Archive pour la catégorie 'CHIESA ORTODOSSA'

“SE UNO È IN CRISTO, EGLI È UNA CREATURA NUOVA” (PAVEL EVDOKIMOV)

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“SE UNO È IN CRISTO, EGLI È UNA CREATURA NUOVA” (PAVEL EVDOKIMOV)

SPIRITUALITA ORTODOSSA

“Al principio”, nel tempo della prova decisiva per l’uomo, il fallimento clamoroso della sua opzione l’ha fatto cadere al di sotto del suo essere e l’ha immerso nella vita dei sensi e della materia; l’uomo è divenuto carnalmente e sensualmente ottenebrato. L’economia della salvezza lo innalza al di sopra del suo essere, fino al piano della nuova creatura. La dialettica di san Paolo ha qui il suo punto di partenza: “Quantunque l’uomo esterno si disfaccia, pure l’uomo interno si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,16). “Avete svestito l’uomo vecchio coi suoi atti e rivestito il nuovo” (Col 3,9).
La vita spirituale si orienta da allora precisamente verso questa metamorfosi: “rivestire l’uomo nuovo”. Il “nuovo” di quest’uomo è nel fatto che egli non è più solo; più profondamente e al centro della sua trasformazione è l’ “uomo rivestito di Cristo”, “l’essere cristificato”.
I Padri prendono in un certo senso alla lettera il fatto di rivestire il Cristo e vedono in questo la proiezione, o più esattamente il prolungamento nell’uomo dell’incarnazione del Verbo, perpetuata anzitutto nel mistero eucaristico. Essi insegnano perciò non a “imitare” ma a “interiorizzare” il Cristo. Questa interiorizzazione non è una pura metafora, che forzerebbe i termini, ma ha radici profonde in Dio stesso. Se l’incarnazione riflette una certa antropomorfia di Dio (una misteriosa conformità originale la condiziona), essa rivela soprattutto e sicuramente la teomorfia dell’uomo. Da un punto di vista biblico l’incarnazione perfeziona la nostra natura fatta a immagine di Dio e rivela la struttura manifestamente cristologica della vita spirituale.
L’uomo percorre così una distanza vertiginosa all’interno del suo essere. San Paolo cita un inno della Chiesa primitiva che ha una carica dinamica esplosiva: “Risvegliati, o tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo t’inonderà di luce”. Una variante ne rafforza ancora il senso: “e toccherai il Cristo” (Ef 5,14). Questo passaggio dallo stato di morte allo stato di vita, dall’inferno al Regno, è esattamente l’itinerario della vita spirituale.
Lo spiritualismo moralizzante riduce la salvezza al perdono della disubbidienza. L’ontologia biblica, vigorosa ed esigente, conduce la catarsi (purificazione) morale verso la catarsi ontologica, e questo significa il mutamento dell’intero essere umano, anima, corpo e spirito. E’ anche l’affermazione più forte dell’esegesi patristica che sottolinea l’appello dell’evangelo alla metanoia: “Ravvedetevi perché il Regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2).; sarebbe più esatto dire “trasformatevi”, perché si tratta di un pentirsi nel senso più forte, di un mutamento completo della mentalità e di tutto l’essere umano.
L’incontro con Dio non potrebbe aver luogo nello stato della natura decaduta; esso presuppone la restaurazione preliminare della natura nel sacramento del battesimo. Il battesimo è difatti, secondo i Padri, una vera e propria nuova creazione dell’essere redento. Il pentimento – la metanoia – nel suo senso più forte dev’essere portato fino alle radici di tutte le facoltà mentali, volitive ed affettive, fino al centro dell’essere intero: corpo e spirito. Nella sua famosa dottrina sulla ricapitolazione di tutta la natura in Cristo, sant’Ireneo segue da vicino san Paolo. Il quarto evangelo lo sottolinea quando parla della “seconda nascita”; i due termini, metanoia e nascita, esprimono in modo molto chiaro questa profonda modificazione dell’essere umano e indicano la sua entrata nel mondo dello Spirito, i cui principi sono opposti ai principi di questo mondo. Tra l’essere battezzato e il non battezzato si apre un abisso, la distanza infinita delle due nature. Per sottolineare il carattere dell’assolutamente nuovo, i Padri si servono di preferenza del miracolo delle nozze di Cana, del mutamento dell’acqua in vino. Il simbolismo di questa immagine fa convergere il battesimo nell’eucarestia; in realtà l’acqua battesimale ha il valore del sangue di Cristo, insegna Nicola Cabasilas, “essa distrugge una vita e ne riproduce un’altra: … noi lasciamo la tunica di pelle per rivestire un mantello regale”.
Si comprende ora fino a qual punto la vita spirituale operi una rottura completa. Non è la stessa vita alla quale si aggiungano uffici, letture e atteggiamenti pii, ma è essenzialmente una rottura, un combattimento, una violenza che prende d’assalto i cieli e s’impadronisce del Regno. Sulla soglia di questa vita risuona la parola di san Paolo: “Ecco, ogni cosa è nuova” (2Cor 5,17).
L’evangelo ricorda il potere tremendo del principe di questo mondo; san Paolo, chiamandolo “dio di questo mondo” (2Cor 4,4), sottolinea la condizione di alienazione dell’uomo a causa delle potenze demoniache, ed è questo potere di Satana che esige la rottura radicale. Ce lo mostra il simbolismo del sacramento del battesimo: l’immersione totale significa la morte vera e totale al passato colpevole, l’emersione, la vittoria definitiva, la risurrezione alla nuova vita. Tuttavia, la “promessa” del battesimo, la “grande professione battesimale”, di fede nella Trinità, presuppone un’operazione di purificazione e un atto personale dello spirito umano. La Chiesa prende molto sul serio il potere del male e la sua ira omicida; per questo i riti antichi pongono prima del battesimo – lavacrum – il rito dell’esorcismo e della solenne rinuncia al maligno.
Il sacerdote ripete l’atto divino, soffia sul volto del “morto” il soffio di vita, analogo al soffio di vita al momento della creazione dell’uomo. Di fronte all’Occidente, regno del principe di questo mondo, dove la luce del giorno scompare, il neofita rinunzia al passato, posto sotto la potenza del nemico. Egli mima simbolicamente la lotta che dovrà sostenere per tutto il corso della sua vita spirituale; volgendosi verso Oriente, dove il giorno appare, confessa la sua fede e riceve la grazia.
Questo rituale contiene in germe l’essenziale della nuova esistenza. Negativamente, è la lotta incessante; positivamente, è la metamorfosi chiesa nella preghiera finale del battesimo, dagli accenti così paolini: “O Dio, spoglialo del vecchio uomo, rinnovalo e colmano con la potenza del Tuo Spirito Santo, nell’unione con Cristo”.
E’ l’intenso sommario della vita spirituale, il so progresso non ha mai fine: “Chi mette la mano all’altro e poi riguarda indietro non è adatto al regno di Dio” (Lc 9,62). Ogni arresto è un regresso. Il carattere totalitario della consacrazione del battezzato è confermato e sottolineato dal rito della tonsura e lo pone nell’estrema tensione di ogni istante, nell’aspirazione a ciò che è ultimo, impossibile. Il rito della tonsura, parte organica del sacramento della confermazione nella Chiesa orientale è identico a quello dell’ingresso nell’ordine monastico. La preghiera del rito dice: “Benedici il tuo servitore che è venuto a offrirti come primizia la tonsura dei capelli del suo capo!”. Il senso simbolico è chiaro, è l’offerta totale della sua vita. Passando per la tonsura, il laico si ritrova monaco del “monachesimo interiore”, sottomesso alle esigenze assolute dell’evangelo. La fedeltà del neofita resisterà alla prova del tempo e all’assalto delle tentazioni, perché il Cristo combatterà in lui, con lui.

Pavel Evdokimov

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, MEDITAZIONI PER NATALE |on 19 décembre, 2017 |Pas de commentaires »

DAL DISCORSO SULL’ADORAZIONE DELLA CROCE DI SAN TEODORO STUDITA

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DAL DISCORSO SULL’ADORAZIONE DELLA CROCE DI SAN TEODORO STUDITA

PG 99, 691-694, 695. 698-699

O dono preziosissimo della croce! Quale splendore appare alla vista! Tutta bellezza e tutta magnificenza. Albero meraviglioso all’occhio e al gusto e non immagine parziale di bene e di male come quello dell’Eden. È un albero che dona la vita, non la morte, illumina e non ottenebra, apre l’udito al paradiso, non espelle da esso. Su quel legno sale Cristo, come un re sul carro trionfale. Sconfigge il diavolo padrone della morte e libera il genere umano dalla schiavitù del tiranno. Su quel legno sale il Signore, come un valoroso combattente. Viene ferito in battaglia alle mani, ai piedi e al divino costato. Ma con quel sangue guarisce le nostre lividure, cioè la nostra natura ferita dal serpente velenoso. Prima venimmo uccisi dal legno, ora invece per il legno recuperiamo la vita. Prima fummo ingannati dal legno, ora invece con il legno scacciamo l’astuto serpente. Nuovi e straordinari mutamenti! Al posto della morte ci viene data la vita, invece della corruzione l’immortalità , invece del disonore la gloria. Perciò non senza ragione esclama il santo Apostolo: Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo (Gal 6, 14). Quella somma sapienza che fiorì dalla croce rese vana la superba sapienza del mondo e la sua arrogante stoltezza. I beni di ogni genere, che ci vennero dalla croce, hanno eliminato i germi della cattiveria e della malizia. All’inizio del mondo solo figure e segni premonitori di questo legno notificavano ed indicavano i grandi eventi del mondo. Stai attento, infatti tu, chiunque tu sia, che hai grande brama di conoscere. Noè non ha forse evitato per sé, per tutti i suoi familiari ed anche per il bestiame, la catastrofe del diluvio, decretata da Dio, in virtù di un piccolo legno? Pensa alla verga di Mosè. Non fu forse un simbolo della croce? Cambiò l’acqua in sangue, divorò i serpenti fittizi dei maghi, percosse il mare e lo divise in due parti, ricondusse poi le acque del mare al loro normale corso e sommerse i nemici, salvò invece coloro che erano il popolo legittimo. Tale fu anche la verga di Aronne, simbolo della croce, che fiorì in un solo giorno e rivelò il sacerdote legittimo. Anche Abramo prefigurò la croce quando legò il figlio sulla catasta di legna. La morte fu uccisa dalla croce e Adamo fu restituito alla vita. Della croce tutti gli apostoli si sono gloriati, ogni martire ne venne coronato, e ogni santo santificato. Con la croce abbiamo rivestito Cristo e ci siamo spogliati dell’uomo vecchio. Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore.

 

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, MEDITAZIONI |on 5 avril, 2016 |Pas de commentaires »

LA PASQUA NELLA LITURGIA E NELLA VITA CRISTIANO-ORTODOSSA

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LA PASQUA NELLA LITURGIA E NELLA VITA CRISTIANO-ORTODOSSA

LA PASQUA NELLA LITURGIA E NELLA VITA CRISTIANO-ORTODOSSA dans CHIESA ORTODOSSA Grandeven

Il Grande Venerdì: l’ostensione e l’adorazione della Croce nella celebrazione del Mattutino

Secondo il Cristianesimo ogni Domenica è Pasqua. Questa comprensione è vissuta in modo particolare all’interno dell’Ortodossia. L’evento pasquale della morte e Resurrezione del Signore non viene concepito come un dogma al quale semplicemente credere ma fa parte della vita spirituale del fedele e trova continuo riscontro nella liturgia della Chiesa. Ancora oggi la Pasqua, festa delle feste, ha una solennità particolare. Lungo tutto il periodo della Grande e Santa Settimana che precede la Domenica di Resurrezione la Chiesa Ortodossa celebra ogni giorno delle lunghe liturgie nelle quali commemora con alta poesia e pathos la passione e morte del Signore. I segni e i simboli presenti sono pieni di forza e di significato. Fiori, foglie, acqua, processioni, incensazioni, canti, prosternazioni sono solo alcuni degli elementi inseriti nella liturgia che chiunque può osservare visitando una chiesa ortodossa nel periodo della Grande e Santa Settimana. Perfino a livello sociale in un Paese ortodosso la Pasqua crea un’atmosfera di particolare festività paragonabile pressapoco a quella che si sente in Italia nel periodo natalizio. La Chiesa ortodossa crede che Cristo abbia sofferto veramente come uomo e, come tale, sia morto e risorto. Tale morte e resurrezione non riguarda solo Lui ma, in Lui, viene associata tutta l’umanità passata e futura. L’iconografia con la quale si rappresenta la discesa di Cristo agli inferi è, in tal senso, particolarmente significativa. Cristo calpesta le porte dell’Ade e riporta alla vita Adamo ed Eva strappandoli dal luogo in cui stavano. Dio irrompe nel dominio usurpato dal demonio e distrugge il suo potere sull’umanità. La morte viene distrutta. Così, per l’Ortodossia, chiunque vive e muore in Cristo ha modo di pregustare quella vita nuova situata nell’orizzonte dell’eternità. La morte rimane certamente come fenomeno fisico ma non domina l’uomo come destino inevitabile e definitivo. A tal fine San Giovanni Crisostomo dice: “È vero, noi moriamo ancora come prima ma non rimaniamo nella morte: e questo non è morire. Il potere e la forza reale della morte è soltanto questo: che un uomo non ha alcuna possibilità di ritornare alla vita. Questo concetto era ben chiaro alla Cristianità primitiva al punto che i martiri andavano incontro alla morte con serenità non avendone paura: avevano pregustato che la morte era stata vinta e che esisteva una vita dopo di essa! Non avevano più timore della morte fisica. Tale convinzione era così forte che se c’era qualche timoroso si pensava che costui avesse ripudiato il proprio battesimo o non fosse ancora stato battezzato. Chi è già morto con Cristo nel battesimo (ecco il significato della totale immersione del corpo del battezzando nella vasca battesimale il Sabato Santo) non può che risorgere con Lui (ecco il significato dell’emersione del corpo del battezzato). Sant’Atanasio dice a tal proposito: “Gli uomini, prima di credere in Cristo, vedono la morte come terribile e la temono; mentre quando passano alla fede e all’insegnamento di Lui disprezzano talmente la morte che le si muovono incontro coraggiosamente, divenendo testimoni della Resurrezione operata dal Salvatore contro di lei. Uomini e donne, ancor giovani di età, hanno fretta di morire e si esercitano a combatterla praticando l’ascesi. La morte è divenuta così debole che anche le donne, che prima erano state ingannate da lei, adesso si prendono gioco di lei considerandola morta e debilitata” (De incarnatione Verbi, 27). Il fatto riveste un significato profondo e permanente nella vita. I cristiani non divennero tali perché erano più morali o pii dei pagani. Non divennero tali per riscattare l’umanità dai dispotismi politici o da eventuali ingiustizie economico-sociali. Lo divennero semplicemente perché il Cristianesimo portò loro la liberazione dalla morte. Così se qualcuno vuol penetrare nel cuore del Cristianesimo Orientale deve tenere conto di ciò e constatarlo la notte in cui si celebra la liturgia pasquale ortodossa: di questa liturgia tutti gli altri riti non sono che riflessi o figure. Le parole del tropario pasquale – l’inno di Pasqua – ripetute moltissime volte in tono sempre più esultante, ripetute fino ad una travolgente ma composta gioia mistica – “con la tua morte hai calpestato la morte” – sono il grande messaggio della Chiesa Ortodossa: la gioia di Pasqua, l’aver bandito l’antico terrore che assediava la vita dell’uomo. Tale credo è stato tradotto in tutte le lingue ma non ha mai perso la sua forza e si presenta ogni anno intatto nel suo gioioso mistero. La gioia Pasquale si affaccia perfino durante la celebrazione della Passione di Cristo. Così il Venerdì Santo ai vespri, nel momento stesso in cui Cristo rese lo spirito, già risuonano i primi inni di resurrezione: “La mirra conviene ai morti, ma Cristo si è mostrato libero dalla corruzione”. È per tale gioia pasquale che l’icona di Cristo in croce non ha alcun segno di tragicità ma rappresenta un uomo serenamente addormentato. Il trionfo sulla morte, nascosto ma decisivo, permea pure la celebrazione liturgica del Sabato Santo: “Benché il tempio del tuo corpo fosse distrutto al momento della passione, pure anche allora unica era l’ipostasi della tua divinità e della tua carne” (Sabato Santo, Mattutino, Canone, Ode 6). Questa radiosa prospettiva ha creato nei paesi di fede cristiano-ortodossa una cultura nella quale non si riflette alcun terrore della morte. Ad esempio nei tradizionali canti popolari greci la morte viene semplicemente canzonata e la si considera in modo sereno. Non si può dire altrettanto in altre parti del mondo nelle quali è andata perdendosi la profondità del messaggio pasquale e la morte è oramai uno spettro da rimuovere dalla coscienza. Per chiunque vive in questa penosa situazione valgono le parole di Sant’Atanasio: “Se uno rimane incredulo anche dopo prove così grandi, dopo che tanti sono diventati martiri in Cristo, dopo che la morte viene derisa ogni giorno da coloro che si distinguono in Cristo; se rimane ancora in dubbio circa la distruzione e la fine della morte, fa bene a porsi delle domande su un argomento così importante, ma non sia duro fino all’incredulità né impudente di fronte a fatti così evidenti. Ma come chi prende l’amianto riconosce che non può essere intaccato dal fuoco e chi vuol vedere il tiranno incatenato va nel regno di colui che l’ha vinto, così chi non crede alla vittoria sulla morte, accetti la fede di Cristo e si metta alla sua scuola: vedrà allora la debolezza della morte e la vittoria su di lei. Molti che prima non credevano e ci deridevano, poi, divenuti credenti, disprezzarono talmente la morte che divennero martiri di Cristo” (De incarnatione Verbi, 28).

OLIVIER CLÉMENT, BENOIT STANDAERT – PREGARE IL PADRE NOSTRO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/olivier_standaert2.htm

OLIVIER CLÉMENT, BENOIT STANDAERT  – PREGARE IL PADRE NOSTRO

(il testo è molto lungo, metto solo la prima parte, il Pater, il seguito però è da leggere, bellissimo!)

Padre – La prima parola della. preghiera che Gesù ci insegna e che noi diciamo – in un certo senso – con lui, in lui, nel suo Spirito, è Padre: Pater hemon, « Padre di noi ». Fermiamoci innanzitutto su quella che è veramente la prima parola: « Padre ». E una parola che per l’uomo odierno ha una strana risonanza: l’uomo di oggi è orfano, non ha radici al di fuori dello spazio-tempo, si sente smarrito in un universo senza limiti, discende dalla scimmia e va verso il nulla. Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e « repressiva », e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei « genitori ». Gli è stato detto che « Dio Padre » era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un’epoca o in un’ altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa. Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell’interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un’immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L’incesto e l’omosessualità, questi due segni dell’assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell’altro. Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola « Padre » . Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di « seno del Padre », tutta la bibbia ne evoca le « viscere di misericordia », rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli « sente » i figli come una madre « sente » i suoi, con tutto l’essere, con tutta la carne, con le viscere. E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l’altro.

Questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell’amore del Padre Quindi: Padre. Cosa significa per la nostra vita quotidiana? Significa che non siamo mai, assolutamente mai orfani, smarriti, abbandonati alle forze e ai condizionamenti di questo mondo. Abbiamo una risorsa, abbiamo un’origine fuori dello spazio-tempo. Questo universo apparentemente illimitato – ma il tempo ha avuto inizio con il « big bang », ma lo spazio è ricurvo, contenuto, afferma Einstein – questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell’amore del Padre. Le nebulose e gli atomi – anch’essi nebulose – amano il Padre in modo impersonale, con la loro stessa esistenza, ma noi, gli uomini, possiamo amarlo personalmente, rispondergli coscientemente, esprimere la sua parola cosmica: ciascuno di noi quindi, in virtù di questo legame personale con il Padre, è più nobile e più grande del mondo intero. I volti si imprimono al di là delle stelle, nell’amore del Padre. I momenti apparentemente effimeri della nostra vita, ognuno di quegli istanti in cui, come dice il poeta, « abbiamo avuto le vene colme di esistenza », si imprimono per sempre nella memoria amante del Padre. Allora il nichilismo della nostra epoca è sconfitto, l’angoscia che abita il nostro profondo può trasformarsi in fiducia, l’odio in adesione. Ecco cosa bisogna avvertire con forza ogni giorno – e lo dico in modo particolare ai giovani: è bello vivere, vivere è grazia, vivere è gloria, ogni esistenza è benedizione. Mi pare che nella letteratura dei popoli segnati dall’ ortodossia, anche in scrittori non pienamente credenti – come il primo Tolstoj, o i grandi romanzieri siberiani contemporanei, o quel Vassili Grossman autore del mirabile Vita e destino – si ritrovi questo senso della bontà e della bellezza profonda degli esseri e delle cose, la grazia alla radice di ogni cosa, una paternità infinitamente misericordiosa che tutto ama. Ne deriva la capacità meravigliosa, che questi scrittori possiedono, di parlare dei bambini, dell’affetto tra genitori e figli, pregio così raro nella letteratura occidentale contemporanea. .. La nostra teologia e la nostra spiritualità sanno bene che è impossibile imprigionare in parole e in concetti questo mistero dell’origine. Ma Gesù ci svela che questo abisso – di cui parla anche l’India – è un abisso di amore, un abisso paterno. Con Gesù, in lui, nel suo soffio, noi osiamo balbettare: « Abba, Padre », parola di infinita tenerezza infantile: ecco tutto il paradosso cristiano. E Gesù ci rivela che questo paradosso, questa relazione paradossale, non esiste solo nel rapporto del Padre con la creazione, ma in Dio stesso, nel più assoluto dell’assoluto. In Dio stesso c’è l’origine senza origine, e l’Altro filiale, e il soffio di vita e di amore che riposa sull’Altro e lo riconduce all’origine, e noi in lui. In Dio stesso c’è il respiro dell’amore, questo grande mito di unità e di diversità. E noi, a immagine di Dio, siamo trascinati in questo ritmo. Solo che, in Dio, tra l’Origine e il suo Altro filiale, nel Soffio unificante, la risposta d’amore è immediata, la reciprocità d’amore è assoluta. Noi invece abbiamo bisogno del tempo, dello spazio, di una sorta di oscurità per andare verso la Luce e gli uni verso gli altri nello stesso tempo. Spesso noi siamo il figlio prodigo che dissipa i suoi averi con le prostitute, pascola i porci e brama nutrirsi di carrube. Tuttavia anche allora noi sappiamo che il Padre non solo ci attende, ma ci viene incontro. Il mondo non è una prigione bensì un passaggio oscuro – passaggio da attraversare, passaggio da decifrare in un contesto più ampio -, e in questo testo, un testo che redigiamo con Dio, tutto ha un senso, ciascuno è importante, ciascuno è necessario. Se tutto è benedetto dal Padre, dobbiamo, a nostra volta, benedirlo in ogni cosa. Dovremmo cercare di riscoprire, di rinnovare, di vivere interiormente tutte quelle formule di benedizione che la chiesa ci insegna e che associamo alle benedizioni. « E Dio vide che era cosa buona », tob, che significa « buono e bello »; d’altronde la Settanta traduce con kalon, « bello ». Massimo il Confessore ci insegna a fare, in ogni sguardo attento, contemplativo sulle cose, una sorta di esperienza trinitaria: il fatto stesso che una cosa esista, riposi nell’essere, ci rimanda al Padre, « creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili… » (così, del resto, ogni cosa diventa il visibile del!’invisibile); il fatto che possiamo comprenderla, discernere in essa e ricostruire a partire da essa una struttura prodigiosamente « intelligente », ci rimanda al Figlio, Verbo, Sapienza e Ragione del Padre; il fatto che la cosa sia bella, si inserisca dinamicamente in un ordine, tenda verso una pienezza, ci rimanda allo Spirito, al Soffio vivificante, di cui Sergej Bulgakov diceva che è la personificazione della bellezza. Impariamo così a discernere nelle cose la Paternità di Dio, il Padre « con le due sante mani », il Verbo e lo Spirito – come diceva Ireneo di Lione – il Padre con la sua Sapienza e la sua Bellezza. Tuttavia l’esperienza trinitaria più fondamentale si inscrive nell’hemon che segue il Pater, nella seconda parola del Padre Nostro: « Padre – di noi ». Di questo « noi » vorrei sottolineare due cose. La prima è che dobbiamo imparare a discernere il mistero di Dio sul volto del prossimo. L’orrore della storia, soprattutto in questo secolo, è che l’uomo, qui o là, si arroga un potere assoluto sull’uomo. Le ideologie pretendono di spiegare l’uomo, di ridurlo alla razza, alla classe, alla religione, alla cultura. E gli ideologi, « quelli che sanno », si sentono autorizzati, per il bene dell’umanità – così affermano -, a manipolare, condizionare, imprigionare, torturare e uccidere gli uomini. Sbocco, forse, di tutto un pensiero moderno inteso come volontà di carpire (è proprio il significato del termine Begriff, che significa « concetto » in tedesco) . In opposizione a questo dobbiamo capire che l’altro, chiunque sia, fosse pure un pubblicano, una prostituta, un samaritano (per usare i termini di Gesù, per nulla difficili da trasporre), l’altro, qualunque altro, è l’immagine di Dio, il figlio del Padre, altrettanto inspiegabile, altrettanto « inconcettualizzabile » che Dio stesso: la sua migliore definizione è di essere indefinibile. Impariamo a non più maledire, impariamo a non più disprezzare: « non esiste altra virtù che il non disprezzare », affermava un padre del deserto. L’altro è volto, interamente volto. E di fronte a un volto non ho alcun potere: posso soltanto, poiché questo volto è anche parola, cercare di rispondere, diventare re-sponsabile. Questo vale per i rapporti di amore, di amicizia, di collaborazione, vale nella famiglia come nella società, nei rapporti con gli altri cristiani come nella vita politica. Ricordati: non disprezzare! L’altra cosa che vorrei sottolineare, e che d’altronde è inseparabile dalla prima, è il rapporto tra la chiesa e l’umanità. « Padre – di noi »: questo « noi » è soltanto la chiesa in cui siamo tutti « membra gli uni degli altri », secondo la struttura mirabilmente delineata da Vladimir Losskij: un solo corpo, un solo essere in Cristo, e ciascuno che incontra personalmente Gesù, ciascuno illuminato da una fiamma unica della Pentecoste – struttura trinitaria? Non credo. Il Verbo, afferma il prologo di Giovanni, « è la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo ». Si può tradurre anche: « …che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo ». Il Verbo, incarnandosi, ha assunto in sé tutta l’umanità, tutti gli uomini, di ogni luogo e di tutti i tempi. Risuscitando, ha risuscitato tutti gli uomini.

Non esiste un solo uomo che non abbia una relazione misteriosa con Dio

La chiesa sono coloro, numerosi o scarsi poco importa, che scoprono tutto questo, entrano lucidamente in questa luce e ringraziano. A nome di tutti. La chiesa è il « sacerdozio regale », la « nazione santa » messa a parte per pregare, testimoniare, lavorare per la salvezza di tutti gli uomini. Sappiamo dov’è il cuore della chiesa: nell’ evangelo, nell’ eucaristia. Ma ignoriamo i limiti del suo irradiamento, perché l’eucaristia è offerta « per la vita del mondo ». Non esiste filo d’erba che non cresca nella chiesa, non una costellazione che non graviti attorno ad essa, attorno all’albero della croce, nuovo albero di vita, asse del mondo. Non esiste un solo uomo che non abbia una relazione misteriosa con il Padre che l’ha creato, con il Figlio, « uomo-estremo », con il Soffio che anima ogni vita. Non esiste un solo uomo che non abbia un’aspirazione alla bontà, un sussulto davanti alla bellezza, un presentimento del mistero davanti all’amore e alla morte. Molti, inondati di gioia, esclameranno nel giorno del giudizio: « Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare… straniero e ti abbiamo accolto, nudo e ti abbiamo vestito? Quando ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a trovarti? ». E si sentiranno rispondere: « In verità vi dico, ogni volta che l’avete fatto a uno di questi piccoli, che sono miei fratelli, l’avete fatto a me! ». E noi, lo facciamo? Nella nostra vita quotidiana allora non facciamo della chiesa una setta o un ghetto. Impariamo a scoprire ovunque i germi di vita. Sappiamo accoglierli nella nostra intelligenza e nel nostro amore, sappiamo immagazzinarli come in granai nella preghiera della chiesa.

Pater hemôn ho en toîs ouranoîs Padre nostro quello nei cieli I « cieli » qui evocano il carattere inaccessibile, abissale del Padre, un Dio al di là di Dio, hypertheos dice Dionigi Areopagita. Ci si accosta a lui sondandone l’assenza, è la teologia negativa di cui parlavo prima; l’intelligenza misura i propri limiti sentendo rumoreggiare, sempre più lontano, l’oceano divino.

Saper guardare l’azzurro, lasciarci invadere, pulire Poi viene il momento in cui cessa ogni attività mentale, quando l’uomo si raccoglie e tace, diventando pura attesa. Nella nostra vita quotidiana è necessario che ci siano attimi di profonda emozione silenziosa. I padri parlano per esempio della sensazione che si impadronisce dell’uomo quando arriva sul bordo di un’alta scogliera, con il mare che si apre vertiginosamente davanti a lui. A volte bisogna sapersi fermare e ascoltare il silenzio, assaporare il silenzio, meravigliarsi, diventare come un calice pronto a essere colmato. Può essere un momento di calma in casa, una stanza in cui si è soli, una chiesa aperta in piena città, una passeggiata nel bosco. Può essere, nell’evangelo che si cerca di leggere ogni giorno, in un salmo, in un testo spirituale, una parola che tocca il cuore, che ci trafigge: allora non si prosegue, ci si ferma in un’attesa silenziosa, a volte colmata… Ma perché è proprio il cielo a fungere da simbolo alla trascendenza? Indubbiamente perché l’azzurro profondo – specialmente nei paesi mediterranei – è contemporaneamente fuori della nostra portata e presente ovunque: tutto avvolge, tutto penetra con la sua luce. Nelle lingue arcaiche il termine corrispondente – « cielo brillante » – indica la divinità. Dobbiamo saper guardare l’azzurro, lasciarcene invadere, lasciarci pulire, fino alle giunture delle nostre ossa. Perché mai molti giovani, che non vanno mai in chiesa, scalano le montagne, questi luoghi elevati, se non per entrare, in qualche modo, nell’azzurro? Perché vanno verso i mari del sud, dove l’acqua e il cielo si confondono in una sfera di pienezza, in una sfera d’azzurro?

« È ritrovata. Cosa? L’eternità. È il mare unito al sole » Eppure la sconvolgente rivoluzione dei tempi moderni fu la scoperta del cielo vuoto e illimitato, in cui né Dio né l’uomo sembrano più aver posto. Il cielo esultante dei salmi e del libro di Giobbe è diventato un’assenza nera. L’insensato di Nietzsche cerca invano Dio in un mondo in cui la terra va irrisoriamente alla deriva, in cui non c’è più né alto né basso, in cui fa sempre più freddo. Allora l’emozione suscitata dall’azzurro brillante rischia di ridursi a uno svago estivo. Il cielo divino va ritrovato altrove. Altrove? Nel « cuore » affermano i nostri asceti. In quel centro più centrale, in quella profondità più profonda in cui tutto il nostro essere si raccoglie e si apre su un abisso di luce: l’azzurro interiore, colore dello zaffiro, come osservava Evagrio Pontico. Uno dei nostri compiti quotidiani è proprio quello di destare in noi le forze del cuore profondo. Siamo soliti vivere nella testa e nel sesso, con il cuore spento. Ma lui solo può essere il crogiuolo in cui si trasfigurano l’intelligenza e il desiderio e, anche se non arriviamo fino all’abisso di luce, ne possono comunque scaturire delle scintille: un sussulto immenso e dolce infiamma il nostro cuore. Dobbiamo ritrovare il senso di questa emozione non emotiva, di questo sentimento non sentimentale, di questa vibrazione pacificante e sconvolgente di tutto l’essere, quando gli occhi si riempiono di lacrime di stupore e di gratitudine, tenerezza ontologica, silenzio colmato. Non riguarda solo i monaci, riguarda umilmente, parzialmente ogni uomo; arriverei a dire che è anche un problema di cultura.

Forze del cuore, amore della bellezza In Reparto C di Solzenicyn, una giovane donna, responsabile di un servizio in un ospedale, chiede al suo superiore, il « vecchio dottore », da dove gli vengano la capacità di simpatia e, indissociabilmente, la sicurezza della diagnosi. Questi le risponde di essere stato a lungo scavato, illuminato dall’amore di una donna; 1′amore infatti, se è la grazia così rara di sapere che un altro esiste, può fendere il « cuore di pietra » e trasformarlo in « cuore di carne ». Ma, aggiunge il « vecchio dottore », sono ormai anni che quella donna è morta. Adesso ha bisogno, in determinati momenti, di ritirarsi, di chiudersi, di fare silenzio in se stesso, di lasciare che il cuore si rappacifichi fino a diventare come un lago immobile sul quale si riflettono la luna e le stelle. Il silenzio e la pace rendono possibile la visita del Padre « che è nei cieli », e sullo specchio del cuore così visitato si inscrive la verità degli esseri e delle cose. Ed è anche una questione di cultura. Abbiamo bisogno di musica, di poesia, di romanzi, di canzoni, di tutta un’arte capace di essere anche arte popolare, in grado di destare le forze del cuore. A volte nel métro, a Parigi, mi raggiunge una canzone degli altipiani latino-americani: segue il confine sinuoso della morte e dell’amore, della rivolta e della celebrazione. È come la grande storia d’amore della letteratura araba: quella di Majnùn e di Laila. Majnùn, il folle, ama Laila, la notte. Laila ama Majnùn ma non gli rivela il proprio mistero e, sotto la forma di una gazzella, scompare nel deserto. Majnùn è ormai destinato all’erranza, e al canto (Queste osservazioni mi sono suggerite dal bel libro di Bernard Feillet, La nuit et le fou, Parigi 1983.). Abbiamo bisogno del canto di Majnùn, abbiamo bisogno di una bellezza che non sia bellezza di possesso, com’è così spesso il caso di oggi, ma proprio di spossesso, e forse di comunione, « la bellezza che crea la comunione », come afferma Dionigi Areopagita. E Giovanni Climaco parla di « quelle musiche profane che conducono alla gioia interiore, all’amore divino, alle sante lacrime ». Il genio del cristianesimo è segretamente « filocalico » e « filocalia » significa » amore della bellezza »: questa bellezza non dev’essere confinata nella liturgia, nel1′ascesi, ma deve risplendere anche nella cultura.

LA CROCE DI CRISTO RIVELA L’AMORE DI DIO PER IL MONDO

http://www.collevalenza.it/CeSAM/08_CeSAM_0168.htm

LA CROCE DI CRISTO RIVELA L’AMORE DI DIO PER IL MONDO

Gennadios Zervos*

Se l’uomo di oggi vedrà con serenità e senza complessi la Croce di Cristo, scoprirà veramente l’ineffabile amore di Dio Trino; scoprirà che, grazie a questo amore divino, la croce di Cristo rivela a lui, in modo meraviglioso, l’acquisto della sua libertà, della sua salvezza, della sua unità con Dio.
La croce di Cristo è il mistero della divina filantropia, il pegno della divina pietà e salvezza, la più terrena e tangibile immagine della Croce celeste dell’amore[1].
In realtà è la più genuina, amorosa risposta di Dio alla pazzia dell’uomo, il quale, peccando, ha scelto da sé stesso la più pesante condanna: la morte.
La croce rivela e afferma che l’uomo è nato soltanto per desiderio dell’amore del Dio Trino e si salva nella passione del suo amore soprannaturale.
La Chiesa Ortodossa particolarmente durante la Quaresima Pasquale, dedica una settimana proprio per la venerazione della Croce[2] per far capire ai suoi fedeli-membri, due cose amabili:
1) Senza la Crocifissione è impossibile incontrare Cristo, Crocifisso e Risorto per il suo amore verso l’uomo.
2) Incoraggiare con fedeltà gli ortodossi e assicurare loro che la Crocifissione è “una morte vivificante di amore” ed “una Resurrezione che ha la forma della Croce”, la quale ha come inizio e fine l’amore del Dio Trino.
La Croce di Cristo, nella quale abbiamo la più potente rivelazione dell’amore divino, ed ancora abbiamo la più grande e la più sacra rivelazione del sacramento dell’amore, è il mistero della invincibile debolezza di Dio verso la sua prediletta creatura, l’uomo. Dio è invincibile nella sua debolezza del suo amore, il quale sulla Croce si rivela come il più vero ed unico compimento, come la più vera ed unica manifestazione di amore verso l’umanità.
Mentre sulla Croce di Cristo si rivela l’ineffabile amore di Dio, il quale, come è stato detto prima, è per l’uomo libertà, salvezza, unità e resurrezione, Dio su questo sacro legno della Croce scopre sé stesso come “Dio debole e abbandonato”.
Certamente su questa soprannaturale verità della rivelazione dell’amore di Dio per l’interesse morale e spirituale dell’uomo ed in genere per la sua salvezza, la Croce si presenta nel mondo da una parte come “follia” e “scandalo” e dall’altra come “sapienza” e “potenza”[3].
Dal punto di vista umano sotto il primo aspetto è una cosa paradossale; è una forte tentazione. Sotto il secondo aspetto è una vera testimonianza, della potenza dell’amore del Dio Trino, il quale cancella ogni oscurità, apre nuove uscite e dà la grandiosa speranza per vincere ogni ostacolo mortale ed ogni difficoltà del mondo che portano alla disperazione e alla distruzione.
L’impeccabile amore divino sulla croce libera l’uomo dalla schiavitù di satana e vince il principe della morte; vincendo con la sua filantropa sapienza il dolore e la povertà, la schiavitù e la mortalità; trasforma l’universo[4] e dona la salvezza soltanto con Cristo: «Siamo salvati non per mezzo della legge, ma per mezzo della divina compassione»; «il regno dei cieli non è la ricompensa delle nostre opere, ma la grazia del Signore preparata per i servi fedeli”[5], i quali in seguito diventano figli.
Da questo momento comincia per l’uomo una nuova vita, caratterizzata dai suoi eterni frutti: vittoria, gioia, resurrezione, immortalità, esultanza pasquale ed eternità.
Così la croce non è più il simbolo della condanna e della morte, ma il simbolo della grazia e della vita, non è più il legno della sofferenza, ma l’albero dell’immortalità, non è più lo strumento dell’infamia ma il segno della gloria; non è più disperazione e sconfitta, ma è speranza e forza; non è più causa di lutto, ma fonte della consolazione pasquale per vivere in eternità; “E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato”[6]. Perciò la santa Croce viene celebrata inseparatamente con la Resurrezione nel mistero della Divina Economia.
I cori Bizantini della Chiesa Ortodossa cantano durante la terza settimana della Quaresima Pasquale: “Venite ad adorare l’amore della nostra vita… la Croce di Cristo, nostro Dio, per cui la morte è stata colpita… per noi volontariamente ha sofferto tutto per salvare il mondo”.
Un altro antico inno della Chiesa Ortodossa, che si canta nella terza Domenica della Quaresima Pasquale, dice: “Cristo, il Re della gloria che volontariamente stese le mani (sulla croce) ci ha esaltati fino all’originaria beatitudine: noi ce (eravamo stati) conquistati all’inizio dal nemico per mezzo del piacere, il quale ci ha esiliati da Dio”[7].
“Vediamo oggi compiersi un tremendo e straordinario mistero! L’inafferrabile viene arrestato; colui che libera Adamo dalla maledizione viene legato; colui che scruta i cuori e i nervi ingiustamente è sottoposto ad inchiesta. E’ chiuso in prigione colui che chiude l’abisso. Compare davanti a Pilato colui davanti al quale stanno tremanti le potenze celesti. Il creatore è schiaffeggiato dalla mano della creatura. E’ condannato al legno colui che giudica i vivi e i morti. Viene chiuso nel sepolcro lo sterminatore dell’Ade. Gloria a te, Signore, paziente che sopporti tutto con amore per salvare tutti dalla maledizione”[8].
S. Giovanni Damasceno insegna che “ogni azione e ogni miracolo di Cristo è divino e meraviglioso, però il più meraviglioso di tutti è la sua Croce; perché nessun‘altra cosa ha domato la morte, ha espiato la prima coppia, ha spogliato l’Ade, ha portato la resurrezione, ha donato la forza di vincere la stessa morte, ha preparato il nostro ritorno alla primiera benedizione, ha aperto la porta del paradiso, ha messo la nostra natura a sedersi alla destra di Dio e ci ha fatto suoi figli, quanto la Croce del nostro Signore Gesù Cristo”[9].
Infatti la pienezza della rivelazione della Croce che è la rivelazione dell’amore di Dio nel mondo per l’uomo consiste nel fatto che sul legno non è stata crocifissa una qualsiasi persona, un uomo innocente, ma il “Re della Gloria”, il Dio dell’amore e della salvezza.
Il vescovo Ilia Miniatis, grande predicatore durante i tempi della schiavitù turca, dice: «Il mondo ha visto due cose straordinarie e curiose: un Dio che è diventato uomo e questo stesso Dio e Uomo che si è innalzato sulla croce per la salvezza dell’uomo».
La Croce da una parte, secondo S. Giovanni Crisostomo è l’”inizio della salvezza dell’uomo”, “causa di innumerevoli beni”[10], perché “salvò e trasformò il mondo, scacciò l’errore, introdusse la verità, cambiò la terra in cielo, fece gli uomini angeli”[11]. E dall’altra parte secondo S. Cirillo di Gerusalemme “ogni opera di Cristo è gloria della Chiesa universale, ma gloria delle glorie è la Croce”[12] rivelando (essa) nel mondo il suo infinito amore per l’uomo, riconcilia di conseguenza l’amore con l’immortalità che possedeva l’uomo prima della sua caduta nel peccato e l’immortalità con la vita, che sono frutti eterni, doni divini, dati dal Dio Trino all’uomo salvato.
Desidero chiudere questo nostro incontro, questa nostra conversazione con quei filantropi e amorosi detti del Grande Martire della salvezza dell’umanità, con gli ultimi sette sapienti discorsi d’amore, benché il maggior tempo del suo martirio sulla croce l’ha passato in silenzio, discorsi detti da Lui che “non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca”[13].
Questi ultimi sacri discorsi dell’amore crocifisso sono in verità un testamento autentico, una ricapitolazione della dottrina del Salvatore dell’umanità; è la più profonda e la più grande espressione e manifestazione dell’amore di Dio verso l’umanità; è il corollario dell’amore di Dio che si rivela nel mondo.
l regno”[16].
3) “Donna, ecco il tuo Figlio!” – “Ecco la tua Madre”[17].
Cristo sulla Croce considerando sé stesso abbandonato da Dio-Padre, nella solitudine della sua Passione, dimenticando sé stesso, non avendo nessun altro aiuto, rivolge i suoi pensieri agli altri. Quando l’hanno crocifisso, lui era mediatore per i suoi crocifissori. Quando lo rimproveravano, lui dava promessa al ladro riconoscente. Quando era l’ora di consegnare il suo spirito dimentica il suo dolore, la sua sofferenza e pensa con amore particolarmente a sua madre.
4) “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”[18].
Senz’altro questo meraviglioso discorso racchiude in sé un oceano intero di teologia.
Anche con questo discorso la croce rivela in verità l’amore ineffabile di Dio verso la sua creatura.
Cristo sulla Croce soffre per i peccati dell’uomo e per salvare l’uomo è diventato “maledizione”. E’ possibile dimenticare questo sacrificio di amore genuino?
5) “Ho sete”[19].
La croce rivela anche questa volta questo amore superumano: il Crocifisso ha sete per la salvezza dei suoi crocifissori, per la diffusione del vangelo, per l’unità dell’umanità.
6) “Tutto è compiuto”[20], in greco: “Tetélestai”.
Il tremendo martirio con le diverse sofferenze si è compiuto. Però con il compimento del martirio e la fine della sua salvifica missione è stato sconfitto satana, e il sangue di Cristo ha purificato l’uomo e l’ha fatto diventare figlio di Dio, donando la salvezza.
7) “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”[21].
Questo discorso è una voce trionfale, piena di amore infinito, da una parte, verso il Padre, perché “mostra che l’anima del Signore gode di nuovo della paterna comunione e serenità”[22], compiendo così la grandissima opera della volontà di Dio e dall’altra parte verso l’uomo, perché quando prima Cristo, invocando il Padre, diceva: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” mostrandosi così come “garante, pagando il debito[23] dell’uomo, ha inizio la Redenzione, il glorioso preludio della Resurrezione che vince sul peccato e sulla morte e dona all’uomo la vita. Così come canta la Chiesa Ortodossa: “Cristo è risorto dai morti, calpestando la morte con la morte e donando la vita ai morti nei sepolcri”[24]; “Festeggiamo la morte della morte, la distruzione dell’Ade, l’inizio della vita diversa, eterna, e con esultanza inneggiamo a Colui che ne è la causa, l’unico Dio benedetto dai Padri e glorificato”[25]; “Venite nel lieto giorno della Resurrezione a partecipare vivamente al frutto della vite, alla divina esultanza, al regno di Cristo, inneggiando a lui, Dio nei secoli”[26].
Con questo ultimo discorso che è soltanto una frase in cui abbiamo la pienezza dell’amore divino ed ancora un capolavoro modello di preghiera e di comunione con Dio, la croce di Cristo che in verità rivela al mondo l’amore e la verità, la speranza e la pace, la salvezza e l’eternità, oggi si presenta nel mondo come una contestazione permanente all’anormale situazione dei cristiani ancora divisi.
Però nello stesso tempo è un appello potente, senz’altro l’unico alla ricomposizione della piena unità. E’ un appello continuo a portare ai popoli l’annuncio della riconciliazione, della pace, dell’amore e dell’unità, opera di Cristo per mezzo della sua Croce.
Un uomo spirituale induista, in una conversazione privata, confessava ad un Arcivescovo Ortodosso che Cristo Crocifisso, dal punto di vista della sua religione, era la verità più forte del cristianesimo. Se i fedeli delle varie Chiese, diceva e, perché no, delle varie religioni venissero a scambiare le loro riflessioni ai piedi della croce, allora forse si incontrerebbero sull’essenziale per il bene, la pace, l’amore e l’unità del mondo.
E’ cosa buona che la Cristianità divisa, vivendo oggi la tragedia della separazione, ma anche la necessità di superare quest’anormale situazione nel seno della Chiesa di Cristo, approfondisca il senso spirituale della Croce, la quale costituisce l’unico inizio, il vero mezzo ed il fine principale per realizzare la volontà di Dio: “Che tutti siano una sola cosa”.

* Omelia di Zervos S.E. Mons. Gennadios, vescovo ortodosso di Kratias, nella celebrazione ecumenica, commentando: Is. 49, 14-16; Sal 102; Rom. 5, 6-11; Gv. 3, 14-17

NOTE SUL SITO

CONDANNATI AD ESSERE LIBERI

http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/insegnamenti/condanliberipop.htm

CONDANNATI AD ESSERE LIBERI

Arch. Justin Popovic

Gli uomini condannarono Dio a morte. Dio, però, attraverso la sua Risurrezione condanna tutti gli uomini all’immortalità. Ai loro colpi risponde con degli abbracci. Agli insulti con delle benedizioni. Alla morte con l’immortalità. L’odio degli uomini non fu mai tanto, quanto nella Sua crocifissione. E Dio non mostrò mai tanto amore agli uomini, quanto nella Sua Risurrezione. Gli uomini volevano rendere Dio mortale, ma Dio attraverso la Sua Risurrezione ha reso gli uomini immortali. Risuscitò il Dio crocifisso e distrusse la morte. Ormai la morte non c’è più. L’immortalità inondò l’uomo e tutti i suoi mondi.
Attraverso la Risurrezione del Teantropo la natura umana fu condotta definitivamente sulla via dell’immortalità e divenne terribile anche per la stessa morte. Perché prima della Resurrezione di Cristo la morte era terribile per l’uomo, mentre dalla Resurrezione del Signore, l’uomo diventa terribile per la morte. Se l’uomo attraverso la fede vive nel Risorto Teantropo, vive al di sopra della morte. Si rende inespugnabile anche dalla morte. La morte si trasforma in “sgabello dei suoi piedi”: “dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (cfr. 1 Cor 15, 55-56). Così, quando l’uomo che vive in Cristo muore, lascia semplicemente la veste del suo corpo per rivestirsi nel giorno della Seconda Venuta.
Fino al momento della Risurrezione del Cristo Teantropo la morte era la seconda natura dell’uomo. La prima era la vita, e la morte la seconda. L’uomo era abituato a vivere la morte come una cosa naturale. Eppure con la Sua Risurrezione il Signore cambiò tutto: l’immortalità divenne la seconda natura dell’uomo, successe qualcosa di naturale nell’uomo, e la morte si rese innaturale. Come fino alla Risurrezione di Cristo era naturale per gli uomini essere mortali, così dopo la Risurrezione divenne naturale per loro l’immortalità.
Attraverso il peccato l’uomo si rese mortale e limitato. Attraverso la Risurrezione del Teantropo diventa immortale ed eterno. In questo esattamente sta la forza e la potenza e l’onnipotenza della Risurrezione di Cristo. E per questo senza la Risurrezione di Cristo non ci sarebbe neppure il Cristianesimo. La Risurrezione del Signore è il più grande miracolo tra i miracoli. Tutti gli altri miracoli nascono da questo e si riassumono in questo. Da questo derivano la fede e l’amore e la speranza e la preghiera e la devozione di Dio. I discepoli fuggiti, quelli che andarono via, lontano da Gesù quando moriva, ritornarono da Lui quando risuscitò. E il centurione Romano quando vide il Cristo alzarsi dalla tomba, lo confessò come Figlio di Dio. Allo stesso modo anche tutti i primi Cristiani divennero Cristiani, perché Cristo risuscitò, perché vinse la morte. Questo è quello che nessun’altra religione ha. Questo è quello che in modo unico e incontestabile dimostra e prova che Gesù Cristo è l’unico vero Dio e Signore in tutti i mondi visibili e invisibili.
Grazie alla Risurrezione di Cristo, grazie alla vittoria sulla morte gli uomini diventavano, diventano e diventeranno per sempre Cristiani. Tutta la storia del Cristianesimo non è altra cosa che la storia di un unico e solo miracolo, della Risurrezione di Cristo, che è perpetuato costantemente in tutti i cuori dei Cristiani di giorno in giorno, di anno in anno, di secolo in secolo fino alla Seconda Venuta.
L’uomo nasce veramente non quando lo porta nel mondo sua madre, ma quando crede nella Risurrezione del Salvatore Cristo, perché allora nasce nell’immortalità e nella vita eterna, mentre la madre genera il suo figlio che arriverà alla morte, alla tomba. La Risurrezione di Cristo è la madre di tutti noi, di tutti i Cristiani, la madre degli immortali. Attraverso la fede nella Risurrezione del Signore, nasce di nuovo l’uomo, nasce per l’eternità.
“Questo è impossibile!”, nota lo scettico. E il Risorto Teantropo risponde: “ogni cosa è possibile a chi crede” (cfr. Mc 9, 23). E chi crede è colui che con tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo essere vive secondo l’Evangelo del Risorto Signore Gesù.
La nostra speranza è la vittoria attraverso cui vinciamo la morte, cioè la fede nel Signore Risorto. “Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?”, “pungiglione della morte è il peccato” (1 Cor 15, 55-56). Attraverso la Sua risurrezione il Signore “ha indebolito il pungiglione della morte”. La morte è il serpente mentre il peccato è il suo pungiglione. Attraverso il peccato la morte effonde il veleno nell’anima e nel corpo dell’uomo. Quanti più sono i peccati che l’uomo ha, tanti di più ne sono i pungiglioni tramite i quali la morte effonde il suo veleno in lui.
Quando la vespa punge l’uomo, egli si sforza per quanto possibile ad estrarre il pungiglione dal suo corpo. Quando invece lo pungerà il peccato – il pungiglione stesso della morte – cosa deve fare? – Deve con la fede e la preghiera invocare il Risorto Salvatore Cristo, perché Egli estragga il pungiglione della morte dall’anima. Ed Egli come misericordioso lo farà, poiché è Dio della Misericordia e dell’Amore. Quando molte vespe andranno, attaccheranno il corpo dell’uomo e lo feriranno molto con i loro pungiglioni, allora l’uomo si avvelenerà e morirà. E questo accade anche nell’anima dell’uomo quando viene ferita dai tanti pungiglioni dei tanti peccati. Costui muore di una morte che non conosce resurrezione.
L’uomo, vincendo attraverso il Cristo, il peccato dentro di sé, vince la morte. Se viene trascorso un giorno e tu non hai vinto neanche un tuo peccato, sappi che sei diventato ancora più mortale. Se invece vinci una o due o tre tuoi peccati, sei diventato più giovane di una giovinezza che non invecchia, che è immortale ed eterna! Non dimentichiamo mai: quando qualcuno crede nel risorto Cristo, questo significa che lotta continuamente la lotta contro il peccato, del male e della morte.
Il fatto che l’uomo crede veramente nel Signore Risorto lo prova lottando contro il peccato e le passioni. Se lotta deve sapere che lotta per l’immortalità e la vita eterna. Se però non lotta, allora la sua fede è vana! Perché, se la fede dell’uomo non risulta una lotta per l’immortalità e l’eternità, allora che cosa è? Se con la fede in Cristo non raggiunge l’immortalità e la vittoria sulla morte, allora a cosa serve la nostra fede? Se Cristo non è risorto ciò significa che il peccato e la morte non sono sconfitti. Se questi ultimi due non sono sconfitti, allora perché si deve credere a Cristo? Costui, però, che attraverso la fede nel Cristo Risorto lotta contro ogni suo peccato, egli rafforza gradualmente in sé la sensazione che il Signore è effettivamente risorto, ha infatti indebolito il pungiglione della morte, ha veramente vinto la morte su tutti i fronti della battaglia.
Il peccato sminuisce l’anima dell’uomo gradualmente, la porta pian piano alla morte, la trasforma da immortale a mortale, da incorruttibile e immensa in corruttibile e limitata. Quanti più peccati ha l’uomo, tanto più è mortale. E se l’uomo non sente lui stesso la morte, è evidente che si trova tutto immerso nei peccati, nei pensieri miopi, nei sentimenti morti. Il Cristianesimo è una chiamata, per una lotta fino all’ultimo respiro contro la morte, cioè fino alla vittoria definitiva su di lei. Ogni peccato risulta un ritiro, ogni passione un tradimento, ogni malvagità una sconfitta.
Non si deve chiedere perché anche i Cristiani muoiono della morte fisica. Questo succede perché la morte del corpo è una semina. Si semina corpo mortale, dice l’Apostolo Paolo (cfr. 1 Cor 15, 42 e seg.), e germoglia, cresce e diventa immortale. Come il grano seminato, anche così il corpo si scoglie, perché il Santo Spirito lo vivifichi e lo perfezioni. Se il Signore Gesù non avesse risuscitato il corpo che guadagno avrebbe avuto il corpo da Lui? Egli non avrebbe salvato l’uomo interamente. Se non ha risuscitato il corpo, allora perché si incarnò, perché assunse il corpo, visto che non gli diede niente della Sua Divinità?[1]
Se Cristo non è risuscitato, perché allora si deve credere in Lui? Confesso, sinceramente, che non avrei mai creduto in Cristo, se non fosse risuscitato e non avesse vinto la morte, il nostro maggiore nemico. Però Cristo è risorto e ha donato a noi l’immortalità. Senza questa verità, il nostro mondo è solo una mostra caotica di odiose sciocchezze. Solo con la gloriosa Sua Risurrezione l’ammirabile Signore e Dio nostro, ci ha liberati dall’assurdità e la disperazione. Perché senza la Risurrezione non esiste niente di più assurdo in questo mondo, né sui cieli né sotto i cieli. Né maggior disperazione di questa vita, senza l’immortalità. Per questo in tutti i mondi non esiste un essere più disgraziato dell’uomo, che non crede nella Risurrezione di Cristo e la risurrezione dei morti (cfr. 1 Cor 15, 19). “Sarebbe stato meglio per quest’uomo che non fosse mai nato” (Mt 26, 24).
Nel nostro mondo umano la morte è il più grande tormento e la più orripilante disumanità. La liberazione da questo tormento e da questa disumanità è esattamente la salvezza. Questa salvezza è stata donata al genere umano dal Vincitore della morte – il Risorto Teantropo [= Dio-uomo]. Attraverso la Sua Risurrezione Egli ci ha rivelato tutto il mistero della nostra salvezza. Salvezza significa assicurare per il corpo e l’anima l’immortalità e la vita eterna. E come si riesce in questo? Solo attraverso una vita teantropica, la nuova vita nella Risurrezione e attraverso il Cristo Risorto!
Per noi Cristiani questa vita terrena è una scuola, nella quale impariamo come mettere al sicuro l’immortalità e la vita eterna. Poiché che guadagno abbiamo da questa vita, se tramite essa non riusciamo a ottenere quella eterna? Ma perché l’uomo possa risorgere insieme a Cristo, deve prima morire insieme a Lui e vivere la vita di Cristo come sua. Se fa questo, allora nel giorno della Risurrezione potrà dire, insieme a san Gregorio il Teologo: “Ieri sono stato crocifisso con Cristo, oggi sono glorificato con Lui. Ieri ero morto insieme a Lui, oggi sono vivificato. Ieri mi ero sepolto con Lui, oggi mi alzo insieme a Lui”[2].
Tutti e quattro i Vangeli di Cristo si possono ricapitolare in quattro sole parole: Χριστός Ανέστη! – Αληθώς Ανέστη!… [= Cristo è Risorto! – È veramente Risorto!...] Ad ognuna di queste parole si trova un Evangelo e nei quattro Evangeli si trova l’intero senso di tutti i mondi di Dio, di quelli visibili e invisibili. E quando tutti i sentimenti dell’uomo e tutti i suoi pensieri saranno concentrati nel tuono di questo saluto: “Cristo è Risorto!”, allora la gioia dell’immortalità scuoterà tutti gli esseri, e questi risponderanno in esultanza, confermeranno il miracolo pasquale: “È veramente Risorto!”.
Sì, è veramente risorto il Signore! E testimone di questo fatto sei tu, ne sono io, ne è ogni Cristiano, partendo dai santi Apostoli fino al giorno della Seconda Venuta. Poiché solo la forza del Risorto Teantropo Cristo riuscì a dare – dà continuamente e continuamente darà – la forza ad ogni Cristiano – dal primo fino all’ultimo – per vincere ogni cosa mortale e anche la morte stessa. Ogni cosa peccatrice e il peccato stesso. Ogni cosa demoniaca e il diavolo stesso. Poiché il Signore solo con la Sua Risurrezione, secondo il modo più convincente, mostrò e dimostrò che la Sua vita è Vita Eterna, la Sua verità è Eterna Verità, il Suo amore Eterno Amore, la Sua bontà Eterna Bontà, la Sua gioia Eterna Gioia. Anzi, mostrò e dimostrò che tutte queste cose le dà Lui, secondo la Sua impareggiabile filantropia, ad ogni Cristiano in tutte le epoche.
A questo riguardo, non esiste un fatto non solo nell’Evangelo, ma neanche nell’intera storia del genere umano, che non sia testimoniato in modo talmente forte, talmente inespugnabile, talmente innegabile, quanto la Risurrezione di Cristo. Indubbiamente, il Cristianesimo in tutta la sua realtà storica, la sua forza storica e la sua onnipotenza, si fonda sull’evento della Risurrezione di Cristo, cioè sull’Esistenza eternamente viva del Teantropo Cristo. E di questo ne è testimone tutta la longeva e sempre miracolosa storia del Cristianesimo.
Poiché se esiste un evento nel quale bisognerebbe riassumere tutti gli eventi, della vita del Signore e degli Apostoli e in genere di tutto il Cristianesimo, questo evento sarebbe la Risurrezione di Cristo. Inoltre, se esiste una verità nella quale sarebbe possibile riassumere tutte le verità Evangeliche, questa verità sarebbe la Risurrezione di Cristo. E ancora, se esiste una realtà nella quale sarebbe possibile riassumere tutte le realtà Neotestamentarie, questa realtà sarebbe la Risurrezione di Cristo. E infine, se esiste un miracolo Evangelico nel quale sarebbe possibile riassumere tutti i miracoli Neotestamentari, allora questo miracolo sarebbe la Risurrezione di Cristo. Perché solo nella luce della Risurrezione di Cristo, vengono messe in risalto meravigliosamente e chiaramente, sia il volto del Teantropo Gesù che la Sua opera. Solo nella Risurrezione di Cristo assumono la piena spiegazione tutti i miracoli di Cristo, tutte le Sue verità, tutte le Sue parole, tutti i fatti del Nuovo Testamento.
Fino alla Sua Risurrezione il Signore insegnava sulla vita eterna, ma dopo la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli è la Vita Eterna. Fino alla Sua Risurrezione insegnava sulla risurrezione dei morti, ma con la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli è difatti la Risurrezione dei morti. Fino alla Sua Risurrezione insegnava che la fede in Lui ci porta dalla morte alla vita, ma con la Sua Risurrezione ha mostrato che Egli stesso ha vinto la morte e assicurò in questo modo a quelli che erano morti il passaggio dalla morte alla Risurrezione. Sì, sì, sì: il Teantropo Gesù Cristo con la Sua Risurrezione ha mostrato e dimostrato che è l’unico vero Dio, l’unico vero Teantropo in tutti i mondi umani.
E qualcosa ancora: senza la Risurrezione del Teantropo non è possibile spiegare né l’apostolato degli Apostoli, né il martirio dei Martiri, né la confessione dei Confessori, né la santità dei Santi, né l’ascesi degli Asceti, né la miracolosità dei Taumaturghi, né la fede di quelli che hanno creduto, né l’amore di quelli che amano, né la speranza di quelli che sperano, né il digiuno dei digiunatori, né la preghiera degli oranti, né la mitezza dei miti, né il pentimento dei penitenti, né la misericordia dei misericordiosi, né l’ascesi di qualsiasi virtù cristiana. Se il Signore non fosse risorto e come Risorto non avesse riempito i Suoi discepoli con la forza vivifica e la sua sapienza taumaturgica, chi avrebbe potuto radunare e dare il coraggio e la forza e la sapienza a questi impauriti fuggiaschi perché riuscissero così intrepidamente e con tanta forza e sapienza a predicare e confessare il Signore Risorto e andare con tanta gioia alla morte per Lui? E se il Risorto Salvatore non li avesse riempiti con la Sua divina forza e sapienza, come avrebbero potuto accendere nel mondo l’inestinguibile incendio della fede Neotestamentaria, questi ingenui, analfabeti, ignoranti e poveri uomini? Se la fede Cristiana non fosse la fede del Risorto e di conseguenza dell’eternamente vivo e vivificante Signore, chi avrebbe potuto ispirare i Martiri nelle imprese del martirio, e i Confessori nelle imprese della confessione, e gli Asceti nell’impresa dell’ascesi, e gli Anargiri nell’impresa della cura gratuita [anargiria], e i Digiunatori nell’impresa del digiuno e della continenza, e qualsiasi Cristiano in qualsiasi impresa Evangelica?
Tutte queste cose quindi sono vere e reali sia per me e per te, che per ogni esistenza umana. Poiché il mirabile e dolcissimo Signore Gesù, il Risorto Teantropo, è la sola Esistenza sotto il cielo con la quale l’uomo può vincere, qui sulla terra, la morte, il peccato e il diavolo, e divenire beato e immortale, compartecipe nell’Eterno Regno dell’Amore di Cristo… Per questo, per l’esistenza umana il Risorto Signore è tutto per tutti in tutti i mondi: per ogni cosa Bella, Buona, Vera, Cara, Lieta, Divina, Sapiente, Eterna. Egli è tutto il nostro Amore, tutta la nostra Verità, tutta la nostra Gioia, tutte le nostre cose Buone, tutta la nostra Vita, la Vita Eterna in tutte le eternità divine infinite.
– Per questo e di nuovo, e per molte, innumerevoli volte: Cristo è Risorto!

Traduzione a cura di Tradizione Cristiana, gennaio 2009

 

L’INCARNAZIONE E LA REDENZIONE G. Florovskij

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/incarnflorovsky.htm

L’INCARNAZIONE E LA REDENZIONE

G. Florovskij

“Il Logos si è fatto Carne”: in queste parole è espressa la gioia definitiva della fede cristiana; in esse c’è la pienezza della Rivelazione. Il Signore incarnatosi è nello stesso tempo perfetto Dio e perfetto Uomo. Il completo significato ed il fine ultimo dell’esistenza umana è rivelato e realizzato nell’Incarnazione e per mezzo di essa. Egli scese dal Cielo per redimere la terra, per congiungere per sempre l’uomo con Dio. “E divenne uomo”. È così iniziata la nuova epoca. Noi infatti calcoliamo il tempo secondo gli “anni Domini”. Come scrisse sant’Ireneo, “il Figlio di Dio è diventato figlio dell’uomo, perché quest’ultimo diventasse figlio di Dio”. Non solo la pienezza originaria della natura umana è restaurata e ristabilita nell’Incarnazione. Non solo la natura umana ritorna alla sua comunione con Dio ormai perduta. L’Incarnazione è anche la nuova Rivelazione, un nuovo ed ulteriore passo. Il primo Adamo era un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo è il Signore che viene dal Cielo (1 Corinti 15, 47). E nell’Incarnazione del Logos l’umana natura non fu solo unta da una sovrabbondanza di Grazia, ma fu assunta in un’unione intima ed ipostatica con Dio stesso. In questa elevazione della natura umana ad una eterna comunione con la vita divina, i Padri della Chiesa primitiva videro unanimi l’essenza della Salvezza, la base di tutta l’opera redentrice del Cristo. “È salvato ciò che è unito a Dio”, dice san Gregorio di Nazianzo. E ciò che non era unito non poteva essere salvato. Questa era la sua principale ragione per insistere, contro Apollinare, sulla pienezza dell’umana natura dall’Unigenito nell’Incarnazione. Questo è il motivo fondamentale ricorrente in tutta la teologia antica, in sant’Ireneo, sant’Atanasio, nei Padri della Cappadocia, in san Cirillo di Alessandria, in san Massimo il Confessore. Tutta la storia del dogma cristologico è determinata da questa fondamentale concezione: l’Incarnazione del Logos intesa come Redenzione. Nell’Incarnazione la storia umana riceve il suo completamento. L’eterna volontà di Dio si realizza, “il mistero nascosto dell’eternità e sconosciuto agli Angeli”. I giorni dell’attesa sono passati. Colui che era promesso è venuto. E da questo momento, per usare la frase di san Paolo, la vita dell’uomo “è nascosta con il Cristo in Dio” (Colossesi 3, 3)…
L’Incarnazione del Logos fu un’assoluta manifestazione di Dio. E soprattutto fu una rivelazione della vita. Il Cristo è il Logos della Vita… “e la Vita si manifestò e noi l’abbiamo vista e ne testimoniamo ed annunciamo a voi la vita, la Vita eterna, che era con il Padre e che si manifestò a noi” (1 Giovanni 1, 1-2). L’Incarnazione è la rinascita dell’uomo, per così dire, la resurrezione della natura umana. Ma il punto culminante dell’Evangelo è la Croce, la morte del Logos incarnato. La vita è stata rivelata nella sua pienezza attraverso la morte. Questo è il mistero paradossale del Cristianesimo: la vita attraverso la morte, la vita dalla tomba ed oltre la tomba, il mistero della tomba apportatrice di vita. Noi siamo nati ad una vita reale ed eterna solo grazie alla nostra morte battesimale ed alla nostra sepoltura nel Cristo; noi siamo rigenerati con il Cristo nel fonte battesimale. Questa è la legge immutabile della vera vita. “Nessun seme rivive se prima non muore” (1 Corinti 15, 36).
“Grande è il mistero della fede: Dio s’è manifestato nella Carne” (1 Timoteo 3, 16). Ma Dio non si manifestò per ricreare il mondo improvvisamente grazie alla sua onnipotenza, o per illuminarlo e trasfigurarlo con l’immensa luce della sua gloria. Fu nell’estrema umiliazione che la rivelazione della divinità si realizzò. La volontà divina non distrugge la condizione originale della libertà umana, la libertà di disporre di se stessi, non distrugge né abolisce l’antica legge della libertà umana. In ciò si manifesta una certa autolimitazione o “kènosis” della potenza divina. E quel che più conta, una certa “kènosis” dell’amore divino stesso. Quest’ultimo, per così dire, restringe e limita se stesso nel rispettare la libertà della creatura. L’amore non impone la guarigione con la costrizione, come avrebbe potuto fare. Non c’era un’evidenza costrittiva in questa manifestazione di Dio. Non tutti riconobbero il Signore della gloria “sotto la forma del servo”, che egli deliberatamente assunse. E chi lo riconobbe non lo fece grazie all’intuito personale, ma grazie alla rivelazione del Padre (cfr. Matteo 16, 17). Il Logos incarnato apparve sulla terra come uomo tra gli uomini. Ciò significava assumere tutta la pienezza umana per redimere gli uomini, pienezza non solo della natura umana, ma anche di tutta la vita umana. L’Incarnazione doveva manifestarsi in tutta la pienezza della vita, nella pienezza dell’età dell’uomo, poiché tutta questa pienezza potesse essere santificata. Questo è uno degli aspetti del concetto della “ricapitolazione” di tutto in Cristo, che con tanta enfasi sant’Ireneo riprese da san Paolo. Era questa l’umiliazione del Logos (cfr. Filippesi 2, 7). Ma questa “kènosis” non era una riduzione della divinità, che nell’incarnazione sussiste immutata. Al contrario era un’elevazione dell’uomo, la deificazione della natura umana, la “thèosis”. Come afferma san Giovanni Damasceno, nell’Incarnazione “tre cose furono realizzate in una sola volta: l’assunzione, l’esistenza e la deificazione dell’umanità per mezzo del Logos”. Bisogna sottolineare che nell’Incarnazione il Logos assume l’originale natura umana, innocente e libera dal peccato originale, senza alcuna macchia. Questo fatto non viola la pienezza della natura umana né diminuisce la somiglianza del Salvatore nei confronti di noi peccatori. Infatti il peccato non è proprio della natura umana, ma è un prodotto parassitico ed anormale. Questo aspetto fu sottolineato da san Gregorio Nisseno e particolarmente da san Massimo il Confessore in relazione alla teoria della volontà come sede del peccato. Nell’Incarnazione il Logos assume la primitiva natura umana, creata “ad immagine di Dio”, per cui quest’ultima è ristabilita nell’uomo. Ciò non era ancora l’assunzione della sofferenza umana o dell’umanità sofferente. Era l’assunzione della vita umana, ma non ancora della morte. La libertà del Cristo dal peccato originale significa anche libertà dalla morte, che è il “compenso del peccato”. Il Cristo è libero dalla corruzione e dalla morte già dalla sua nascita. E, simile al primo Adamo anteriormente alla caduta egli può non morire affatto, sebbene naturalmente egli possa anche morire. Egli era libero dalla necessità della morte, poiché la sua umanità era pura ed innocente. Perciò la morte del Cristo era e non poteva non essere volontaria, non frutto della natura decaduta, ma risultato di una libera scelta ed accettazione.
Una distinzione deve essere fatta tra l’assunzione della natura umana da parte del Cristo ed il fatto che egli prese su di sé i nostri peccati. Il Cristo è “l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo” (Giovanni 1, 29). Ma egli non prende su di sé i peccati del mondo nell’Incarnazione. Prendere su di sé i peccati del mondo è un atto della volontà, non una necessità della natura. Il Salvatore prende su di sé i peccati del mondo per una libera scelta d’amore. Egli li porta in tale modo che ciò non diventa una sua colpa o viola la purezza della sua natura (…) l’assunzione dei peccati ha un valore di redenzione, in quanto è un libero atto di compassione e d’amore. Né si tratta solo di compassione. In questo mondo, che è in preda al peccato, anche la purezza stessa è sofferenza, è una fonte e causa di sofferenza. Perciò un cuore giusto soffre e si addolora per l’ingiustizia che patisce per opera della malvagità di questo mondo. La vita del Salvatore, come quella di un essere giusto e puro, come una vita pura e senza peccato, deve essere stata inevitabilmente su questa terra quella di uno che soffrì. Il bene è oppressivo per il mondo e questo mondo è oppressivo per il bene. Questo mondo si oppone al bene e non volge lo sguardo alla luce. Ed esso non accetta il Cristo e respinge sia lui che il Padre suo (Giovanni 15, 23 sg). Il Salvatore si sottopone all’ordine di questo mondo, sopporta, e l’opposizione di questo mondo è coperta da suo amore che perdona: “Essi non sanno quel che fanno” (Luca 23, 34). Tutta la vita di nostro Signore è una Croce. Ma la sofferenza non è ancora tutta la Croce. Quest’ultima è più che la semplice sofferenza di un giusto. Il sacrificio del Cristo non si esaurisce nella sua obbedienza, sopportazione, pazienza, compassione e perdono. L’unità dell’opera redentrice del Cristo non può essere suddivisa in parti. La vita terrena del Signore è un’unità organica e la sua opera redentrice non può essere connessa esclusivamente con un momento particolare della sua vita. Comunque il punto culminante della sua vita è la morte. Ed il Cristo stesso lo afferma nell’ora della morte: “Ma è proprio per quest’ora che sono venuto” (Giovanni 12, 27). La morte redentrice è lo scopo definitivo per l’Incarnazione.
Il mistero della Croce supera le nostre capacità intellettive. Questa “terribile visione” sembra estranea ed allarmante. Tutta la vita del Cristo fu un grande atto di pazienza, di grazia e di amore. Ed è tutta illuminata dallo splendore eterno della divinità, sebbene questo splendore sia invisibile nel mondo di carne e del peccato. Ma la salvezza si realizza completamente sul Golgotha, non sul Tabor (cfr. Luca 9, 31). Il Cristo venne non solo per insegnare con autorità e parlare al popolo in nome del Padre, non solo per compiere opere di grazia. Egli venne per soffrire per morire e risorgere. Egli stesso più che una volta lo dichiarò ai discepoli perplessi ed allarmati. Non solo preannunciò l’approssimarsi della passione e della morte, ma chiaramente affermò che egli doveva soffrire ed essere irriso. Egli esplicitamente disse che “doveva”, non semplicemente che “si apprestava a morire”. “E cominciò a spiegare loro che il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire molto. Gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti ed i maestri della legge lo condanneranno; egli sarà ucciso, ma dopo tre giorni risusciterà” (Marco 8, 31; Matteo 16, 21; Luca 9, 22; 24; 26). È necessario, non secondo la legge di questo mondo, in cui il bene e la verità sono perseguitati e respinti, non secondo la legge dell’odio e del male. La morte di nostro Signore era una decisione presa in piena libertà. Nessuno gli toglie la vita, ma egli stesso offre la sua anima con un supremo atto di volontà ed autorità. “Io ho l’autorità” (Giovanni 10, 18). Egli soffrì e non morì “non perché non potesse sfuggire alla sofferenza, ma perché scelse di soffrire”, come è detto nel Catechismo Russo. Scelse non semplicemente nel senso di una volontaria sofferenza e non resistenza, non semplicemente perché permise che la rabbia del peccato e dell’ingiustizia si sfogasse su di lui. Non solo permise, ma lo volle. Egli doveva morire secondo la legge della verità e dell’amore. In alcun modo la crocifissione fu un suicidio passivo o semplicemente un assassinio. Era un sacrificio ed un’oblazione. Era necessario che egli morisse, ma non secondo la necessità di questo mondo, bensì secondo la necessità del divino Amore. Il mistero della Croce comincia nell’eternità, nel santuario della santissima Trinità, ed è inaccessibile per le creature. Ed il mistero trascendente della sapienza e dell’amore di Dio si rivela e si compie nella storia. Perciò il Cristo è chiamato l’Agnello “che Dio aveva destinato a questo sacrificio già prima della creazione” (Pietro 1, 9) e “che è stato sgozzato dall’eternità” (Apocalisse 13, 8). La Croce di Gesù, frutto dell’ostilità dei Giudei e della violenza dei Gentili, è in realtà solo l’immagine terrena e l’ombra di questa Croce celeste di amore. Questa “necessità divina” della morte sulla Croce supera in realtà ogni capacità dell’intelletto umano. E la Chiesa non ha mai tentato una definizione razionale di questo supremo mistero. Formule scritturali sono apparse, ed ancora appaiono, le più adeguate. In ogni caso non lo saranno semplici categorie etiche. L’interpretazione morale, o ancor più quella legale o giuridica, non possono essere altro che antropomorfismo scolorito. Ciò è vero anche riguardo all’idea del sacrificio. Il sacrificio di Cristo non può essere considerato come una pura offerta o resa. Ciò non spiegherebbe la necessità della morte, poiché tutta la vita del Logos Incarnato era un continuo sacrificio. Com’è che la sua vita purissima era insufficiente per la vittoria sulla morte? Ed era la morte realmente una prospettiva terrificante per il Giusto, per il Logos Incarnato, tanto più che già precedentemente sapeva che sarebbe giunta la Resurrezione il terzo giorno? Ma anche i comuni martiri cristiani hanno accettato tutti i loro tormenti e sofferenze e la morte stessa con piena calma e gioia, come una corona ed un trionfo. Il capo dei martiri, il Protomartire Gesù Cristo, non era inferiore a loro. E per loro stesso “decreto divino”, per la “stessa necessità divina”, egli “doveva” non solo essere sottoposto all’esecuzione capitale ed ingiuriato e morire, ma anche risorgere il terzo giorno. Quale che sia la nostra interpretazione dell’agonia del Gethsemani, un punto è perfettamente chiaro: il Cristo non era una vittima passiva, ma il conquistatore anche nella sua estrema umiliazione. Egli sapeva che questa umiliazione non era semplicemente sofferenza o obbedienza, ma il vero sentiero della gloria, della vittoria suprema. Né la sola idea della giustizia divina, la “iustitia vindicativa” può rivelare il profondo significato del sacrificio della Croce. Il mistero di quest’ultima non può essere adeguatamente interpretato in termini di una transazione, di una ricompensa, di un riscatto. Se il valore della morte del Cristo fu infinitamente accresciuto dalla sua divina persona, lo stesso si applica anche a tutta la sua vita. Tutte le sue azioni hanno un valore infinito in quanto frutto del Logos di Dio incarnatosi. Ed esse coprono in maniera sovrabbondante sia gli errori che i difetti del genere umano decaduto. Infine, difficilmente ci potrebbe essere una giustizia retributiva nella passione e nella morte del Signore, quale poteva esserci anche nella morte di un qualsiasi giusto. Infatti non si trattava della sofferenza e della morte di un semplice uomo, sopportata con l’aiuto divino a causa della sua fede e pazienza. Questa morte era la sofferenza del Figlio di Dio stesso incarnatosi, la sofferenza di una natura umana senza macchia, già deificata per essere stata unita all’ipostasi del Logos. Né ciò si può spiegare con l’idea di una soddisfazione sostitutiva, la satisfactio vicaria degli scolastici. Non perché la sostituzione non sia possibile. In realtà il Cristo prese su di sé i peccati del mondo, ma Dio non desidera la sofferenza di alcuno, egli ne soffre. Come la pena di morte del Logos Incarnato, purissimo e senza macchia, poteva essere l’abolizione del peccato, se la morte stessa ne è il compenso e se essa esiste solo nel mondo sottoposto al peccato? (…). La Croce non è il simbolo della giustizia, ma dell’amore divino. San Gregorio Nazianzeno esprime con grande enfasi tutti i suoi dubbi a questo proposito nella sua celebre Orazione Pasquale.
“A che e perché questo sangue è stato versato per noi, il preziosissimo sangue di Dio, il Sommo Sacerdote e Vittima?… Noi eravamo schiavi del maligno, venduti al peccato ed abbiamo portato su noi stessi questo danno a causa della nostra animalità. Se il prezzo del riscatto fu dato a nessun altro che a colui di cui ci trovavamo in potere, mi chiedi a chi e perché questo prezzo è stato pagato. Se è stato versato al maligno, allora è veramente insultante! Il ladro riceve il prezzo del riscatto; non lo riceve solo da Dio, ma addirittura riceve Dio stesso. Per la sua tirannide egli riceve un così abbondante prezzo, che era in dovere di aver pietà di noi… Se è stato versato al Padre, in primo luogo, ci chiediamo in che modo. Non eravamo in suo potere?… Ed in secondo luogo per qual ragione? Per qual motivo il Sangue dell’Unigenito era gradito al Padre, il quale non accettò neppure il sacrificio d’Isacco, ma mutò l’offerta sostituendo la vittima razionale con un agnello?…”. Con tutte queste domande san Gregorio cerca di chiarire come sia inesplicabile la Croce in termini di giustizia vendicatrice e così conclude: “Da tutto ciò è evidente che il Padre accettò il sacrificio non perché egli lo richiedesse o ne avesse bisogno, ma per l’economia e perché l’uomo deve essere santificato dall’umanità di Dio”.
La Redenzione non è affatto il perdono dei peccati né la riconciliazione dell’uomo con Dio. Essa è l’abolizione completa del peccato, la liberazione dal peccato e dalla morte. E la Redenzione fu compiuta sulla Croce, con il sangue della sua Croce (Colossesi 1, 20; cfr. Atti 20, 28; Romani 5, 9; Efesini 1, 7; Colossesi 1, 14; Ebrei 9, 22; 1 Giovanni 1, 7; Apocalisse 1, 5-6; 5, 9). Non solo grazie alle sofferenze sulla Croce, ma precisamente con la morte in Croce. E la vittoria definitiva è opera non delle sofferenze o della pazienza, ma della morte e della resurrezione. Entriamo con ciò nella profondità ontologica dell’esistenza umana. La morte del Signore era la vittoria sulla morte non la remissione dei peccati, né semplicemente la giustificazione di un uomo, né la soddisfazione di una giustizia astratta. E la vera chiave del mistero può essere offerta unicamente da una coerente dottrina della morte umana.

G. Florovskij

Da “Creation and Redemption”, 1976, Nordland Publisking compagny, 95-104. trad. T. Ch.
In “Messaggero Ortodosso”, n. dicembre-gennaio Roma 1981-1982, 14-25.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, NATALE 2014, TEOLOGIA |on 16 décembre, 2014 |Pas de commentaires »
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