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LUIGI PADOVESE. UN AMORE SCRITTO COL SANGUE – ASSASSINATO IL 3 GIUGNO 2010

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LUIGI PADOVESE. UN AMORE SCRITTO COL SANGUE – ANNIVERSARIO DELL’ASSASSINIO (3 GIUGNO 2010)

del card. Angelo Scola, arciv. di Milano luglio-agosto 2012

Ho avuto più volte occasione negli ultimi anni di approfondire il legame con S.E. monsignor Luigi Padovese. In particolare, attraverso la Fondazione Internazionale Oasis, nata per incrementare la reciproca conoscenza e l’incontro tra il mondo occidentale e quello a maggioranza musulmana, avevo avuto modo di incontrarlo, di ascoltarlo raccontare la situazione dei cristiani in Turchia e di apprezzarne le grandi qualità intellettuali e spirituali. L’ho conosciuto come una persona di straordinaria sensibilità e dedizione. Dopo essere stato impegnato attivamente nel mondo accademico e della ricerca scientifica per circa un trentennio, ha accolto la nomina a vicario apostolico dell’Anatolia con grande entusiasmo e fervore, spendendosi generosamente per la sua nuova missione con un impegno unanimemente riconosciuto. Del resto mons. Padovese aveva già un’ampia conoscenza e frequentazione di quei territori, sia per gli studi patristici che per l’organizzazione di un gran numero di convegni su san Giovanni ad Efeso e su san Paolo a Tarso.
Le omelie e gli scritti pastorali contenuti in questa raccolta ci permettono di cogliere in sintesi questa singolare figura di teologo sapiente, esperto dei Padri della Chiesa e delle origini cristiane, e di pastore appassionato e sollecito nella cura pastorale del suo gregge, chiamato a svolgere il suo ministero nella terra che ha dato i natali a san Paolo e dove per la prima volta, come ci ricordano gli Atti degli apostoli, i credenti furono chiamati «cristiani».
Scorrendo queste pagine si trovano numerose testimonianze di figure che il teologo Hans Urs von Balthasar soleva chiamare «personalità totali», riferendosi alla caratteristica, così diffusa nel primo millennio cristiano, dei grandi dottori della Chiesa di essere al contempo studiosi rigorosi e pastori attenti e sensibili alla vita del popolo di Dio. Le omelie e le lettere pastorali di mons. Padovese sono, da una parte, semplici, immediate e vanno dirette al cuore dell’interlocutore; d’altra parte sono continuamente nutrite da numerose citazioni dei Padri della Chiesa e anche di autori contemporanei. Mostrano il suo profondo radicamento nella grande tradizione della fede cristiana e un’intelligente apertura alle questioni che toccano la vita della Chiesa e della società di oggi. La sua predicazione e la sua azione pastorale possono essere descritte come i due fuochi di un’ellisse: da una parte il richiamo costante e deciso a una consapevolezza chiara della identità cristiana, alla necessità di essere cristiani per convinzione e non per convenzione, nella coscienza di essere eredi dei Padri che hanno vissuto e dato la vita proprio nella terra dell’Anatolia; dall’altra la tensione all’incontro e al dialogo con chiunque, in particolare con i fedeli musulmani, con i quali monsignor Padovese intratteneva in genere ottimi rapporti e che era solito salutare con profondo rispetto.
Non a caso, ai suoi funerali nella cattedrale di Iskenderun, si è registrata una grande partecipazione di popolo e di autorità. Non solo di fedeli cristiani e di autorità della Chiesa ortodossa, con le quali aveva sempre intrattenuto relazioni di collaborazione e di stima fraterna, ma anche delle autorità e del popolo musulmano della zona. Nella sua azione e nelle sue parole non c’era alcuna forma di proselitismo, ma sempre sostegno e incoraggiamento ai cristiani perché crescessero nella fede e testimoniassero la vita buona del Vangelo, nel profondo rispetto di tutte le identità religiose e culturali.
Monsignor Luigi Padovese è stato certamente un figlio di san Francesco d’Assisi e nello stesso tempo un figlio della Chiesa ambrosiana. Il santo di Assisi ricorre spesso nelle sue omelie. Proprio il carisma del figlio di Pietro Bernardone, del resto, lo aveva persuaso ancora in giovane età a seguire Cristo sulla via dei consigli evangelici nella famiglia dei cappuccini.
Colpisce a questo proposito il fatto che anche nel suo ministero episcopale, come emerge in queste pagine, egli si sia sempre definito un «cappuccino vescovo», ossia abbia sempre sentito di dover e poter attingere al proprio carisma anche l’alimento per vivere con impegno e dedizione la responsabilità di Pastore. Lo sguardo di Francesco a Cristo, che incarna l’umiltà di Dio, e l’impegno a vivere «minores et subditi omnibus» hanno certamente segnato anche lo stile dell’episcopato di mons. Padovese. Egli ha così vissuto in se stesso quella reciprocità tra doni gerarchici e doni carismatici che permette di vivere in pienezza il ministero e di servire efficacemente la Chiesa nella sua missione anche nel nostro tempo. Inoltre, monsignor Padovese non ha mai smesso di sentirsi figlio della nostra Chiesa ambrosiana e della tradizione dei santi Ambrogio e Carlo.
Il vicario apostolico dell’Anatolia sottolineava volentieri anche il profondo rapporto tra la Chiesa ambrosiana e la Chiesa in Turchia, soprattutto attraverso la fiorente storia di santità che le accomuna in molti punti. Una testimonianza emblematica di questo è l’omelia che egli fece proprio nel Duomo di Milano nell’ottobre del 2008 in occasione della Giornata missionaria mondiale: «Io, figlio della Chiesa di Milano, mi trovo ad essere padre di quella Chiesa di Anatolia che nella storia è sempre stata legata alla comunità cristiana della nostra città. È la memoria dei santi che ha fatto da ponte, già al tempo di Ambrogio, tra Oriente ed Occidente. Vorrei ricordare santa Tecla, patrona dell’antica cattedrale, vissuta e morta nel territorio che è affidato alla mia cura; san Babila vescovo di Antiochia, il vescovo di Milano, Dionigi, morto in esilio nell’attuale Turchia e sepolto in questa Chiesa» (Omelia del 19 ottobre 2008).
Mi sembra che qui emerga un altro tratto fondamentale della personalità di monsignor Padovese: proprio perché non si cessa mai di essere «figli», si può essere «padri» e «pastori». Egli non ha mai smesso di sentirsi figlio della Chiesa ambrosiana e figlio della provincia dei frati cappuccini di Lombardia, vivendo concretamente e fedelmente questi legami. In forza di questo è diventato padre ed amico, generando tanti alla fede in Cristo.
È questo, in fondo, il senso di una citazione di Ambrogio che molto spesso Padovese richiamava al suo clero: «Non può essere riscaldato chi non è vicino al “fuoco ardente” e non può riscaldarsi per un altro chi non ha Cristo per sé». Si può dare la vita solo se non si smette di riceverla; si può comunicare l’amore di Cristo solo se ci si lascia continuamente riscaldare da questo fuoco. Certamente per monsignor Padovese sarebbe stato più comodo continuare lo studio della patristica, piuttosto che andare a fare il vescovo in un territorio difficilissimo, con pochi fedeli e ancor meno sacerdoti. In uno dei nostri incontri mi raccontò che una comunità del suo vicariato era costituita da due sole persone, oltre il sacerdote: «Ma – mi diceva – occorre assolutamente non mollare, per non perdere l’ultima chiesa rimasta su tutta la costa meridionale del Mar Nero». (…)
Monsignor Padovese sapeva benissimo a quali pericoli andava incontro lo svolgimento della sua missione. E nelle pagine di queste omelie ne troviamo una drammatica testimonianza, che risuona per tutti noi, cristiani di Occidente un po’ impagliati, come un richiamo acuto a vivere la testimonianza con rinnovata decisione.
Il vescovo Luigi, peraltro, era ben consapevole di essere pastore in una terra profondamente segnata da martiri: «Tra tutti i paesi di antica tradizione cristiana, nessuno ha avuto tanti martiri come la Turchia. La terra che noi calpestiamo è stata lavata con il sangue di tanti martiri che hanno scelto di morire per Cristo», così affermava nella lettera ai suoi fedeli nell’ottobre del 2005.
Particolarmente emblematici di questa coscienza sono poi i testi delle omelie relative all’uccisione di un suo sacerdote, don Andrea Santoro nel febbraio del 2006. In esse non mancano chiare parole di denuncia e al contempo espressioni di dialogo, che non deve mai interrompersi, e di perdono. Nel primo anniversario della uccisione del sacerdote romano, così affermava: «Chi ha pensato che, uccidendo un sacerdote cancellava la presenza cristiana da questa terra, non sa che la forza del cristianesimo sono proprio i suoi martiri… preghiamo per il suo giovane assassino. La forza del nostro perdono e della nostra preghiera lo aiuti a capire che l’amore è più forte della morte» (Omelia del 5 febbraio 2007).
Risultano infine particolarmente commoventi le omelie tenute a Stegaurach, un paese della diocesi di Bamberg, in Germania, cui monsignor Padovese era legato da lunga data. Alcune omelie risultano qui essere come una sorta di confidenza fatta ad amici intimi, come quando il 6 maggio del 2007 disse: «L’assassinio di un mio sacerdote, il ferimento di un altro, le intimidazioni ricevute, l’abbandono del sacerdozio di un giovane e poi le difficoltà di gestire una realtà molto piccola, ma complessa, mi hanno pesato e a volte mi tolgono la tranquillità ed il sonno. C’è poi il timore che all’improvviso uno o più pazzi, come è avvenuto ultimamente a Malatya, compia qualche gesto folle. Questa situazione vincola ancora i miei movimenti perché mi rendo conto che ormai tutto è possibile» (Omelia del 6 maggio 2007 in Germania).
Queste evidenti difficoltà non hanno tuttavia impedito a questo figlio di san Francesco d’Assisi di avere sempre un cuore lieto, facendo eco alla espressione di san Paolo: «nel dolore lieti», e nemmeno gli hanno impedito di continuare ad amare la Turchia, il popolo turco e soprattutto la Chiesa che gli è stata affidata, come afferma nell’ultima omelia riportata in questa raccolta, tenuta pochi giorni prima del suo assassinio: «Se oggi mi si chiedesse: sei contento di essere dove sei? Risponderei certamente di sì. Le difficoltà non hanno ridotto, ma anzi aumentato l’amore per questa Chiesa piccola ma importante. È facile amare quando tutto va bene e funziona, eppure tutti sappiamo che l’amore si misura nella prova» (30 maggio 2010).
Nella vita donata di questo pastore troviamo così sintetizzata l’urgenza dei cristiani nel nostro tempo, ossia l’impegno alla testimonianza: ad essere quel tramite misterioso tra Dio che si comunica a noi e l’uomo nostro fratello.
Cristo – il testimone fedele e verace, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse, rimane contemporaneo attraverso la testimonianza dei fedeli, che corroborati ogni giorno dalla Parola di Dio, nutriti dal sacramento dell’Eucaristia e sostenuti dalla comunione ecclesiale, si espongono inermi nella relazione con l’altro, non in forza di una propria idea, ma di quella verità amorosa di Dio che ci è stata donata in Cristo, come ci insegna mons. Padovese già nel suo motto episcopale, ispirato a san Giovanni Crisostomo: In Caritate Veritas.
Infatti, come ci ricorda Sua Santità Benedetto XVI, «Diveniamo testimoni quando, attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo» (Sacramentum Caritatis, 85).
Infine, la pubblicazione di questo volume di omelie e di scritti pastorali di monsignor Luigi Padovese, torna a sollevare una richiesta urgente dalla quale dobbiamo tutti lasciarci interrogare: non dobbiamo lasciare sola la Chiesa di Turchia ed in generale i cristiani in Medio Oriente.
La preoccupazione che fu di mons. Luigi Padovese risuona come un monito a ciascuno di noi: ci sono cattolici, sacerdoti, laici, consacrati, disposti a giocarsi in prima persona per sostenere la presenza cristiana in quelle terre? Possa il suo esempio e quello di tutti coloro che hanno dato testimonianza fino al dono della vita stimolare i cristiani all’impegno per la nuova evangelizzazione, di cui abbiamo veramente bisogno.

(Questo testo è tratto dal volume La verità nell’amore. Omelie e scritti pastorali di mons. Luigi Padovese, di cui rappresenta l’Introduzione)

IL RAPPORTO LEGGE-LIBERTÀ NEL PENSIERO DI PAOLO – † LUIGI PADOVESE

http://www.cccsanbenedetto.it/Pagina_CCC/I_nostri_incontri/conferenza_legge-liberta.doc.

SAN BENEDETTO CENTRO CULTURALE CATTOLICO

La fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta,  non intensamente pensata, non fedelmente vissuta, Giovanni Paolo II

(non mi sembra di averlo messo)

In occasione dell’Anno Paolino, il Centro Culturale « Alle Grazie » della comunità domenicana della Basilica di Santa Maria delle Grazie di Milano, il Centro Culturale Cattolico San Benedetto, la Fondazione Vittorino Colombo e il Coordinamento regionale dei Centri Culturali Cattolici della Lombardia hanno organizzato la mostra su San Paolo « Sulla via di Damasco. L’inizio di una vita nuova » e tre serate di approfondimento una era stato sul tema « La legge e la libertà » Mons Padovese era stato ospite del Centro Culturale San Benedetto Venerdì 3 aprile 2009 insieme a padre Paolo Garuti (domenicano, biblista, docente di Scienze bibliche presso la Pontificia Università S. Tommaso di Roma e l’École Biblique di Gerusalemme) La serata era stata presentata da Luca Tanduo e Paolo Tanduo fondatori del Centro Culturale Cattolico San Bendetto

IL RAPPORTO LEGGE-LIBERTÀ NEL PENSIERO DI PAOLO

 † L U I G I   P A D O V E S E   

VICARIO APOSTOLICO DELL’ANATOLIA E PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE TURCA

 E’ stato il documento conciliare Gaudium et spes a rilevare che « mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto di libertà » . Concetti analoghi ritroviamo nell’istruzione Libertà cristiana e liberazione della Congregazione per la dottrina della fede. Nel testo in questione si legge che « la coscienza della libertà e della dignità dell’uomo, congiunta con l’affermazione dei diritti inalienabili della persona e dei popoli, è una delle caratteristiche del nostro tempo » .  Queste considerazioni poggiano sul fatto storico che l’accresciuta consapevolezza della libertà è stata una delle forze principali nel plasmare la nostra civiltà. A modo di premessa va precisato che la libertà non costituisce un bene per sé stesso, un valore finale. Ciò che è appetibile per sé stesso è possedere il proprio fine sino al punto in cui ogni appetizione viene meno. Da questo punto di vista la libertà non è nient’altro che lo stile umano, il modo umano di autodeterminarsi nella scelta e nell’esecuzione della scelta.  Il cammino storico che porta a questo concetto generale di libertà si sviluppò originariamente nella Grecia e nelle sue colonie. Qui il concetto di libertà s’è via via precisato ‘per contrasto’ : nell’opposizione tra schiavo e padrone; all’interno della città, tra cittadino con diritti e chi non li aveva; all’interno del mondo antico, tra le libere città greche e i persiani. La riflessione filosofica greca ha concorso a meglio definire la libertà della persona come « libertà spirituale » caratterizzata dalla piena padronanza di sé e dall’emancipazione da condizionamenti esterni .  Il sentimento di libertà, espresso nel pensiero greco, si è successivamente fuso, arricchendosi, con il messaggio cristiano contribuendo alla nascita del sentire odierno. Lo stesso fenomeno di arricchimento si può constatare anche in altri ambiti. Basterebbe rilevare l’incidenza che la riflessione trinitaria e cristologica della Chiesa antica ha avuto nel definire il senso dell’esistenza umana, già precedentemente intravisto dalla filosofia greca. Espressioni come « persona », « dignità personale », « dialogo », rimarrebbero suoni vuoti se non avessero trovato una prima applicazione in teologia, divenendo in un secondo momento oggetto dell’antropologia. E’ stato, infatti, dimostrato che « nella storia dello spirito occidentale la concezione del Dio personale, in particolare quella trinitaria, appare come uno dei presupposti essenziali, se non come il più essenziale, della possibilità di una soggettività libera, dello sviluppo dei diritti umani come diritti soggettivi di libertà » .  Uno sviluppo analogo non si constata nell’ambito culturale di altre religioni . Veramente il discorso su Dio e su Cristo ha stimolato e allargato le conoscenze sull’uomo ed ha sensibilmente contribuito ad affermarne il valore profondo. Tanto per esemplificare, osserviamo come la lotta per il riconoscimento della dignità e libertà umana trovi, in ambito originariamente cristiano, motivazioni e impulsi a partire dalla ‘parentela’ intrecciata da Dio con l’uomo e rafforzata in Cristo. Le teologie che leggono la storia della salvezza come evento di libertà e per questa strada vogliono liberare l’uomo dalle diverse schiavitù odierne, scoprono il loro fondamento ultimo nel testo di Gn 1,26 (« Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza ») e nella constatazione che « il Verbo si è fatto carne ».  Queste considerazioni sul rapporto tra teologia e antropologia in ordine al tema della dignità e libertà umana, non impediscono di riconoscere che l’idea di libertà, maturata con l’apporto determinante anche se non esclusivo del cristianesimo, non è più un concetto omogeneo; anzi è talmente esposta a fraintendimenti da indurre a credere che la crisi dell’Occidente sia una crisi dell’idea di libertà . Come non osservare che la parola libertà, inflazionata sino alla svalutazione, serve a giustificare un atteggiamento di  indifferenza verso gli altri, di apparente tolleranza che – tutto sommato – nasconde una mentalità relativista sia in ambito sociale che privato? Non è forse vero che l’uomo è libero ma non sa più perché (libero da, libero di, ma non libero per?)  E’ vera libertà la mancanza di vincoli? E’ vera libertà il semplice fatto di disporre di beni di consumo come vorrebbe farci credere una società di mercato che riduce questo concetto all’autogestione dell’uomo su se stesso e alla funzione dell’avere?  Non è forse vero che libertà e scelta nella cultura odierna sono divenuti sinonimi? Una tale idea di libertà è certamente riduttiva, perché non rispetta la struttura comunicativa, relazionale dell’uomo.  E’ la libertà dell’individuo, non della persona.  In riferimento al mondo occidentale il sociologo Ulrich Beck ha recentemente osservato che « la nostra vera ‘malattia’ non è una crisi, ma la libertà, o, più precisamente, sono le conseguenze involontarie e le forme in cui trova espressione  quel sovrappiù di libertà che…domina ormai la nostra vita quotidiana » .  Dinanzi a questo stato di cose un rimando al concetto cristiano di libertà risulta utile per comprenderne la specificità. La libertà cristiana possiede infatti un carattere identitario.  E’ noto come sulla bocca di Gesù la parola ‘libertà’ sia del tutto assente. E nondimeno è fuori dubbio che tale concetto impronta tutti i suoi ‘facta et dicta’.  Basti riandare a Marco che « come nessun altro ha scritto il vangelo della libertà » .  Certo, se la libertà costituisce il ‘tratto caratteristico’ di Cristo e la sua storia come ci è presentata, ha una rilevanza teologica, allora la sua libertà diviene l’elemento di verità e di autenticità del discepolo . Detto altrimenti, la realtà di Gesù, uomo libero che libera, non può non riflettersi nel movimento che a lui si richiama. Insomma, non si può essere ed agire da schiavi alla sequela di un libero. Pur lontani dalla tendenza di proiettare in Gesù i nostri desideri, facendone un simbolo che non è più sé stesso, non si può tuttavia dimenticare che proprio nella libertà i discepoli e la comunità primitiva hanno ‘riletto’ la vicenda umana di Cristo. Il filtro di lettura del solo ‘amore’ con il quale è stata poi intesa la personalità di Gesù non deve lasciare in penombra questo aspetto essenziale. Questa libertà/liberazione che traspare da tutto il comportamento e dalle parole di Gesù ha trovato particolare sviluppo nella riflessione di Paolo che  ne ha fatto una parola chiave dell’annuncio cristiano. Nelle sue lettere l’apostolo s’è trovato a dare soluzioni concrete  per delle comunità non ben strutturate all’interno di un mondo multietnico e multireligioso, ma anche singolarmente per dei neofiti con un’identità in formazione e con quesiti precisi che richiedevano una netta  presa di posizione (culto degli idoli, lavoro, sesso, rapporto con il potere politico, rapporto con i pagani, ecc). L’impegno di Paolo è stato quello di  tradurre in vita concreta le conseguenze della fede in Cristo. Ciò spiega perché la tematica della libertà che l’apostolo ha reso un termine fondamentale del suo annuncio è stata affrontata con sfumature diverse sulla base di differenti sollecitazioni. Né va dimenticato che questo annuncio andava poi indirizzato a persone viventi in un ambiente diverso da quello originario della Palestina.   Pur senza tradire l’ispirazione di fondo del messaggio teocratico radicale di Gesù, afamiliare e apolide – impraticabile nelle comunità cittadine ellenistiche – l’apostolo l’ha reso accessibile a uomini e donne viventi in sedentarietà. Evidentemente il passaggio dell’annuncio cristiano dall’ambito aramaico a quello greco ha significato anche un mutamento a livello di contenuti e di rappresentazioni assunti dal bagaglio culturale ellenistico. Lo stesso richiamo paolino alla libertà presentata come il vero segno caratteristico dei cristiani e della comunità, rientra in questo processo di adattamento o d’inculturazione. Nessuno tra gli autori del NT vi ha dedicato tanto interesse quanto Paolo per il quale « la libertà precede l’obbligazione, ogni tipo di obbligazione. Proprio in ciò il messaggio cristiano, secondo l’Apostolo, si dimostra letteralmente eu-anghellion, cioè annuncio buono e lieto, tale che è un sollievo ascoltarlo: perché in prima battuta esso non impone prescrizioni da osservare, ma propone una libertà da accogliere gratuitamente e da fare propria » .  Se è pur vero che il rimando alla libertà, addotta quale criterio identitario del cristiano, risente dell’adattamento all’ambiente ellenistico al cui interno l’apostolo opera, non è meno vero che la centralità data alla libertà  risente della sua esperienza personale sulla via di Damasco. E’ qui che egli fa l’esperienza della grazia,  termine che nel suo linguaggio ha il senso fondamentale  di « benevolenza » .   A Damasco Paolo comprende che l’uomo autocratico, vive una ‘religiosità di scambio’, per la quale ritiene che Dio gli debba qualcosa se adempie i suoi comandamenti. E’, insomma,  l’uomo che si giustifica, non il « giustificato », e – per conseguenza – colui che vanifica l’azione salvifica di Cristo. Che senso ha la sua incarnazione, morte e resurrezione se si può fare a meno di Lui?  Il fatto di sentirsi un ‘graziato’, senza alcun merito, apre gli occhi dell’apostolo ad una nuova immagine di Dio che segnerà tutto il suo cammino. D’ora innanzi Cristo diviene  il riferimento fondamentale ed imprescindibile della sua esperienza religiosa. E’ per questa ragione che ai Galati, in termini appassionati, scrive: « Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (2,20).  Nello spostare il baricentro da una religiosità che  pone al centro l »io dell’uomo anziche il ‘tu’ di Dio, Paolo – attraverso la sua esperienza personale – ci mette in guardia dall’abbaglio di fissarsi su un’immagine di Dio che ne altera i tratti e che presume di misurare l’incommensurabile. Non era lui, Saulo, che, nel nome di Dio, perseguitava i cristiani? Non apparteneva a quanti anche in seguito li avrebbero messi a morte, pensando così di dar gloria a Dio? Ancora ai nostri giorni vediamo terroristi che fanno stragi nel nome di Dio. Tutto questo mostra quali implicazioni pratiche contradditorie si diano nel riferirsi a Dio e come non di rado lo si misuri con un metro umano.  Nell’incontro con Cristo a Damasco l’apostolo ha inteso che l’amore costituisce il primo e più importante principio ermeneutico della fede cristiana che non potrà mai limitarsi ad un semplice assenso della mente se il cuore non è coinvolto. La cosiddetta « conversione » di questo orgoglioso fondamentalista ebraico che aveva identificato l’amore per la Legge con l’aggressione ai dissidenti cristiani ,  indica ora adesione « a una persona viva e liberante come Gesù Cristo, capace di orientare in una nuova direzione non solo le energie umane di cui si dispone, ma anche i propri valori religiosi di origine » . Questo spiega perché l’apostolo, riferendosi alla sua vicenda personale, non abbia mai parlato di un « convertirsi, ravvedersi », « ricredersi », « cambiare ». L’esperienza di Damasco è piuttosto « chiamata », « elezione, « rivelazione » nella quale anche la fase precristiana  ha trovato un senso. C’è così un rapporto di continuità/discontinuità rispetto al passato. D’ora innanzi la Legge per il Paolo ‘convertito’, non sarà più la stessa del Paolo ‘osservante fariseo’. La parola rimane, ma il contenuto cambia. E’ la Legge in Cristo che non conosce obbligazione né paura. E’ la legge della libertà, dal momento che l’amore esclude ogni imposizione ed è ben diversa dalla Legge precedente posta sotto l’imperativo del « dovere ». Ora, secondo Paolo, « il ‘devi’ è diventato un ‘voglio’. La Legge cristiana ha quindi nella libertà il suo fondamento e ciò contrariamente alla concezione greca dove è la legge a fondare la libertà E’ la legge dei figli, ammesso che si possa ancora parlare di legge quando non si è più schiavi, ma figli (Gal 4,3-7). Questi concetti, espressi nella Lettera ai Galati scritta da Paolo presumibilmente da Efeso attorno al 57, sono sviluppati in contesto polemico all’interno della primitiva comunità cristiana . La questione riguardava il ‘peso’ da attribuire alla Legge e, per conseguenza, all’opera redentiva di Cristo  Dopo aver sperimentato la sua cosiddetta ‘conversione’ come una liberazione, l’apostolo comprende che  l’idea di pervenire alla libertà mediante la legge ai suoi occhi è un fallimento . Pertanto collegherà la libertà soltanto con Cristo e non con la legge, come avveniva nello stoicismo e nel giudaismo nel quale si riteneva che fosse l’osservanza della Torà a rendere libero l’uomo Questa concentrazione sulla Legge, però, poteva alla lunga lasciare in penombra Dio stesso Per questa strada si giunse ad attribuire alla Legge dei tratti quasi divini e l’uomo che si riteneva libero, di fatto si trovò schiavo di un dovere che non poteva mai compiere perfettamente. E’ il dramma (di Sisifo) che contrassegna certo giudaismo e che Paolo, da buon fariseo, metterà in luce affermando che l’uomo non è così libero e la legge non cosi liberante come si pensa. La liberazione e la libertà vanno cercate altrove e in altro modo. Contrariamente a questo convincimento, tra i cristiani della Galazia da lui evangelizzati, alcuni missionari giudeo cristiani predicano il ritorno alle osservanze giudaiche in vista della salvezza. Per costoro la legge costituirebbe ancora una condizione o requisito necessario per entrare nella comunità . Il fatto di sentirsi ancora parte d’Israele li induce a richiedere ai convertiti la pratica della circoncisione e l’osservanza delle legge, così come si richiedeva ad un ‘proselito’. Per contro Paolo insiste che i gentili non abbisognano delle legge di Mosé per essere membri del popolo di Dio. L’osservanza della legge, come pure la circoncisione (cf Gal 6,15) non possono valere come requisiti fondamentali per l’ammissione alla comunità. Si tratta ormai di realtà indifferenti (« Essere circoncisi o non esserlo non conta nulla », 1Co 7,19), poiché la giustificazione proviene esclusivamente da Cristo.  Affermare – come predicavano gli ignoti missionari contrari a Paolo – una giustificazione attraverso la legge significava vanificare l’azione di Gesù . Ma ciò era evidentemente in linea con il pensiero giudaico per il quale « accettare la legge e vivere in conformità con essa era il segno e la condizione di una situazione di privilegio » . Togliendo invece valore alla legge Paolo veniva automaticamente a negare il concetto di elezione.  Intorno a questi concetti si svilupperà la riflessione paolina su Cristo che, giustificando l’uomo, lo rende libero. La libertà, dunque, esprime lo ‘status’ del credente in Cristo.  In quanto cittadino della città celeste, Gerusalemme, che è nostra madre e che è libera (cf Gal 4,24-31), anch’egli è libero .  Con altra immagine, Paolo presenta questa libertà anche come effetto ed espressione della nuova condizione di figli (cf Gal 4,3-7). E’ una libertà che inerisce all’essere del cristiano e non va vista tanto come libertà  di scelta ma come uno stato salvifico duraturo. Libertà in Cristo prima che libertà da… o per…. Non si tratta, poi, di una libertà ‘qualità’  che viene ‘conquistata’ : essa è piuttosto frutto dell’evento escatologico di Cristo  che « ci ha liberati per la libertà »(Gal 5,1). Dicendo così, Paolo mette in luce un doppio aspetto : a.l’uomo non può liberarsi da solo, ma abbisogna di un redentore. b.la libertà è un dono e il fine della sua azione salvifica .  Nell’insegnamento dell’apostolo è mediante il battesimo che l’uomo acquisisce questa libertà. Da quel momento – direbbe Paolo -  « sono stato crocifisso con Cristo. Non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me »(Gal 2, 19b-20a).  In altre parole la libertà per Paolo è dono ed è espressione di un nuovo stato ontologico. Essa poi « permane nella dipendenza, perché il vivere  nella grazia non costituisce uno stato chiuso, ma un dono continuamente accolto in libertà » .  Quali gli effetti di questo essere « stati uniti a Cristo mediante il battesimo »(Gal 3,27)? Nel possesso dello stesso dono e della stessa dignità, cadono le separazioni precedenti e si crea un nuovo spazio di libertà: uno spazio di uguaglianza, fraternità, amore vicendevole . Ora « non ha più importanza alcuna l’essere ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo, siete diventati un sol uomo »(Gal 3,28). Liberato dal proprio passato, il cristiano è libero per il futuro. Crolla il « dominio degli spiriti che governavano il mondo »(Gal 4,3), vengono meno le prescrizioni riguardanti osservanze di tempi speciali, cibi(cf Gal 4,10). Il ‘mangiare insieme’ con cristiani dalla gentilità è divenuto un ‘adiaphoron’ (cf Gal 2,11). Ma è soprattutto ridimensionato il senso della legge. La nuova via della fede libera da essa, eppure non si tratta d’una libertà assoluta dal momento che è « la libertà che abbiamo in Cristo »(Gal 2,4). Questa ha piuttosto una sua norma (Legge di Cristo) nella parola della croce di Gesù « attraverso la quale il mondo è per me crocifisso ed io per il mondo »(Gal 6,14). E’ in questa esperienza della croce e dell’essere crocifisso con Cristo che la libertà cristiana trova la sua vera essenza. Se perciò Paolo proclama « Dio vi ha chiamati a libertà »(Gal 5,13), subito dopo aggiunge : »Ma non servitevi della libertà per i vostri comodi »(Gal 5,13). Libertà e amore del prossimo sono perciò due facce della stessa medaglia.  Il legame inscindibile di libertà ed amore è ulteriormente sviluppato nella 1Co che Paolo scrisse pure  da Efeso (cf 1Co 16,8) verso il 57.  In essa l’apostolo presenta la libertà interiore come indipendenza dell’uomo dalla sua condizione sociale divenuta ormai indifferente. Ora essere libero o schiavo importa relativamente dal momento che la chiamata alla fede prescinde da tutto ciò. « Chi era  schiavo quando il Signore lo ha chiamato alla fede, è già diventato un uomo libero che è al servizio del Signore. E, viceversa, chi era un uomo libero quando il Signore lo ha chiamato alla fede, è diventato ora uno schiavo di Cristo »(1Co 7,22).  Questa libertà interiore, stando alle parole di Paolo, è altresì indipendenza dal destino che sembrerebbe ‘possedere’ l’uomo. Ormai « tutto è vostro: il mondo, la morte, il presente e il futuro. Voi invece appartenete a Cristo e Cristo appartiene a Dio »(1Co 22-23). Chiaro il senso di queste espressioni: la libertà è un bene che scaturisce dalla constatazione che « voi – commenta l’apostolo – non appartenete più a voi stessi perché Dio vi ha fatti suoi riscattandovi a caro prezzo »(1Co 6,19-20).  Queste affermazioni si comprendono in relazione a quel gruppo di cristiani ‘pneumatici’  di Corinto che avevano inteso malamente il suo annuncio di ‘libertà’ per vivere a loro modo, facendo i propri comodi. Costoro partivano da una falsa teologia della resurrezione che ignorava la croce, fraintendevano il senso dell »escatologia in atto’ come se fossero già perfetti e proclamavano la libertà di coscienza come bene addirittura superiore alla carità verso i più ‘deboli’. Sentendosi ormai risuscitati con Cristo (cf Ef 2,6; Col 2,12-13) attraverso il battesimo, essi nutrivano l’idea di essere cittadini del cielo, non più vincolati alle ‘leggi’ della terra. E’ chiaro che questo  sentire aveva riverberi concreti.  L’apostolo non contesta l’affermazione di principio che costoro usavano e che egli riporta tre volte: « Posso fare tutto quel che voglio »(1Co 6,12; 10,23). « E’ vero » – soggiunge Paolo -  eppure egli sottopone il concetto gnostico di libertà ad una griglia di interrogativi che ne mettono a nudo i fondamenti :   1. l’uso della libertà è sempre finalizzato al bene ? (cf 1Co 6,12a)   2. è libertà lasciarsi vincere dall’impulso del momento ? (cf 1Co 6,12b)   3. è sempre utile l’esercizio della libertà ? (cf 1Co 10,23a)   4. serve al bene della comunità ? (cf 1Co 10,23b).  Con questa serie di impliciti interrogativi Paolo stabilisce una norma tipicamente cristiana: « quando la libertà e l’amore entrano in conflitto, è la libertà che deve cedere il passo all’affermazione dell’amore. La libertà ad ogni costo può essere segno di immaturità e di infantilismo, mentre l’amore è sempre segno di vita adulta e responsabile » . Occorre sottolineare che Paolo, nel trattare questi temi concernenti la morale dei suoi lettori,  non ha fatto uso del suo potere di apostolo (??o????) . Piuttosto « rimprovera, consiglia, ordina, ma sempre portando ragioni per persuadere, come si fa con gli uomini adulti, mai imponendo semplicemente il suo parere. Bisogna raggiungere la maturità con l’uso stesso della libertà, correndo il rischio di commettere errori » . E dunque « dinanzi alla libertà pericolosa dei Corinti, egli non la limita dando norme, ma la educa facendo emergere con la sua argomentazione il senso di responsabilità per gli altri » . A questo proposito – ma anche per giustificare il suo operato da accuse che proprio a Corinto gli si muovevano – Paolo propone il suo esempio. « Non sono libero io ? Non sono forse apostolo ?…Io sono libero. Non sono schiavo di nessuno. Tuttavia mi sono fatto schiavo di tutti, per portare a Cristo il più gran numero possibile di persone »(1Co 9,1.19). La libertà della quale egli aveva usato era quella di farsi « schiavo di tutti »(1Co 9,19) : una libertà dell’amore .  E’ ancora questo tipo di libertà che l’apostolo proclama a quei Corinti i quali mangiavano carne immolata agli idoli scandalizzando i deboli (« Qualcuno mi obietterà: ‘Ma perché la coscienza di un altro deve limitare la mia libertà ?’ » 1Co 10,29). Secondo l’apostolo, la libertà deve piegarsi al rispetto della coscienza altrui, anche se ‘debole’. E anche qui l’apostolo può richiamarsi al principio che regola i suoi atti e che traluce dalla sua vita: la ricerca del bene altrui (« Comportatevi come me, che in ogni cosa cerco di piacere a tutti. Non cerco il mio bene personale, ma quello di tutti, perché tutti siano salvati » 1Co 10,33).   E’ certo significativo che negli scritti neotestamentari successivi a Paolo gli accenni alla libertà cristiana siano pressoché scomparsi. Soltanto in Gc 1,25.2,12 ed in 1Pt 2,16 vi si fa riferimento. Sembra ridotto l’entusiasmo che animava le prime comunità le quali devono ora confrontarsi con problemi che non potevano che ridimensionare il concetto di libertà. Come scrive E. Käsemann « la libertà non è più la corrente impetuosa che trascina l’intera vita sia del singolo credente che della chiesa, ma è uno dei molti ruscelli cui la comunità si abbevera per il suo ammaestramento » .  Ad un siffatto mutamento hanno concorso diverse cause: il bisogno di stabilità e l’emergere di un sistema patriarcale, lo sfumarsi del sentire escatologico, l’affermarsi dell’episcopato e la conseguente istituzionalizzazione dei carismi, e – non da ultimo – le eresie, gli scismi, ovvero tutti  gli sbagli umani che portavano ad essere guardinghi.  In questa temperie di circostanze la libertà cristiana non è stata soppressa ma comprensibilmente « posta sotto controllo ed in un certo senso anche incanalata » .  Eppure l’esperienza di Gesù e del suo apostolo è sempre lì ad indicarci qual è il cammino da percorrere e il mondo sta ancora e sempre attendendo la rivelazione « della gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rom 8,21), ossia la nostra testimonianza identitaria di cristiani che si oppongono alla pressione sociale ed alle regole occulte imposte dall’individualismo e dalla mercificazione globale che stanno minando la libertà.  Paolo ci ricorda che possiamo essere liberi da e liberi di, se anzitutto siamo liberi in Cristo.  Come ha scritto anni fa l’esegeta tedesco Ernst Käsemann: » Nulla di più noi dobbiamo dargli (al mondo) e gli rifiutiamo l’evangelo se non schiudiamo ai suoi occhi questa libertà, non come un’utopia, ma come chiamata e dono di Gesù » .

 

Il Vangelo secondo Paolo: fede, speranza, carità (di Luigi Padovese)

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Il Vangelo secondo Paolo: fede, speranza, carità

di Luigi Padovese

inPREMESSA

In alcuni studi sulla storia del pensiero cristiano antico è stato rilevato l’accresciuto interesse per Paolo e per il suo epistolario, che caratterizza le opere degli scrittori ecclesiastici del IV secolo. Sono ben 21 i commentari delle lettere paoline di questo tempo dei quali abbiamo notizia certa [1]. Circa le possibili motivazioni di questa concentrazione le risposte date sono diverse. In particolare il riferimento alla persona di Paolo è addotto come modello di conversione e di vita cristiana in un’epoca in cui la Chiesa va assumendo la fisionomia di una “potenza” terrena producendo la reazione di quanti vogliono vivere con rigore e radicalità l’ideale da essa proposto. Nel momento in cui l’appartenenza al cristianesimo incomincia a divenire pura formalità, senza scosse o rivolgimenti di coscienza, l’apostolo acquista un interesse sempre maggiore divenendo il principale referente del cristiano convertito. Il Paolo di Basilio, di Giovanni Crisostomo, d’Ilario, di Agostino, è anzitutto il modello da imitare in un cammino di fedeltà al messaggio evangelico rispecchiato nelle lettere dell’apostolo. Quando nelle Regole Morali, compendio dei doveri del cristiano, Basilio di Cesarea proporrà per 16 volte la questione identitaria e pratica di che cosa è proprio del cristiano (Ti idion Christianou?), sarà soprattutto negli scritti di Paolo che reperirà la maggior parte delle risposte [2]. Lo stesso avviene anche per altri teologi e pastori in momenti diversi della storia cristiana. Si consideri, ad esempio, l’influenza che l’epistolario paolino ha acquisito per gli umanisti ed i Riformatori del ’500 presso i quali il ritorno ad fontes è stato inteso come un ritorno a Paolo ed ai vangeli [3]. Eppure l’apostolo, mediante vita e lettere, oltre ad essere assurto a simbolo della non omologazione della Chiesa a questo mondo, ha alimentato anche i movimenti che al suo interno hanno tenuta viva la tensione tra carisma ed istituzione. La “sapienza” o “filosofia di Cristo” – formula d’impronta paolina cara ai Padri ed alla letteratura monastica medievale – è divenuta emblematica della radicalità nella sequela evangelica. Non meraviglia dunque che Paolo sia stato assunto anche a modello degli asceti cristiani. Basti accennare alla Vita Antonii, scritta da Atanasio (tra il 355 e il 361), vero e proprio manifesto -1www.letterepaoline.it – ideologico e pratico del monachesimo, in cui l’apostolo figura come il perfetto imitatore di Cristo che Antonio, e quindi ogni monaco, deve seguire [4]. Paolo, pertanto, con le sue lettere ha svolto all’interno della comunità cristiana una funzione di vigilanza e di correzione contro ogni forma di snaturamento del messaggio cristiano, ma è stato anche stimolo e richiamo ad una radicalità di fede espressa nell’imitatio Christi. Questi due aspetti, fedeltà del messaggio evangelico e imitazione di Cristo, sono compendiati nella trilogia di fede, speranza e carità che l’apostolo richiama tre volte e che gli servono per specificare e sintetizzare il fondamento e le modalità del vivere cristiano [5]. Legando inscindibilmente tra loro fede, speranza e carità egli raggiunge ogni singolo aspetto della vita credente: la fede quale definizione dell’essere cristiano e della sua identità personale, la speranza come l’attesa fiduciosa e sicura di quanto la fede proclama, “abbandono fiducioso in un Dio che salva”, la carità, infine, quale fede tradotta in azione ed avente come modello il Crocifisso. Non si tratta perciò di tre virtù giustapposte ma d’un’unica indivisibile realtà che solo per necessità didattica consideriamo partitamente. 

LA FEDE DI PAOLO
Tra gli autori del Nuovo Testamento l’apostolo è certamente quello che parla più spesso di “fede”. Tale vocabolo ricorre 142 volte rispetto alle 101 ricorrenti nel Nuovo Testamento. Ma in che consiste questa fede? La risposta è il vangelo, ossia la buona novella trasmessa oralmente circa la persona di Gesù, la sua passione, morte e resurrezione. Se nell’annuncio primitivo ad Israele o ai fedeli della diaspora, si tratta della proclamazione di fede in un Dio unico, il punto di partenza d’ogni confessione cristiana è la fede in Cristo [1]. Non mancano nelle lettere di Paolo formule di fede trinitaria, anch’esse però si appoggiano sulla realtà del Cristo risorto al quale appartiene il potere di fare delle opere che competono solo a Dio per mezzo dello Spirito Santo inviato ai credenti [2] La controprova circa il carattere cristologico delle prime professioni di fede è offerto dal fatto che in tutte le primitive formule è menzionato il Cristo, ma non in tutte compare il Padre [3]. E si tratta di brevi formule di acclamazione, facili da ricordare, indicanti un fatto: “Gesù è il Signore” (1Cor 12,3) [4], oppure un evento: “Gesù morì e risorse”(1Ts 4,14), “Dio ha risuscitato Gesù dai morti” (Rom 10,9). Talvolta, fatto ed evento sono associati (cf. Rom 1,3s.). Se da queste brevi e più antiche formule di fede cristologica si passa a ricercare gli elementi peculiari della predicazione missionaria primitiva, li si ritroverà nel kerygma annunciato da Paolo ai Corinzi (1Cor 15, 3-6) comprendente: 1) il richiamo alla morte ed alla resurrezione di Gesù; 2) la testimonianza scritturale dei due eventi; 3) il richiamo ai testimoni. È scomparso il tema del Regno, o meglio, l’annuncio del Regno è divenuto l’annuncio di Gesù: quello giunge mediante questo. All’apostolo non interessa l’uomo Gesù, che non vuole conoscere “secondo la carne” (2Cor 5,16). Focalizza piuttosto la sua attenzione su passione, morte e resurrezione di Gesù quali eventi che mostrano l’azione divina in Lui. Ma v’è di più: nell’annuncio paolino tali eventi sono ancorati alla vita di ciascuno mediante l’osservazione che essi avvennero “per le nostre colpe” (Rom 4,25), “per la nostra giustificazione”(Rom 4,25). “Mi ha amato ed ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). La vicenda di Cristo e la storia personale di ciascuno sono così inscindibilmente intrecciate. Se nella religiosità antica è l’uomo che ha bisogno e va in cerca di Dio, nell’annuncio cristiano si presenta l’inverso: Dio, l’Abbà, attraverso Cristo, cerca l’uomo per salvarlo. Questo è il nucleo del credo annunciato da Paolo ma anche la ragione dello scandalo cristiano che egli non passa sotto silenzio o addolcisce, anche se ciò potrebbe rendergli la vita meno difficile. Lo dichiara ai Galati 5,11: «Quanto a me, fratelli, se dicessi che la circoncisione è necessaria, gli ebrei non mi perseguiterebbero più, ma in questo caso la croce di Cristo non sarebbe più per loro motivo di scandalo». Paolo è ben cosciente che la fede in Cristo contrasta tanto con la concezione paganeggiante di Dio che si pensa sia appagato da un formale ossequio religioso, quanto con un’idea di Dio, provvidente e buono, che tuttavia non potrà mai abbassarsi al nostro livello fino al punto di nascere povero da una insignificante donna ebrea e di morire come un delinquente sul supplizio della croce, riservato agli schiavi (servile supplicium). L’apostolo è consapevole delle resistenze che il suo annuncio produce, quando dichiara che «la parola della croce è stoltezza per i perduti, per noi, i salvati, è potenza di Dio» (1Cor 1,18). La stoltezza risiede nella croce predicata come azione salvifica di Dio che confonde l’uomo il quale presume di procurarsi la salvezza da sé [5]. Eppure è proprio questa fede difficile che, secondo Paolo, dà la giustizia. Così infatti si esprime in Gal 3,11 e in Rom 1,17, dove dichiara che «il giusto per fede vivrà», cioè colui che è reso giusto a motivo della (sua) fede (in Cristo) vivrà [6]. La giustizia è data a chi accoglie questo difficile annuncio di Dio che ci salva attraverso la croce. Mai nessuna fede in Dio è in grado d’impegnare tanto concretamente quanto il fatto di credere nel Dio nato povero e morto crocifisso. La fede cristiana, insomma, non rimane nell’ambito della pura credenza, del solo pensiero, non è astrazione. Proprio perché si fonda sulla concretezza di Cristo che non era un fantasma e la cui croce non era un’illusione, impone di compromettersi con Colui al quale aderisce. È una fede che non accetta interpretazioni spiritualistiche poiché incarna una reale protesta contro tutte le ingiuste forme di selezione e di pressione naturale e sociale (ricchi e poveri, schiavi e liberi, uomini e donne). In essa, infatti, «colui che è senza potere viene proclamato signore del mondo, la vittima sacerdote, il condannato giudice, l’emarginato il centro della comunità» [7]. Può una tale fede rimanere senza incidenza nella vita dei cristiani? Se lo è, allora il problema è se uno è veramente cristiano. Dietro la convinzione che si è giustificati se si accoglie questo Gesù come Salvatore, si coglie l’esperienza personale di Paolo che sulla via di Damasco è chiamato da Cristo senza alcun merito. È l’esperienza della gratuità o della grazia – termine che nel linguaggio paolino ricorre 100 volte sulle 154 del NT – e che ha il senso fondamentale di “benevolenza” [8]. La cosiddetta “conversione” di questo orgoglioso fondamentalista ebraico che aveva identificato l’amore per la Legge con l’aggressione ai dissidenti cristiani [9], non significa passaggio da uno stato di dissipazione morale ad una vita austera, e neppure indica un cambio di religione, ma adesione «a una persona viva e liberante come Gesù Cristo, capace di orientare in una nuova direzione non solo le energie umane di cui si dispone, ma anche i propri valori religiosi di origine» [10]. Da questo punto di vista si capisce perché l’apostolo, in riferimento alla sua vicenda personale, non parli di un “convertirsi, ravvedersi”, “ricredersi”, “cambiare”. L’esperienza di Damasco è piuttosto “chiamata”, “elezione, “rivelazione” nella quale anche la fase precristiana trova senso; è servita, infatti, a trarre dall’ebreo fanatico l’apostolo delle genti e dallo scrupoloso ed intransigente legalista l’annunciatore della libertà cristiana. La conversione dell’apostolo – se si vuole usare ancora questo termine – è iniziativa assoluta di Dio, non dell’uomo, ed implica «riorganizzazione dei suoi migliori valori ideali attorno a Cristo, che fa irruzione nella sua vita» [11]. C’è così un rapporto di continuità/discontinuità rispetto al passato, ma anche la convinzione che tutto il cammino umano è risposta a Dio che si rivela e chiama. In questo senso si capisce meglio perché Paolo parli di vocazione che trascende la discontinuità [12]. Ai Galati trasmette proprio questa convinzione d’essere stato scelto da Dio fin dal seno di sua madre, chiamato con la sua grazia, e fatto oggetto della rivelazione del Figlio perché la annunci alle genti (cf. Gal 1,15). Se l’evento di Damasco ha significato per l’apostolo il passaggio dalla cecità alla luce, è anche vero che nella penetrazione del mistero di Cristo egli ha avuto bisogno dei suoi compagni di fede. È nel contatto e anche nel confronto con essi che egli è maturato. L’unità interiore presente nel suo pensiero non ha escluso un divenire, una crescita. Come è stato scritto, il fatto «che nell’annuncio del suo vangelo Paolo resti fedele a sé stesso non significa che egli permanga costantemente nelleoggettivazioni teologiche della sua riflessione… la fedeltà al suo compito lo obbliga a una sempre nuova riflessione, a un sempre nuovo inizio teologico. Il vangelo non può essere superato, ma lo stadio di una riflessione teologica lo può assai bene. E riflessione teologica vuol dire anche congedarsi dalle idee teologiche alle quali un tempo si era affezionati. Che la teologia si fa continuamente nel campo di tensione di continuità e discontinuità Paolo lo ha ben capito!» [13]. La maturazione della fede in Cristo per Paolo si è prodotta all’interno della comunità cristiana e non senza di essa. Egli ne era ben cosciente. È questa la ragione che per due volte lo spinge a confrontarsi con Pietro e Giacomo (cf. Gal 1,18) e quattordici anni più tardi con costoro, con Giovanni e con «le persone più autorevoli (della comunità di Gerusalemme) per non correre o aver corso invano» (Gal 2, 2). La Chiesa è per l’apostolo qualcosa di costitutivo per l’esistenza cristiana. Non è pensabile un cristianesimo “separato”, cioè una divisione in gruppi disparati che si tengono solo esteriormente legati mediante la comune confessione di Gesù Cristo. In realtà la comunità di Dio nel Nuovo Patto già dalla sua costituzione e concezione di base si edifica fin dall’inizio unitariamente sul “fondamento degli apostoli e dei profeti” e raccoglie tutti i membri e i gruppinell’edificio di cui la pietra angolare e chiave di volta è Cristo (cf. Ef 2,20). La fede cristiana, non può dunque prescindere dalla comunità. 

LA SPERANZA DI PAOLO
È nel III sec. a.C. che ad Alessandria è stato tradotta parte dell’Antico Testamento dall’ebraico al greco. Nella traduzione in greco del salterio i soli termini “speranza” e “sperare” sono stati utilizzati per tradurre 28 termini ebraici. Questo termine s’è così caricato di una ampia portata semantica perché mostra diverse sfaccettature. La speranza biblica raccolta nasce dalla convinzione che Dio è padrone della storia e del tempo della storia. Pertanto, il libro che narra le vicissitudini di Israele e la storia del suo rapporto con Dio è per Israele il libro della speranza che sorregge soprattutto nel momento della prova [1]. Poiché Dio è sempre fedele a sé stesso (cf. Eb 3,6), riesce possibile, anzi doveroso ricercare nella storia le ragioni della speranza. «Tutto quel che leggiamo nella Bibbia – dichiara Paolo – è stato scritto nel passato per istruirci e tener viva la nostra speranza, con la costanza e l’incoraggiamento che da essa ci vengono» (Rom 15,4). La speranza biblica si alimenta di memoria ed è ben diversa da quanto nel mondo greco s’intende per speranza, considerata piuttosto futurologia, ossia la tendenza di mettersi al riparo dal futuro considerandone tutti i possibili rischi. Sulla base del presente, insomma, ci si tutela per il domani. «La elpís (speranza) dell’uomo saggio… si fonda sulla physis (natura) esplorata scientificamente. La tendenza, prettamente greca, a garantirsi dal futuro inserendosi razionalmente e organicamente nell’ordine cosmico trova qui la sua espressione caratteristica» [2]. Per Paolo il fondamento e la ragione ultima della speranza è la fede in Gesù Cristo morto e risorto, che illumina il presente ed il futuro: «Egli è la nostra speranza» (Ef 1,12). Non sorprende che questo concetto, comprendente diversi aspetti, sia centrale negli scritti dell’apostolo (36 volte compare il termine “speranza” e 19 volte il verbo “sperare”) e neppure meraviglia che sia divenuto oggetto di continua riflessione da parte di filologi, biblisti e patrologi [3]. È particolarmente nella lettera ai Romani che Paolo presenta la speranza nei suoi elementi di attesa, fiducia, pazienza. Non è una trattazione astratta, dal momento che Paolo scrive tenendo presente le aspettative, le necessità, le prove concrete delle sue comunità a confronto con un mondo avverso al quale dare prova concreta che Cristo già regna e che le forze disumanizzanti del male saranno completamente vinte. Salvezza presente e futura sono congiunte insieme nella speranza che fa da ponte tra le due. È lo Spirito ad alimentarla e ad accrescerla in noi. «La speranza – scrive ai Romani – non porta alla delusione perché Dio ha messo il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato» (Rom 5,5). Non è attesa di un possibile bene futuro, bensì come aspettazione certa di un bene in atto: è un fermento che già opera nella pasta benché non si veda che dai suoi effetti e che attende anche il nostro contributo, come tutti i doni di Dio che non maturano senza la collaborazione umana. Deve, pertanto, divenire operativa (cf. Col 1,4-5) e non esiste se non congiunta alla fede ed alla carità (cf. 1Co 13,13). Non è aspettazione passiva, fatta di pigra inerte attesa, estraniante dall’impegno nel presente. A quei Tessalonicesi che la pensavano così, l’apostolo scrive: «Non dobbiamo dormire come gli altri, ma stare svegli e lucidi di mente… mettendoci la corazza della fede e dell’amore e l’elmo della speranza della salvezza» (1 Ts 5,5-6.8). Mentre ci apre al futuro, serve a vivere meglio il presente, anche se non può limitarsi ad esso, dal momento che, secondo Paolo, «se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini» (1Cor 15,19). A questo riguardo va osservato che mentre i non credenti nella sofferenza si scoraggiano e disperano, i cristiani, proprio attraverso di essa, maturano nella forza, «e questa forza – commenta Paolo – ci apre alla speranza» (cf. Rom 5,2-5). Umanamente questo comportamento può risultare incomprensibile: come può nascere o perdurare la speranza nelle contrarietà e nella sofferenza? Eppure è proprio questa che aiuta a vivere la sofferenza come un valore. La speranza colora la realtà, modifica il dolore da realtà puramente negativa in realtà positiva, perché dà ad esso un significato. Questa speranza che anima il cristiano può inoltre permettergli di parlare nel mondo con tutta franchezza: è la virtù dei martiri. Come dichiara Paolo: «poiché abbiamo questa speranza, possiamo parlare con grande franchezza» (2Cor 3,12). Il cristiano che ha posto tutta la sua fiducia nel Risorto, non ha nulla da perdere e da temere. La speranza escatologica si tramuta così in agire storico: diviene il fondamento della “parresia”, del parlar chiaro, della critica costruttiva; non estrania dal mondo ma neppure circoscrive in esso. È la fede che guarda in avanti e che mantiene viva nel cristiano la tensione verso quei beni che Dio ha preparato per coloro che lo amano. 

LA CARITÀ DI PAOLO
Come per la fede e la speranza, anche la carità trova il suo aggancio nella persona di Gesù al punto che nell’inno alla carità di 1Cor 13 ogni espressione riferita all’amore si può applicare alla sua vita, parole ed azioni. In accordo con il Sermone della montagna, l’amore precede tutti i carismi che non hanno valore se esso manca. Il quadro che Paolo fornisce dell’amore (cf. 1Cor 13,4-7) non è di una virtù cardinale cristiana, ma quello della piena partecipazione all’agape di Dio Padre che, attraverso Cristo, ama in modo del tutto gratuito (Rom 5,6) anche chi non lo merita (Rom 5,10), sino ad acconsentire alla morte del Figlio «affinché il mondo abbia la vita» (Rom 5,8). Gesù è perciò l’incarnazione dell’amore di Dio (Rom 8, 39). È sulla croce che questo amore, manifestato nell’obbedienza di Cristo al Padre, trova la sua massima espressione (Fil 2,8). Il comandamento cristiano dell’amore trova la sua motivazione cristologica in Colui che serve e si sacrifica per noi. «Su questo punto l’etica e la teologia della croce di Paolo stanno in intima dipendenza vicendevole» [1]. Da qui scaturisce per il cristiano l’impegno all’amore reciproco (1Cor 8,3; Rom 8,28) che non è possibile se non è lo Spirito a farcene dono (Rom 5,5). L’amore del prossimo, dunque, non è semplice filantropia ma nasce a contatto con la realtà dell’oblazione totale di Cristo. La fede in Lui diventa così efficace nell’amore (Gal 5,6). Con altre parole Paolo dichiara che nell’amore trova adempimento la legge che non è quella mosaica, bensì la legge di Cristo (Gal 6,2) [2]. Questa va che interpretata a partire dall’amore e non l’amore a partire dalla legge, come nel giudaismo [3]. L’amore cristiano si carica così di più contenuti sia rispetto all’amore com’è inteso nell’Antica Alleanza, ma anche rispetto al semplice amore umano, dal momento che esso è fondato sull’evento della morte e resurrezione di Cristo e sul dono dello Spirito. È superato il precetto dell’amore di se stessi come misura dell’amore del prossimo (“Ama il prossimo tuo come te stesso”). Paolo, in effetti, «non fa mai dell’amore di sé la norma dell’amore del prossimo» [4]. Come potrebbe dinanzi a quel Cristo che – come dichiara – «ha consegnato se stesso per me?» (Gal 2,20). Nemmeno considera l’amore come una virtù civica, frutto di un processo pedagogico o come “eros”, nel senso di amore di quanto è vero, bello, buono. E neppure considera l’amore come sentimento, come legame emozionale nel senso del soggettivismo moderno, bensì come solidarietà con tutti e come opposizione ad ogni forma di discriminazione. L’amore divino trasforma i cristiani in suoi interpreti ed agenti [5]. Scrivendo ai Tessalonicesi Paolo li esorta all’amore «degli uni verso gli altri e verso tutti» (1Ts 3,12) e nella lettera ai Galati invita «a fare del bene a tutti, specialmente ai fratelli di fede» (Gal 6,10). Le opere dell’amore, per l’apostolo, non costituiscono poi prestazioni eccezionali ma sono rivolte a tutti e non ad una élite, come emerge dalla lettera ai Corinzi in cui Paolo tratteggia il carattere dell’amore cristiano che è generoso, benevolo, non conosce invidia, superbia, scortesia, egoismo, irascibilità, astio, piacere dell’ingiustizia (cf. 1Cor 13,4-7). È l’incorporazione a Cristo manifestata nel comportarsi come lui – dottrina centrale del pensiero paolino – che mentre rende possibile una nuova relazione con Dio, fonda pure la relazione dei cristiani tra di loro, dando origine ad una comunità dove i singoli, pur mantenendo le particolarità individuali si trovano in una situazione di eguaglianza e in un rapporto dialogico e immediato. Questa diversità nell’unità è resa mediante l’immagine del corpo in cui ogni membro trova la sua collocazione e dove l’amore fa da collante (cf. 1Cor 12,12-27). La differenziazione non è però discordanza poiché ormai «non c’è più giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna» (Gal 3,28). Paolo raccoglie nel termine di “fratelli”, tanto ricorrente nelle sue lettere, il nuovo tipo di rapporto all’interno della comunità. Nell’antichità, sia l’immagine del corpo che l’utilizzo dell’espressione di “fratello” non era ignota, eppure in Paolo assume una particolare intensità e viene presentata con estrema coerenza. Se infatti l’altro viene sperimentato come membro dell’unico corpo, lo si può amare come se stessi. Se lo si considera fratello, si possono trasferire su di lui quelle emozioni e attenzioni che di norma spettano a quanti sono geneticamente fratelli [6]. In tal caso la sua felicità ed il suo dolore vengono percepiti come parte della propria felicità e dolore. «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri» (Rom 12,15-16; cf. Gal 6,2: «Portate gli uni i pesi degli altri: così adempirete la legge di Cristo»). È sulla base di questa idea di fraternità che l’apostolo valuta i diversi comportamenti all’interno della Chiesa. La carità verso i poveri cristiani di Gerusalemme è presentata ai cristiani di Corinto come un fare uguaglianza. «Qui – scrive – non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza» (2Cor 8,13). La fratellanza spirituale che l’apostolo proclama, trova la sua realizzazione nella vita quotidiana. Per l’apostolo è vero che «l’amore sopporta tutto, ma anche per lui non sopporta differenza tra i cristiani» [7]. In una comunità di fratelli l’amore trova espressione nella reciprocità e nell’umiltà sull’esempio di Cristo che abbassò se stesso rinunciando al proprio stato. Lo afferma nella lettera ai Galati in cui dichiara: «Per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri» (5,13). L’umiltà che di norma è l’atteggiamento di chi è sottomesso, diviene per Paolo una virtù sociale mostrata nella kenosi di Gesù prodotta dall’amore. «Nella congiunzione tra i due valori dell’amore e dell’umiltà diventano visibili la struttura portante e la novità del nuovo ethos (dover essere) cristiano primitivo» [8]. Certo, l’apostolo nel presentare l’esempio di Cristo come modello di amore che si offre e si umilia è al corrente dei conflitti all’interno delle sue comunità, inaccettabili all’interno d’un gruppo che si ritiene costituito da uguali. La proposta che egli offre per risolvere tali difficoltà – caratteristica delle sue lettere – sarà quella del cosiddetto “patriarcalismo d’amore”, che «lascia sussistere le disuguaglianze sociali, ma le compenetra con uno spirito di rispetto, di considerazione e di premura personale. Il riguardo per la coscienza altrui, anche quando è “debole” e segue norme superate, rappresenta senza dubbio uno dei tratti più simpatici di questo patriarcalismo d’amore» [9]. Riassumendo quanto detto, è possibile affermare che Paolo ci indica un’etica cristo-noma e comunitaria, perché prodotta dall’evento salvifico di Cristo, ossia dalla fede in Lui che opera attraverso l’amore (Gal 5,6). Paolo indica altresì una spiritualità che non propugna una perfezione individuale (Dio-io), ma che esige anche una perfezione sociale (Dio-noi), costruita sulla idea che tutti facciamo parte di un unico e medesimo corpo (cf. Ef 2,21-22; 4,1-16), legati dalla stessa vocazione e dallo stesso destino (cf. 1Cor 12,25-26; 2Cor 1,5-6; Fil 2,17). 

CONCLUSIONI
Nell’introduzione al Commento alla lettera di Paolo ai Romani, Giovanni Crisostomo dichiarava: «Soffro e mi fa pena che non tutti conoscano quest’uomo come e quanto merita… Quel che io so – aggiungeva – devo attribuirlo al fatto di avere continuamente fra le mani i suoi scritti e di studiarli, come sono solito fare, con il più grande trasporto d’affetto. È proprio quanto suole avvenire a quelli che si amano, i quali appunto per questo, conoscono più e meglio degli altri le azioni delle persone amate». Queste considerazioni del Crisostomo, mentre esprimono il suo entusiasmo per Paolo, sono per noi un invito a meglio conoscerlo. Il richiamo ad alcuni aspetti della triade fede/speranza/carità, nella quale l’apostolo sintetizza elementi costitutivi dell’identità del cristiano, mostra la consequenzialità del suo pensiero che è anzitutto frutto di una esperienza. Non è senza ragione che egli insegna le sue “vie in Cristo” (1Cor 4,17) cioè quanto può aiutare le comunità a condurre una vita cristiana. Alcune direttive dell’apostolo non hanno più ragione d’essere, perché circoscritte nel tempo e nella cultura di allora (il problema delle carni sacrificate agli idoli, l’obbligo del velo per le donne, ecc.). Altre, invece, hanno una validità universale anche se l’ambito della loro concretizzazione può essere diverso. L’esempio ci è fornito proprio dalla triade fede/speranza/carità. Un confronto con la fede di Paolo può renderci più consapevoli che l’elemento specifico e differenziante del cristianesimo è dato dalla persona di Gesù. L’analisi degli altri contenuti della fede non deve mai farci dimenticare cos’è essenziale e quanto non lo è. Nella gerarchia delle verità cristiane la realtà del Cristo morto e risorto sta per noi al primo posto. Non c’è altra strada che porti a Dio se non questa umanità del Cristo nella quale è assunta l’umanità e la croce di ogni uomo: «Ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me». Non dobbiamo poi mai dimenticare che al centro dell’annuncio cristiano sta la croce di Cristo, «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani (1Cor 1,23). Si illuderebbe chi pensasse che dopo 2000 anni di cristianesimo questo scandalo non esiste più. Esso rimane e deve servire a purificare la nostra fede, ma anche a contestare i falsi idoli di chi ignora la sofferenza degli innocenti e soffoca la libertà. Al tempo stesso la fede nella resurrezione ci ricorda che non siamo degliarrivati e che l’immortalità e la vita beata non si trova qui, in illusori paradisi artificiali, come vorrebbe farci credere la pubblicità invasiva del mercato con i suoi prodotti. Come scriveva Giovanni Paolo II, nella bolla del giubileo Incarnationis mysterium, «L’incarnazione del figlio di Dio e la salvezza che Egli ha operato con la sua morte e resurrezione sono il criterio per giudicare la realtà temporale e ogni progetto che mira a rendere la vita dell’uomo sempre più umana». Il linguaggio ecclesiale odierno è orientato ad accentuare le “ragioni della speranza” e trova proprio in Paolo un indispensabile supporto perché l’apostolo le ha comprese ed applicate alla vita concreta della sue comunità. Anche la prossima enciclica del Papa avrà per oggetto questa fondamentale virtù cristiana. La ragione è evidente: molti uomini dinanzi alle tragedie presenti, sono sempre meno abituati ad aspettarsi qualcosa da un futuro escatologico, vivono in una serena assenza di speranza e la vita attuale appare come l’unica e l’ultima occasione dove quel che conta è trarre da essa tutto il possibile, non perdere nulla, sperimentare tutto quello che si può. Sempre di più, sempre più in fretta, sempre più superficialmente. Questo atteggiamento porta in sé qualcosa di disperato, soprattutto quando l’appagamento non arriva subito o diventa impossibile. Si afferma così la tentazione dello scetticismo e della sfiducia e l’apertura al futuro, componente essenziale dell’uomo “essere di speranza”, quando non è del tutto rimossa [1], viene ristretta al particolare, all’oggi. Contro questa tentazione l’apostolo ci richiama alle due verità su cui si erge la speranza cristiana: nel sapersi scelti da Dio prima della creazione del mondo (Ef 1,4), nel sapersi destinati ad essere simili al Figlio suo per partecipare alla sua gloria (cf. Rom 8,30). La porta d’ingresso nel mondo è l’elezione; la porta d’uscita l’eredità promessa (Ef 1,14). Si entra in quanto scelti, si esce in quanto figli e, come tali, eredi con Cristo (cf. Rom 8,17). Eppure queste attestazioni, alle quali possiamo offrire pieno assenso intellettuale, ancora non bastano: occorre che la nostra speranza vada nutrita e cresca nel confronto con la speranza degli altri. Da questo punto di vista potremmo parlare della “ecclesialità della speranza”: una virtù, insomma, che si con-divide, si com-partecipa. Quell’articolo del Credo che predica la “comunione dei santi” va perciò letto anche come una comunicazione di speranza: apprendiamo a sperare da quanti hanno imparato a farlo prima di noi e, a questo proposito, proprio Paolo ci è maestro. In relazione alla carità l’apostolo ci rimanda alla rivoluzione più considerevole prodottasi nell’umanità: la convinzione introdotta da Gesù che Dio ama singolarmente ciascuno: non soltanto in quanto parte di un gruppo, di un popolo, di un tutto. Il mondo pagano crede agli dèi, ma a nessuno è venuta in mente l’idea che si possa essere amati personalmente da Dio. Tutto cambia se si pensa che si è al centro del suo interesse. Tutto cambia: il senso della vita, il significato della sofferenza, della malattia, della morte. Chi – come l’apostolo – sperimenta questo amore, non può che annunciarlo. E oggi questo comporta inserire nella società dinamiche di gratuità, di accoglienza, di misericordia e di perdono: dare quello che abbiamo ricevuto e continuamente riceviamo. Il Padre che ha offerto il proprio Figlio e l’ha consegnato alla morte c’insegna una morale della solidarietà, dove il rapporto io-altro (“Non fare all’altro quello che non vuoi sia fatto a te) è rovesciato nel rapporto altro-io e dove il rapporto io-per-te non implica un tu-per-me. È gratuità che non si aspetta riconoscimenti o un contraccambio. È, insomma, l’atteggiamento del Padre che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e che Gesù c’invita ad imitare («Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste»: Mt 5,48). Paolo l’ha ben capito ed è per questo che senza vanto, ma con piena consapevolezza che nessuno poteva smentire, non cessa di rivolgere ad ogni cristiano l’invito fatto ai Corinzi: «Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1; cf. pure 1Cor 4,16). 

Nota a Premessa
1] Cf . M.G. Mara, Agostino interprete di Paolo, Milano 1993, p. 13. 
[2] Cf. M. Girardi, Tormento ed estasi; sedici domande di Basilio di Cesarea sull’identità cristiana (Reg. Mor. 80,22), in “Annali di Storia dell’Esegesi” 23/1 (2006), pp.118-119.127. 
[3] Cf G. Pani, Le modificazioni dell’identità cristiana tra Medioevo ed Età moderna in rapporto all’epistolario paolino, in “Annali di Storia dell’Esegesi” 23/1 (2006), pp. 266-268. [4] Sul tema cf. M.G. Mara, Il ruolo di Paolo nella proposta monastica della Vita Antonii, in L. Padovese (cur.), Atti del I Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1993, pp. 129-138. Si veda pure P. Siniscalco, Parola di Dio e spiritualità monastica nella Vita Antonii di Atanasio, Salonicco 1995, pp. 177-185. Analizzando il testo della Vita Antonii, Siniscalco osserva come l’impegno del lavoro manuale, il tema del combattimento contro il demonio, il senso della provvisorietà delle cose terrene e la tensione verso il futuro definitivo trovano un supporto nelle lettere di Paolo. [5] I testi in cui la triade compare esplicitamente in Paolo sono 1Ts 1,3; 5,8; 1Cor 13,13. Sul tema l’utile presentazione di R. Fisichella, La triade Fede, Speranza e Carità in Paolo – Una riflessone teologica, in L. Padovese (cur.), Atti del III Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1995, pp. 74-86. 
Note su Fede
[1] La conferma ci è offerta anche dal fatto che il battesimo, stando a Gal 3,27 e Rom 6,3, veniva effettuato “in Cristo” o “nel nome di Gesù” (1Cor 1,13b-15). In At 2,38 Pietro dichiara: “Pentitevi e ciascuno si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo” (cf. pure At 10,48). Se originariamente la formula “essere battezzato nel nome di Gesù”, serviva – sembra – a distinguere il battesimo cristiano da quello del Battista, è possibile che successivamente vi sia stata un’evoluzione verso un significato più profondo, come lascia supporre Paolo (cf. 1Cor 1,12-16): un rapporto di questo rito che rimette i peccati con l’espiazione compiuta sul Calvario. Cf. S. Légasse, Alle origini del battesimo – Fondamenti biblici del rito cristiano, trad. it. Milano 1994. 
[2] Sul tema cf. P. Grech, Formule trinitarie in San Paolo, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1996, pp. 133-138. Grech rileva come l’individuazione di tali formule in Paolo sia ancora oggetto di discussione. Resta il fatto che Paolo è il più antico autore del Nuovo Testamento a trasmetterle. «I generi letterari in cui occorrono queste formule sono i seguenti: un’acclamazione monoteista (1Cor 12,4-6), benedizione finale (2Cor 13,13), Sendungsformel (Gal 4,6), annunzio di resurrezione (Rom 8,11),chiamata profetica (Rom 15,16), e ringraziamento (2Cor 1,21). Il dato comune a tutti i detti trinitari è che Dio salva per mezzo di Cristo con la santificazione dello Spirito Santo» (ivi, pp. 134-135). [3] O. Cullmann, La fede ed il culto della Chiesa primitiva, trad. it. Roma 1974, pp. 108-109. 
[4] Cf. 1Cor 8,6; Rom 10,9. 
[5] Cf. H. Conzelmann, Teologia del Nuovo Testamento, trad. it. Brescia 1972, pp. 313-314. 
[6] Cf R. Penna, “Il giusto per fede vivrà”. La citazione di Ab2,4 (TM e LXX) in Gal 3,11 e Rom. 1,17, in L. Padovese (cur.), Atti del V Simposio su San Paolo Apostolo, Roma 1998, pp. 91-94. 
[7] Così G. Theissen, Come cambia la fede. Una prospettiva evoluzionistica, trad. it. Torino 1999, p. 169. 
[8] Cf. M. Mazzeo, Il vangelo della grazia nell’annuncio di Paolo, in P. Zilio – L. Borgese (eds.), La salvezza. Prospettive soteriologiche nella tradizione orientale ed occidentale, Venezia-Mestre 2008, p. 66. 
[9] Cf. G. Theissen, La religione dei primi cristiani, trad. it. Torino 2004, p. 280. 
[10] R. Penna, Tre tipi di conversione raccontati nell’antichità: Polemone di Atene, Izate dell’Adiabene, Paolo di Tarso, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su San Paolo apostolo, Roma 1996, p. 91. 
[11] Cf. ibid., pp. 91-92. 
[12] Cf. G. Pani, Conversione di Paolo o vocazione? La documentazione della lettera ai Romani, in L. Padovese (cur.), Atti del II Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1994, pp. 74-75. Sempre di Pani, si veda lo studio precedente: Vocazione di Paolo o conversione?, in L. Padovese (cur.), Atti del I Simposio di Tarso su San Paolo Apostolo, Roma 1993, pp. 47-63. 
[13] H. Hübner, La legge in Paolo, trad. it. Brescia 1995, pp. 106-107. Scrivendo ai Galati l’apostolo dichiara che il senso della Legge, data non da Dio, ma dagli angeli (cf. Gal 3,19), è quello di provocare trasgressioni e di rendere schiavi (cf. Gal 3,19 s.). Rispetto a questa posizione iniziale Paolo, nella lettera ai romani, modifica il suo parere osservando che la Legge è santa, giusta e buona (7,12) e spirituale (7,14). Essa non induce più al peccato, ma porta il peccato alla coscienza del peccatore (7,7). La posizione antinomista espressa in Gal dall’apostolo avrebbe portato coerentemente ad una rottura con Giacomo e con i giudeocristiani (cf. H. Hübner, op. cit., p. 52). Di fatto,nella lettera ai Romani Paolo non polemizza né cerca il confronto, bensì il dialogo.Forse proprio un confronto con Giacomo l’aveva convinto della possibilità di connettere l’adesione a Cristo con l’osservanza della legge: cf. H. Hübner, op.cit., pp. 113-114. 
Note su Speranza
[1] Cf. J.H. Nicolas, Espérance, p. 1208. 
[2] R. Bultmann, Elpís, in Grande lessico del Nuovo Testamento, ed. it. Brescia 1967, p. 513. 
[3] Cf. W. Turek, L’influsso di Paolo su Tertulliano nell’evoluzione del concetto di speranza, in L. Padovese (cur.), Atti del IV Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1996, pp. 169-170. 
Note a Carità
[1] H.D. Wendland, Etica del Nuovo Testamento, trad. it. Brescia 1975, p. 101. 
[2] Cf R. Schnackenburg, Il messaggio morale del Nuovo Testamento, vol. 2, I primi predicatori cristiani, trad. it. Brescia 1990, pp. 57-58. 
[3] Cf. H.D. Wendland, op. cit., p. 106. 
[4] Ibid., p. 104. 
[5] Ibid., p. 102. 
[6] Cf. G. Theissen, Come cambia la fede, cit., pp. 204-205. 
[7] G. Theissen, La religione dei primi cristiani, cit., p. 101. 
[8] Ibid., p. 105. 
[9] G. Theissen, Forti e deboli a Corinto, in Sociologia del cristianesimo primitivo, trad. it. Genova 1987, p. 257.
Nota a Conclusione

[1] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sodale Pastores gregis, VII, 72. 15

in memoria di mons. Luigi Padovese: Due eventi, a Roma, ricordano il frate cappuccino ucciso in Turchia nel 2010

http://www.zenit.org/article-30882?l=italian

IN MEMORIA DI MONSIGNOR LUIGI PADOVESE

Due eventi, a Roma, ricordano il frate cappuccino ucciso in Turchia nel 2010

il libro pubblicato che lo ricorda

in memoria di mons. Luigi Padovese: Due eventi, a Roma, ricordano il frate cappuccino ucciso in Turchia nel 2010 dans ARCIVESCOVI E VESCOVI - CLERO La-verità-nellamore-Luigi-Padovese-315x450-150x150

ROMA, martedì, 29 aprile 2012 (ZENIT.org) – Il 3 giugno 2010 fu ucciso in Turchia – secondo modalità che possono essere defintie in odium fidei – il frate cappuccino, professore e vescovo monsignor Luigi Padovese, Vicario Apostolico dell’Anatolia. A due anni dalla scomparsa la ricorrenza sarà ricordata in diversi luoghi con celebrazioni e incontri.
Venerdì 1 giugno, presso il Monastero S. Chiara di Camerino, nel programma in preparazione alla solennità di santa Camilla Battista Varano, sarà ricordato mediante una santa messa alle ore 18.00, ricordando la lettera che inviò alla stessa comunità di clarisse – quasi un Testamento – poco prima della morte.
Domenica 3 giugno, anniversario della morte – che « casualmente » coincide con lo stesso giorno del decesso del beato Giovanni XXIII anche lui vescovo in Turchia per un decennio – presso il Santuario Antoniano dei Protomartiri Francescani di Terni sarà celebrata una santa messa da p. Paolo Martinelli, ofmCap confratello e collaboratore e successore di monsignor Luigi Padovese e autore del libro Mons. Luigi Padovese. Uomo di comunione (Editrice Velar, Gorle 2011).
In occasione del 2° anniversario della morte di mons. Luigi Padovese, l’Istituto Francescano di Spiritualità (IFS) propone per giorno martedì 5 giugno 2012 due momenti significativi:
- Presso la Pontificia Università Antonianum, nell’Aula A, alle ore 16.30, si svolgerà la presentazione del volume di Mons. Luigi Padovese, La Verità nell’amore. Omelie e scritti pastorali (2004-2010), con la prefazione del cardinale Angelo Scola (Edizioni Terra Santa, Milano 2012).
Interverranno: Prof. Priamo Etzi, OFM, Rettore magnifico della PUA; Fr. Raffaele della Torre, OFMCap, Ministro Provinciale dei Frati Minori Cappuccini della Lombardia; Prof. Paolo Martinelli, OFMCap, Preside IFS; S.Ecc.Prof. Kenan Gürsoy, Ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede; Prof. Romano Penna, Pontificia Università Lateranense e Francesca Cocchini, docente presso l’Università « La Sapienza ». Modera: la prof.ssa Maria Grazia Mara, dell’Università « La Sapienza ».
- Presso la Chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, alle 19.30, si terrà la Santa Messa presieduta da fr. Mauro Jöhri, Ministro Generale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini.
In questa occasione verrà offerto alla chiesa, dedicata al martiri del nostro tempo, un oggetto-simbolo, appartenuto a mons. Luigi Padovese, in ricordo del suo impegno per la diffusione del Vangelo e per il dialogo tra popoli e religioni.

LA SPIRITUALITÀ DELL’INCARNAZIONE D’IRENEO DI LIONE (Un testo inedito di mons. Luigi Padovese 2010, in memoria)

http://www.zenit.org/article-25052?l=italian

LA SPIRITUALITÀ DELL’INCARNAZIONE D’IRENEO DI LIONE

Un testo inedito di mons. Luigi Padovese

ROMA, venerdì, 24 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo un testo inedito dal titolo « Caro capax salutis: la spiritualità dell’Incarnazione d’Ireneo di Lione » scritto dal Vescovo Luigi Padovese, frate cappuccino, Vicario Apostolico dell’Anatolia, ucciso a Iskenderun, in Turchia, il 3 giugno scorso.

* * *
Con Ireneo ci troviamo nella seconda metà del secolo II, in un periodo nel quale la Chiesa reagisce contro le riduzioni e le false letture del cristianesimo operate dallo gnosticismo. L’opera del vescovo di Lione va situata e letta, perciò, entro un preciso contesto polemico. Gli interessi d’Ireneo sono di ordine prevalentemente dogmatico, eppure su questa base è possibile risalire per via analitica alla sua spiritualità che “risponde alla tradizione pubblica apostolica ereditata da Policarpo e da altri insigni presbiteri, discepoli dell’evangelista Giovanni”. Il pensiero d’Ireneo è tutto volto a recuperare o a ravvivare la convinzione che l’unico Dio fin dal principio s’è preso cura di tutto l’uomo (anche della carne), e di tutti gli uomini (non soltanto gli ‘spirituali’). […]
La storia di Dio, attraverso il Verbo e lo Spirito Santo, si rende presente all’uomo per predisporlo alla incorruttibilità. Senza questa presenza divina l’uomo cesserebbe di esistere, infatti come “la gloria di Dio è l’uomo vivente, [così] la vita dell’uomo è la manifestazione di Dio. Di questa manifestazione il punto centrale diviene l’incarnazione. Su di essa si erge tutta la speranza d’Ireneo. Infatti “nei tempi passati si diceva che l’uomo era fatto a immagine di Dio, ma ciò non appariva perché il Verbo era ancora invisibile: per questa ragione la rassomiglianza s’era facilmente perduta. Ma quando venne il Verbo egli mostrò la vera immagine e ristabilì la somiglianza in modo stabile, rendendo l’uomo simile al Padre invisibile per mezzo del Verbo visibile”. È questo rapporto di similarità tra il nostro essere e quello di Cristo – rapporto preordinato da Dio – che dà significato all’incarnazione. Col farsi ‘carne’, Cristo è divenuto il modello per ogni carne che in Lui e per Lui è aperta alla salvezza e ‘si scopre’ ad immagine di Dio. Guardando Cristo l’uomo prende coscienza della propria dignità e del destino cui Dio lo chiama. In questa luce, la speranza cristiana è una ‘speranza incarnata’. Non proviene dall’alto, come una specie di ‘deus ex machina’ che vince la disperazione dell’uomo impotente. Essa, piuttosto, viene dalla terra, come la Verità: “Veritas de terra orta est” (Sal 84,12). Come è stato un uomo a privarci della speranza, così dev’essere un uomo a restituircela. La speranza dell’uomo, insomma, nasce dall’uomo. È in questa prospettiva che vanno collocati i frequenti rimandi d’Ireneo al carattere realissimo dell’umanità di Gesù.
Che salvezza avrebbe potuto sperare l’uomo se il Salvatore non avesse assunto la sua realtà? E che tipo di speranza avrebbe dovuto nutrire questo uomo se Gesù non gli avesse insegnato come sperare? Il Cristo, allora, per Ireneo diviene l’oggetto ed il maestro della speranza. Ne è l’oggetto proprio attraverso la sua carne terrena. Difatti “sulla carne del nostro Signore irrompe la luce del padre, e brillando a partire dalla sua carne, viene su di noi, e così l’uomo giunge all’incorruttibilità”. E altrove: “Se non è nato [Cristo], neanche è morto; e se non è morto, neanche è risorto dai morti. E se non è risorto dai morti, neanche ha vinto la morte, e non è stato distrutto il regno di questa; e se non è stata vinta la morte, come ci innalzeremo alla vita noi, sin dall’inizio soggetti alla morte?” Di questa speranza si mostra, poi, il maestro per tutti gli uomini avendo passato le età dell’uomo e quindi fattosi partecipe dell’esperienza d’ognuno. Questa piena condivisione, trova naturalmente delle applicazioni concrete. Nel momento delle tentazioni, ad esempio, non è il Figlio di Dio che vince il demonio, ma il Figlio dell’uomo. “Le sue armi furono, da un lato, la preghiera e la santità di vita, e dall’altro la ‘parola di Dio’ evocata nella sua vera luce per dissipare la frode e docilmente accettata. Non dovette far ricorso al miracolo: gli bastò essere docile alla parola del Creatore. Il potere del Verbo gli si lasciò sentire, più che per comunione ipostatica con lui, mediante la fede nella Parola di Dio, norma della propria vita in corpo ed anima. Per la stessa ragione, anche nella passione è l’uomo Cristo che, proprio in forza della sua umanità ci insegna a lottare e a vincere il demonio. Il carattere ‘esemplare’ dell’agire di Cristo è messo in evidenza da ireneo nel testo che segue: “Se non ha patito davvero, non gli si deve alcuna gratitudine, non essendoci stata la passione. E quando noi dovremo soffrire veramente, apparirà come un impostore esortandoci a porgere anche l’altra guancia, quando si è percossi, se non ha patito veramente egli inganna anche noi esortandoci a sopportare ciò che lui stesso non ha sopportato; e noi saremo al di sopra del maestro, patendo e sopportando ciò che il maestro non ha patito e non ha sopportato”. Resta comunque vero che se Cristo diviene causa esemplare della nostra speranza, non è soltanto in forza della sua umanità. Pertanto “quanti dicono che egli è stato generato da Giuseppe, scrive Ireneo, ed hanno speranza in lui, si escludono dal regno”. Il motivo di queste parole è evidente: il Verbo doveva essere uomo per mostrar la bontà della carne da Lui creata e perché il demonio che aveva vinto l’uomo fosse ora sconfitto da un uomo. Al tempo stesso, però, occorreva che fosse Dio a venirci incontro perché “se non fosse stato Lui a donarci la salvezza, non l’avremmo ricevuta stabilmente. E se l’uomo non fosse stato unito a Dio, non avrebbe potuto divenire partecipe della incorruttibilità. Queste considerazioni d’Ireneo approfondiscono quanto s’è affermato prima: la speranza dell’uomo nasce dall’uomo, ma non da uno qualsiasi bensì da chi “per il suo sovrabbondante amore s’è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso”.
Alla luce di queste parole va colto il senso profondo dell’Eucaristia che è una delle ‘economie parziali’ nell’unico piano di salvezza. Per capirne i significato, Ireneo rileva il suo legame con l’incarnazione, poiché tanto in quella che in questa è lo stesso evento che si realizza: una unione salvifica con Dio operata tramite la carne di Cristo. “Poiché pieno di Spirito Santo, il Cristo è, nel senso più rigoroso del termine un uomo spirituale, e il sacramento che ci fa partecipare alla sua carne ci dà in potere, sotto apparenze terrestri, una realtà celeste: la sua umanità tutta penetrata dallo Spirito di Dio, divenuta Spirito Vivificante. Essa ci vivifica. L’uomo non può fare a meno di questo contatto con la carne di Cristo; dev’essere innestato in Lui come l’ulivo selvatico sull’ulivo domestico. Rifiutare questa unione significa condannarsi ad essere ulivo secco, infruttuoso. Ciò comporta, infatti, un discostarsi dal modello di uomo perfetto che è Cristo. Da queste considerazioni scaturisce una conseguenza che Ireneo tiene a sottolineare nei testi propriamente eucaristici del Contro le eresie. Se, cioè, l’incontro col Verbo Incarnato dà salvezza, questa abbraccerà tutto l’uomo, non esclusa la carne. Anzi, la salvezza sarà più evidente in quell’elemento dell’uomo che solo è passibile di morte e corruzione: la carne. “Il Verbo, infatti, non è venuto a santificare le menti, ma gli uomini. La sua missione non fu quella d’innalzare le sole anime alla visione del Padre, bensì gli uomini, facendo la loro carne atta ala visione di Dio”. Contro l’obiezione gnostica fondata sull’espressione di Paolo “la carne ed il sangue non possono ereditare il regno di Dio (1Cor 15,50), Ireneo risponde osservando che da soli effettivamente non lo possono, ma per il fatto che ricevono il corpo di Cristo ed il pegno dello Spirito Santo, essi vengono assimilati a Lui. In quanto membra del copro di Cristo comunicano alle qualità del medesimo, quindi anche alla sua incorruttibilità. Eppure questa comunicazione o assimilazione, ha luogo progressivamente. Non si tratta già di disprezzare la realtà creata, corpo e anima, ma di conformarsi al modello che Cristo ci offre nella sua carne ‘pneumatica’. E questo processo richiede tempo. In fondo l’Eucaristia rientra nel disegno educativo di Dio che, progressivamente, dispone l’uomo a scegliere Dio, ad obbedirgli, a conformarsi a Lui. In questo processo di graduale osmosi tra sostanza divina e umana, va accantonato l’equivoco di ritenere l’incorruttibilità come il risultato d’un processo quasi biologico più meno dipendente dall’incarnazione, una specie di divinizzazione ‘per contatto’, quasi che questo bastasse. Ireneo rimuove questa falsa interpretazione facendo presente che se “i nostri corpi ricevono l’Eucaristia e non sono più corruttibili perché hanno speranza della resurrezione, occorre che siano anche in grado di produrre frutti spirituali.
A questo punto il nostro discorso si volge allo Spirito Santo. Il senso della sua azione nell’uomo è compendiato da Ireneo in queste parole: “Dov’è lo Spirito del Padre, li è l’uomo vivente: il sangue razionale custodito da Dio per la vendetta e la carne ereditata dallo Spirito, dimentica di sé per aver acquistato la qualità dello Spirito ed essere divenuta conforme al Verbo di Dio”. È significativa l’espressione finale ‘carne conforme al Verbo di Dio’. Lo Spirito sarebbe allora presente in noi per conformarci al Verbo di Dio. Questi infatti, quale secondo Adamo, ha realizzato in sé la perfetta somiglianza con Dio che il primo Adamo aveva smarrita. Ma come l’ha realizzata? Se si tiene conto che è lo Spirito l’operatore della ‘somiglianza’, anzi, che Egli stesso è questa ‘somiglianza’ smarrita da Adamo per il peccato, si può dedurre che Cristo lo possedette in pienezza. Dal canto suo l’uomo, conformandosi a Cristo, ripristina il piano originale divenendo pienamente ‘ad immagine e somiglianza di Dio’. Soltanto così torna ad essere l’uomo perfetto, perché come Cristo, è costituito di anima, di carne e di Spirito. “Ireneo – afferma G. Joppich – non vede nella nostra unione con lo Spirito Santo il termine dello sviluppo, ma piuttosto l’opera dello Spirito Santo è da intendersi come l’ultima fase del nostro essere trasformati a somiglianza del Logos”.
È per la sua somiglianza che dobbiamo attenderci l’incorruttibilità. Lo Spirito Santo ci dispone ad essa; ne è altresì il pegno, il suggello e, in quanto tale, il principio della speranza seminato nel nostro corpo. Argomentando ‘a fortiori’, Ireneo dichiara: “Se fin d’ora, avendo ricevuto il pegno dello Spirito, gridiamo: ‘Abba, Padre’, che cosa accadrà quando, risuscitati, l vedremo faccia a faccia, quando tutte le membra faranno zampillare abbondantemente un inno di esultanza, glorificando colui che li avrà risuscitati dai morti e avrà donato loro la vitae terna? Infatti, se già il pegno abbracciando l’uomo da ogni parte in sé stesso, gli fa dire: ‘Abba, Padre’, che cosa farà la grazia intera dello Spirito, quando sarà data agli uomini da Dio? Ci renderà simili a lui e porterà a compimento la volontà del Padre, perché farà l’uomo a immagine e somiglianza di Dio”. Quest’opera di progressiva assimilazione al Figlio, ovvero questa ricomposizione della somiglianza con Dio che si compie per tappe successive, non termina neppure con la morte, ma anzi continua in quel regno messianico che, secondo Ireneo, si pone tra la resurrezione e il giudizio finale. […] Lo scopo di questo regno è quello di preparare gli uomini, gradualmente, a ricevere l’incorruttibilità che proviene dalla visione di Dio. In esso, dunque, Cristo porterà a compimento il senso dell’incarnazione, quello cioè di adattare gli uomini al Padre perché Egli comunichi ad essi la sua incorruttibilità. Essere ‘incorruttibili’ significa allora partecipare alla natura di Dio. Ma tutto ciò è opera di Dio. L’uomo deve soltanto lasciar fare, non sottrarsi. In tal caso egli sarà sempre discepolo e Dio sempre maestro. Per questa ragione, secondo Ireneo, il trinomio fede/speranza/carità, inteso come espressione di dipendenza, non cesserà mai, nemmeno nell’altra vita. Conseguentemente l’incorruttibilità che Ireneo addita come il fine del cammino umano, non va intesa come una partecipazione ‘statica’ alla vita di Dio, quasi che egli ce la conferisca ‘una tantum’. Essa, piuttosto, proprio perché è vita, è partecipazione ‘dinamica’ all’essere divino. Essa, piuttosto perché è vita, è partecipazione ‘dinamica’ all’essere divino. Per questa ragione la speranza in Dio non verrà mai meno perché sempre aspetteremo che Egli, attingendo alla pienezza del suo essere, cu stupisca con doni sempre più grandi. “Speriamo – scrive Ireneo – di ricevere e di imparare qualcosa di più da Dio, poiché è buono ed ha infinite ricchezze e un regno senza limiti e una sapienza immensa”. Stando dunque a quanto s’è venuto dicendo, la speranza, per Ireneo, non sfocia in un ‘compimento’ che la rende inutile. Essa è invece una virtù ‘dinamica’ perché da un lato poggia sul continuo divenire dell’uomo e dall’altro sulla realtà effusiva di Dio che mai cesserà “di distribuire al genere umano in misura sempre maggiore la sua grazia e onorare continuamente con doni sempre più grandi coloro che gli piacciono”. La spiritualità d’Ireneo si configura, dunque, come spiritualità attenta all’uomo concreto, alla sua carne. Proprio per questa ragione è una spiritualità ricca di speranza.

Turchia, cattolici arricchiti dalla testimonianza del martire mons. Padovese

http://www.asianews.it/notizie-it/Turchia,-cattolici-arricchiti-dalla-testimonianza-del-martire-mons.-Padovese-24958.html

06/06/2012

TURCHIA

Turchia, cattolici arricchiti dalla testimonianza del martire mons. Padovese

Centinaia di fedeli presenti alla messa in memoria del prelato ucciso a Iskende
run (Anatolia) il 3 giugno 2010. Il racconto di P. Domenico Bertogli, parroco di Antakya (Antiochia) e vicario generale di mons. Padovese. Dura solo sette minuti la quinta udienza del processo contro Murat Altun, autore dell’omicidio.

Antakya (AsiaNews) – « Il sacrificio di mons. Padovese interpella tutti i cattolici di Turchia a riflettere sul presente della nostra piccola Chiesa, che guarda avanti arricchita dalla testimonianza di fede dei suoi martiri ». È quanto afferma ad AsiaNews, p. Domenico Bertogli, parroco della comunità cattolica di Antakya (Antiochia) e Vicario generale di monsignor Padovese in Anatolia. Lo scorso 3 giugno a Iskenderun, egli ha partecipato alla messa per il secondo anniversario della morte del prelato cappuccino ucciso nel 2010 nella sua casa a Sultanköy (Iskenderun) dal suo autista, Murat Altum. Oggi, a Iskenderun si è tenuta la quinta udienza del processo contro l’omicida. Secondo fonti di AsiaNews essa è durata solo sette minuti. La prossima seduta si terrà il 4 luglio.
La cerimonia del 3 giugno è stata presieduta da Mons. Ruggero Franceschini, presidente della Conferenza episcopale turca ed Arcivescovo e metropolita di Izmir. Dopo la messa, nella Cappellina della Cattedrale è stato inaugurata una bacheca in memoria di mons. Padovese. Essa custodisce il suo breviario, il suo calice, il pastorale e la mitra, alcuni dei suoi libri scritti e i pantaloni macchiati di sangue trovati nella sua camera da letto il giorno della sua uccisione.
P. Domenico racconta che « alla messa in cattedrale hanno partecipato centinaia di fedeli provenienti da Antakya, Adana, Tarsus, Mersin e altre città dell’ Anatolia ». « Fra i cattolici – continua – la testimonianza di mons. Padovese è ancora viva. Essi ricordano la sua bontà, l’apertura al dialogo con i musulmani e il rispetto per le altre fedi mostrato durante il suo episcopato ».
A due anni dalla morte del prelato, la diocesi di Iskenderun non ha un vescovo. « Purtroppo – aggiunge p. Domenico – la sede è ancora vacante e a tutt’oggi non vi sono disposizioni in merito. Due anni di attesa sono una cosa abbastanza anomala ». Secondo il sacerdote tale situazione pesa soprattutto sui sacerdoti, che hanno bisogno di una guida per compiere il loro lavoro pastorale.
Mons. Luigi Padovese, cappuccino, è stato sgozzato il 3 giugno 2010 dal suo autista, Murat Altum, allora 26enne. Arrestato dalla polizia l’assassino aveva espresso diversi motivi per il suo gesto: inimicizia « islamica »; rapporto morboso e omosessuale; follia.
Secondo uno schema applicato anche nel caso di p. Andrea Santoro (ucciso nel 2006 a Trabzon), dopo l’uccisione, alcuni dottori hanno provveduto un certificato di insanità mentale per Altun che rischiava di non essere nemmeno processato e liberato. Ma nel giugno 2011 una commissione di medici di Istanbul, a cui era giunta tutta la documentazione su Altun, ha stabilito che egli è sano di mente e perciò può essere processato. Tuttavia, la difesa fa di tutto per prendere tempo e continua a rimandare le udienze.
Oggi, alla quinta seduta del processo era presente solo l’avvocato di Altun, che ha chiesto al giudice di poter ascoltare come teste lo zio dell’assassino. Egli avrebbe ospitato il nipote per dieci giorni, quando questi era malato, nel periodo precedente all’omicidio. Il giudice ha acconsentito la comparizione del testimone, rimandando il processo al 4 luglio.
Negli anni scorsi, vi sono stati altri attentati contro sacerdoti cattolici e cristiani: don Andrea Santoro, ucciso nel 2006 a Trabzon; tre cristiani protestanti sgozzati a Malatya nel 2007; il giornalista Hrant Dink, di origine armena, ucciso nel 2007 a Istanbul.

IN MEMORIA DI PADRE LUIGI PADOVESE – UN ARTICOLO DA LUI SCRITTO NEL 2009: PASQUA TRA I MUSULMANI NELLA TERRA DI SAN PAOLO

http://www.asianews.it/notizie-it/Pasqua-fra-i-musulmani,-nella-terra-di-san-Paolo-14940.html

IN MEMORIA DI PADRE LUIGI PADOVESE ASSASSINATO IL 3 GIUGNO 2010; UN ARTICOLO SCRITTO DA LUIGI PADOVESE E PUBBLICATO DA ASIA NEWS L’8/04/2009

TURCHIA

Pasqua fra i musulmani, nella terra di san Paolo

di Luigi Padovese*

Il vicario apostolico dell’Anatolia racconta il significato della Pasqua nell’anno dedicato a san Paolo. La comunità cristiana in Turchia si trova come agli inizi della sua evangelizzazione. I pellegrini stranieri, la fraternità fra cattolici e ortodossi, lo stupore per il fascino di Gesù fra i musulmani. Una domanda al governo turco per una chiesa a Tarso.

Antakya (AsiaNews) – La Pasqua di quest’anno in Turchia è tutta speciale perché si celebra l’Anno Paolino e san Paolo è colui che ha portato l’annuncio di Gesù morto e risorto nella nostra terra.
In un ambiente saturo di religiosità, com’era il mondo antico, l’apostolo di Tarso ha concentrato l’annuncio nella fede in Dio, mediata dalla realtà concreta della morte e resurrezione di Gesù.
Nessuna religione ha tratti più coinvolgenti di questa fede che crede nella nascita di Dio come povero e morto da crocifisso. Questo annuncio che ci richiama alla concretezza della fede cristiana è un messaggio nei confronti dei poveri e dei sofferenti, come delle vittime dell’ingiustizia. Esso è divenuto il leit-motiv della catechesi verso i nostri cristiani, fin dalla mia prima lettera pastorale.
Come ai tempi dell’apostolo viviamo nella sua terra in una società non cristiana. Siamo un gruppo minoritario che corre il rischio di smarrire la propria identità attraverso un concetto generico di fede in Dio. Per questa ragione gli eventi della Pasqua che celebriamo sono importanti: ci rimandano a contemplare l’evento fondativo della nostra fede.

Una richiesta al governo per la chiesa di Tarso
Un fatto che ci conforta è vedere che proprio in questi giorni vi è un flusso continuo di pellegrini, anche stranieri, ad Antiochia e nei luoghi di san Paolo. Questa regione era al di fuori dei tour dei pellegrinaggi; invece quest’anno è stata battuta da migliaia di pellegrini. Non sono turisti, ma fedeli alla ricerca del contatto con i luoghi in cui l’apostolo ha vissuto. Paolo è nato a Tarso, ma ha fatto parte della comunità cristiana di Antiochia e ad Antiochia è sempre ritornato per il suo ministero. In Turchia egli ha percorso almeno16 mila km!
La Pasqua perciò qui da noi deve avere per forza una marcatura paolina. A questo proposito, noi speriamo in un grande dono pasquale: il ritorno della chiesa di Tarso ai cristiani. La conferenza episcopale turca e quella tedesca, le autorità del governo tedesco e la segreteria di stato vaticana hanno richiesto di avere a Tarso una chiesa dove i pellegrini di qualsiasi confessione cristiana possano radunarsi a pregare. A Tarso vi è una chiesa cristiana antica, che però è stata trasformata in museo. Per quest’anno le autorità turche ne hanno permesso l’uso, senza pagare il biglietto del museo. Ma si tratta di una misura che sta per scadere. Invece noi desideriamo che a Tarso vi sia un punto dove i cristiani possano sempre fare memoria dell’apostolo, non in un museo, ma in una chiesa. E aspettiamo una risposta da parte delle autorità. Mi auguro che questa risposta positiva ci venga data almeno entro la fine dell’Anno paolino (il 29 giugno 2009). Il dono della chiesa sarà anche una sorta di cartina di tornasole per misurare quanto le autorità turche vogliono fare per garantire la libertà religiosa. Abbiamo bisogno di fatti concreti per credere che qualcosa sta davvero cambiando in questo Paese.

Nessuna gelosia fra cattolici e ortodossi
Qui in Turchia le celebrazioni della Pasqua hanno anche un carattere ecumenico. Noi latini siamo una piccola comunità. Quest’anno la data della nostra Pasqua anticipa di una settimana quella ortodossa. È bello vedere come fra le diverse comunità cristiane non c’è opposizione, ma condivisione: ci sono ortodossi che vengono alle nostre funzioni e cattolici che vanno alle funzioni degli ortodossi. Da parte degli ortodossi, soprattutto i giovani, c’è desiderio di gustare la nostra liturgia, anche perché quella latina è in lingua turca, mentre quella ortodossa è in lingua araba e questo crea problemi di comprensione. Fra le due comunità non c’è assolutamente alcuna gelosia. C’è invece un sostenersi reciproco. Molti bambini ortodossi vanno nelle nostre parrocchie per la catechesi, tenuta anche da insegnanti ortodossi. Non c’è volontà di proselitismo, ma desiderio di aiutarci reciprocamente a seconda dei messi e delle possibilità di cui ciascuno dispone. Tutto è legato alla situazione comune di essere una minoranza religiosa e questo ci permette di superare tante prevenzioni e chiusure.
Il nostro essere minoranza rende la nostra situazione molto simile a quella degli inizi del cristianesimo, quella in cui si è trovato Paolo nel suo annuncio. L’apostolo, nato in un ambiente di pluralismo religioso, ci insegna ad avere un atteggiamento di rispetto nei confronti degli “altri” e questo comportamento positivo sentiamo di doverlo applicare al mondo islamico. Nonostante tutto, il nostro atteggiamento è molto positivo anche nei riguardi dell’islam. Qui io trovo tanta gente di buona volontà, coscienziosa. E san Paolo mi ha davvero insegnato questa novità della coscienza come il luogo della profondità della persona di fronte a Dio.

I martiri e le conversioni
Devo però aggiungere che per alcuni miei cristiani la Via Crucis è un fatto di oggi, non una cosa del passato. All’interno del vicariato di Anatolia ci sono davvero situazioni difficili. L’esperienza del martirio di don Andrea Santoro e altri fatti hanno lasciato il loro strascico. Ci sono ancora cristiani vicini alla sofferenza di Gesù.
Ma vi sono anche musulmani che si avvicinano al cristianesimo proprio attraverso le sofferenze di Gesù. Un piccolo numero sono divenuti cristiani. La loro è stata una scelta sofferta e meditata per le conseguenze, i rischi, le fatiche che porta nella loro vita. Eppure divengono cristiani proprio partendo dal fascino di Gesù che ha sofferto [nel Corano Gesù sfugge alla morte e fa morire un sostituto – ndr]. Del resto, anche in passato l’umanità di Gesù è stata esaltata da alcune personalità musulmane come il poeta Mevlana e altri mistici sufi.

*vicario apostolico dell’Anatolia

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