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OLIVIER CLÉMENT, BENOIT STANDAERT – PREGARE IL PADRE NOSTRO
(il testo è molto lungo, metto solo la prima parte, il Pater, il seguito però è da leggere, bellissimo!)
Padre – La prima parola della. preghiera che Gesù ci insegna e che noi diciamo – in un certo senso – con lui, in lui, nel suo Spirito, è Padre: Pater hemon, « Padre di noi ». Fermiamoci innanzitutto su quella che è veramente la prima parola: « Padre ». E una parola che per l’uomo odierno ha una strana risonanza: l’uomo di oggi è orfano, non ha radici al di fuori dello spazio-tempo, si sente smarrito in un universo senza limiti, discende dalla scimmia e va verso il nulla. Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e « repressiva », e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei « genitori ». Gli è stato detto che « Dio Padre » era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un’epoca o in un’ altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa. Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell’interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un’immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L’incesto e l’omosessualità, questi due segni dell’assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell’altro. Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola « Padre » . Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di « seno del Padre », tutta la bibbia ne evoca le « viscere di misericordia », rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli « sente » i figli come una madre « sente » i suoi, con tutto l’essere, con tutta la carne, con le viscere. E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l’altro.
Questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell’amore del Padre Quindi: Padre. Cosa significa per la nostra vita quotidiana? Significa che non siamo mai, assolutamente mai orfani, smarriti, abbandonati alle forze e ai condizionamenti di questo mondo. Abbiamo una risorsa, abbiamo un’origine fuori dello spazio-tempo. Questo universo apparentemente illimitato – ma il tempo ha avuto inizio con il « big bang », ma lo spazio è ricurvo, contenuto, afferma Einstein – questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell’amore del Padre. Le nebulose e gli atomi – anch’essi nebulose – amano il Padre in modo impersonale, con la loro stessa esistenza, ma noi, gli uomini, possiamo amarlo personalmente, rispondergli coscientemente, esprimere la sua parola cosmica: ciascuno di noi quindi, in virtù di questo legame personale con il Padre, è più nobile e più grande del mondo intero. I volti si imprimono al di là delle stelle, nell’amore del Padre. I momenti apparentemente effimeri della nostra vita, ognuno di quegli istanti in cui, come dice il poeta, « abbiamo avuto le vene colme di esistenza », si imprimono per sempre nella memoria amante del Padre. Allora il nichilismo della nostra epoca è sconfitto, l’angoscia che abita il nostro profondo può trasformarsi in fiducia, l’odio in adesione. Ecco cosa bisogna avvertire con forza ogni giorno – e lo dico in modo particolare ai giovani: è bello vivere, vivere è grazia, vivere è gloria, ogni esistenza è benedizione. Mi pare che nella letteratura dei popoli segnati dall’ ortodossia, anche in scrittori non pienamente credenti – come il primo Tolstoj, o i grandi romanzieri siberiani contemporanei, o quel Vassili Grossman autore del mirabile Vita e destino – si ritrovi questo senso della bontà e della bellezza profonda degli esseri e delle cose, la grazia alla radice di ogni cosa, una paternità infinitamente misericordiosa che tutto ama. Ne deriva la capacità meravigliosa, che questi scrittori possiedono, di parlare dei bambini, dell’affetto tra genitori e figli, pregio così raro nella letteratura occidentale contemporanea. .. La nostra teologia e la nostra spiritualità sanno bene che è impossibile imprigionare in parole e in concetti questo mistero dell’origine. Ma Gesù ci svela che questo abisso – di cui parla anche l’India – è un abisso di amore, un abisso paterno. Con Gesù, in lui, nel suo soffio, noi osiamo balbettare: « Abba, Padre », parola di infinita tenerezza infantile: ecco tutto il paradosso cristiano. E Gesù ci rivela che questo paradosso, questa relazione paradossale, non esiste solo nel rapporto del Padre con la creazione, ma in Dio stesso, nel più assoluto dell’assoluto. In Dio stesso c’è l’origine senza origine, e l’Altro filiale, e il soffio di vita e di amore che riposa sull’Altro e lo riconduce all’origine, e noi in lui. In Dio stesso c’è il respiro dell’amore, questo grande mito di unità e di diversità. E noi, a immagine di Dio, siamo trascinati in questo ritmo. Solo che, in Dio, tra l’Origine e il suo Altro filiale, nel Soffio unificante, la risposta d’amore è immediata, la reciprocità d’amore è assoluta. Noi invece abbiamo bisogno del tempo, dello spazio, di una sorta di oscurità per andare verso la Luce e gli uni verso gli altri nello stesso tempo. Spesso noi siamo il figlio prodigo che dissipa i suoi averi con le prostitute, pascola i porci e brama nutrirsi di carrube. Tuttavia anche allora noi sappiamo che il Padre non solo ci attende, ma ci viene incontro. Il mondo non è una prigione bensì un passaggio oscuro – passaggio da attraversare, passaggio da decifrare in un contesto più ampio -, e in questo testo, un testo che redigiamo con Dio, tutto ha un senso, ciascuno è importante, ciascuno è necessario. Se tutto è benedetto dal Padre, dobbiamo, a nostra volta, benedirlo in ogni cosa. Dovremmo cercare di riscoprire, di rinnovare, di vivere interiormente tutte quelle formule di benedizione che la chiesa ci insegna e che associamo alle benedizioni. « E Dio vide che era cosa buona », tob, che significa « buono e bello »; d’altronde la Settanta traduce con kalon, « bello ». Massimo il Confessore ci insegna a fare, in ogni sguardo attento, contemplativo sulle cose, una sorta di esperienza trinitaria: il fatto stesso che una cosa esista, riposi nell’essere, ci rimanda al Padre, « creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili… » (così, del resto, ogni cosa diventa il visibile del!’invisibile); il fatto che possiamo comprenderla, discernere in essa e ricostruire a partire da essa una struttura prodigiosamente « intelligente », ci rimanda al Figlio, Verbo, Sapienza e Ragione del Padre; il fatto che la cosa sia bella, si inserisca dinamicamente in un ordine, tenda verso una pienezza, ci rimanda allo Spirito, al Soffio vivificante, di cui Sergej Bulgakov diceva che è la personificazione della bellezza. Impariamo così a discernere nelle cose la Paternità di Dio, il Padre « con le due sante mani », il Verbo e lo Spirito – come diceva Ireneo di Lione – il Padre con la sua Sapienza e la sua Bellezza. Tuttavia l’esperienza trinitaria più fondamentale si inscrive nell’hemon che segue il Pater, nella seconda parola del Padre Nostro: « Padre – di noi ». Di questo « noi » vorrei sottolineare due cose. La prima è che dobbiamo imparare a discernere il mistero di Dio sul volto del prossimo. L’orrore della storia, soprattutto in questo secolo, è che l’uomo, qui o là, si arroga un potere assoluto sull’uomo. Le ideologie pretendono di spiegare l’uomo, di ridurlo alla razza, alla classe, alla religione, alla cultura. E gli ideologi, « quelli che sanno », si sentono autorizzati, per il bene dell’umanità – così affermano -, a manipolare, condizionare, imprigionare, torturare e uccidere gli uomini. Sbocco, forse, di tutto un pensiero moderno inteso come volontà di carpire (è proprio il significato del termine Begriff, che significa « concetto » in tedesco) . In opposizione a questo dobbiamo capire che l’altro, chiunque sia, fosse pure un pubblicano, una prostituta, un samaritano (per usare i termini di Gesù, per nulla difficili da trasporre), l’altro, qualunque altro, è l’immagine di Dio, il figlio del Padre, altrettanto inspiegabile, altrettanto « inconcettualizzabile » che Dio stesso: la sua migliore definizione è di essere indefinibile. Impariamo a non più maledire, impariamo a non più disprezzare: « non esiste altra virtù che il non disprezzare », affermava un padre del deserto. L’altro è volto, interamente volto. E di fronte a un volto non ho alcun potere: posso soltanto, poiché questo volto è anche parola, cercare di rispondere, diventare re-sponsabile. Questo vale per i rapporti di amore, di amicizia, di collaborazione, vale nella famiglia come nella società, nei rapporti con gli altri cristiani come nella vita politica. Ricordati: non disprezzare! L’altra cosa che vorrei sottolineare, e che d’altronde è inseparabile dalla prima, è il rapporto tra la chiesa e l’umanità. « Padre – di noi »: questo « noi » è soltanto la chiesa in cui siamo tutti « membra gli uni degli altri », secondo la struttura mirabilmente delineata da Vladimir Losskij: un solo corpo, un solo essere in Cristo, e ciascuno che incontra personalmente Gesù, ciascuno illuminato da una fiamma unica della Pentecoste – struttura trinitaria? Non credo. Il Verbo, afferma il prologo di Giovanni, « è la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo ». Si può tradurre anche: « …che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo ». Il Verbo, incarnandosi, ha assunto in sé tutta l’umanità, tutti gli uomini, di ogni luogo e di tutti i tempi. Risuscitando, ha risuscitato tutti gli uomini.
Non esiste un solo uomo che non abbia una relazione misteriosa con Dio
La chiesa sono coloro, numerosi o scarsi poco importa, che scoprono tutto questo, entrano lucidamente in questa luce e ringraziano. A nome di tutti. La chiesa è il « sacerdozio regale », la « nazione santa » messa a parte per pregare, testimoniare, lavorare per la salvezza di tutti gli uomini. Sappiamo dov’è il cuore della chiesa: nell’ evangelo, nell’ eucaristia. Ma ignoriamo i limiti del suo irradiamento, perché l’eucaristia è offerta « per la vita del mondo ». Non esiste filo d’erba che non cresca nella chiesa, non una costellazione che non graviti attorno ad essa, attorno all’albero della croce, nuovo albero di vita, asse del mondo. Non esiste un solo uomo che non abbia una relazione misteriosa con il Padre che l’ha creato, con il Figlio, « uomo-estremo », con il Soffio che anima ogni vita. Non esiste un solo uomo che non abbia un’aspirazione alla bontà, un sussulto davanti alla bellezza, un presentimento del mistero davanti all’amore e alla morte. Molti, inondati di gioia, esclameranno nel giorno del giudizio: « Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare… straniero e ti abbiamo accolto, nudo e ti abbiamo vestito? Quando ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a trovarti? ». E si sentiranno rispondere: « In verità vi dico, ogni volta che l’avete fatto a uno di questi piccoli, che sono miei fratelli, l’avete fatto a me! ». E noi, lo facciamo? Nella nostra vita quotidiana allora non facciamo della chiesa una setta o un ghetto. Impariamo a scoprire ovunque i germi di vita. Sappiamo accoglierli nella nostra intelligenza e nel nostro amore, sappiamo immagazzinarli come in granai nella preghiera della chiesa.
Pater hemôn ho en toîs ouranoîs Padre nostro quello nei cieli I « cieli » qui evocano il carattere inaccessibile, abissale del Padre, un Dio al di là di Dio, hypertheos dice Dionigi Areopagita. Ci si accosta a lui sondandone l’assenza, è la teologia negativa di cui parlavo prima; l’intelligenza misura i propri limiti sentendo rumoreggiare, sempre più lontano, l’oceano divino.
Saper guardare l’azzurro, lasciarci invadere, pulire Poi viene il momento in cui cessa ogni attività mentale, quando l’uomo si raccoglie e tace, diventando pura attesa. Nella nostra vita quotidiana è necessario che ci siano attimi di profonda emozione silenziosa. I padri parlano per esempio della sensazione che si impadronisce dell’uomo quando arriva sul bordo di un’alta scogliera, con il mare che si apre vertiginosamente davanti a lui. A volte bisogna sapersi fermare e ascoltare il silenzio, assaporare il silenzio, meravigliarsi, diventare come un calice pronto a essere colmato. Può essere un momento di calma in casa, una stanza in cui si è soli, una chiesa aperta in piena città, una passeggiata nel bosco. Può essere, nell’evangelo che si cerca di leggere ogni giorno, in un salmo, in un testo spirituale, una parola che tocca il cuore, che ci trafigge: allora non si prosegue, ci si ferma in un’attesa silenziosa, a volte colmata… Ma perché è proprio il cielo a fungere da simbolo alla trascendenza? Indubbiamente perché l’azzurro profondo – specialmente nei paesi mediterranei – è contemporaneamente fuori della nostra portata e presente ovunque: tutto avvolge, tutto penetra con la sua luce. Nelle lingue arcaiche il termine corrispondente – « cielo brillante » – indica la divinità. Dobbiamo saper guardare l’azzurro, lasciarcene invadere, lasciarci pulire, fino alle giunture delle nostre ossa. Perché mai molti giovani, che non vanno mai in chiesa, scalano le montagne, questi luoghi elevati, se non per entrare, in qualche modo, nell’azzurro? Perché vanno verso i mari del sud, dove l’acqua e il cielo si confondono in una sfera di pienezza, in una sfera d’azzurro?
« È ritrovata. Cosa? L’eternità. È il mare unito al sole » Eppure la sconvolgente rivoluzione dei tempi moderni fu la scoperta del cielo vuoto e illimitato, in cui né Dio né l’uomo sembrano più aver posto. Il cielo esultante dei salmi e del libro di Giobbe è diventato un’assenza nera. L’insensato di Nietzsche cerca invano Dio in un mondo in cui la terra va irrisoriamente alla deriva, in cui non c’è più né alto né basso, in cui fa sempre più freddo. Allora l’emozione suscitata dall’azzurro brillante rischia di ridursi a uno svago estivo. Il cielo divino va ritrovato altrove. Altrove? Nel « cuore » affermano i nostri asceti. In quel centro più centrale, in quella profondità più profonda in cui tutto il nostro essere si raccoglie e si apre su un abisso di luce: l’azzurro interiore, colore dello zaffiro, come osservava Evagrio Pontico. Uno dei nostri compiti quotidiani è proprio quello di destare in noi le forze del cuore profondo. Siamo soliti vivere nella testa e nel sesso, con il cuore spento. Ma lui solo può essere il crogiuolo in cui si trasfigurano l’intelligenza e il desiderio e, anche se non arriviamo fino all’abisso di luce, ne possono comunque scaturire delle scintille: un sussulto immenso e dolce infiamma il nostro cuore. Dobbiamo ritrovare il senso di questa emozione non emotiva, di questo sentimento non sentimentale, di questa vibrazione pacificante e sconvolgente di tutto l’essere, quando gli occhi si riempiono di lacrime di stupore e di gratitudine, tenerezza ontologica, silenzio colmato. Non riguarda solo i monaci, riguarda umilmente, parzialmente ogni uomo; arriverei a dire che è anche un problema di cultura.
Forze del cuore, amore della bellezza In Reparto C di Solzenicyn, una giovane donna, responsabile di un servizio in un ospedale, chiede al suo superiore, il « vecchio dottore », da dove gli vengano la capacità di simpatia e, indissociabilmente, la sicurezza della diagnosi. Questi le risponde di essere stato a lungo scavato, illuminato dall’amore di una donna; 1′amore infatti, se è la grazia così rara di sapere che un altro esiste, può fendere il « cuore di pietra » e trasformarlo in « cuore di carne ». Ma, aggiunge il « vecchio dottore », sono ormai anni che quella donna è morta. Adesso ha bisogno, in determinati momenti, di ritirarsi, di chiudersi, di fare silenzio in se stesso, di lasciare che il cuore si rappacifichi fino a diventare come un lago immobile sul quale si riflettono la luna e le stelle. Il silenzio e la pace rendono possibile la visita del Padre « che è nei cieli », e sullo specchio del cuore così visitato si inscrive la verità degli esseri e delle cose. Ed è anche una questione di cultura. Abbiamo bisogno di musica, di poesia, di romanzi, di canzoni, di tutta un’arte capace di essere anche arte popolare, in grado di destare le forze del cuore. A volte nel métro, a Parigi, mi raggiunge una canzone degli altipiani latino-americani: segue il confine sinuoso della morte e dell’amore, della rivolta e della celebrazione. È come la grande storia d’amore della letteratura araba: quella di Majnùn e di Laila. Majnùn, il folle, ama Laila, la notte. Laila ama Majnùn ma non gli rivela il proprio mistero e, sotto la forma di una gazzella, scompare nel deserto. Majnùn è ormai destinato all’erranza, e al canto (Queste osservazioni mi sono suggerite dal bel libro di Bernard Feillet, La nuit et le fou, Parigi 1983.). Abbiamo bisogno del canto di Majnùn, abbiamo bisogno di una bellezza che non sia bellezza di possesso, com’è così spesso il caso di oggi, ma proprio di spossesso, e forse di comunione, « la bellezza che crea la comunione », come afferma Dionigi Areopagita. E Giovanni Climaco parla di « quelle musiche profane che conducono alla gioia interiore, all’amore divino, alle sante lacrime ». Il genio del cristianesimo è segretamente « filocalico » e « filocalia » significa » amore della bellezza »: questa bellezza non dev’essere confinata nella liturgia, nel1′ascesi, ma deve risplendere anche nella cultura.