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CHI NON VUOL LAVORARE… PECCA (2TS 3,6-12) –
DA PAROLE DI VITA ASSOCIAZIONE BIBLICA ITALIANA
(seconda lettura della 33 domenica del T.O. C)
sebastiano pinto
In queste pagine si evidenziano i traumi a cui va incontro la comunità di Tessalonica quando qualcuno decide di astenersi dal lavoro, che resta, invece, la via preferenziale per il perfezionamento sociale e spirituale del cristiano.
Introduzione: benedetto lavoro!
«Il lavoro caccia i vizi derivanti dall’ozio». L’adagio di Seneca funge da felice ouverture per la nostra riflessione su questo brano della tradizione paolina circa i disordini provocati da coloro che rifiutano di lavorare.
È bene fare una precisazione preliminare per fugare il campo da qualche idea non troppo precisa intorno alla natura dell’attività lavorativa secondo i racconti delle origini (Gen 1-3). La vocazione dei progenitori è coltivare e custodire la terra. Il termine ?avôdâ di Gen 2,15 esprime il lavoro connotato come faticoso e duro (Es 1,14) che comporta il sudore della fronte e che fa parte del progetto di Dio. L’Adamo genesiaco è presentato come il contadino che deve lavorare il campo del suo padrone: la terra non è sua e va trattata con la perizia richiesta all’amministratore fedele. Ciò fa emergere la dimensione del dono e della responsabilità umana in rapporto al creato perché nel paradiso non c’è spazio per godersi un’indolente inerzia:
Il lavoro secondo la Bibbia, deriva dalla condizione di incompiutezza in cui il Creatore ha voluto lasciare le cose, perché fossero rifinite dalla cooperazione dell’uomo, per cui esso non deriva affatto dal peccato originale, ma dalla stessa natura della creazione e dell’uomo[1].
Con la disobbedienza l’uomo perde l’armonia con la madre terra; non è il lavoro il segno della maledizione, ma la perdita dell’orientamento: l’uomo è tratto dalla terra, ma ora vede smarrirsi il senso e la vocazione del suo agire e ciò è causa di sofferenza. Egli è quasi costretto a ingaggiare una lotta con la terra perché questa gli produca il necessario per sopravvivere.
Fatta questa premessa, che esclude quell’aspetto dell’antropologia che una volta andava sotto il nome di «esenzione dal dolore» – e che rientrava nei cosiddetti «doni preternaturali» presumibilmente (ed erroneamente) appartenuti all’Adamo genesiaco –, entriamo nel merito del testo paolino, per evidenziare i traumi a cui va incontro la comunità di Tessalonica quando qualcuno dei suoi membri decide di astenersi dal lavoro.
I fannulloni: gente di poca fede
Fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, vi raccomandiamo di tenervi lontani da ogni fratello che conduce una vita disordinata, non secondo l’insegnamento che vi è stato trasmesso da noi (3,6).
La parola dell’Apostolo possiede un tono insolitamente categorico, segno della gravità della situazione denunciata. Ma di cosa si tratta?
Un primo e immediato rimando si ricava dalla prima Lettera ai Tessalonicesi nella quale Paolo consegna l’indicazione giusta circa il comportamento che i cristiani devono perseguire, condotta irreprensibile ispirata alla carità fraterna e alla ricerca del vero bene personale e comunitario (4,9-12). È molto significativo che questa ammonizione sia consegnata nello stesso capitolo in cui si inizia a parlare della parousía (la venuta finale di Cristo), tema che viene sviluppato anche in quello successivo (5,1-11). Il cristiano non deve addormentarsi (cioè non deve abbassare la sua vigilanza) ma rimanere desto e sobrio, rivestito della corazza della fede e della carità, e avendo la speranza come protezione per il capo (5,8).
L’ammonizione di 2Ts 3,6 a separarsi da coloro che conducono una vita disordinata (quasi una scomunica al contrario) e non farsi «contagiare» dal loro lassismo morale richiama, perciò, direttamente il comportamento laborioso al quale i cristiani devono ispirarsi nell’attesa della seconda venuta di Cristo. Vivere sregolatamente è sinonimo di «stoltezza», perché chi non sa discernere i segni premonitori dell’avvento del giorno del Signore mostra, vivendo disordinatamente, l’ampiezza del suo deficit di discernimento.
Come nella 1Ts anche in questa 2Ts la ricaduta morale improntata alla giustizia, all’equilibrio e alla paziente attesa, è conseguenza della prossimità del Signore; di tale condotta l’Apostolo riferisce nel capitolo secondo e agli inizi del terzo affinché i fedeli la incarnino in una scelta di vita coerente.
Successivamente, commentando il v. 11 del brano oggetto di questo nostra riflessione, sarà possibile cogliere un secondo contesto di significati legato alla tradizione sapienziale – complementare a quello escatologico qui tratteggiato – che completerà questo primo approccio alla figura dei fannulloni.
L’Apostolo: un esempio encomiabile
Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi (3,7-8).
Sono numerosi i testi che dichiarano l’assoluta valutazione positiva accordata al lavoro manuale di Paolo, tessitore-riparatore di tende (cf. At 18,3), non tanto in ordine a un suo merito personale ma alla veracità del suo ministero di evangelizzatore.
Le fatiche artigianali avvalorano il «lavoro apostolico»: conferiscono maggiore risalto alla gratuità dell’annuncio, confermando la stoltezza e lo scandalo della croce di Cristo (1Cor 4,12), e insieme libertà da aspettative e calcoli umani, aspetto messo in rilievo anche in 1Ts 2,3-11 dove Paolo si dichiara alieno da ogni cupidigia proprio perché, come ogni buon genitore, non ha gravato su nessun figlio della comunità. Inoltre, in At 20,34 si legge che alle necessità personali di Paolo e a quelle dei fratelli ha provvedo direttamente l’Apostolo affinché si palesasse che è attraverso il lavoro concreto che si soccorrono i bisognosi.
Ampliando queste considerazioni possiamo notare, secondo quanto riferisce J. Murphy-O’Connor, che la preparazione culturale esibita dall’Apostolo non poteva essere stata acquisita se Paolo fosse stato obbligato da giovane a un lavoro continuativo[2].
Egli, tuttavia, non si lascia irretire da un certo intellettualismo religioso emergente nel tardo giudaismo che celebra la superiorità dello scriba sul manovale (cf. Sir 38,24-27); non considera il lavoro manuale degradante o umiliante, confermando in tal modo il progetto genesiaco secondo il quale, come abbiamo visto sopra, l’uomo doveva lavorare con fatica il campo messogli a disposizione dal Creatore e custodirlo con premura.
Il rifiuto dei privilegi
Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare (3,9).
Paolo è ben conscio che ci sono modelli da rigettare (gli oziosi / impiccioni) e altri da interiorizzare: la sua pedagogia è molto concreta e agganciata alle dinamiche che guidano l’agire morale. Se è vero che si può disgregare una comunità quando dilaga il malcostume, è altrettanto certo che si può crescere nel bene personale e comunitario mettendo al centro figure costruttive e serene.
Il testo che meglio commenta questo passaggio della 2Ts è sicuramente 2Cor 9,1-12 in cui Paolo ribadisce l’autorità apostolica che gli compete spiegandone il valore:
Non sono forse libero, io? La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? Oppure soltanto io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge? Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo (vv. 1a.3a-7.12).
La sua exousía (autorità) non solo non si esercita spadroneggiando sui fedeli ma neppure godendo legittimamente di quei diritti che rientrerebbero nelle sue prerogative e che, secondo il senso comune ma anche secondo la legge («Non metterai la museruola al bue che trebbia» Dt 25,4), gli assicurerebbero il giusto sostentamento in ragione del lavoro apostolico.
Ma in 2Ts 3,9 si compie un passo in avanti rispetto al la brano di 2Cor 9 appena richiamato. Secondo quanto riferisce R. Fabris, in 2Ts è all’opera un chiaro processo di fissazione della tradizione paolina, alla quale ci si rifà con la chiara volontà di ribadire e tutelare le parole ma anche l’esempio del maestro:
scrivendo ai Corinti l’Apostolo interpretò il suo atteggiamento di rinuncia a quel diritto come misura necessaria per non creare intralci al cammino dell’annuncio evangelico (1Cor 9,15ss), qui invece l’autore della lettera vede la condotta di Paolo in chiave moralistica di esemplarità offerta ai credenti […]; non solo l’insegnamento, ma anche la vita del grande apostolo era già diventata autorità nel cristianesimo di fine secolo[3].
La regola d’oro
L’autorevolezza dell’esempio apostolico conferisce maggiore carica morale al categorico ordine cristallizzato in questo versetto:
Infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi (3,10).
Non si tratta di un generico consiglio, ma della norma di vita di cui la comunità si è dotata e che corrisponde a una prassi assodata e corroborata dall’esperienza. Anche l’attuale traduzione della CEI, in continuità con quella precedente, esplicita il senso dell’imperfetto del verbo «ordinare» inserendo l’avverbio «sempre»: la sfumatura verbale connota l’azione come reiterata nel tempo e non come un singolo comando offerto in una determinata circostanza.
Da come è introdotta si vede che la frase è rivestita di un carattere ufficiale e autorevole. Qualcuno ha pensato a una massima tratta dalla morale corrente dei lavoratori; ma nessuno ha finora saputo indicare una frase veramente simile in tutta la sapienza ebraica o greca[4].
Effettivamente dalla formulazione si evince la fraseologia tipica del proverbio popolare senza, purtroppo, riuscire a comprenderne a pieno l’origine. Sembrerebbe che la partecipazione al pasto sia legata in qualche modo alla comunità al punto da venirne esclusi nel momento in cui si tradisce il patto sociale che lega il singolo al resto del gruppo.
Ci pare, tuttavia, che il senso ultimo del v. 10 vada ricercato nel rimando escatologico che accomuna i primi due capitoli primo della lettera e che sopra abbiamo richiamato. Per cui si potrebbe parafrasare così: chi crede che ormai sia inutile affaticarsi e occuparsi delle cose della terra perché considera imminente la fine del mondo – verità sconfessata dallo stesso apostolo poco prima nella lettera (cf. 2,2) – sia coerente con questa sua convinzione e si astenga anche da quei bisogni essenziali (appunto nutrirsi) per soddisfare i quali non profonde più impegno.
L’espressione ha, perciò, la funzione di sanzionare la condotta di alcuni membri della comunità di Tessalonica estremizzando le conseguenze della loro impostazione di vita.
Gli oziosi: una piaga sociale
Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione (3,11).
I soggetti chiamati in causa dall’Apostolo sembrano avere un lontano parente nell’ozioso di cui si traccia l’identikit nella tradizione sapienziale e, in particolare, nel libro dei Proverbi.
A più riprese, infatti, si mette in guardia il discepolo, che vuole acquistare sapienza, dalle cattive compagnie tra le quali è annoveratala figura del pigro.
Il rimando alle stagioni di Pr 20,4 («Il pigro non ara d’autunno: alla mietitura cerca ma non trova nulla») denuncia la mancata valorizzazione dei tempi che diventa la causa della rovina di tale soggetto, anche perché la sua giornata tipo si consuma tra il sonno pieno e il dormiveglia: «Fino quando pigro te ne starai a dormire? Quando ti scuoterai dal sonno? Un po’ sonnecchi, un po’ incroci le braccia per riposare» (Pr 6,9-10). Si descrive lo stato di semi-coscienza da cui egli – come un narcotizzato – non riesce e non vuole liberarsi. Il pigro, perciò, mancando della giusta vigilanza, non si accorge che il suo comportamento gli procura la morte a causa della sopraggiunta povertà (Pr 6,11; 13,4; 19,15).
Il fatto che l’ozioso non sia sufficientemente accorto lo rende non soltanto inaffidabile nello svolgimento di un compito e di una mansione e fastidioso come il fumo o l’aceto («Come l’aceto ai denti e il fumo agli occhi, così è il pigro per chi gli affida una missione», Pr 10,26), ma addirittura pericoloso a causa della sua incapacità di portare a termine un incarico («Chi è indolente nel suo lavoro è fratello del dissipatore», Pr 18,9).
Il legame con la tradizione didattica d’Israele è ravvisato anche dai commenti patristici che meditano sul lavoro alla luce di alcuni testi quali, appunto, quello dei Proverbi in rapporto alla figura della formica:
Ricevi dalla formica una grandissima esortazione ad amare la fatica, e ammira il tuo Padrone, non solo perché fece il sole e il cielo, ma anche perché fece la formica: sebbene infatti l’animale sia piccolo, tuttavia contiene un’ampia dimostrazione della grande sapienza di Dio. Considera certo com’è intelligente e ammira come Dio sia stato capace di porre in un corpo così piccolo un tale infallibile desiderio di lavorare[5].
Possiamo dire che sia nella tradizione paolina sia in quella sapienziale coloro che si lasciano prendere dall’inerzia vengono censurati in quanto irresponsabili, privi del senso delle conseguenze (innanzitutto per se stessi, ma anche per gli altri), alieni da una reale fraternità, dall’appartenenza alla comunità e da una progettualità esistenziale perché troppo avvitati su se stessi.
Manca, tuttavia, ancora un aspetto richiamato da 2Ts 3,11: il fannullone non è soltanto indolente ma anche impiccione e tumultuoso. Il paragrafo che segue completa il quadro comportamentale dei soggetti disordinati che l’Apostolo intende stigmatizzare.
La pace del giusto
A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità (3,12).
I destinatari dell’esortazione / comando sono i fratelli menzionati nei vv. 6 e 11: costoro vivono secondo la modalità espressa dall’avverbio átaktôs («in modo irregolare, indisciplinato, fuori posto»).
La preoccupazione dell’autore biblico che la situazione possa degenere è reale; per questo nei vv. 14-15 minaccia anche quelle che possono essere le misure di contenimento e, allo stesso tempo, di punizione nei confronti di chi disturba il tranquillo svolgimento della vita comunitaria. Intervenendo con energia ma anche con carità contro i «deviati» perché si scuotano dalla loro situazione, la Chiesa dimostra l’assunzione di responsabilità che le compete al fine di tutelare il resto dei credenti.
La tranquillità di chi lavora con fatica (ma con soddisfazione) è in contrapposizione all’inattività dannosa, parassitaria e perniciosa dei nullafacenti.
Ancora una volta è il mondo dei sapienti d’Israele a offrire lo sfondo nel quale collocare il senso delle espressioni qui utilizzate. Si legge, infatti, che la categoria degli stolti è capeggiata dalla Donna Follia di Pr 9,13-18, descritta nella sua irrequietezza come una prostituta che attende le sue vittime; molto vicina alla Follia e sua concretizzazione didattica è la notturna donna straniera menzionata in Pr 7. Ma nella hit parade della squadra dei cattivi si posiziona il frenetico malvagio che è così descritto in Pr 6,12-15:
Il perverso, uomo iniquo, cammina pronunciando parole tortuose, ammicca con gli occhi, stropiccia i piedi e fa cenni con le dita. Nel suo cuore il malvagio trama cose perverse, in ogni tempo suscita liti. Per questo improvvisa verrà la sua rovina, ed egli, in un attimo, crollerà senza rimedio.
A effetto è la menzione delle parti del corpo che esprimono l’indole malvagia dell’uomo, qui descritto sulla falsariga di un animale imbizzarrito: la bocca esprime la menzogna (Pr 4,4), gli occhi il tramare il male (Sir 27,22), i piedi mossi in modo esagerato e nevrotico veicolano l’idea dell’impazienza, lo sfregamento delle dita accompagna la maldicenza (Is 58,9), mentre il cuore è la sede da cui nasce la volontà di suscitare litigi.
Di segno contrario è, invece, il ménage quotidiano del giusto: consapevole che anche se sono numerose le sue sventure viene liberato dal Signore che lo protegge con amore diuturno (Sal 34,20), in lui dimora un sano senso di appagamento perché il poco che possiede è preferibile all’abbondanza degli empi (Sal 37,16). Godere del proprio lavoro rappresenta, secondo il saggio Qoélet, una delle vere (e poche) gioie riservate all’uomo (3,13).
L’auspicio affinché si possa ritrovare la serenità smarrita va inteso, perciò, sia come stile di fede (vivere nel mondo senza l’ansia per il domani) sia come attenzione alla carità fraterna (perché gli oziosi non approfittino ulteriormente della solidarietà della comunità).
Conclusione: alienamento da poco lavoro
Arbeit macht frei («Il lavoro rende liberi»): era questo lo sciagurato messaggio di benvenuto posto all’ingresso di numerosi campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale e, come tutti sanno, posto anche ad Auschwitz (probabilmente dal maggiore Rudolf Höß, primo comandante responsabile del campo di sterminio). Se l’orrore di una simile tragedia resta un’onta indelebile nella storia dell’umanità, il senso del lavoro umano, almeno quello, può essere redento quando la fatica fisica e la conseguente sofferenza trovano nel Crocifisso il punto di convergenza di antropologia e teologia.
Cerchiamo di spiegarci. Da queste nostre pagine emerge, in sostanza, che in 2Ts 3,6-12 non si parla di gente semplicemente pigra e indolente, ma di faccendoni che si introducono in affari altrui, curiosando e seminando pettegolezzi. Il cristiano deve, invece, caratterizzarsi per la serietà nel lavoro, per l’affidabilità professionale con la quale si guadagna da vivere e aiuta il prossimo. Si deve in ogni modo evitare il pericolo di un irrequieto affaccendarsi. Il cristiano deve condurre una vita ordinata[6].
Il collegamento con i testi sapienziali ha messo in rilievo il rischio cui va incontro una comunità in cui resistono fasce comportamentali disgreganti: lo svuotamento delle risorse motivazionali che legano i soggetti al bene comune. Venendo meno il tacito contratto fondato sulla fiducia che ciascuno farà del proprio meglio per la crescita di tutti, si ingenera una sorta di «effetto domino» negativo che l’Apostolo vuole scongiurare perché lede la serietà dell’impegno cristiano nel mondo.
Il lavoro / fatica rivela, invece, una fecondità religiosa notevole perché attesta la gioia e la responsabilità nella costruzione del regno di Dio, che inizia su questa terra. Illuminano, a tale proposito, le parole di Giovanni Paolo II nell’Enciclica Laborem exercens:
Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e a ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere. Quest’opera di salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità[7].
In conclusione è bene ribadire, perciò, che il lavoro (di qualsivoglia natura), tutt’altro che maledizione conseguente al «peccato originale», è la via preferenziale per il perfezionamento sociale e spirituale dell’uomo, a qualunque credo egli appartenga. In questo senso i membri della comunità di Tessalonica che hanno incrociato le braccia in attesa della fine del mondo consumano il dramma di una doppia alienazione: a) la prima assume il volto di un’estromissione dai processi produttivi della comunità, dove l’aggettivo «produttivo» è da intendersi nel senso di finalizzazione e produzione di senso che il lavoro (fatto bene) genera nel cuore umano; b) la seconda alienazione estranea il cristiano dal riferimento cristologico perché lo sottrae al dinamismo partecipativo proprio della creazione la quale, grazie anche all’opera trasformante del singolo, è protesa verso la parousía.
Possiamo, dunque, parlare di una vera teologia del lavoro in rapporto al continuo processo di crescita demandato all’attività lavorativa in vista della dilatazione dell’essere umano e della natura. Si può, perciò, dire che:
due sono le caratteristiche del lavoro: come collaborazione alla creazione, il lavoro si presenta gioiosa ed esaltante attuazione della sovranità dell’uomo sul mondo; come pena del peccato e complemento della redenzione non va esente da sofferenza […]. I due aspetti devono quindi compenetrarsi, a meno che si voglia cadere nell’otium classico o, al contrario, nel fanatismo mistico del proletariato marxista[8].
In un tempo di crisi del lavoro riscoprirne lo spessore spirituale vuole essere anche l’auspicio perché esso non manchi mai a nessuno, e sia vissuto come realizzazione della vocazione alla felicità iscritta nel cuore umano.
[1] E. Testa, «Teologia e spiritualità del lavoro», in G. De Gennaro (ed.), Lavoro e riposo nella Bibbia, Ed. Dehoniane, Napoli 1987, 132.
[2] J. Murphy-O’Connor, Gesù e Paolo. Vite parallele, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2008, 65. Segnaliamo che, sebbene alcune intuizioni siano interessanti, non tutte le affermazioni dell’autore ci sembrano corroborate da testimonianze probanti.
[3] R. Fabris, Le lettere di Paolo. Traduzione e commento, Borla, Roma 19902, 177-178.
[4] B. Maggioni, «Seconda Lettera ai Tessalonicesi», in B. Maggioni – F. Manzi (edd.), Lettere di Paolo, Cittadella, Assisi 2005, 1153.
[5] Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue, 12,2 (PG 49, 131-134).
[6] Maggioni, «Seconda Lettera ai Tessalonicesi», 1153.
[7] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Laborem exercens (15.09.1981), 27.
[8] Testa, «Teologia e spiritualità del lavoro», 133.