Archive pour mai, 2019

Ascensione del Signore

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 31 mai, 2019 |Pas de commentaires »

ASCENSIONE DEL SIGNORE – VIVERE DEL CIELO, DOVE CRISTO È ASCESO PER SEMPRE

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ASCENSIONE DEL SIGNORE – VIVERE DEL CIELO, DOVE CRISTO È ASCESO PER SEMPRE

padre Antonio Rungi

La solennità dell’Ascensione di Gesù al Cielo, che celebriamo oggi nella liturgia della prima domenica di Giugno 2019, è un chiaro invito a tutti i cristiani e credenti di guardare al cielo, dove Cristo si è assiso alla destra del Padre, ma soprattutto di vivere del cielo. Se, infatti, siamo risorti con Cristo e se siamo convinti di una vita oltre questa vita, noi dobbiamo vivere del cielo, cioè cercare continuamente le cose di lassù, quelle eterne ed intramontabili che ci danno la vera felicità. Tutta la liturgia di questo giorno di festa, dal racconto che se ne fa del momento in cui Gesù lascia definitivamente la terra, per non lasciarci soli, ma per inviare a noi lo Spirito consolatore, al mandato missionario che Cristo assegna agli apostoli e a tutta la chiesa è un costante richiamo alla salvezza eterna: andate in tutto il mondo e predicate il vangelo. Chi crederà si salverà, chi non crederà prenderà altre viene che non sono le vere strade che portano a Dio e alla gioia senza fine. Non senza significato biblico e teologico noi professiamo la fede in Cristo, morto, risorto e asceso al cielo. Illustrando questa verità di fede, il Catechismo della Chiesa cattolica, spiega questo mistero glorioso della nostra fede, partendo dal testo del vangelo «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio» (Mc 16,19), in questi termini: “Il corpo di Cristo è stato glorificato fin dall’istante della sua risurrezione, come lo provano le proprietà nuove e soprannaturali di cui ormai gode in permanenza. Ma durante i quaranta giorni nei quali egli mangia e beve familiarmente con i suoi discepoli e li istruisce sul Regno, la sua gloria resta ancora velata sotto i tratti di una umanità ordinaria. L’ultima apparizione di Gesù termina con l’entrata irreversibile della sua umanità nella gloria divina simbolizzata dalla nube e dal cielo ove egli siede ormai alla destra di Dio”. Alla Maddalena Gesù raccomanda di riferire agli apostoli: «Non sono ancora salito al Padre: ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17). Questo indica una differenza di manifestazione tra la gloria di Cristo risorto e quella di Cristo esaltato alla destra del Padre. L’avvenimento ad un tempo storico e trascendente dell’ascensione segna il passaggio dall’una all’altra.
L’Ascensione di Gesù al Cielo, ultima tappa del suo itinerario terreno, rimane strettamente unita alla prima, cioè alla discesa dal cielo realizzata nell’incarnazione. Solo colui che è «uscito dal Padre» può far ritorno al Padre: Cristo. «Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13). Lasciata alle sue forze naturali, l’umanità non ha accesso alla «casa del Padre», alla vita e alla felicità di Dio. Soltanto Cristo ha potuto aprire all’uomo questo accesso «per darci la serena fiducia che dove è lui, Capo e Primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria». L’Ascensione al Cielo è strettamente legata al mistero della croce: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). L’elevazione sulla croce significa e annunzia l’elevazione dell’ascensione al cielo. Essa ne è l’inizio. Gesù Cristo, l’unico Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza, «non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo [...], ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore» (Eb 9,24).
Potremmo giustamente domandarci cosa fa Cristo in cielo e come si vive in cielo?
In cielo Cristo esercita il suo sacerdozio in permanenza, «essendo egli sempre vivo per intercedere» a favore di «quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio» (Eb 7,25). Come «sommo Sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), egli è il centro e l’attore principale della liturgia che onora il Padre nei cieli.
Come pure, una domanda spontanea viene da questa espressione che è inserita nella professione di fede: Cristo siede alla destra del Padre.
«Per destra del Padre intendiamo la gloria e l’onore della divinità, ove colui che esisteva come Figlio di Dio prima di tutti i secoli, come Dio e consostanziale al Padre, s’è assiso corporalmente dopo che si è incarnato e la sua carne è stata glorificata». Per cui “l’essere assiso alla destra del Padre significa l’inaugurazione del regno del Messia, compimento della visione del profeta Daniele riguardante il Figlio dell’uomo: «[Il Vegliardo] gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto» (Dn 7,14). A partire da questo momento, gli Apostoli sono divenuti i testimoni del «regno che non avrà fine».
Da qui la missione della Chiesa di annunciare a tutte le creature l’infinito amore di Dio che vuole la salvezza di tutti gli uomini, i quali che avere sempre più uno sguardo, un pensiero e la mente rivolti al cielo, ma devono vivere di cielo, ovvero nella comunione con Dio, con il fratelli e con il creato intero.
Chiudo questa mia riflessione con quanto ha scritto Papa Benedetto XVI, commentando l’Ascensione al cielo di Gesù: “Gesù parte benedicendo. Benedicendo se ne va e nella benedizione Egli rimane. Le sue mani restano stese su questo mondo. Le mani benedicenti di Cristo sono come un tetto che ci protegge. Ma sono al contempo un gesto di apertura che squarcia il mondo affinché il cielo penetri in esso e possa diventarvi una presenza. Nel gesto delle mani benedicenti si esprime il rapporto duraturo di Gesù con i suoi discepoli, con il mondo. Nell’andarsene Egli viene per sollevarci al di sopra di noi stessi ed aprire il mondo a Dio. Per questo i discepoli poterono gioire, quando da Betania tornarono a casa. Nella fede sappiamo che Gesù, benedicendo, tiene le sue mani stese su di noi. È questa la ragione permanente della gioia cristiana”. Guardare il cielo e vivere di cielo è stare perennemente nella gioia vera.

la pesca miracolosa

moltiplicazione dei pesci e dei pani

Publié dans:immagini sacre |on 29 mai, 2019 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – (la Chiesa è Corpo di Cristo, Atti: la conversione di Paolo) (18.6.2013)

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – (la Chiesa è Corpo di Cristo, Atti: la conversione di Paolo) (18.6.2013)

Piazza San Pietro

Mercoledì, 19 giugno 2013

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi mi soffermo su un’altra espressione con cui il Concilio Vaticano II indica la natura della Chiesa: quella del corpo; il Concilio dice che la Chiesa è Corpo di Cristo (cfr Lumen gentium, 7).
Vorrei partire da un testo degli Atti degli Apostoli che conosciamo bene: la conversione di Saulo, che si chiamerà poi Paolo, uno dei più grandi evangelizzatori (cfr At 9,4-5). Saulo è un persecutore dei cristiani, ma mentre sta percorrendo la strada che porta alla città di Damasco, improvvisamente una luce lo avvolge, cade a terra e sente una voce che gli dice «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Lui domanda: «Chi sei, o Signore?», e quella voce risponde: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (v. 3-5). Questa esperienza di san Paolo ci dice quanto sia profonda l’unione tra noi cristiani e Cristo stesso. Quando Gesù è salito al cielo non ci ha lasciati orfani, ma con il dono dello Spirito Santo l’unione con Lui è diventata ancora più intensa. Il Concilio Vaticano II afferma che Gesù «comunicando il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, chiamati da tutti i popoli» (Cost. dogm. Lumen gentium, 7).
L’immagine del corpo ci aiuta a capire questo profondo legame Chiesa-Cristo, che san Paolo ha sviluppato in modo particolare nella Prima Lettera ai Corinzi (cfr cap. 12). Anzitutto il corpo ci richiama ad una realtà viva. La Chiesa non è un’associazione assistenziale, culturale o politica, ma è un corpo vivente, che cammina e agisce nella storia. E questo corpo ha un capo, Gesù, che lo guida, lo nutre e lo sorregge. Questo è un punto che vorrei sottolineare: se si separa il capo dal resto del corpo, l’intera persona non può sopravvivere. Così è nella Chiesa: dobbiamo rimanere legati in modo sempre più intenso a Gesù. Ma non solo questo: come in un corpo è importante che passi la linfa vitale perché viva, così dobbiamo permettere che Gesù operi in noi, che la sua Parola ci guidi, che la sua presenza eucaristica ci nutra, ci animi, che il suo amore dia forza al nostro amare il prossimo. E questo sempre! Sempre, sempre! Cari fratelli e sorelle, rimaniamo uniti a Gesù, fidiamoci di Lui, orientiamo la nostra vita secondo il suo Vangelo, alimentiamoci con la preghiera quotidiana, l’ascolto della Parola di Dio, la partecipazione ai Sacramenti.
E qui vengo ad un secondo aspetto della Chiesa come Corpo di Cristo. San Paolo afferma che come le membra del corpo umano, pur differenti e numerose, formano un solo corpo, così tutti noi siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo (cfr 1Cor 12,12-13). Nella Chiesa quindi, c’è una varietà, una diversità di compiti e di funzioni; non c’è la piatta uniformità, ma la ricchezza dei doni che distribuisce lo Spirito Santo. Però c’è la comunione e l’unità: tutti sono in relazione gli uni con gli altri e tutti concorrono a formare un unico corpo vitale, profondamente legato a Cristo. Ricordiamolo bene: essere parte della Chiesa vuol dire essere uniti a Cristo e ricevere da Lui la vita divina che ci fa vivere come cristiani, vuol dire rimanere uniti al Papa e ai Vescovi che sono strumenti di unità e di comunione, e vuol dire anche imparare a superare personalismi e divisioni, a comprendersi maggiormente, ad armonizzare le varietà e le ricchezze di ciascuno; in una parola a voler più bene a Dio e alle persone che ci sono accanto, in famiglia, in parrocchia, nelle associazioni. Corpo e membra per vivere devono essere uniti! L’unità è superiore ai conflitti, sempre! I conflitti se non si sciolgono bene, ci separano tra di noi, ci separano da Dio. Il conflitto può aiutarci a crescere, ma anche può dividerci. Non andiamo sulla strada delle divisioni, delle lotte fra noi! Tutti uniti, tutti uniti con le nostre differenze, ma uniti, sempre: questa è la strada di Gesù. L’unità è superiore ai conflitti. L’unità è una grazia che dobbiamo chiedere al Signore perché ci liberi dalle tentazioni della divisione, delle lotte tra noi, degli egoismi, delle chiacchiere. Quanto male fanno le chiacchiere, quanto male! Mai chiacchierare degli altri, mai! Quanto danno arrecano alla Chiesa le divisioni tra i cristiani, l’essere di parte, gli interessi meschini!
Le divisioni tra noi, ma anche le divisioni fra le comunità: cristiani evangelici, cristiani ortodossi, cristiani cattolici, ma perché divisi? Dobbiamo cercare di portare l’unità. Vi racconto una cosa: oggi, prima di uscire da casa, sono stato quaranta minuti, più o meno, mezz’ora, con un Pastore evangelico e abbiamo pregato insieme, e cercato l’unità. Ma dobbiamo pregare fra noi cattolici e anche con gli altri cristiani, pregare perché il Signore ci doni l’unità, l’unità fra noi. Ma come avremo l’unità fra i cristiani se non siamo capaci di averla tra noi cattolici? Di averla nella famiglia? Quante famiglie lottano e si dividono! Cercate l’unità, l’unità che fa la Chiesa. L’unità viene da Gesù Cristo. Lui ci invia lo Spirito Santo per fare l’unità.
Cari fratelli e sorelle, chiediamo a Dio: aiutaci ad essere membra del Corpo della Chiesa sempre profondamente unite a Cristo; aiutaci a non far soffrire il Corpo della Chiesa con i nostri conflitti, le nostre divisioni, i nostri egoismi; aiutaci ad essere membra vive legate le une con le altre da un’unica forza, quella dell’amore, che lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori (cfr Rm 5,5).

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO UDIENZE |on 29 mai, 2019 |Pas de commentaires »

il mantello di Elia

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 27 mai, 2019 |Pas de commentaires »

IL MANTELLO DI ELÌA – BRANO BIBLICO: 1RE 19,16.19-21 (è una Omelia)

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IL MANTELLO DI ELÌA – BRANO BIBLICO: 1RE 19,16.19-21 (è una Omelia)

don Marco Pratesi

XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (01/07/2007)

La missione di Elia, che si svolge nel regno di Israele (il regno del nord) nel IX sec. a. C., è ricondurre Israele al Signore distogliendolo dal culto degl’idoli. Duramente perseguitato, la sua attività riprende slancio dopo una forte esperienza di Dio sul monte Oreb (1Re 19,9-14). Tra le altre cose, Dio gli mostra chi dovrà continuare la sua missione: Eliseo.
Questi è un agricoltore benestante, ara « con dodici paia di buoi ». In questo particolare è probabilmente da ravvisare un messaggio. Egli ara, prepara la terra a ricevere il seme: la sua nuova missione consisterà nell’arare una nuova terra, che è Israele, disponendola a ricevere un nuovo seme, che è la Parola. È come se Elia gli dicesse: « seguimi, ti farò aratore del popolo ». Le dodici paia di buoi esprimono la sua condizione di abbondanza, ma probabilmente alludono anche alla ricchezza della sua futura azione profetica.
La sua chiamata non avviene mediante visioni o teofanie, passa attraverso il semplice ma potente gesto di Elia, che gli butta addosso il mantello.
Con questo mantello Elia si era coperto il volto al passaggio del Signore sull’Oreb (1Re 19,13). Con esso Elia avrebbe più tardi aperto le acque del Giordano (2Re 2,8). Giunto il momento della sua misteriosa ascensione al cielo, lo lascia ad Eliseo, che a sua volta ripeterà subito dopo il prodigio del passaggio del fiume (2Re 2,13-14). Il mantello simboleggia dunque il ruolo, la missione e la forza di Elia, che diventano di Eliseo. Gettandogli addosso il mantello, Elia investe Eliseo della propria missione. In effetti non si parla qui di « unzione », come invece voleva il comando divino del v. 16: questo gesto ne tiene il posto. Per una qualche analogia, si può pensare al gesto profetico col quale Paolo VI nel 1972, durante una visita a Venezia, impose la propria stola sulle spalle del patriarca Luciani, il futuro Giovanni Paolo I.
Mentre Elia getta il mantello non si ferma nemmeno, quasi a sottolineare l’urgenza della sequela. Eliseo risponde prontamente correndo dietro a Elia, lo rincorre, chiedendogli solo di potersi congedare dai suoi.
La risposta di Elia non è del tutto chiara; ribadisce comunque l’importanza della chiamata e accorda il permesso.
Oramai Eliseo è pienamente volto verso la sua nuova strada, taglia i ponti, non arerà più, seguirà Elia: due buoi e l’aratro servono per la festa del congedo. Quello che era la sua vita è offerto a Dio (si tratta probabilmente di un sacrificio) e diventa per gli altri: è la sua nuova vita.
Il racconto è scarno ma dice molte cose. La chiamata (che il vangelo di oggi ci invita a leggere come chiamata al discepolato) vi appare come un essere rivestiti di un nuovo abito, assumere una nuova identità. Ma Eliseo non va nel guardaroba a scegliere: non solo non sceglie lui cosa indossare, ma mette addirittura il vestito di un altro. Non sembra una spersonalizzazione alienante? Eppure la struttura della vita cristiana (e ancor prima della vita umana) è questa. La scelta di essere discepoli è primariamente di Dio, la nostra scelta viene solo in seconda battuta, è una risposta: « non voi avete scelto me, io ho scelto voi » (Gv 15,16). Noi siamo « eletti da Dio » (1Ts 1,4). Del resto, questo vale anche per il semplice fatto di esistere: non ci siamo chiamati all’esistenza da soli, la nostra risposta alla vita viene dopo.
Noi non stabiliamo neanche che cosa questo discepolato debba essere, non siamo noi a deciderne la struttura e le leggi. Esso è qualcosa che è dato, e che dobbiamo semplicemente assumere, accogliere, di cui dobbiamo rivestirci. Anche qui, la cosa vale per la semplice esistenza umana, che non possiamo strutturare a nostro arbitrio: non è vero che « il mondo è quello che uno pensa che sia », come oggi si pretende.
Qui, però, emerge una differenza tra il discepolo di Elia e quello di Cristo. Eliseo indosserà il mantello del suo maestro, il cristiano indosserà il suo stesso maestro (Gal 3,27). La sequela cristiana è cioè adesione piena alla persona del maestro, e non solo alla sua missione o al suo insegnamento, secondo quella pretesa scandalizzante che è caratteristica del Cristo: « Io sono la via, la verità e la vita » (Gv 14,6); per cui alla fine il discepolo ben riuscito potrà dire: « non vivo più io, ma Cristo in me » (Gal 2,20).
È questa alienazione, mortificazione della propria identità, avvilimento della persona umana, follia? Non sono in pochi a pensarlo. Eppure l’uomo non può vivere che così, centrato non su se stesso, ma su un Altro: « Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri » (Rm 13,14). È questa la via della vita.

San Paolo (l’immagine è sotto il titolo Ef)

paolo efesini

Publié dans:immagini sacre |on 24 mai, 2019 |Pas de commentaires »
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