spirito che opera dentro ognuno di noi.  

FONTE: Tomas Spidlik, Conosci il Padre,Cristo e lo Spirito?, Edizioni Lipa, Roma, 2005, pp. 106-110. (L’autore) Špidlík, scritti vari – autore: Tomáš Špidlík

IL PECCATO E LA GRAZIA NON APPARTENGONO SEMPLICEMENTE AL SINGOLO – di Andrea Lonardo

http://www.gliscritti.it/

IL PECCATO E LA GRAZIA NON APPARTENGONO SEMPLICEMENTE AL SINGOLO

Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it

di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti 5/10/2008

«Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» afferma il profeta Geremia (Ger 17,9). Paolo non solo eredita dall’Antico Testamento questa comprensione della complessità del cuore umano, ma ben più profondamente si accorge, a partire dalla sua fede nel Cristo, del motivo di questo.
Perché il cuore umano è tale? Perché è un guazzabuglio (come direbbe Manzoni)? Perché non lo si può semplicemente seguire, tanto in esso si combattono voci diverse?
Proprio la lettera che Paolo indirizza ai cristiani di Roma lo porta a riflettere sulla situazione di peccato nella quale versa la condizione umana. L’apostolo comprende, alla luce di Cristo, che non appartiene alla natura delle cose che tutti siano abitati dalla voce del male che, come una forza potente, agisce nell’uomo: «Tutti hanno peccato» (Rm 5,12).
Parlare del peccato è per Paolo così importante perché senza affrontare questo tema di petto non si può capire l’attuale situazione dell’uomo. Ma – si noti bene – per parlare del peccato, l’apostolo sente il bisogno di parlare di Cristo, di colui che lo sconfigge pur mettendolo in rilievo: «Se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un uomo solo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini» (Rm 5,15).
In quel “molto di più” sta tutta la fede cristiana. L’uomo è partecipe del peccato del primo uomo: quel peccato arreca delle conseguenze che ogni generazione deve portare, proprio perché nessun uomo esiste in una individualità a sé stante, ma la colpa di ognuno arreca danno a tutti fratelli. Ma allo stesso modo e “molto di più” la grazia di uno solo, l’amore del Cristo stesso, viene da lui partecipata a tutti gli uomini.
Proprio questa concezione così realistica di un peccato che danneggia tutti è assente spesso nella coscienza dell’uomo. Ed è uno dei motivi per i quali il peccato sembra essere un male, in fondo, non così rilevante e decisivo. Ma allo stesso modo e “molto di più” anche la gioia e la consolazione della vita scompaiono se l’uomo si chiude in se stesso senza essere aperto alla grazia ed al bene che gli vengono dalla relazione con i fratelli e dalla comunione con Dio che il Cristo è venuto a donare, per grazia e senza che nessuno la meritasse.
Nel secolo scorso uno scrittore che ha usato tutta la sua ironia per difendere il cristianesimo G. K. Chesterton, ha voluto rispondere all’irrisione che spesso veniva – e viene – gettata sul tema del peccato originale: «Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato – cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno – ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l’uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto».
Ma, insieme, Chesterton subito affermava che la dottrina del peccato originale è «l’unica visione lieta» della vita umana, perché ci ricorda che «abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia».
Paolo scrive ai Romani, invitandoli a considerare quanto la situazione umana porti le tracce di una comunione spirituale che è stata incrinata fin dal primo gesto libero di un uomo sulla terra, ma, “molto più” riesce a far sollevare lo sguardo a quel Dio che ha voluto manifestare come tutti fossero rinchiusi nella disobbedienza «per usare a tutti misericordia» (cfr. Rm 11,32). 

Publié dans:pastorale, TEOLOGIA |on 8 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

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