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SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA

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SAN PAOLO: L’UNITÀ INTERIORE, SEGRETO DI SANTITÀ E FECONDITÀ APOSTOLICA

Il beato Giacomo Alberione, interprete attuale dell’Apostolo delle genti

LUGLIO 04, 2012 00:00

REDAZIONECHIESA E RELIGIONE

di padre José Antonio Pérez, ssp

ROMA, mercoledì, 4 luglio 2012 (ZENIT.org).- Una persona si realizza nella misura in cui ha un principio interiore che si rivela in tutto il suo modo di essere, donandogli una fisionomia inconfon­dibile e un’unità d’azione. Nel credente, l’unità inte­riore dipende da un principio dinamico ricevuto da Dio stesso, vissuto in tutta la sua esigenza e portato alle ultime conseguenze. Tutto ciò che egli realizza, porterà il sigillo della sorgente profonda da cui pro­viene.
Coscienza e affermazione dell’unità personale
La scoperta dell’apostolo Paolo da parte del beato Giacomo Alberione risale al primo contatto con gli studi teologici. San Paolo sapeva che in Gesù Cristo abita corporalmente la pienezza della divini­tà e che tutto abbiamo pienamente in lui (cf. Col 2,9-10); di conseguenza, non si può servire Gesù Cristo se non con una risposta di grande «pie­nezza» e sforzandosi perché tutti acquistino la piena intelligenza del mistero di Dio, che è Cristo (cf. Col 2,2-3); e in questo ministero impegnò tutte le risorse personali di natura e di grazia (cf. Col 1,28-29). Tutto questo colpì profondamente l’animo delgiovane ed inquieto Alberione.
«L’ammirazione e la devozione – scriveva nel 1954 – cominciarono specialmente dallo studio e dalla meditazione della Lettera ai Romani. Da allora la personalità, la santità, il cuore, l’intimità con Gesù, la sua opera nella dogmatica e nella morale, l’impronta lasciata nell’organizzazione della Chiesa, il suo zelo per tutti i popoli, furono soggetti di meditazione. Egli parve veramente l’Apostolo: dunque ogni apostolo ed ogni apostolato potevano prendere da lui». Da allora la conoscenza andò sviluppandosi e divenne «devozione», con tutta la carica che questa parola comporta: conoscenza sempre più approfondita, amore e volontà di identificazione, confronto continuo sul piano del pensare e dell’agire, decisione di far conoscere, amare, seguire e imitare l’Apostolo.
Questa «devozione» andò intensificandosi quando la figura dell’Apostolo fu associata alla nuova forma di apostolato che il giovane Alberione avviava con le sue fondazioni. «Tutte le anime che presero gusto agli scritti di San Paolo, divennero anime robuste», affermava. Ed esortava: «Preghiamo san Paolo che formi anche noi persone di carattere, che non si scoraggiano…, che sanno dare un valore giusto alle cose. Gente pratica che sa giocare il “tutto per tutto”, cioè dando tutto a Dio per riceve in cambio Dio stesso. E questo avviene quando vi è un grande amore, la convinzione che aveva san Paolo da farlo esclamare: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”».
L’unità in Gesù Cristo, ricevuto da san Paolo
Per garantire l’unità di ispi­razione e di azione, Don Alberione si riporta sempre al punto essenziale, e così lo offre alla sua Famiglia: «L’unio­ne di spirito: questa è la parte sostanziale… vivere nel Divin Mae­stro in quanto egli è via, verità e vita; viverlo come lo ha compreso ilsuo discepolo san Paolo. Questo spirito forma l’anima della Famiglia Paolina, nonostante che i membri sia­no diversi ed operanti variamente… “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”», diceva nel 1960.
L’unità si trova dunque in Gesù Cristo, ricevuto da san Paolo. Per dono di Dio, don Alberione ha sentito a fondo la Parola rivela­ta circa la pienezza apostolica di san Paolo ed è stato mosso dallo Spiri­to all’impegno di riprodurlo, oggi, nella totalità del suo carisma aposto­lico. È questa la sorgente e l’unità profonda della Famiglia Paolina. È di qui che emanano le differenti fisionomie dei dieci gruppi che la costitui­scono.
Afferma don Silvio Sassi, Superiore generale della Società San Paolo, nella sua lettera annuale, “Ravviva il dono che hai ricevuto”, che per essere fedeli oggi in modo creativo a Don Alberione, occorre interpretare san Paolo per le urgenze della nuova evangelizzazione del nostro tempo: una profonda esperienza di Cristo, che si trasforma in fede missionaria nella comunicazione attuale, in contemplazione nella liturgia, in laboriosità nella pastorale parrocchiale, nel suscitare vocazioni, nel vivere lo stato di vita laicale in stile paolino e nella cooperazione alle opere di bene paoline. Sono questi, appunto, i vari raggruppamenti che debbo­no trovare in san Paolo il loro vincolo di unità e il loro dinamismo contemplativo-attivo verso Dio e verso gli uomini.
Unità, santità e fecondità apostolica
Il beato Giacomo Alberione considera san Paolo non solo padre e ispiratore, ma addirittura «fondatore», «forma» sulla quale la Famiglia Paolina deve riprodurre Gesù Cristo per essere «san Paolo vivo oggi»: «Gesù Cristo è il perfetto originale. Paolo fu fatto e si fece per noi forma: onde in lui veniamo forgiati, per riprodurre Gesù Cristo. San Paolo è forma non per una riproduzione fisica di sembianze corporali, ma per comunicare al massimo la sua personalità… tutto. La Famiglia Paolina, composta da molti membri, sia Paolo-vivente in un corpo sociale».
Il motivo dell’elezione di san Paolo è stata la sintesi che l’Apostolo ha saputo realizzare in se stesso di tutte le dimensioni della sua personalità:
Santità e apostolato: «Si voleva un santo che eccellesse in santità e nello stesso tempo fosse esempio di apostolato. San Paolo ha unito in se la santità e l’apostolato».
Amore a Dio e amore alle anime: «Se san Paolo oggi vivesse… adempirebbe i due grandi precetti come ha saputo adempierli: amare Iddio con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la mente; e amare il prossimo senza nulla risparmiarsi».
Attività e preghiera: «Sovente si dà risalto all’attività di san Paolo; ma prima bisogna mettere in risalto la sua pietà».
Il segreto: la vita interiore: «Perché san Paolo è così grande? Perché compì tante opere meravigliose? Perché anno per anno la sua dottrina, il suo apostolato, la sua missione nella Chiesa di Gesù Cristo vengono sempre più conosciuti, ammirati e celebrati?… Il perché va ricercato nella sua vita interiore. È qui il segreto», affermava il Fondatore.
E concludeva costatando come la santità consiste appunto nella sintesi dello sviluppo armonico di tutte le dimensioni umane: «Per san Paolo la santità è la maturità piena dell’uomo, l’uomo perfetto. Il santo non si involve, ma si svolge… La santità è vita, movimento, nobiltà, effervescenza… Ma lo sarà solo e sempre in proporzione dello spirito di fede e della buona volontà».
Segreto per raggiungere la realizzazione personale, la santità, e la fecondità apostolica è dunque l’unità interiore. San Paolo ne è il maestro.

*Postulatore generale della Famiglia Paolina

Publié dans:Paolo: studi |on 5 juin, 2018 |Pas de commentaires »

SAN PAOLO, GRANDIOSO TESTIMONE DELLA DIVINITÀ DI CRISTO (2009)

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SAN PAOLO, GRANDIOSO TESTIMONE DELLA DIVINITÀ DI CRISTO (2009)

RAINER RIESNER, uno dei massimi studiosi protestanti del cristianesimo primitivo e docente di Nuovo testamento a Dortmund, su invito del Centro Culturale di Milano ha tenuto mercoledì scorso un’affollata conferenza su san Paolo presso l’Aula Magna dell’Università Cattolica
Rainer Riesner, su invito del Centro Culturale di Milano, ha tenuto mercoledì scorso un’affollata conferenza su san Paolo nell’Aula Magna dell’Università Cattolica. Ha tutte le competenze per parlare di questo argomento, essendo uno dei massimi studiosi protestanti del cristianesimo primitivo e docente di Nuovo Testamento a Dortmund.

Professor Riesner, san Paolo è un apostolo o un fondatore?
L’apostolo Paolo è assolutamente decisivo per l’evangelizzazione del mondo antico. Ma egli stesso avrebbe fortemente protestato se lo si fosse chiamato “fondatore” di qualcosa. La sua continuità con Gesù Cristo è un dato acclarato e indiscutibile. Gli si è applicata la categoria di “fondatore” per metterlo in contrasto con Gesù.
Come è avvenuto?
Tutto è iniziato nel diciannovesimo secolo. Si è voluto contrapporre l’etica semplice, amichevole di Gesù da un lato e, dall’altro, Paolo con la sua teologia, cristologia e soteriologia complicate. Gesù diventava così un mero maestro e profeta giudeo e Paolo sarebbe stato il responsabile di una successiva divinizzazione di Gesù, operata attraverso teorie tratte dal paganesimo. Il risultato di questa posizione è fin troppo chiaro: per riferirci autenticamente a Gesù, dobbiamo alleggerirci di tutta la dogmatica, che sarebbe un portato paolino.
Finendo così per negare la divinità di Gesù. Ma, dunque, il Paolo vero chi è?
Anzitutto è importante tener presente la sua origine ebraica. A Paolo sono familiari tutte le tradizioni e le categorie dell’Antico Testamento. A questo proposito è decisiva una questione biografica. Tutti gli studiosi sono concordi sulla provenienza di Paolo da Tarso. Per quanto riguarda la gioventù di Paolo vi sono però due posizioni. La prima – cui convintamente aderisco – afferma che Paolo proviene da una devota famiglia di farisei, che lo ha inviato fin da giovane a Gerusalemme per studiare l’Antico Testamento. L’altra posizione vuole dimostrare il condizionamento di Paolo da parte del pensiero pagano dicendo che egli ha vissuto a lungo in Tarso, centro dove le religioni pagane erano parecchio diffuse. Rimane comunque il fatto che l’indubbia adesione di Paolo all’ebraismo rende necessario spiegare come mai, immediatamente dopo la caduta sulla via di Damasco, un ebreo possa affermare la divinità di una persona umana.
Paolo infatti “incontra” Cristo sulla via di Damasco. Come l’esegesi spiega il fatto accaduto quel giorno? Di che tipo di incontro si tratta?
La domanda è interessantissima. Facciamo un passo indietro. Sappiamo che Paolo ha perseguitato la prima comunità di Gerusalemme. Le fonti sono concordi nel datare la caduta da cavallo a un anno e mezzo di distanza dall’Ascensione. Inoltre Paolo stesso – lo apprendiamo dagli Atti degli Apostoli – dice di avere studiato a Gerusalemme. Il lasso di tempo è strettissimo: Paolo a Gerusalemme, Gesù per l’ultima volta a Gerusalemme, l’incontro sulla via di Damasco. Io ritengo possibile che Paolo abbia conosciuto personalmente Gesù a Gerusalemme: non come discepolo, ma come abitante della città. E certamente era a conoscenza di cosa gli apostoli testimoniassero riguardo la Sua risurrezione; era proprio quello il motivo per cui li perseguitava! Dirò di più: per Paolo la prova schiacciante della falsità messianica di Gesù consisteva proprio nella morte in croce.
Poi dirà: «Non conosco altro che Cristo, e Cristo crocifisso».
Nel terzo capitolo della lettera ai Galati si vede perfettamente la sua precedente opinione su Gesù, laddove dice: «Maledetto colui che pende dal legno della croce». Dopo la conversione – attenzione! – continua a condividere questa frase, ma le dà un significato molto più profondo: Cristo è effettivamente maledetto, ma non per Sua colpa, bensì per la salvezza degli uomini.
La domanda centrale è dunque: come è potuto avvenire un cambiamento simile? Anzitutto ce lo dice Paolo stesso. Dopo quel giorno sulla via di Damasco egli non ha più alcun dubbio: Gesù è Figlio di Dio. Nella Seconda Lettera ai Corinzi Paolo descrive l’avvenimento nel quale ha incontrato Cristo e parla della luce divina, cioè egli attribuisce a quell’apparizione le caratteristiche che gli ebrei riservavano alle manifestazioni di Dio (come, per esempio, quella sul Sinai). Nell’avvenimento sulla via di Damasco Paolo ha visto una persona – Gesù Cristo – manifestarsi nella gloria divina. La mia personale ipotesi è che Paolo abbia avuto una visione di Cristo crocifisso. Così è ancora più evidente il contenuto del suo annuncio: quel Gesù crocifisso è contemporaneamente e inscindibilmente il Signore della gloria. E si ricordi che quando Paolo parla di gloria – la doxa – pensa sempre e solo a quella divina.
Era impensabile che un devoto ebreo si inventasse una cosa del genere?
Sì, dev’essere successo qualcosa. Non è un caso che nella esegesi anglofona più avanzata si riconosca che la divinità di Cristo è un’esperienza dei testimoni di Gesù (e, dunque, non qualcosa aggiunto posteriormente). Essi non possedevano le premesse culturali e intellettuali per inventarsi una cosa simile, dunque devono aver fatto esperienza di qualcosa al di fuori di loro.
Si sta concludendo l’anno di celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo, quale ritiene sia il suo insegnamento più urgente per noi?
La missione. La passione di Paolo è stata quella di portare il fatto di Cristo in tutto il mondo. Ciò implica due cose. La prima è la certezza su chi sia Cristo; Paolo risponde: la manifestazione definitiva di Dio per tutti. La seconda è l’apertura a tutto il mondo; Paolo conosceva solo un mondo che finiva in Spagna e voleva portare l’annuncio fin là, ma certo non se ne avrebbe a male se noi andassimo in terre di cui egli ignorava l’esistenza.

Publié dans:Paolo: studi |on 13 mars, 2018 |Pas de commentaires »

TRADIZIONI, SAN PAOLO E I SERPENTI VELENOSI

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TRADIZIONI, SAN PAOLO E I SERPENTI VELENOSI

L’Apostolo delle Genti fu colui che pose i fondamenti istituzionali della Chiesa ed è appunto festeggiato con S. Pietro, che ne fu il primo papa, il 29 giugno, giorno che ricorda il martirio, mentre quello della conversione cade il 25 gennaio, data della caduta da cavallo.La sua grandezza sul piano della dottrina e l’importanza fondamentale nell’istituzione del Cristianesimo e della Chiesa non ha un corrispettivo adeguato nel mondo della tradizione popolare. DI CARLO LAPUCCI

Tradizioni, San Paolo e i serpenti velenosi 25/06/2009 di Archivio Notizie di Carlo Lapucci

L’Apostolo delle Genti fu colui che pose i fondamenti istituzionali della Chiesa ed è appunto festeggiato con S. Pietro, che ne fu il primo papa, il 29 giugno, giorno che ricorda il martirio, mentre quello della conversione cade il 25 gennaio, data della caduta da cavallo. La sua grandezza sul piano della dottrina e l’importanza fondamentale nell’istituzione del Cristianesimo e della Chiesa non ha un corrispettivo adeguato nel mondo della tradizione popolare, nella quale, a differenza di altre figure come San Pietro, San Giovanni Battista, compare solo per alcuni elementi, primo dei quali è la celebre caduta e folgorazione (Atti degli Apostoli IX, 1-9) sulla via di Damasco, per cui è patrono di coloro che usano una cavalcatura. La sua alta speculazione e la  riflessione sulla dottrina del Cristianesimo, la sua potenza speculativa, sfugge al pensiero concreto delle persone semplici. A differenza di lui San Pietro, dotato di umanità talvolta ingenua, ha inciso più decisamente nella fantasia della gente, diventando in moltissime profacole l’intermediario dell’umanità nel colloquio con Cristo. L’uomo, incapace di guardare il divino, guarda e si ferma sulle manifestazioni secondarie della sua potenza e del suo essere, come colui che è impossibilitato di guardare il sole vede e segue gli effetti della sua luce e della sua forza riflessi sulle cose naturali e spesso si ferma su questi dimenticandone l’origine e la fonte. Di Paolo nella devozionalità, oltre alla caduta, c’è la sua spada con la quale è raffigurato, strumento del suo martirio e simbolo della forza della sua parola. Proverbiale è anche la sua calvizie con il volto severo, la persona bassa e atticciata, che lo hanno fatto ritenere un santo forte, risoluto, volitivo e quindi da trattarsi con reverenza. Protegge gli operanti dei vari mestieri manuali che ha esercitato: cordai, cestai, conciatori, tappezzieri. È detto San Paolo dei Segni per il fatto che dai giorni precedenti alla sua festa del 25 di gennaio usava prendere i pronostici meteorologici per tutto l’anno e questo forse è dovuto al fatto che fu, come egli racconta, rapito in estasi fino al terzo cielo (Lettera ai Corinzi XII, 1-3). Il luogo della sua decapitazione a Roma sulla Via Ostiense, è detto Tre fontane, perché la testa cadendo dal ceppo fece tre rimbalzi: là dove toccò la terra scaturirono tre fontane, ancora oggetto di culto. L’aspetto che ha inciso di più nella cultura popolare è dovuto al naufragio durante il primo viaggio a Roma come prigioniero. Riparando nell’Isola di Malta insieme all’equipaggio e alle guardie (Atti degli Apostoli XXVIII, 1-6), furono accolti da gente della costa che stava attorno a un fuoco. Mentre gettava legna sulle fiamme l’Apostolo venne assalito da una vipera che gli si attaccò al dito, questi la scosse dentro il fuoco restando completamente illeso dal suo veleno e dopo un soggiorno di tre mesi poté proseguire il viaggio. Da qui derivarono numerose credenze che si sono moltiplicate raggiungendo una diffusione considerevole e una persistenza nel tempo altrettanto sorprendente. Tutte ruotano intorno alla figura mitica, simbolica e magica del serpente, ma forse si sovrappongono anche all’antico, locale e molto fiorente culto, già presente nell’isola, di Ercole, eroe e divino protettore pagano contro i serpenti: ne uccise due grandissimi mentre era ancora nella culla. Il culto antico di Pitone Fin dalle origini e per un lungo periodo nella civiltà il serpente è stato considerato il primo essere vivente, ovvero la prima creatura che ha preso forma. Non poteva che essere figlio della Terra nella quale abita e sulla quale striscia quasi ad indicare lo stretto contatto con questa. In quanto primo essere è il più elementare, rozzo, istintivo; animato da cieca vitalità allo stato puro ha la forza infinita della vita e della morte, rigenerandosi senza morire e possedendo il veleno che uccide. Di fronte a questa forza dell’istinto, sta anche la capacità di detenere in nuce tutte le fasi dello sviluppo successivo della vita degli esseri che si riveleranno nel tempo, restando lui nella sua primitività, ma non estraneo affatto a ogni manifestazione anche antitetica alla sua sostanziale modalità: è creatura lunare e solare, ctonia e luminosa, ha nel suo veleno la morte e la salute, incarna l’istinto e la ragione, è sacro a Tifone e ad Atena, a Dioniso e ad Apollo. Per questo spesso il modo di considerare il serpente da parte degli antichi disorienta per la facilità con la quale gli vengono attribuiti elementi, qualità, prerogative, funzioni contraddittorie. In particolare le sue conoscenze sono abissali, assolute, avendo attinto e detenendo quel primo germe della vita che contiene tutto, quello che è nascosto e quello che si vede, il passato, il presente e il futuro. Non meraviglia quindi che accanto a coloro che hanno la sapienza, medici, saggi, profeti si trovi la figura del serpente, in particolare è presente in quasi tutti i luoghi sacri dove si trovano profeti, indovini, sibille, santuari dove si danno i responsi. In particolare Apollo è la divinità che tutela l’arte di conoscere, soprattutto il futuro ed è collegato con Cassandra, Crise, Pitone, Pizia, Delfi. Apollo, per insediare il suo santuario di vaticini a Delfi deve vincere il serpente Pitone, terribile mostro che col suo corpo per sette volte circondava l’altura di Delfi e impediva al dio l’accesso al santuario di cui era il nume. Di Pitone non si conosceva quando e come fosse nato, tradizioni più tarde vogliono che nascesse da se stesso o dal fango della Terra essere primordiale, come del resto appare anche nella tradizione cristiana: Lucifero, identificato nel serpente, è il primo degli angeli creati prima del mondo, il primo peccatore e ribelle. Per l’ambivalenza dei simboli il serpente è immagine di salute (caduceo), è il Serpente di rame (Numeri XXI, 9) degli Ebrei, è addirittura simbolo e prefigurazione di Cristo. Quindi questo animale non poteva non rientrare per qualche crepa nel mondo cristiano, pur rappresentando l’esecrando tentatore e causa della rovina dell’uomo. In modo negativo appare nella tradizione di Santa Verdiana a Castelfiorentino. L’episodio di San Paolo a Malta è stata la base per l’assunzione di elementi che spesso col religioso hanno poco a che fare, ma evidentemente soddisfacevano quel sostrato di paganesimo, di religione naturale, assai vivo nel passato, ma che permane ancora. La leggenda vuole che Paolo decise di liberare l’Isola di Malta da tutti i serpenti velenosi e stabilì che chi nasce nell’isola nella notte del 29 giugno, o in quella dal 24 al 25 gennaio, le due feste che ricordano la morte e la conversione, sia indenne da ogni morso di animale velenoso, guarisca chi ne è stato avvelenato e salvi da altre malattie. Nascono così i sampaolari che sono discendenti della famiglia di San Paolo e possono guarire con la saliva e altri mezzi i morsi più pericolosi e anche mortali dei serpenti. Sono detti anche Gente della famiglia di San Paolo, ovvero della casa di San Paolo, anche Uomini di San Paolo, e si considerarono addirittura discendenti di San Paolo, creando un certo imbarazzo nel trovare la linea di parentela. I sampaolari non solo sono immuni da qualunque morso o puntura di animali velenosi, ma li possono maneggiare senza che questi tentino di nuocere loro in qualche modo, entrando nel novero dei serpari, cacciatori di serpenti che sono sempre esistiti, anche per la fornitura dei veleni molto usati a scopo terapeutico e magico, e spesso ostentano ancora la loro immunità dai morsi dei serpenti velenosi, ottenuta forse con una opera di mitridatazione, ovvero lenta assuefazione al tossico. Le leggende non si curano di difficoltà pratiche, tanto meno logiche, una delle quali non è da poco: come hanno fatto i maltesi nati nelle feste di Paolo, o discendenti dalla sua famiglia, a scoprire le loro prerogative se l’Isola di Malta era del tutto priva di serpenti velenosi avendola liberata San Paolo? Il fatto è che la tradizione dei sampaolari si è sovrapposta col tempo ad altre numerose e più antiche, esistenti fino dai tempi preistorici e spesso collegate ai culti del serpente che nell’area mediterranea sono sempre stati diffusissimi, ma non mancano altrove come il serpente piumato in America.

Psilli, cirauli e gli storici L’antica esistenza del popolo misterioso degli Psilli viene testimoniata da Erodoto (484-406 a. C.) che ne Le storie (IV, 173) scrive: «Vicino ai Nasamoni c’è il paese degli Psilli [?] Spirando continuamente il vento Noto seccò i pozzi delle acque e la loro terra, che è all’interno della Sirte, era tutto senz’acqua. Essi allora, tenuto consiglio tra loro, decisero unanimemente e tutti insieme marciarono armati contro il vento (riferisco quello che si racconta tra i libici) e, quando furono entrati nel deserto, il Vento Noto soffiando con violenza, li seppellì tutti quanti». Varrone e Plinio riferiscono l’esistenza di una popolazione africana, detta Psilli, che aveva la capacità di guarire qualunque morso velenoso, in particolare di serpente, con lo sputo, sopra la ferita oppure sul capo del rettile che aveva morsicato. Plinio (Storia Naturale VII, 14) riferisce: «Una simile popolazione esisteva in Africa, quella degli Psilli, chiamata così dal nome del re Psillo, la cui tomba si trova nella zona della Grande Sirte. Nel loro corpo era congenito un veleno mortale per i serpenti, che erano condizionati dal loro odore». Si diceva che chi nasceva da una famiglia degli Psilli aveva in sé questa capacità che non perdeva mai, ma svaniva nella prole allorché uno psillo si sposa con una persona che non era tale. Era facile vedere se uno fosse di sangue spurio, dal momento che qualunque serpente fuggiva in presenza di uno psillo. Anche il popolo dei Marsi aveva una simile prerogativa. Il termine, oltre che «abitanti della Marsica» indica gl’incantatori di serpenti, i catturatori e anche coloro che annullano il veleno delle morsicature. Questo significato prende le mosse dall’antico popolo di stirpe sabellica stanziato nell’altipiano dell’Appennino centrale intorno al lago Fucino, tra i fiumi Aterno e Liri. Combatterono i Romani finché questi con il Bellum Marsicum non li soggiogarono definitivamente. Valorosi in battaglia, godettero fama di grandi conoscitori delle erbe salutari, abbondanti nelle loro terre, e dei rimedi che ne ricavavano per la cura delle malattie e per le arti magiche. Erano noti altresì per la loro arte di domare e incantare i serpenti. Plinio (Storia Naturale VII, 14) dice di loro: «In Italia si trova la popolazione dei Marsi. Si dice che essi discendano dal figlio di Circe e che perciò abbiano innata questa facoltà [d'incantare i serpenti]. Del resto tutti gli uomini possiedono un veleno che è un antidoto contro i serpenti. Sembra infatti che questi, toccati dalla saliva, fuggano come dall’acqua bollente». Marso sarebbe appunto il mitico figlio di Ulisse e della maga Circe, eroe che sarebbe stato il capostipite dei Marsi. Si diceva anche che i Marsi fossero stati ammaestrati da Medea nelle arti magiche e nella scienza delle erbe. La zona della Marsica è ancora rinomata per la presenza di stregoni e guaritori, nonché d’incantatori. I Cirauli sono una  misteriosa istituzione siciliana di guaritori, maghi, indovini presente in gran parte del Meridione, conosciuta un tempo dovunque, che costituisce il modello di famiglie o corporazioni dei guaritori. L’origine è antica e Niccolò Serpetro da Raccuia del Messinese già nel 1653, diceva: «Vivono sino al dì d’oggi in Militello di Sicilia, terra posta nella valle di Noto, alcuni d’una famiglia detta de’ Cirauli, ne’ maschi e femmine della quale per molti secoli s’è andata trasfondendo una meravigliosa virtù di guarire, non solo col tatto, con lo sputo e con le parole, ma ancora con la immaginazione, tutti i morsi velenosi d’ogni sorte, e di far morire ogni spezie di velenati quanto si voglia lontani». Pitrè, che ha studiato ritiene che la parola Ciraulo sia d’origine greca e s’intende «suonatore di tromba, trombettiere» e tale è colui che nasce nella notte del 29 giugno, o in quella dal 24 al 25 gennaio, le due feste di San Paolo. Abbiamo dunque anche noi come gl’indiani l’incantatore del cobra nostrano, la vipera, che si serve del flauto e della musica.

La terra di Malta e le cosiddette terre sigillate Sbarcato nell’isola con gli altri naufraghi secondo la tradizione Paolo fece sgorgare presso al mare una fontana per dissetare i compagni e dopo essersi asciugato al fuoco e dopo essere stato punto dalla vipera, riparò in quella che si dice la Grotta di Rabat, o la Grotta di San Paolo, dove soggiornò un certo periodo prima di ripartire per Roma. Il luogo fu oggetto di particolare venerazione e divenne famoso per altri elementi sempre relativi ai serpenti. Il principale di questi oggetti è la Terra di Malta che fa parte delle cosiddette terre sigillate. Queste sono preparati che stanno tra il culto delle reliquie, dei luoghi e la superstizione, la ciarlataneria, la medicina fantastica. Vengono usati in modi diversi, ma in genere sono assunti per via orale. Le terre erano in pratica usate come talismani mascherati da reliquie, oppure come farmaci. Si tratta di terre prelevate in posti particolari: luoghi di martirio (nella zona del Colosseo), tombe, soggiorni, grotte di santi, terre in vicinanza di santuari, oppure semplicemente terre alle quali era riconosciuta una qualità curativa. Naturalmente la fiducia riposta in questi preparati dava largo spazio allo smercio e alle truffe dei ciarlatani che non avevano scrupolo nel raccogliere le terre in giardino o in un campo e spacciarle come originali. (Montinaro B., San Paolo dei serpenti ? Analisi di una tradizione, Sellerio, Palermo 1996). Prelevata, elaborata con aggiunte diverse, la terra era lavorata in palline, dischetti, o in forme varie: addirittura statuine devote, oggetti in miniatura. La caratteristica particolare era il sigillo che veniva impresso nell’impasto fresco che manteneva l’impronta una volta essiccato: poteva essere un’immagine sacra come negli Agnusdei, quella di un santo, ovvero una semplice croce o un simbolo relativo al luogo d’origine. Si chiama anche Pasta di reliquie. Insieme alla terra si trovano presso la grotta denti, ossa di animali fossilizzati che l’immaginazione popolare ha identificato nel modi più fantasiosi come se fossero gli occhi, le lingue, i denti dei serpenti impietriti dalla parola dell’Apostolo. Sono dette comunemente pietre di San Paolo, ma anche lingue di San Paolo, grazie di San Paolo, occhi di serpe, lingue di vipera. Anche qui l’uomo piuttosto che vedere la luce di San Paolo preferisce guardare le sue ombre.

San Domenico di Cocullo Il primo giovedì di maggio si tiene a Cocullo (Aquila) la processione dei Serpari nella quale si porta in trionfo la statua di San Domenico di Cucullo (Foligno), loro patrono. Nato probabilmente nel 951 a Colfonaro, presso Foligno e detto propriamente San Domenico di Foligno, fu monaco e abate benedettino e morì il 22 gennaio 1031. È patrono di Cocullo e riceve l’omaggio annuale dei serpari senza che si rintracci come questo possa essere giustificato da un fatto della sua vita. La processione che si svolge in suo onore raccoglie elementi disparati, mentre le pareti interne del santuario vengono nudate periodicamente dell’intonaco da parte dei devoti che portano a casa la polvere per esorcizzare i serpenti e guarire malattie. È probabile che il rito pagano dei serpari si sia combinato con la figura cristiana. Infatti i due aspetti della manifestazione sono chiaramente giustapposti, senza una fusione. Come riferisce Antonio De Nino («Tradizioni popolari abruzzesi», Japatre, L’Aquila 1970, I, pag. 250) la tradizione è assai complessa e la celebrazione inizia per tempo, quando coi primi tepori primaverili i serpari cominciano la caccia, catturando le serpi e conservandole in olle ben chiuse, con uno strato di crusca e opportunamente interrate il luoghi freschi. Sono colubridi, per nulla velenosi, ai quali i serpari comunque tolgono i denti con l’artificio di far loro mordere le falde del cappello e rompendoglieli con uno strattone. Le grosse serpi vengono allevate in particolare col latte e conservate per la festa. Si sa che in Africa la base del culto del serpente era la presenza dell’anima dei defunti nel suo corpo. Scrivono Pozzoli, Romani e Peracchi: «?credono che le anime degli uomini, i quali hanno ben vissuto, entrino nel corpo dei serpenti. Il culto del serpente è il più celebre e il più accreditato in tutto il paese, ignorasi però qual ne sia l’origine». I serpari quindi ricercano la forza generativa della terra a primavera, quando i serpenti-defunti escono dal buio del regno infero per perpetuare la loro specie, se ne appropriano e la diffondono ritualmente per il paese in una processione e quindi rimandano i corpi depauperati e le anime al loro luogo naturale: il regno sotterraneo dell’oltretomba.

 

L’INCONTRO CON L’APOSTOLO PAOLO

http://www.opera-fso.org/italiano/?cat=6

L’INCONTRO CON L’APOSTOLO PAOLO

Tema: Meditazioni

(parla di Madre Giiulia, non la conosco, dovrebbe essere la fondatrice della famiglia spirituale « L’Opera »)

 All’inizio del XX secolo si diffuse in molti paesi il movimento liturgico. Il Congresso delle associazioni cattoliche a Mechelen nel 1909 divenne punto di partenza in Belgio di questo movimento, che ebbe l’obiettivo principale di porre nuovamente la santa Messa al centro della vita cristiana. In effetti, da diversi secoli la liturgia era divenuta una realtà riservata in gran parte ai chierici. Sebbene i laici fossero uniti, nella fede, al sacrificio della Messa, avessero un forte rispetto per la presenza eucaristica del Signore e confidassero nella sua grazia, potevano partecipare alla celebrazione della Messa solo in modo limitato. Durante la santa Messa i laici recitavano spesso preghiere personali che non erano sempre in stretta relazione con la celebrazione liturgica. Il movimento liturgico voleva contribuire a riscoprire la grande ricchezza della liturgia e ad arricchire la vita spirituale di molte persone. Durante il suddetto Congresso a Mechelen, il Padre Lambert Beauduin, benedettino, propose di diffondere il Messale come un libro di preghiera e di renderlo accessibile a tutti grazie ad una traduzione nella lingua madre dei testi latini della liturgia domenicale e dei vespri. Egli disse: “La liturgia è la vera preghiera dei fedeli; è una spinta potente verso l’unione ed un insegnamento religioso completo.”[1]  Padre Hillewaere promosse il movimento liturgico. Da fedele sacerdote volle venir incontro alla sete spirituale della giovane Giulia, infondendole un sano orientamento e il nutrimento spirituale necessario. Egli comprese che Giulia aveva molti doni particolari. Per questo motivo, le regalò – allora poteva avere 15 o 16 anni – un Messale in latino e olandese. In questa maniera ella poteva comprendere meglio le letture e le preghiere della santa Messa ed attingere in modo più fecondo dalla ricchezza delle Sacre Scritture e della liturgia. Questo Messale ebbe grande influenza sul suo sviluppo religioso. Circa settant’anni dopo, Giulia raccontò l’esperienza fatta con questo Messale, come se tutto fosse accaduto il giorno prima: “A quell’epoca le Sacre Scritture non erano ancore accessibili in lingua volgare. Per la prima volta ricevetti in mano un Messale in cui le letture e il vangelo non erano scritte solo in latino, ma anche in olandese. Ho aperto questo tesoro con molta gioia ed amore. Mi sentivo pervadere come da un grande fuoco. Non me lo potevo spiegare. Già dalla prima sera provai a meditare tutte le preghiere e tutti i testi: la lettura, il vangelo e tutto quanto si sarebbe letto o cantato durante la santa Messa del giorno seguente. Le parole della Sacra Scrittura mi affascinavano. Per noi bambini e giovani era del tutto ovvio andare quotidianamente a Messa.”[2]  Giulia, a quell’epoca, si trovava in una situazione difficile. Tempo addietro, prima che Padre Hillewaere le avesse regalato il Messale, le venne chiesto di servire ad un banchetto di alcuni personaggi famosi. In quest’occasione sentì parlare un sacerdote in termini poco rispettosi circa alcune questioni di fede, portando al riso gli altri commensali. Fu per lei un vero scandalo che un sacerdote avesse ridicolizzato le cose sacre. Provò sofferenza ed ansia fin nell’intimo della sua anima. Mai prima era stata così profondamente colpita dalle debolezze umane dei rappresentanti della Chiesa.  Lo scontro con la superbia e la falsità di alcune persone quasi sopraffecero Giulia con un senso di impotenza sempre maggiore: “Tutto questo mi portò lentamente ad una specie di crisi di fede. Ero molto infelice, sola, chiusa e quasi imprigionata in me stessa. Mi sforzavo di giungere ad un rapporto puro e autentico con Dio, attraverso sacrifici nascosti e l’impegno sincero nella virtù. Ma ciononostante mi allontanavo dalla pratica della fede. Cominciai ad essere assalita da una specie di superficialità e passività.”[3] Questa condizione di insicurezza nella sua anima perdurava. La sua confidenza nella Chiesa era compromessa. Per le tentazioni che l’assillavano non progrediva più ed era in cerca d’aiuto: “In questa situazione la giustizia misericordiosa del Signore mi venne incontro in maniera semplice, ma per me meravigliosa e assoluta.”[4]  Una sera – non molto tempo dopo aver ricevuto il Messale – Giulia si stava preparando ancora per la santa Messa, leggendo i testi liturgici del giorno seguente. Quella sera non si accorse di nulla in particolare, tuttavia il mattino seguente, durante la santa Messa, venne colpita così profondamente da una lettura di san Paolo da perdere, per un breve periodo, contatto con tutto il mondo circostante: “’Verrà un giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina’ (2 Tim 4,3). Venni così profondamente toccata da questo richiamo di san Paolo d’aver la sensazione di essere completamente inserita nel contenuto di tale testo. Mi pareva che Paolo volesse svelarmi il suo senso più profondo ed invitarmi ad orientare in questa direzione la mia vita.”[5]  Le parole che l’avevano folgorata provengono dalla seconda lettera a Timoteo e costituiscono una sorta di testamento del grande apostolo al suo figlio spirituale:  “Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà un giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del vangelo, adempi il tuo ministero. Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.” (2 Tim 4,1-8)  Verso la fine della sua vita, Giulia ebbe a testimoniare: “Questo testo fu per me come un richiamo della provvidenza di Dio per tutta la mia vita sino ad oggi. Esso fu il primo seme per il Carisma de ‘L’Opera’”.[6]  In quel periodo Giulia prese coscienza della perenne attualità della parola di Dio. La Sacra Scrittura, in cui risplende la luce di Dio in tutta la sua chiarezza, divenne per Giulia una fonte di consolazione, di forza e di gioia. Più tardi scrisse che la parola del Signore “dà orientamento, con forza, a coloro che l’accettano nella fede, ascoltandola e accogliendola con cuore aperto e mettendola in pratica”.[7] Tuttavia venne colpita dalla parola di Dio non la sera prima quando leggeva personalmente il testo di san Paolo, bensì solo durante la celebrazione eucaristica. In questo modo la liturgia, che è il luogo proprio della parola di Dio, raggiunse nella vita di Giulia un’importanza fondamentale.  Da questo istante l’Apostolo Paolo divenne la sua guida personale, che la inserì sempre più nella ricchezza della fede ed nel mistero della Chiesa. Egli l’aiutava a ritrovare la serenità interiore e a crescere nell’amore verso la Chiesa: “Le sue lettere costituirono per me un preferito e fortificante nutrimento spirituale. Scoprii in esse, se posso esprimermi così, la santa Chiesa e concepii un grande amore per il Corpo mistico di Cristo. Questo mistero allo stesso tempo mi è stato ispirato e mi ha sempre accompagnata. Il santo Apostolo Paolo divenne per me uno strumento di Dio, una guida spirituale e un fratello diletto, di cui potevo sentire la vicinanza. In quel periodo mi pareva di vivere una seconda conversione verso il Cuore di Gesù e il suo Corpo, la Chiesa.”[8]  In modo del tutto inaspettato Paolo era entrato nella vita della giovane Giulia. Trovò in lui un amico che formava la sua coscienza. Passo dopo passo, si compì in lei una trasformazione di sentimenti che l’abituarono ad aprirsi ai doni della misericordia divina. Le persone che la incontravano potevano percepire che da lei emanava una particolare forza interiore. La sua preghiera divenne più contemplativa. Un fedele, che andava spesso a pregare nella chiesa parrocchiale di Geluwe, testimoniò: “Era mia abitudine andare ogni mattina in chiesa. La prima persona che vedevo era una donna giovane e graziosa, che abitualmente era inginocchiata vicino all’altare. Tutta la sua attitudine emanava interiorità. Era come rapita dalla preghiera.”[9]  Sempre più Paolo le aprì gli occhi anche riguardo alla perdita della fede, che si annunciava come una terribile tempesta. Lei percepì che l’Apostolo le voleva dare un orientamento ed un aiuto nelle difficoltà del tempo. La grande povertà spirituale, il crollo della morale, il crescente allontanamento dalla Chiesa, le debolezze all’interno del popolo di Dio e la progressiva secolarizzazione in tutte le realtà della vita minacciavano di portare ad un moderno paganesimo.[10] Paolo fece comprendere a Giulia che la conversione e la fede ci danno la forza per mantenerci fedeli anche in mezzo a nuove sfide: “Questo diletto fratello e padre mi ha accompagnato sul cammino di una profonda conversione e nello spirito del discernimento.”[11]  Giulia custodiva sempre nel proprio cuore, come un tesoro assai prezioso, la luce dell’Apostolo Paolo, anche in tempi di ricerca e di lotta interiore. Alla fine della sua vita scrisse: “Sono perfettamente consapevole che san Paolo, che mi ha insegnato le parole di Dio, è stato lo strumento di grazia per la mia vita. Egli mi ha aiutato ad aprire gli occhi della mia anima per la benevolente grazie dell’amore misericordioso del Signore, che è come un filo d’oro nell’intimo tessuto della mia vita. Mi ha regalato una chiave che poteva aprire il mio cuore ai comandamenti e alle leggi del Signore. Così potevo comprendere intimamente che le opere di Dio sottostanno a leggi soprannaturali e che spesso vanno in direzione opposta ai nostri calcoli puramente umani; che la parola di Dio, che viene percepita da cuori aperti, possiede in sé un’incredibile forza trasformatrice; che il merito della nostra vita e la sua forza d’irradiazione non dipende dalla misura delle nostre attività, bensì dall’amore che ci pervade e che è infuso nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo. Infatti, è proprio l’amore che ci rende possibile vedere Dio in tutto e in tutti.”[12]

estratto dal libro ” Ha amato la Chiesa. Madre Giulia Verhaeghe e gli inizi  della Famiglia spirituale “L’Opera”, Vita e Pensiero, Milano 2007, 53-57.

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Publié dans:Paolo: studi |on 26 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

IL CONCETTO DI “ECONOMIA”, DI DISEGNO DIVINO, IN PAOLO E NEI PADRI DELLA CHIESA: LA CREAZIONE E LA STORIA COME “CASA” DI DIO.

http://www.gliscritti.it/approf/2007/saggi/lonardo070707.htm

IL CONCETTO DI “ECONOMIA”, DI DISEGNO DIVINO, IN PAOLO E NEI PADRI DELLA CHIESA: LA CREAZIONE E LA STORIA COME “CASA” DI DIO.

Appunti in forma di recensione ad un articolo di Giulio Maspero

di Andrea Lonardo

Questa economia (oeconomia) della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi… (DV2). L’espressione economia, οικονομια, è centrale nel linguaggio teologico, come ci manifesta il Concilio Vaticano II[1]. Benedetto XVI ne ha sinteticamente espresso il senso e la ricchezza in un passaggio della sua catechesi sull’inno con il quale si apre la lettera agli Efesini[2]:
Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a coordinare tutto l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio: è «il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). In questo «disegno», in greco oikonomia, ossia in questo piano armonico dell’architettura dell’essere e dell’esistere, si leva Cristo capo del corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé «tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono superati e si configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini.
Siamo, dunque, di fronte a un grandioso affresco della storia della creazione e della salvezza.

E’ subito evidente come con questa espressione si vuole indicare l’unità del disegno divino. Ne fa parte la creazione, il peccato non è in grado di interromperlo, l’incarnazione lo porta a compimento, aprendolo alla parousia. E’ il vero disegno, il vero senso che sostiene il mondo. Senza questa unità, niente avrebbe significato – perché si dà un senso solo nel rapporto fra una realtà particolare ed il tutto della realtà! Ogni singolarità e, soprattutto, ogni vita umana trova in questo disegno il proprio senso, la propria vocazione e missione, il proprio futuro. La stessa unità della Bibbia discende da questa unità di oikonomia e non avrebbe modo di essere al di fuori di essa.
Se veniamo alle ricorrenze bibliche del termine nella Scrittura possiamo seguire una evoluzione dell’utilizzo del vocabolo dall’ambito dell’amministrazione affidata da un superiore ad un suo sottoposto all’ambito dell’ “amministrazione” divina dell’intero creato e dell’uomo, perché tutto raggiunga la comunione con Dio in Cristo.
Il termine oikonomia indica nel greco ellenistico, così come ci testimonia anche il greco della LXX, innanzitutto l’ “amministrazione”. Il termine ricorre due volte nella versione greca di Is22,19.21, nei versetti contro Sebnà: “Ti toglierò l’economia (l’amministrazione)”. Nello stesso senso primario compare nelle parabole, in Lc 16,2.3.4: “Rendi conto della tua amministrazione”.
Nel linguaggio paolino, il termine esprime ancora questa amministrazione affidata ad un uomo, ma questa volta ancora più esplicitamente che nel vangelo di Luca, all’interno di un esplicito progetto divino:
Se non lo faccio di mia iniziativa è un incarico (oikonomian) che mi è stato affidato (1Cor9,17).
Penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia (oikonomian tes charitos) di Dio a me affidato a vostro beneficio (Ef3,2).
Di essa (della chiesa corpo di Cristo) sono diventato ministro secondo la missione (oikonomian) affidatami da Dio presso di voi (Col1,25).
Ma – e qui si rivela la profondità dell’espressione – il ministro di Paolo è parte (appartiene!) di un disegno ben più grande della sua stessa vita di apostolo. C’è un disegno, una oikonomia, che abbraccia ogni cosa creata e nulla lascia fuori di sé! Dio ha pensato questo orizzonte, se ne è compiaciuto, lo ha iniziato e lo ha portato a compimento, nella pienezza dei tempi. Lo ha realizzato e lo realizzerà, finché sarà “tutto in tutti”[3]. Qui appare tutta la ricchezza dell’espressione e della sua realtà teologica. Così, ancora nell’epistolario paolino:
Per realizzarlo nella pienezza dei tempi, il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra
(Lett. per il disegno, oikonomian, della pienezza dei tempi, ricapitolare in Cristo…) (Ef1,10).
Far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento (oikonomia) del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio (Ef3,9).

Non badare più a favole e genealogie interminabili che servono più a vane discussioni che al disegno (oikonomian) divino manifestato nella fede (1Tm1,4).
Un recente articolo di Giulio Maspero[4], tracciando l’evoluzione del termine oikonomia, ci aiuta a penetrare ancora di più nella ricchezza teologica di questa visione.
Maspero si sofferma, innanzitutto, sull’etimologia del termine[5]:
Il pensiero cristiano, di fronte alla radicale novità degli eventi salvifici, fu costretto a creare una nuova terminologia, rielaborando concetti e vocaboli già esistenti: in particolare, la dimensione storica della salvezza cristiana fu espressa attraverso la famiglia semantica legata ad οικονομια[6].
La sua radice è composta a partire da: οικος o οικια e da νεμειν: i sostantivi si riferiscono principalmente alla dimora, alla casa, sia come edificio che come focolare. Per estensione significa anche la famiglia in senso allargato, schiavi inclusi, ed il casato da cui si discende. Il verbo assume il significato fondamentale di dispensare, distribuire, e quindi anche quello di pagare, amministrare o abitare. Le cariche politiche potevano essere designate in tale modo. Nel corso del tempo, si aggiunsero i significati tecnici di disposizione di un testo letterario o di un discorso, insieme a quello di adattamento alle circostanze e calcolo in ambito morale. Questo processo spinse J.Reumann a scrivere: “Così, da Senofonte fino all’epoca romana, questa parola, nel suo senso fondamentale di amministrazione della casa, ha continuamente suggerito alla mente del popolo un modo di fare scaltro e sottile, e perfino tra i filosofi, compreso Filone, che l’identificava con una delle virtù del saggio, essa ebbe spesso il senso di espediente”.
L’analisi degli autori greci pre-cristiani porta Maspero ad individuare un senso fondamentale del termine, un senso cosmologico ed, infine, un senso narrativo ed a concludere così per quel che riguarda la riflessione precedente al cristianesimo[7]:
In sintesi, l’analisi degli usi della terminologia in esame negli autori non cristiani dimostra l’interazione dei tre sensi principali: il significato di governo della casa, dei beni e dello stato è il principale ed il più originario, ma quasi immediatamente passa all’ambito cosmologico. Se già nel senso primigenio i termini in studio avevano un significato positivo, questo risalta nel dominio cosmologico. Ultimo cronologicamente, il senso retorico-narrativo riafferma, insieme alle accezioni cosmologiche, la connessione dell’ οικονομια e delle espressioni ad esso collegate, con lo scopo, con la visione d’insieme e con la struttura organica. In questo senso essi acquistano un valore particolarmente interessante nel contesto narrativo ed esegetico. L’arte dell’οικονομια e dell’οικονομειν è dunque quella di governare e organizzare le parti in funzione del tutto, rispettando il contesto e secondo lo scopo ultimo dell’azione. E ciò si applica allo stato-famiglia, all’universo e alla composizione oratoria o narrativa.
Maspero passa poi a riflettere sulla novità dell’utilizzo biblico del termine, con particolare riferimento agli scritti paolini ed afferma[8]:
L’economia cristiana è allora economia del dono, della grazia (οικονομια της χαριτος): amministrazione del mistero dell’amore divino per l’uomo e per il creato, cooperazione con Lui per realizzare il Suo disegno eterno. La fedeltà trova il suo fondamento nella filiazione.
E’, infatti, la lettera agli Efesini che rivela all’uomo che il soggetto e l’autore dell’ οικονομια è Dio stesso e che l’ οικονομια manifesta l’unione del mistero dell’Eterno e del tempo. Il concetto di οικονομια unisce dunque per Paolo la presenza del Figlio di Dio nel mondo e gli eventi salvifici della sua vita terrena, che egli testimonia come apostolo, con il disegno del Padre e Creatore su tutta la storia. L’οικονομια unisce creazione e redenzione nel Figlio di Dio fatto uomo.
In perfetta continuità con le lettere paoline, Ignazio d’Antiochia, nelle sue lettere (ed, in particolare, proprio in quella agli Efesini I,6,1,2-4; I,18,1,2-2; I,20,1,3-5) approfondisce i diversi aspetti del temine[9]:
Invece… proprio la necessità di combattere la gnosi porta Ignazio all’uso di οικονομια, come succederà poi anche con Giustino ed Ireneo: la sua grandezza è proprio l’essere rimasto fedele a Paolo ed ai Vangeli, rifiutando di scindere il disegno divino e la realtà storica dei singoli eventi della vita terrena del Cristo.
Questa linea, che unisce l’affermazione dell’origine divina del disegno di salvezza e la presentazione della materialità e storicità degli eventi della vita di Cristo, caratterizza tutto il primo periodo della patristica. In Atenagora si ripete ancora l’accostamento ignaziano della carne di Cristo con il disegno divino (καν σαρκα θεος κατα θειαν οικονομιαν λαβη). NelMartyrium Sancti Polycarpi il riferimento è ancora alla carne (την της σαρκος οικονομιαν)[10].
Giustino, similmente, parla dell’oikonomia realizzatasi mediante la Vergine Maria[11], con la nascita di Cristo[12]:

Così per Giustino l’ οικονομια è fondamentalmente la vita terrena di Cristo, dalla sua nascita fino alla sua passione ed alla redenzione dell’uomo, vita terrena che, preparata dall’inizio dei secoli e tipologicamente annunciata nell’Antico Testamento, fonda l’unità dei due Testamenti. Si tratta del disegno del Padre che si realizza in Cristo.
In questo modo alla visione gnostica, che separava i due Testamenti ed interpretava i misteri solo allegoricamente, Giustino contrappone proprio l’οικονομια, che è l’unico progetto del Padre, realizzato nella storia in Cristo e culminato nella Sua passione e morte, con la vittoria sul demonio e la salvezza di ogni uomo, che cerchi la Verità e compia il Bene.
Infine, Maspero, analizza il pensiero di Ireneo di Lione, del quale afferma[13]:
È essenziale notare l’importanza della dimensione trinitaria, in quanto Ireneo è anche il primo ad applicare il termine οικονομος allo Spirito Santo, affermando che unico è il ‘dispensatore’, che governa tutte le cose. Probabilmente i primi Padri erano restii nell’applicare questo termine a Dio, poiché spesso, come si è visto, l’amministrazione era affidata ad un servo ed il senso classico era ancora preponderante, come, d’altronde, nei LXX e nei Vangeli. Ma la concezione dell’ οικονομια paolina permette la maturazione della categoria profondamente positiva che si manifesta nell’opera di Ireneo, sostenuta dalla mediazione linguistica del senso cosmologico e retorico-narrativo della terminologia stessa.
Questa mediazione consente ad Ireneo di raggiungere, alle soglie del III secolo, un mirabile equilibro tra realtà dell’evento concreto e unità del disegno divino, suggellando nel suo concetto di οικονομια l’affermazione della dimensione autenticamente storica della salvezza cristiana.
L’importanza del ricorso al senso retorico-narrativo della terminologia in esame è particolarmente rilevante, in quanto permette ad Ireneo di distinguere perfettamente la storia da Dio, a differenza di Tertulliano, Ippolito e Taziano, che cercano di esprimere il mistero stesso trinitario in termini di οικονομια, appoggiandosi principalmente all’accezione fisiologica del vocabolo[14] stesso. Il confronto con la gnosi, invece, obbliga Ireneo a storicizzare l’ οικονομια, fondandone l’unità e la dimensione salvifica nella sua inclusione tra l’αρχη ed il τελος trinitari[15].
Al termine del suo studio Maspero conclude[16]:
Il termine οικονομια giunge, quindi, ad esprimere, in modo sintetico, sia la dimensione storica della salvezza che la dimensione salvifica della storia. Le tre principali accezioni precristiane interagiscono, infatti, fra loro, rendendo possibile il passaggio dall’ambito della gestione della casa, alla concezione del cosmo stesso come una casa retta da un ordine provvidente, per giungere al culmine cristiano del riconoscimento della storia stessa come casa di Dio. Ciò si fonda sullo stesso linguaggio del Nuovo Testamento, nel quale il Figlio si fa servo, per compiere fedelmente il disegno del Padre, dispensando la salvezza ad ogni uomo ed in ogni epoca, mediante i misteri della sua vita terrena, verso i quali tutta la storia converge.
Affrontare il concetto di οικονομια dal punto di vista dello sviluppo semantico a partire dai tre usi originari tutt’altro che negativi, permette di osservare come, in ambito cristiano, essi si fondono mirabilmente per esprimere il mistero dell’Incarnazione del Figlio. Se la concezione provvidenziale si riconduce immediatamente all’accezione cosmologica, la dimensione propriamente soteriologica, particolarmente sottolineata da Ignazio, Giustino ed Ireneo, si ricollega all’accezione retorico-narrativa, poiché in Cristo si rivela il senso del mondo e di tutta la storia: l’amore del Padre.

Note – molte, sul sito

 

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

http://www.ccdc.it/dettaglioDocumento.asp?IdDocumento=259

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

Autore: Marie-Emilie Boismard,

Intervento del 30/04/1992
Marie-Emile Boismard [1]

Nel considerare il tema della resurrezione, come è trattato nelle lettere di san Paolo, in questa sede ci si limiterà a due testi: il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi e i capitoli 3 e 5 della Seconda Lettera ai Corinzi; vedremo che nel passaggio da uno scritto all’altro Paolo cambia radicalmente il suo modo di esprimersi a proposito di quella che, piuttosto che resurrezione, forse è meglio chiamare la nostra vittoria sulla morte. Per comprendere meglio questi testi paolini, è innanzitutto necessario considerare il problema da un punto di vista antropologico: vedere, in altri termini, come si presentavano le teorie sulla natura dell’essere umano nel mondo semitico e quindi in quello greco ed ellenistico.
L’idea di resurrezione nasce in un contesto di pensiero semitico e in tempi relativamente recenti. Ne abbiamo tracce nel capitolo dodici del Libro di Daniele e nel capitolo settimo del Secondo Libro dei Maccabei, libri composti verso la fine del secondo secolo avanti Cristo, in un tempo di persecuzione. I semiti, come anche i greci ai tempi di Omero, non facevano distinzione tra anima e corpo e, pertanto, consideravano l’uomo nella sua unità psico–somatica; per conseguenza tutta la vita psichica dell’uomo, i suoi sentimenti, il suo volere, il suo sentire, erano un’emanazione del suo essere fisico. In termini più concreti si pensava che sentimenti, volontà e pensiero derivassero o dal cuore o dai reni, secondo la concezione biblica. Pertanto alla morte, quando il corpo umano si dissolve nella terra, questo perde la sua corporeità, il suo cuore, i suoi reni, resta solo uno scheletro e si perde quindi anche la sua attività psichica. Questa idea si esprimeva in termini concreti, dicendo che l’uomo scendeva allo Sheol dove non esisteva vita, gli uomini erano là come ombre inconsistenti, senza sentimenti, senza volontà; erano spogliati di ogni personalità. L’immagine della resurrezione è una ri–creazione dell’elemento fisico dell’uomo, in particolare del suo cuore e dei reni, e questo processo è ben descritto nel capitolo trentasettesimo del Libro di Ezechiele, nel quale si trova la celebre visione delle ossa aride. La resurrezione è immaginata come rifarsi sopra queste ossa aride del corpo, della carne e della pelle, ma soprattutto del cuore e dei reni e, all’ultimo momento, lo spirito di vita viene insufflato negli esseri in modo che possano tornare ad essere viventi. Anche in questa prospettiva non bisogna immaginarsi una ri–vivificazione del cadavere che è stato sepolto nella terra, ma come del resto anche nel Libro di Daniele, una nuova creazione di tutti gli elementi che noi diciamo comporre l’essere fisico.
Il pensiero greco, in particolare quello di Platone, si pone in maniera molto differente: per il filosofo l’uomo è composto di un’anima e di un corpo e questi elementi sono a tal punto distinti che Platone immagina che le anime preesistessero prima di venire in un corpo. Per conseguenza, la nascita terrena dell’uomo è concepita come un decadimento dell’anima, la quale si trova ad essere nel corpo quasi come in una prigione; pertanto il fine dell’uomo è liberarsi dai vincoli della corporeità. Nel pensiero platonico l’uomo in realtà non muore, ma la sua anima continua a vivere anche dopo essersi staccata dal corpo; in questa prospettiva non è assolutamente il caso di parlare di resurrezione, perché ritrovare un corpo sarebbe per l’anima ritrovarsi bloccata in qualcosa che impedisce l’espressione delle sue facoltà.
Per quanto estremamente schematico, quanto detto può essere sufficiente per comprendere il pensiero di Paolo. Prendiamo ora in esame la Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 15. In questo capitolo, e particolarmente a partire dal versetto 35, Paolo risponde all’obiezione di quanti pensano che non sia possibile la resurrezione e sviluppa la concezione semitica dell’uomo, come del resto ha fatto nella prima Lettera ai Tessalonicesi al capitolo 4. Cominciamo con il leggere il testo tenendo presente che c’è una difficoltà di interpretazione, in quanto Paolo utilizza il termine greco soma: «Qualcuno dirà come resuscitano i morti, quale soma essi avranno?». La difficoltà sta nella traduzione della parola greca soma, normalmente tradotta con il termine «corpo», ma si può dare un equivoco, perché quando sentiamo parlare di corpo in questo contesto pensiamo immediatamente con mentalità greca alla resurrezione del corpo inteso come opposto all’anima. In realtà in greco la parola soma ha un senso più vasto, un valore più ampio; in particolare poteva designare un qualunque essere, sia vivente che morto. È stato scritto molto a questo proposito: per esempio il termine soma può definire gli schiavi. Per rimanere nell’ambito biblico, leggiamo nel Secondo Libro dei Maccabei che Antioco manda un messaggio lungo la costa perché gli siano inviati dei somata, dei corpi giudei, ed evidentemente non si tratta di cadaveri. Nello stesso libro leggiamo che Gionata fece sgozzare 25 mila corpi ed evidentemente non si trattava di sgozzare corpi inanimati, ma uomini viventi. In tutti i testi che leggeremo ora non va bene tradurre il termine soma unicamente con corpo; pertanto, tra i diversi termini, preferisco utilizzare quello di «essere», senza insistere sul senso dell’esistenza, come quando si parla di esseri umani.
Per spiegare cosa intende per resurrezione, Paolo comincia con due esempi che poi spiegherà. Il primo brano si estende nei versetti 36–38 e inizia così: «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è un soma che poi verrà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. È Dio che dà a ciascun chicco un suo proprio soma secondo la sua volontà e a ciascun seme il proprio soma». Nel testo risulta evidente che non può trattarsi di un corpo come opposto all’anima perché si sta parlando di piante, di esseri vegetali. L’idea fondamentale, che poi Paolo svilupperà, è che esiste una differenza essenziale fra il chicco che viene seminato e la pianta che ne sorgerà; sono due realtà differenti. Nel versetto 36 dice chiaramente che quello che si semina non è quel corpo che poi diventerà pianta, bensì qualcosa che deve morire, marcire e poi sarà Dio a far nascere la pianta. Paolo sottolinea che sarà Dio a dare un corpo a ciò che ormai è completamente scomparso nella terra in maniera differente secondo i vari generi di piante. In questo primo esempio viene costituita una netta differenza tra ciò che si semina e ciò che sorgerà.
Nel secondo esempio, dal versetto 40, Paolo insiste sulla differenza fra gli esseri: «Vi sono degli esseri celesti e degli esseri terrestri, altro è lo splendore dei celesti, altro lo splendore dei terrestri; altro è lo splendore del sole, altro è quello della luna e altro quello delle stelle poiché una stella differisce nello splendore da un’altra». Paolo sottolinea che tra gli esseri che ci circondano vi sono delle differenze sostanziali, in particolare quella che distingue gli esseri terrestri da quelli celesti. Dati questi due esempi, Paolo svilupperà ora quello che lui pensa circa la resurrezione dei morti. Inizia il versetto 42: «Così è la resurrezione dei morti». A conferma di quanto detto fino ad ora si noti che Paolo non parla della resurrezione dei corpi, ma di quella dei morti; in questo primo stadio usa soprattutto l’immagine della seminagione e solo in sottofondo, ma la svilupperà in seguito, l’immagine della differenza fra gli esseri. Il testo continua: «Si semina il corpo nella corruzione e risorge incorruttibile» e qui abbiamo un verbo ambiguo, che potrebbe significare tanto «si leva», «si alza» ed è l’immagine della pianta che sorge dal terreno o potrebbe significare specificatamente «risorge». «Si semina nell’ignominia e sorge nella gloria, si semina nella debolezza e sorge nella pienezza di forza, si semina un essere animale e sorge un essere pneumatico o spirituale».
Paolo spiega ora in che modo comprenda l’opposizione fra l’essere psichico e quello spirituale e si appoggia al testo di Genesi 2,7 in cui si narra della creazione dell’uomo da parte di Dio: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne così un essere vivente.» Anche qui c’è una difficoltà di traduzione perché Paolo gioca sul testo greco e utilizza la parola psyche zosa, letteralmente un’anima vivente. Il testo greco riporta la parola psyche e ci fa capire che Paolo oppone all’uomo spirituale, l’uomo psichico. Guardiamo ora come il testo di Genesi venga utilizzato da Paolo, che continua dicendo: «Poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne uno spirito vivificante». Si noti nelle integrazioni fatte da Paolo come venga riecheggiato il testo di Genesi, che è citato alla lettera: «Il primo uomo divenne una psyche vivente»; ma nel seguito del versetto – dove si parla di Adamo che divenne spirito datore di vita – evidentemente si fa allusione a quella parte di versetto di Genesi in cui si dice che Dio soffiò un alito di vita nell’uomo. Utilizzando questo vocabolario, Paolo continua nel versetto 46: «Non vi fu prima lo spirituale, ma l’animale e poi lo spirituale». A questo punto Paolo instaura un doppio paragone fra ciò che è fatto di terra e ciò che è del cielo e poi descrive la nostra condizione prima e dopo la parusia del Cristo. Per continuare l’immagine di Genesi, Paolo riprende il tema dell’uomo fatto dal fango e dalla polvere; parlando invece dell’ultimo uomo, dell’ultimo Adamo, egli parla di un individuo che viene dal cielo. I termini della comparazione continuano e Paolo dice: «Qual è l’uomo fatto di terriccio così sono fatti quelli terrosi, ma qual è l’uomo celeste, così anche i celesti e come abbiamo portato l’immagine di quello fatto di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste». La prospettiva è evidentemente escatologica: Paolo parla del ritorno di Cristo, della sua parusia e dopo questa ci sarà un cambiamento di natura negli uomini. Fino al ritorno di Cristo gli uomini saranno fatti solo di terra, mentre dopo saranno fatti ad immagine dell’uomo celeste, di cielo. Si riprende l’immagine del seme che scompare completamente nella terra per dire che l’uomo di terra scompare nella terra e dopo il ritorno di Cristo ci sarà un uomo completamente celeste. A questo punto Paolo si interessa del problema non solo di quanti sono già morti, ma di tutti gli uomini, poiché dobbiamo ricordarci che Paolo è convinto che vi sarà il ritorno di Cristo in un momento prossimo, probabilmente la notte di Pasqua, secondo la tradizione. Continua: «Ecco, vi annunzio un mistero, non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultimo squillo di tromba, i morti sorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati». Così dicendo Paolo parla dei cristiani ed è convinto che saranno trasformati tutti coloro che saranno in vita al momento del ritorno di Cristo. Non si interessa qui della sorte dei pagani, sta parlando con un «noi» a dei cristiani. Gli scrittori dei secoli seguenti, quando ovviamente non si aspettava più un ritorno imminente di Gesù Cristo ed era già passato molto tempo dalla stesura della Prima Lettera ai Corinzi, trovandosi di fronte a questo versetto si sentivano in imbarazzo e pertanto hanno spostato la negazione e abbiamo in alcuni codici la frase: «Tutti, certo, moriremo, ma non tutti saremo trasformati». Lo spostamento della negazione era dovuta la fatto che la morte era considerata un evento comune a tutti gli uomini, ma l’essere trasformati a immagine dell’uomo celeste è comune solo ai credenti. Paolo conclude in maniera trionfale dal versetto 53 in poi: «È necessario infatti che questo qualche cosa di corruttibile si rivesta di incorruttibilità e questo qualcosa di mortale si rivesta di immortalità. Quando poi questo qualche cosa che è corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo qualcosa che è mortale di immortalità, si compierà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria, dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Per riassumere, Paolo si tiene ancora all’interno della mentalità semitica e pertanto afferma che, quando il corpo sarà morto, sarà posto nella terra e si dissolverà come il seme che viene seminato e che, in un tempo relativamente prossimo, Dio darà ai credenti un nuovo essere, non più come il precedente fatto di terra, bensì celeste, come è del resto il corpo di Cristo il quale è già celeste.

 

Passiamo ora alla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui noteremo che la prospettiva di Paolo, pur rimanendo in parte simile a quella che abbiamo esaminato nella Prima Lettera, subisce una notevole trasformazione. Leggiamo innanzitutto nel terzo capitolo i versetti 17 e 18; il testo è abbastanza difficile, ma senza scendere in dettagli che peraltro non hanno grande importanza, darò la traduzione ammessa da molti commentatori. Il contesto ci propone l’episodio narrato nel capitolo 34 dell’Esodo laddove si dice che quando Mosé saliva sul monte a parlare con Dio, il suo volto diventava talmente splendente che alla sua discesa dal monte doveva velarlo con un panno perché lo splendore della gloria di Dio riflesso sul volto del patriarca non risultasse dannoso e accecante per quanti lo vedevano. Togliamo la seconda parte del versetto 17 che, a detta di molti, è una glossa: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà». Prestiamo ora attenzione invece alla prima parte del versetto 17 e al versetto 18: «Ora il Signore è lo Spirito e noi tutti a viso scoperto, riflettendo come degli specchi la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine di gloria in gloria come dal Signore che è lo Spirito.» In questo testo troviamo alcuni dei termini utilizzati nella Prima Corinzi ma, come vedremo, ci sono cambiamenti altamente significativi. Innanzitutto l’affermazione che il Signore Cristo è lo Spirito va letta alla luce del versetto 6 che la precede di poco, in cui si parla dello Spirito che vivifica. Sotto l’azione dello Spirito che dà vita, noi tutti siamo trasformati di gloria in gloria, come a dire che noi riflettiamo come degli specchi la gloria del Signore. Si ritrova lo stesso tema della Prima Corinzi in cui si affermava che: «Quando il Signore verrà noi saremo trasformati ad immagine della gloria» che si può intendere sia come gloria che come splendore del Cristo. La differenza essenziale è che nella Prima Corinzi questa trasformazione ad opera del Signore che è Spirito vivificante si compirà in un futuro, mentre nella Seconda Corinzi questa trasformazione è nel presente ad opera soprattutto del battesimo, per mezzo di cui, come Paolo afferma altrove, noi ci rivestiamo del Signore che è Spirito; pertanto già ora siamo rivestiti di questa gloria in attesa di una trasformazione definitiva. Si introduce qui un tema come conseguenza necessaria: se noi adesso siamo trasformati in gloria per opera dello Spirito che dà vita, noi non possiamo morire, perché già il battesimo ci ha dato lo Spirito vivificante. Quindi una parte di noi, al di là della morte, deve rimanere viva e si sente che Paolo sta abbandonando l’immagine semitica dell’unità dell’essere umano per adottare i termini greci che portano nella direzione dell’immortalità di un qualche cosa dell’uomo che non può morire. Questo si rende estremamente chiaro nel capitolo 5. Vediamo innanzitutto i versetti da 6 a 8; notiamo che in questo testo Paolo adotta volontariamente la terminologia filosofica greca, non semplicemente il linguaggio greco, ma specificamente i termini filosofici. I versetti così recitano: «Dunque siamo pieni di fiducia ben sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo come in esilio lontani dal Signore, infatti camminiamo nella fede e non ancora nella visione, siamo pieni di fiducia e riteniamo meglio andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore».
Abbiamo qui un linguaggio che si trova in Platone e nei suoi discepoli, in particolare in Filone d’Alessandria. Il fondamento della nostra sicurezza davanti alla morte, seguendo il Fedone, è la convinzione che l’anima è immateriale e quindi incorruttibile. Dice Platone nel Fedone: «Colui che ha tutto ciò dalla filosofia, avrà piena fiducia di fronte alla morte». Il tema è ripreso da Filone nel De agricoltura: «In verità ogni anima di saggio ha ricevuto il cielo come patria e la terra come esilio. Essa stima sua la dimora della saggezza e straniera quella del corpo nella quale ella crede di vivere come una straniera». Nel testo di Paolo è ora necessario prendere la parola corpo non nel senso di essere, ma nel senso filosofico di corpo opposto all’anima. È evidente è che qui non si trova più traccia della mentalità semitica secondo la quale l’essere, quando muore, scompare totalmente nello Sheol e non ha una sua vita personale. La resurrezione è ora il passaggio mediante la morte ad una vita presso Dio, evidentemente con tutta la personalità e con tutta la propria ricchezza umana. Pertanto nella Seconda Corinzi, Paolo ha abbandonato la prospettiva semitica e ha accolto una mentalità di tipo platonico.

A questo punto si innesta un problema: il corpo cosa diventa? Paolo opera una specie di sintesi fra le nuove idee di tipo platonico e il pensiero semitico, nel senso che quest’anima che ha abbandonato il corpo mortale non rimane un’anima nuda ma ben presto avrà modo di rivestire un altro corpo. Paolo dice questo all’inizio del quinto capitolo, versetto 1: «Sappiamo infatti che quando questa nostra dimora fatta di terra, la tenda del nostro corpo, si sarà disfatta, riceveremo un’abitazione da Dio eterna, nei cieli, non costruita da mani d’uomo». Troviamo anche qui l’opposizione tra quello che è fatto di terra, come abbiamo nella Prima Lettera ai Corinzi, e ciò che è celeste. Per quanto Paolo non parli esplicitamente di un corpo celeste, tuttavia dobbiamo ammettere un’opposizione fra il corpo terreno o terroso, che è la nostra abitazione sulla terra, e la nuova dimora celeste che noi riceveremo. È evidente che non è certo quel corpo, fatto di terra e destinato a sparire, che viene ri–vivificato nella resurrezione, ma è una nuova realtà celeste quella che noi riceveremo dopo la morte. Per affermare l’idea che subito dopo la morte l’uomo ottiene una nuova dimora, Paolo non crea assolutamente i suoi concetti, ma li prende da alcuni scritti del giudaismo tardivo. In realtà nella prospettiva della Seconda Corinzi non si può più utilizzare il termine resurrezione; Paolo lo utilizza ancora in senso spiritualizzante, come abbiamo letto nel capitolo 3, dove si dice che siamo rivestiti di Cristo che è Spirito datore di vita. In questo senso si può parlare di resurrezione, ma in una prospettiva maggiormente spiritualizzata e lo si vede chiaramente, anche se in maniera non ancora precisissima, nella Lettera ai Colossesi, dove Paolo dice: «Noi siamo risorti in Cristo». L’espressione semitica di «resurrezione» in questo contesto non tiene più nel senso materiale che le dava la tradizione, perché evidentemente il corpo si dissolve e non è certo quello che riprende vita. Questo si evidenzia anche col fatto che Paolo nella Seconda Corinzi, mentre continua a parlare di resurrezione a proposito di Cristo, non ne parla più a proposito dei credenti. Vorrei che venga fatta estrema attenzione alle parole: non si tratta di negare la vittoria sulla morte, ma di ribadire che, da un certo punto della sua produzione in poi, Paolo non pensa più alla resurrezione nel senso stretto del cadavere che riprende vita, ossia nel concetto materiale semitico.
Leggiamo un altro brano ancora dalla Seconda Lettera ai Corinzi in cui Paolo esprime benissimo e con grande vivacità anche il suo spessore umano, i versetti 2 – 4 del capitolo quinto: «Perciò noi sospiriamo per questo fatto, che desideriamo rivestirci di quel nostro corpo fatto di cielo, se pur saremo trovati già vestiti del nostro corpo e non già spogliati alla venuta di Cristo. In realtà in questa tenda noi sospiriamo sotto un peso non volendo essere spogliati, ma sopra–vestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita». Non dimentichiamo che anche quando scrive la Seconda Corinzi, Paolo attende come prossima la venuta di Cristo, ma come tutti gli uomini egli, per quanto speri di essere trasformato ad immagine di Cristo, teme di essere morto a quel momento perché la morte è comunque uno strappo, un qualcosa che dilania l’uomo e pertanto egli ne ha paura. Nel versetto 3 Paolo si augura di essere trovato al momento dell’avvenimento escatologico, al ritorno di Cristo, ancora vestito e non nudo perché nei termini filosofici che ha finora impiegato, significa precisamente ancora vivente e non spogliato del corpo. Questo per poter evitare il passaggio doloroso della sua morte personale e per potersi vestire del Cristo al di sopra di quel vestito che è già il suo corpo. In altri termini spera, molto umanamente, di non dover passare attraverso quello strappo che è la morte, ma di accogliere il Cristo ancora durante la sua vita. Pertanto quando qualcuno rimprovera i cristiani perché, pur avendo fede nella vittoria di Cristo sulla morte, si trovano ad averne paura, siamo autorizzati a dire che anche Paolo, che pure aveva una decente certezza di incontrare il Cristo al di là della morte, la temeva e sperava di non doverla sperimentare.

[1] Marie Emile Boismard, domenicano, professore di esegesi del Nuovo Testamento all’Ecole Biblique di Gerusalemme (1948–1950), poi all’Università di Friburgo (1950–1953) e di nuovo all’Ecole Biblique di Gerusalemme. Il testo della conversazione non è rivisto dall’Autore.

Publié dans:Paolo: studi, TEOLOGIA |on 4 août, 2015 |Pas de commentaires »

SANTA LUCIA SULLE ORME DI PAOLO – (tema della luce)

http://www.basilicasantalucia.com/SLuciaOrmeSanPaolo.aspx

SANTA LUCIA SULLE ORME DI PAOLO  –

(Il tema della luce è molto presente nelle Lettere di San Paolo …)

Siamo nell’ « Anno paolino ». Il nostro Arcivescovo, pubblicando la Lettera Pastorale dal titolo « Sulle orme dell’ Apostolo Paolo », ha tracciato le coordinate del cammino di tutta la comunità diocesana in questo anno ispirato alla figura e all’insegnamento di San Paolo. Noi intendiamo fare una riflessione « luciana » mettendo in evidenza come Santa Lucia, con le sue scelte di vita, si sia posta sulle orme dell’Apostolo Paolo.

IL MARTIRIO  Anzitutto il fatto più importante che accomuna Santa Lucia con San Paolo è evidentemente il martirio. San Paolo, che ha soggiornato per tre giorni a Siracusa, ha certamente comunicato alla nostra gente il Vangelo della salvezza e ha sparso nella nostra terra il seme del cristianesimo: la sua totale dedizione a Cristo, che lo portava a identificare la sua vita con Cristo e che gli faceva dire: « Per me vivere è Cristo » (Fil 1,21), ha certamente affascinato e « contagiato » i Siracusani. E Santa Lucia è la siracusana più illustre che ha seguito le orme di San Paolo.  Ma il martirio è l’epilogo di una vita, è la conclusione coerente di una vita donata a Cristo: ha il coraggio di morire per Cristo solo chi è vissuto per Cristo. Allora, noi ci chiediamo: quali scelte di vita costituiscono il terreno su cui fiorisce il martirio? San Paolo compendia in pochissime parole la scaturigine profonda della sua donazione a Cristo, originata dalla constatazione stupefatta del Dono che Cristo ha fatto di se stesso all’uomo: « mi ha amato e ha dato se stesso per me » (GaI 2,20). La scelta del credente è consequenziale alla scelta di Dio che si dona all’uomo. Il mistero del Natale ci rivela questa scelta di Dio.  Per scoprire come il sentire di Santa Lucia si ispira a San Paolo, ripercorriamo gli Atti del martirio della Santa, e precisamente il codice « Papadopulo » che è la descrizione più attendibile della vita e del martirio della vergine siracusana.

LA LUCE  Il nome stesso di Lucia ci parla di luce. Per questo motivo i fedeli hanno scelto questa Santa come protettrice della vista fisica e spirituale, della luce degli occhi del corpo e della luce degli occhi dell’ anima, della luce della fede. Santa Lucia è modello di fede, come si scopre nella sua vita e nel suo martirio secondo la descrizione degli Atti. Il tema della luce è molto presente nelle Lettere di San Paolo: l’Apostolo, nella F’ Lettera ai Tessalonicesi, definisce i cristiani « figli della luce » (1 Ts 5,5).  E nella sezione parenetica della Lettera ai Romani porta una metafora bellissima: « La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce » (Rm 13,12). L’esortazione di San Paolo è fondata su un messaggio di speranza: quanto più la notte è inoltrata, tanto più è vicina la luce del giorno. Non dimentichiamolo quando gettiamo lo sguardo sulla notte rappresentata dalla eclissi dei valori dei tempi attuali. San Paolo e Santa Lucia, convogliando la nostra attenzione sulla luce, ci introducono nel mistero di Cristo, « Luce del mondo ». Con queste parole Gesù si è presentato agli uomini: « lo sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita » (Gv 8,12). Senza Cristo l’uomo brancola nelle tenebre, smarrisce il senso della vita, non sa più da dove viene e dove va, non conosce il perché della vita, perde le coordinate della sua esistenza.  Il Concilio Ecumenico Vaticano II ci dice: « Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell ‘uomo. [ ... ] Cristo, proprio rivelando il mistero del Padre e del Suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all ‘uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione ». (GS 22).

VERGINITA’ E CARITA’  Come si ricava dal codice « Papadopulo », alla base di tutta la vita di Santa Lucia sta la sua scelta radicale di amore a Cristo, la sua consacrazione totale al Signore nella verginità. Così dice lei alla madre Eutichia: « Ora questo solo ti chiedo, che tu non mi parli più di sposo, né volere da me frutti caduchi ».  E intimamente connessa con questa scelta è la donazione dei suoi averi ai poveri. Dice ancora Lucia alla madre: « Dona a Cristo mentre sei in vita ciò che hai acquistato o che hai promesso di darmi ».  Verginità e carità sono interconnesse: il senso della verginità è l’amore profondo a Cristo e a coloro dove Cristo è maggiormente presente, cioè i poveri. Santa Lucia è stata denunciata come cristiana dal suo pretendente perché deluso dopo che Lucia aveva fatto il voto di verginità e nello stesso tempo perché egli vedeva sfumare il ricco patrimonio di Lucia a causa della sua generosa liberalità a favore dei poveri.  Ebbene, sia della verginità sia della carità San Paolo è maestro e testimone: le sue Lettere sono eloquentissime in questa duplice direzione.  Nella prima direzione, in ordine alla verginità, basta leggere, nella I Lettera ai Corinzi, la descrizione della verginità che consiste nell ‘avere un cuore indiviso: « Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso » (1 Cor 7,32-34).  La verginità è un ideale per alcune persone chiamate dal Signore: San Paolo, mentre la esalta, afferma che non è la vocazione di tutti: « Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro » (1 Cor 7,7). Santa Lucia ha il dono della verginità: la sua scelta è un dono di Dio.

 Nella seconda prospettiva, in ordine alla carità, troviamo, disseminate nelle Lettere dell’ Apostolo, le esortazioni alla carità: « Siate solleciti per le necessità dei fratelli » (Rm 12,13). E l’Apostolo propone il Signore come modello di carità: « Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore » (Ef 5, 1-2).  In riferimento alla carità particolarmente verso i poveri, con queste parole è presentato Gesù Cristo come modello quando l’Apostolo organizza una colletta a favore dei cristiani di Gerusalemme: « Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » (2 Cor 8,9).  Santa Lucia ha donato ai poveri il suo patrimonio e la ricchezza del suo amore. La sopra citata espressione di San Paolo costituisce per noi una suggestiva lettura del mistero del Natale.  Gesù Cristo, era ricco perché Dio, e si è fatto povero perché si è incarnato prendendo la nostra povera natura umana (la povertà radicale del Natale sta nel fatto che il Figlio di Dio si è spogliato delle sue prerogative divine ed è divenuto uomo mortale: cfr Fil 2,7); lo scopo di questa scelta di Dio è quello di voler rendere l’uomo partecipe della vita divina, cioè di arricchire infinitamente l’uomo.

IL CRISTIANO: TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO  Il culmine del processo contro Santa Lucia, secondo la descrizione del codice Papadopulo, è raggiunto quando lei parla della inabitazione dello Spirito Santo.

« Oh, dunque tu credi – disse Pascasio – di avere lo Spirito Santo?  Lucia rispose: “L’Apostolo ha detto: Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi ». Pascasio disse: « Ti farò condurre in un luogo infame, e quando comincerai a vivere nel disonore, cesserai di essere il tempio dello Spirito Santo ». Lucia disse: « Non viene deturpato il corpo se non dal consenso della mente. [ ... ] Che se tu ordini che io subisca violenza contro la mia volontà, sarà duplicata la corona della mia castità ».

 Santa Lucia cita espressamente il brano della I Lettera di San Paolo ai Corinzi (cfr. 1 Cor 3,16-17).  Noi notiamo, in Lucia, la consapevolezza gioiosa di essere tempio di Dio, il suo santo orgoglio per questa dignità altissima, unitamente alla sua ferma volontà di non dissacrare questo tempio vivente.  San Paolo, e di conseguenza anche Santa Lucia, hanno coscienza di essere tempio di Dio perché vitalmente uniti a Cristo sì da formare un solo corpo, e Cristo è il tempio vero di Dio perché in Lui « abita corporalmente tutta la pienezza della divinità » (Col 2,9). Gesù stesso preannuncia la sua risurrezione con parole che richiamano la realtà del suo corpo che è tempio di Dio: « Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere » (Gv 2,19).

LA FORTEZZA CRISTIANA  Una caratteristica particolarmente affascinante di Santa Lucia è la sua fortezza morale. Niente e nessuno riesce a smuoverla dal suo proposito di rimanere fedele a Cristo. Il racconto riportato dal codice ci descrive che né con la forza dei soldati né con la forza dei buoi fu possibile trascinarla via. È una descrizione emblematica che simboleggia la fortezza del suo animo, dono dello Spirito Santo. Così continua la narrazione: « Allora Pascasio, furioso, comanda ai lenoni di prenderla e di adunare a vergogna di lei tutta la plebaglia, affinché le fosse fatto oltraggio e morisse nel disonore. Ma quando si tentò di trascinarla verso il luogo infame, lo Spirito Santo le diede tale immobilità che nessuno riusciva a smuoverla dal sito in cui era.  Si aggiunse un gran numero di soldati, che la spingevano violentemente; anch’essi sfiniti dal grave sforzo, venivano meno, mentre la Vergine di Cristo restava immobile. [ ... ] Indi Pascasio ordinò che si aggiogassero dei buoi per trascinarla, ma neanche ricorrendo a ciò riuscirono a smuovere la Vergine di Cristo, che lo Spirito Santo manteneva immobile ».  Questa consapevole fortezza di Lucia corrisponde all’insegnamento e alla testimonianza di San Paolo.  L’Apostolo esortava i cristiani: « Siate forti nella tribolazione » (Rm 12,12). E insegnava che « lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza » (Rm 8,26). Il suo indomito coraggio nelle avversità, la sua tenace resistenza nelle persecuzioni, la sua fermezza nell’affrontare pericoli di ogni sorta lungo i viaggi per evangelizzare, costituiscono un modello di fortezza morale.  Questa fortezza ha in Dio la sua sorgente: si tratta della « potenza straordinaria che viene da Dio » (cfr 2 Cor 4,7): « Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi; portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale » (2 Cor 4,8-11).  Con San Paolo, Santa Lucia ci dice con la sua vita e con il suo martirio: « Chi ci separerà dall’amore di Cristo? » (Rm 8,35).

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