Archive pour mars, 2014

Moses before the Pharaoh, a 6th-century miniature from the Syriac Bible of Paris.

Moses before the Pharaoh, a 6th-century miniature from the Syriac Bible of Paris. dans immagini sacre SyriacBibleParisFolio8rrMosesBeforePharaoh

http://en.wikipedia.org/wiki/Moses

Publié dans:immagini sacre |on 31 mars, 2014 |Pas de commentaires »

LA FESTA DI SAN PIETRO E SAN PAOLO NELLA POESIA DI ROMANO IL MELODE

http://collegiogreco.blogspot.it/2013/06/la-festa-di-san-pietro-e-san-paolo.html

LA FESTA DI SAN PIETRO E SAN PAOLO NELLA POESIA DI ROMANO IL MELODE

NON VINCO CON LA FORZA MA CON LA DEBOLEZZA

L’ufficiatura bizantina per la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo porta due tropari al mattutino che fanno parte di un intero kontakion (poema liturgico) in 24 strofe di Romano il Melodo (VI secolo). In questo testo l’innografo ci presenta con delle belle immagini la figura dell’apostolo cristiano. Dei due tropari presenti nel mattutino poi uno si canta anche ogni giovedì della settimana, giorno in cui si commemorano in modo speciale gli apostoli: “Gli araldi sicuri, che fanno risuonare voci divine, i corifei tra i tuoi discepoli, Signore, tu li hai accolti a godere dei tuoi beni, nel riposo: perché le loro fatiche e la loro morte piú di ogni olocausto ti sono state accette, o tu che solo conosci i segreti del cuore”. Quest’ultima frase la troviamo a conclusione di ognuna delle 24 strofe del nostro poema.
Già dall’inizio del testo Romano presenta il gruppo dei Dodici come coloro che sono fedeli all’insegnamento di Cristo e che adempiono nelle loro vite quello che insegnano: “Così una volta anche i tuoi discepoli, dopo avere adempiuto innanzi tutto ai tuoi comandamenti, insegnavano quello che facevano compiendo ogni sforzo per rafforzare l’insegnamento col comportamento…”. Diverse sono le immagini adoperate dall’innografo per “dipingere” quasi un’icona dell’apostolo di Cristo: “Il gruppo di tutti gli apostoli riempì del suo profumo tutta la terra. Essi sono i tralci della vite che è Cristo, la piantagione del giardiniere celeste, pescatori prima di Cristo e dopo di lui. Essi che avevano consuetudine con l’acqua salata (del mare) ora proferiscono dolci parole (salmo 44,2)”.
È il Cristo risorto colui che dà forza e coraggio ai Dodici; ed è a partire dalla strofa 4 che prende la parola il Signore stesso, parlando ad ognuno degli apostoli, a cominciare con Pietro nelle strofe 5 e 6. Lo fa a partire dalla triplice negazione nella strofa 5, e dalla triplice confessione dell’amore nella strofa 6. In primo luogo il Signore stesso deve essere il modello per Pietro nel suo insegnamento e soprattutto nella sua compassione: “Andate dunque da tutti i popoli, gettate nella terra il seme del ravvedimento e irroratelo con l’ammaestramento. Nel modo di insegnare, o Pietro, guarda me. Pensando alla tua colpa, abbi compassione per tutti…”. La debolezza di Pietro di fronte alla donna che nella casa del gran sacerdote lo impreca (Mt 26,69), deve diventare anche per lui fonte di compassione; e qui Romano adopera immagini molto belle e toccanti sul necessario atteggiamento di compassione e di magnanimità: “…e a motivo di quella donna che ti fece vacillare non essere severo. Se l’orgoglio ti assale, ricorda il canto del gallo, ripensa ai torrenti di lacrime con cui ti lavai, io che solo conosco i segreti del cuore”. Notiamo il tema delle lacrime di pentimento come lavacro di purificazione. Questo tema, sempre collegato alla figura di Pietro, Romano il Melodo l’ha sviluppata anche in un altro suo kontakion sulle negazioni di Pietro: “È vinto il Misericordioso dalle lacrime di Pietro e a lui manda il perdono. Mentre parla al ladrone, è a Pietro che allude, là sulla croce: «Ladrone, amico mio, stà con me oggi, poiché Pietro mi ha abbandonato! Eppure a lui e a te io dischiudo la mia misericordia. Piangendo, o ladrone, mi dici: “Ricordati di me!”, e Pietro grida gemendo: “Non abbandonarmi!”».
Nella strofa 6 Romano contempla la triplice professione dell’amore di Pietro verso il Signore (Gv 21,15-17), che diventa amore anche verso coloro che il Signore ama: “Pietro, mi ami? Fa quel che dico: pascola il mio gregge ed ama quelli che io amo”. Come nella strofa precedente Pietro è spronato da Cristo stesso ad essere misericordioso: “Abbi compassione dei peccatori, memore della mia misericordia verso di te, poiché io ti ho accolto dopo che per tre volte tu mi avevi rinnegato”. E Romano poi riprende la figura del buon ladrone, presentato come custode del paradiso e modello anche per Pietro di peccatore perdonato dal Signore: “Tu hai il ladrone a rincuorarti, il custode del paradiso…”. Pietro e il ladrone infine diventano mediatori, “portinai” del ritorno di Adamo al paradiso da cui era stato espulso: “Attraverso voi Adamo ritorna a me dicendo: «Il Creatore ha posto per me il ladrone a guardia della porta e a guardia delle chiavi Cefa…»”.
Dalle strofe 7 alla 12 il Signore parla personalmente a diversi apostoli: Andrea, Giovanni, Giacomo, Filippo, Tommaso, Matteo; e fermandosi a costui, quasi un momento di stanchezza, prosegue nella strofa 13: “Una parola sola io pronuncio per tutti, per non affaticarmi a istruirvi uno per uno. Ai miei santi una volta per tutte io dico: «Non tormentatevi ora nel vostro cuore… Non ragionate come bambini, siate prudenti come i serpenti; nell’immagine del serpente io sono stato innalzato per voi. Non tralasciate la predicazione per le vostre stesse paure! Non voglio vincere con la forza: io vinco per mezzo dei deboli…»”. L’immagine del serpente innalzato nel deserto (Num 21,8) porta Romano all’immagine del Cristo innalzato sulla croce (Gv 3,14).
Soltanto verso la fine del testo, in un’unica strofa, Romano introduce la figura di Paolo, presentato come apostolo in sostituzione di Giuda, quasi come se Paolo stesso fosse il “ripago” della vendita di Giuda: “Aborrite la tristezza e la paura, che conducono molti alla morte, come Giuda. La disperazione intrecciò la corda per il traditore…; eppure il demonio fra poco dovrà ripagare Giuda con Paolo di Cilicia, l’ingannatore con l’uomo eccellente”.

P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco, Roma

LA POESIA DELL’ANTICO TESTAMENTO

http://www.messiev.altervista.org/poesiaanticotestamento.htm

(lascio al grafica così com’è senza « stringere » perché ho paura di alterare il testo)

LA POESIA DELL’ANTICO TESTAMENTO

La poesia ha qualcosa in più della prosa, e questo di più è che essa fa un’impressione su chi legge molto diverso da quello prodotto dalla struttura del discorso normale. Il di più della poesia è prodotto dalla dizione, dalla scelta e dall’accordo delle parole. La poesia, quindi, ha uno spirito interno oltre ad avere una forma esteriore. La poesia aiuta a staccarsi dalla mondanità e trasporta l’animo umano in una sfera superiore.
La poesia della Bibbia non si limita a quei libri che noi normalmente definiamo «libri poetici» – Giobbe, Salmi, il Cantico dei Cantici assieme alla sapienza in versi dei Proverbi e dell’Ecclesiaste. Infatti gran parte dei libri profetici consiste di oracoli in forma poetica, in particolar modo le Lamentazioni; e perfino neI libri storici qui e lì si incontrano passi più o meno lunghi in poesia. E’ detto a volte che questi passi sono desunti da collezioni poetiche quali il «Libro delle Guerre di YHWH» (Num.21:14) o il «libro del Giusto» (Gios.10:13; 2Sam.1:18). Circa il 60% dell’Antico Testamento è scritto in forma poetica.
Anche il Nuovo Testamento contiene in sé degli elementi poetici più di quanto si pensi. I cinque cantici inclusi nella storia della Natività del Vangelo di Luca sono ben noti. Sembra che anche Efes.5:14 sia un verso poetico. Infine anche l’ultimo libro del Nuovo Testamento è pieno di cantici.
Si può dire che i libri poetici e sapienziali rappresentino, all’interno delle Scritture ispirate da Dio, la voce degli uomini che esprimono verso di Lui i loro sentimenti e i loro pensieri. Ma, come noi diciamo: «Io desidero essere in comunione con Dio», il poeta canta: «Come la cerva anela ai rivi delle acque, così l’anima mia anela a te, o Dio» (Sal.42:1). Oggi un innamorato direbbe: «Vieni, andiamo a fare una passeggiata», ma osserviamo come questo stesso concetto è espresso nel Cantico dei Cantici (Cant.2:10-13). Naturalmente anche la tristezza, la rivolta e l’angoscia prendono una forma poetica, perdendo così, allo stesso tempo, una parte del loro potere deprimente.

Forme poetiche
La poesia può prendere molte forme, e le varie lingue utilizzano diverse forme. La poesia greca era dipendente dall’alternanza di sillabe brevi e lunghe. Simile ma leggermente diversa era la poesia latina, che dipendeva dall’enfasi all’interno delle parole. Naturalmente, la rima delle parole è una forma molto comune della poesia italiana, francese, inglese, tedesca e spagnola. La poesia anglo-sassone dipendeva dalla allitterazione (ripetizione di lettere e sillabe, uguali o foneticamente simili, di solito all’inizio di due o più parole successive. Anche certi tipi di poesia inglese e tedesca dipendono dalla relazione tra le sillabe accentate e non accentate. La poesia araba invece dipende dalla lunghezza delle sillabe. La forma comune tra tutte queste forme di poesia è la regolarità, e questa regolarità crea una aspettativa all’orecchio ed alla mente.
I due elementi caratteristici della poesia biblica sono il ritmo del pensiero ed il ritmo del suono. Conosciamo bene il ritmo musicale di buona parte della poesia europea, ma nella poesia dell’Ebraico biblico questo ritmo dipende quasi esclusivamente dalle sillabe accentate. Non si sa se il numero delle sillabe non accentate nel verso avesse qualche ruolo importante nell’antica poesia ebraica (come nel caso di qualche altra poesia semitica). Una certa cadenza si può spesso osservare nel verso poetico. Così nel Salmo 23 i primi versi presentano uno schema di 2+2, vale a dire che ogni mezzo verso è caratterizzato da due accenti. Talora si può anche trovare un gruppo di versi che mostrano uniformità anche nel numero delle sillabe non accentate che cadono tra quelle accentate. Il più delle volte riscontriamo tre accenti per verso, in accordo con altri tre accenti del verso seguente, appaiati a formare un distico. Ma questa forma può essere variata con un distico occasionale più lungo o più corto o da una terzina inserita nel medesimo passo; oppure il ritmo predominante può consistere in distici con un verso a tre accenti e uno a due accenti.
Il senso di appagamento, però, che la nostra poesia offre per mezzo della rima, cioè dell’accostamento fonetico delle parole, è nella poesia ebraica per lo più prodotto da un tipo di ritmo del tutto diverso; il ritmo del pensiero o del senso. Questo ritmo è generalmente noto come parallelismo e lo si trova anche nell’antica poesia Egiziana, Mesopotamica e Cananea. Questo vocabolo indica l’uso di bilanciare il proprio pensiero o la propria frase in modo di suddividerla approssimativamente in più parti con lo stesso numero di vocaboli o di idee corrispondenti. L’idea viene prima proposta e poi ripetuta per impedire la monotonia.
Il merito di aver fissato le caratteristiche della poesia ebraica spetta soprattutto a due inglesi: Robert Lowth, Professore di Poesia di Oxford ed in seguito vescovo di Londra, di cui le famose De Sacra Hebraeorum Praelectiones Academicae (Lezioni Accademiche sulla Sacra Poesia degli Ebrei) furono pubblicate in Latino nel 1753, ed uno studioso di Oxford, Gorge Buchanan Gray, Professore di Ebraico al Mansfield College, la cui opera sulle Forme della poesia Ebraica apparve nel 1905. Più recentemente H. Kosmala ha messo in rilievo l’importanza della sequenza e dell’equilibrio delle singole espressioni nel verso piuttosto che delle sillabe accentate, per la rima e la struttura della poesia ebraica (“Form and Structure in Ancient Hebrew Poetry”, Vetus Testamentum, XIV, 1964, pp.423 ss.).
A differenza della poesia, la prosa ebraica è un insieme di frasi coordinate da congiunzioni (la “waw consecutiva”).
Il parallelismo ebraico si può suddividere in sinonimico, sintetico e antitetico, ma vi sono anche altre varietà, che è meglio spiegare con degli esempi. Il parallelismo lascia al pensiero il tempo di agire sull’uditore e spesso offre anche la possibilità di presentare vari aspetti di una questione. Una tale struttura, basata sul senso, sopravvive alla traduzione in prosa in qualsiasi lingua senza nulla o poco perdere, a differenza della poesia basata su una metrica complessa o su un vocabolario speciale.
Dapprima abbiamo il completo parallelismo (Parallelismo sinonimico), il cui verso o distico consiste in due stinchi (membri), ognuno dei quali controbilancia esattamente l’altro. Esempio di tale distico:

Parallelismo sinonimico (ripetitivo)
Identico
Israele non ha conoscenza
e il mio popolo non ha intendimento

(Isaia 1:3)
in cui Israele controbilancia il mio popolo e non ha conoscenza controbilancia non ha intendimento. In altre parole: il 2° membro del verso ripete l’asserzione del 1° membro, ma usando parole diverse; questo rende la lingua ebraica particolarmente illustrativa.

All’Eterno appartiene la terra e tutto ciò che è in essa,
il mondo e i suoi abitanti
(Salmo 24:1)
Colui che siede nei cieli riderà,
il Signore si farà beffe di loro
(Salmo 2:4)
Quando ha detto una cosa, non la farà?
O quando ha dichiarato una cosa, non la compirà?
(Num.23:19)
Liberami, o Eterno, dagli uomini malvagi;
proteggimi dagli uomini violenti
(Salmo 140:1)

I due stichi sono esattamente sinonimi, dato che ognuno dice la stessa cosa con parole diverse.

Simile
Quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme
e tutti i figli di Dio mandavano gridi di gioia
(Giob.38:7)

Un giorno proferisce parole all’altro,
e una notte rivela conoscenza all’altra
(Salmo 19:2)
Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri
né le vostre vie sono le mie vie
(Is.55:8)

Altri esempi di parallelismo sinonimico: Num.21:28; 23:8; Os.5:14; Sal.38:2-4; 51:2,3,5,7,9,11; 103:1,3; Prov.1:20.

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Parallelismo antitetico Un’altra forma di parallelismo completo è nota come parallelismo antitetico (di contrapposizione), poiché uno stico viene contrapposto all’altro, cioè il 2° membro del verso è in contrasto con il 1° membro; c’è un contrasto tra due asserzioni, atto a confermare l’idea di base. E’ soprattutto nei Proverbi che viene largamente usato questo parallelismo.

La maledizione dell’Eterno è nella casa dell’empio,
ma egli benedice la dimora dei giusti
(Prov.3:33)
Il giusto ha cura della vita del suo bestiame,
ma le viscere degli empi sono crudeli
(Prov.12:10)
La giustizia innalza una nazione,
ma il peccato è la vergogna dei popoli
(Prov.14:34)
La risposta dolce / calma / la collera,
ma la parola pungente / eccita / l’ira
(Prov.15:1)
Il figlio saggio / allieta / il padre,
ma l’uomo stolto / disprezza / sua madre
(Prov.15:20)
I leoncelli soffrono penuria e fame,
ma quelli che cercano l’Eterno non mancano di alcun bene
(Salmo 34:10)

Vedi anche Sal.20:8; Prov.10:1-5,7,9,15-17; 12:4; 15:18,32; Mat.6:24; 8:20; Luca 16:13.

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Parallelismo sintetico o continuativo: il 2° membro del verso non solo completa il 1° membro, ma lo sviluppa aggiungendo un elemento nuovo. In altre parole, il pensiero espresso nella prima linea di un verso si sviluppa nei versi successivi, senza ripetizione o contrasto (cfr. Sal.37:5; Prov.15:7). Nel Sal.19:8-10, lo stesso pensiero è ripetuto sei volte con una idea nuova ad ogni riga. Ma non si deve credere che si tratti di una semplice ripetizione: ogni riga sottolinea sempre una progressione in rapporto alla precedente (ad esempio, Sal.72:1,2: re–figlio del re; giudizi–giustizia; il tuo popolo–i tuoi afflitti. Sal.37:1,2: malvagi–quelli che operano perversamente; affliggerti–portare invidia; falciati–appassiranno; fieno–erba verde.
Tipo completivo (è più un parallelismo di ritmo che di senso):

Ho insediato il mio re sopra Sion,
il mio santo monte
(Salmo 2:6)
(ebr.
wa’anî nasaktî malekî ?al¯tsiyyôn har¯qadešî)

Chi ha trovato moglie ha trovato una buona cosa
e ha ottenuto un favore dall’Eterno
(Prov.18:22)

Altri esempi: Sal.1:3; 19:8; 23:1;29:5; 95:3; 103:2.

Tipo comparativo
Come la cerva anela ai rivi delle acque,
così l’anima mia anela a te, o Dio
(Sal.42:1)
Meglio un piatto di verdura dove c’è amore,
che un bue ingrassato dove c’è odio
(Prov.15:17)

Tipo ragionativo

Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza,
per non diventare anche tu come lui.
(Prov.26:4)

Tipo intensificante (crescente):

Beato l’uomo che non cammina nel consiglio degli empi,
non si ferma nella via dei peccatori
e non si siede in compagnia degli schernitori
(Salmo 1:1)
La sapienza ha costruito la sua casa,
ha intagliato le sue sette colonne.
Ha ammazzato i suoi animali,
ha mescolato il suo vino
e ha imbandito la sua tavola
(Prov.9:1,2)

Gli esempi seguenti mostrano un parallelismo introverso e un parallelismo crescente. Vedi il Salmo 135.

A. Gli idoli (v.15)
B. Loro costruzione (v.15)
C. Bocca senza parole (singolare) (v.16)
D. Occhi senza vista (plurale) (v.17)
D. Orecchie senza udito (plurale) (v.17)
C. Bocca senza fiato (singolare) (v.17)
B. I loro fabbricanti (v.18)
A. Gli idolatri (v.18).

Nell’esempio seguente non solo è fornita l’illustrazione di un parallelismo crescente, ma questo parallelismo mostra come il Salmi 135 e 136 siano strettamente legati fra loro nel pensiero.

Salmo 135
A. Esortazione alla preghiera (vv.1-5)
B. Miracoli della creazione (vv. 6,7)
C. Liberazione dall’Egitto (vv.8,9)
D. Liberazione nel viaggio (vv.12,13)
E. Dono della Terra Promessa (v.14)
F. Benevolenza verso il popolo (v.14)
G. Falsi dei (vv.15-18)
H. Lode (vv.19-21)
Salmo 136
A. Esortazione alla preghiera (vv.1-3)
B. Miracoli della creazione (vv.4-9)
C. Liberazione dall’Egitto (vv.10-15)
D. Liberazione nel viaggio (vv.16-20)
E. Dono della terra Promessa (vv.21,22)
F. Benevolenza verso il popolo di Dio (vv.23,24)
G. Il vero Dio (v.25)
H. Lode (v.26)

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Parallelismo climatico (dal greco «klìma», “zona, inclinazione, direzione, punto cardinale”)

Date all’Eterno, o figli dei potenti,
date all’Eterno gloria e forza
(Salmo 29:1 – vedi anche vv.2,3-5,7,8)

Il 2° membro sviluppa il 1° membro (che è in se stesso incompleto), prendendo spunto da parole chiave lì contenute, e ne sviluppa il pensiero. Questo tipo di parallelismo viene chiamato pure «sistema a cardine» o «girevole», poiché le asserzioni «girano» intorno a un certo concetto. Altri esempi: Sal.92:9; 118:6,7; 118:10,11; 118:15,16; Cant.7:1; Mat.6:34.

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Parallelismo emblematico o simbolico Vi è poi un altro tipo di parallelismo noto come parallelismo «emblematico» o «parabolico», dove compare prima l’immagine e poi l’applicazione, ma senza alcuna parola di contrasto, semplicemente accostando le due linee l’una all’altra. In tal caso la prima linea serve da simbolo per illustrare la seconda.

Come un padre è pietoso verso i suoi figli,
così è pietoso l’Eterno verso quelli che lo temono.
(Salmo 103:13 – vedi )
Una buona notizia da paese lontano
è come acqua fresca a una persona stanca e assetata
(Prov.25:25)
Come un anello d’oro nel grugno di un porco,
così è una bella donna senza senno
(Prov.11:22)
Il ferro affila il ferro,
così l’uomo affila il volto del suo compagno
(Prov.27:17)

Vedi anche Sal.42:1; 103:11.
E’ opportuno qui notare che il genio della poesia ebraica sta nell’impiego di similitudini vivaci e concrete o metafore che (come le parabole, ma più brevemente) comunicano la verità all’ascoltatore con penetrante efficacia.

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Parallelismo per gradazione ascendente: la seconda riga esprime un’idea nuova, più o meno strettamente imparentata con la prima:

Laggiù i malvagi smettono di tormentare,
laggiù riposano gli stanchi
(Giob.3:17)

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A volte il parallelismo può essere più elaborato e prendere una forma introversa o chiastica (dalla lettera greca c «chi». Il parallelismo chiastico è un sottotipo di parallelismo sinonimico, che invece di presentare le idee nel medesimo ordine (a-b, a1-b1) le presenta in ordine opposto (a-b, b1-a1). Si può citare come esempio Salmo 30:8-10:

Io ho gridato a te, o Eterno, ho supplicando l’Eterno, dicendo:
Che utilità avrai dal mio sangue, se scendo nella fossa?
Potrà forse la polvere celebrarti? Potrà essa proclamare la tua verità?
Ascolta, o Eterno, e abbi pietà di me; o Eterno, sii tu il mio aiuto.

Qui lo stico 1 è parallelo allo stico 4, e lo stico 2 è parallelo allo stico 3, mentre lo schema delle sillabe accentate è 5+4:4+5. Un altro chiasmo lo troviamo in Sal.83:1:
O Dio,
non restare in silenzio!
Non tacere, non rimanere inerte,
o Dio!

Un altro esempio lo troviamo nel Salmo 51:1 e Mat.7:6.

Unger descrive un tipo di parallelismo a gradini nel quale la seconda linea riprende e conduce più avanti una parte della prima linea (come ad esempio nel Salmo 139:5-7). Ma questo parallelismo è molto simile a quello climatico (climax indica appunto apice, vertice, sommità di una scala a gradini).

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Finora abbiamo citato esempi di parallelismo completo, in cui ogni unità di pensiero in uno stico ha la sua controparte nell’altro stico e gli stichi paralleli hanno lo stesso numero di sillabe accentate. Dobbiamo però tener conto anche del parallelismo incompleto, in cui, ad esempio, una delle unità di pensiero non ha controparte nell’altro stico. Si prenda ad esempio Salmo 1:5:

Perciò gli empi non reggeranno nel giudizio,
né i peccatori nell’assemblea dei giusti.

Il verbo «non reggeranno» nel primo stico non ha controparte nel secondo stico (il quale non contiene verbo). Tuttavia il numero delle sillabe accentate rimane pari in quanto «giudizio» (con una sillaba accentata) nel primo stico è controbilanciata da «assemblea dei giusti» (con due sillabe accentate) nel secondo stico. Nello stesso modo in Isaia 1:3a:

Il bue riconosce il suo proprietario
e l’asino la mangiatoia del suo padrone

non vi è nulla nello stico 2 che corrisponda a «riconosce» dello stico 1, ma in compenso vi sono due sillabe accentate, «la mangiatoia del suo padrone», nel secondo, mentre nel primo ve n’è solo una, «il suo proprietario». Questo fenomeno, chiamato da Gray «parallelismo incompleto con compenso», è molto comune nella poesia biblica. A volte il parallelismo è così incompleto che non resta altro che il compenso (di una nuova idea), ed allora abbiamo ciò che Lowth chiama «parallelismo sintetico» e Gray, meno esattamente, «parallelismo formale». A dire il vero, non si tratta affatto di parallelismo; vi è solo il ritmo musicale, ma non il ritmo del pensiero. Un esempio ne è il Salmo 27:6a:

E ora il mio capo s’innalzerà
sui miei nemici che mi accerchiano

Abbiamo qui tre sillabe accentate in ciascun stico, ma nessun parallelismo quanto al senso. Il parallelismo si può trovare soltanto in uno o due elementi:

I giorni / dell’uomo / sono come l’erba;
egli fiorisce / come / il fiore dei campi
(Sal.103:15)

Solo il terzo elemento della prima riga e il secondo della seconda sono in corrispondenza, creando una simmetria che attira l’attenzione sugli elementi diversi.
Altre volte quando il parallelismo è incompleto non vi è compenso, e così abbiamo stichi di grandezza disuguale, che possono essere ordinati secondo schemi regolati. Uno di tali schemi corrisponde più o meno al nostro metro, in cui abbiamo alternativamente degli stichi di quattro e tre battute. Un buon esempio di questo schema 4+3 nell’Antico Testamento è Ger.4:23-26:

Guardai la terra, ed ecco era senza forma e vuota;
i cieli, ed erano senza luce.
Guardai i monti, ed ecco tremavano,
e tutti i colli ondeggiavano.
Guardai, ed ecco non c’era uomo
e tutti gli uccelli del cielo erano fuggiti
Guardai, ed ecco la terra fertile era un deserto,
e tutte le sue città erano scrollate davanti all’Eterno

Tuttavia una forma più comune di «parallelismo incompleto senza compenso» è lo schema 3+2, o metro anapestico (l’anapesto è un verso che ha i seguenti piedi o sillabe: breve-breve-lungo). Questo schema è stato chiamato qinah o «metro del lamento» da quando Karl Budde lo individò nel libro delle Lamentazioni.

Come mai / siede / solitaria
la città / gremita di popolo?
(Lam.1:1)

Io sono l’uomo / che ha visto / l’afflizione
sotto la verga / del suo furore
(Lam.3:1)

Ma questo ritmo può esprimere anche la gioia:

L’Eterno / è la mia luce / e la mia salvezza
di chi / temerò?
L’Eterno / è la roccaforte / della mia vita
di chi / avrò paura?

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Una forma di parallelismo che non abbiamo ancora menzionato è quello chiamato parallelismo graduale o crescente; esso si trova «dove un membro (o parte di un membro) in un verso è ripetuto nel secondo e diviene a sua volta il punto di partenza per un ulteriore passo avanti» (T. H. Robinson, The Poetry of the Old Testament, 1947, p. 23). Un buon esempio lo troviamo nel Salmo 29, dove il crescendo è prodotto dall’espressione «Date all’Eterno»; un altro esempio è costituito dal Salmo 92:9:

Poiché ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
poiché ecco, i tuoi nemici periranno
e tutti gli operatori d’iniquità saranno dispersi

il quale è particolarmente interessante non solo come esempio di parallelismo graduale, ma anche perché lo schema prende la forma di un tristico e non di un distico. Lo schema ritmico è 3:3:3. Troviamo un altro tristico nel Salmo 24:7-10:

O porte, alzate i vostri capi;
e voi, porte eterne, alzatevi,
e il Re di gloria entrerà

Nel passo completo abbiamo qui una serie di quattro tristici che formano due brevi strofe [Una strofa è l’insieme di più versi connessi tra loro].

Un altro esempio (Sal.93:3):

I fiumi hanno elevato, o Eterno,
i fiumi hanno elevato la loro voce;
i fiumi hanno elevato le loro onde fragorose

La presenza di strofe nella poesia biblica è stata molto discussa e certamente un ordine strofico può essere qui e lì individuato, ma sicuramente non è un elemento essenziale. Un ritornello più volte ripetuto costituisce una prova dell’esistenza di un ordine strofico. Troviamo un tale ritornello nel Salmi 42 e 43 (che probabilmente formavano un solo Salmo; cfr. 42:5,11; 43:5), che mostra che le strofe terminano rispettivamente ai versetti 5 e 11 del Salmo 42 ed al versetto 5 del Salmo 43. Un altro esempio è l’oracolo in Isaia 9:8-10:4 (con Isaia 5:25 ss.), con il suo ritornello: «Malgrado tutto ciò la sua ira non si calma e la sua mano rimane distesa». Il Salmo 46 si compone di tre gruppi di quattro versi ciascuno; ad ogni gruppo segue una pausa (Sela) e ciascuno dei due ultimi termina con un ritornello (vedi vv.7,11).
Troviamo l’ordine strofico anche negli schemi acrostici che a volte ricorrono nella poesia biblica; così in modo puramente formale il Salmo 119 consiste inevitabilmente di ventidue strofe di otto distici ciascuno. Il libro delle Lamentazioni è composto in maniera analoga.
La poesia usa anche le seguenti figure letterarie: la parabola (similitudine), la metafora (allegoria), il simbolo e l’iperbole. La poesia fa anche uso di mezzi stilistico-letterari quali l’enigma, la massima numerica (cfr. Prov.30:15,16; 30:18,19; 30:29-31) e l’acrostico alfabetico; quando si tratta di quest’ultimo, ogni verso o gruppo di versi (strofa) comincia con un’altra lettera dell’alfabeto ebraico. I seguenti testi dell’A.T. formano un acrostico alfabetico: Salmi 9; 10; 25; 34; 37; 111; 112; 119; 145; Prov.31:10-31; Nahum 1:2-8; Lamentazioni 1-4.
I parallelismi non si limitano ai testi poetici della Bibbia. Esempi: Mat.5:39-41; 6:24; 7:7,8; Mar.2:21,22; Luca 16:10.

Parallelismi extra-biblici

Molti critici del secolo diciannovesimo supposero che gli Ebrei siano stati incapaci di coltivare la poesia innica, lirica e didattica sino ad un periodo assai tardivo, quando stettero sotto l’influsso di popoli circonvicini più evoluti. I rappresentanti più radicali non solo negarono l’autenticità davidica dei Salmi, ma giunsero persino a negarne la composizione prima del periodo esilico. Essi non hanno esitato ad assegnare un buon numero di Salmi al periodo dei Maccabei (circa 160 a.C.). Lo stesso si dica per tutti gli altri libri poetici: Giobbe, Proverbi, Ecclesiaste e Cantico dei Cantici che essi ritennero di composizione post-esilica.
Nel secolo ventesimo, la scoperta di un numero sempre più crescente di inni accadici o egizi ha chiaramente dimostrato che questo genere letterario era in auge presso i popoli confinanti degli Ebrei già dal secondo millennio a.C. Ancora più recentemente si è aggiunta la poesia ugaritica composta in una lingua Cananea assai affine a quella ebraica e che data del quindicesimo secolo a.C. Perciò anche i critici concedono ora la possibilità che gli elementi poetici più antichi possano risalire al tempo di Davide e forse ancora prima. Il cumulo sempre più crescente di poesia didattica e religiosa da parte di ogni popolo con cui Israele ebbe contatto prima dell’esilio rende impossibile la tesi della composizione postesilica di questi libri, a meno di non ritenere gli Ebrei dei ritardati culturali di fronte ai loro vicini.
Il Sal.92:9 si rassomiglia molto quanto alla forma ad un passo dell’epica di Baal scoperta tra le tavolette di Ras Shamra (C. H. Gordon, Ugaritic Handbook, Testo 68, linea 8 ss.):

Ecco i tuoi nemici, o Baal,
ecco i tuoi nemici ucciderai,
ecco distruggerai i tuoi nemici

La decifrazione e lo studio dei documenti di Ras Shamra (che risalgono al 1400 a.C.) hanno gettato molta luce sulle circostanze dell’antica poesia semitica. Tra l’altro questi documenti hanno completamente confutato la teoria di Gunkel, secondo cui i passi poetici più lunghi della Bibbia sarebbero relativamente recenti, poiché (com’egli pensava) venne prima il periodo delle ballate che fu notevolmente lungo. L’epica di Baal scoperta a Ras Shamra, ad esempio, non aveva meno di 5000 versi. Generalmente si è d’accordo nell’affermare che il cantico di Debora (Giudici 5) è contemporaneo agli eventi ch’esso celebra, ma ora, alla luce delle scoperte di Ras Shamra, chiunque è onesto deve ammettere che anche altri passi poetici che la Bibbia fa risalire a tempi molto antichi, appartengono al periodo in cui la Bibbia li colloca.
Tra gli altri punti di contatto tra la poesia biblica e quella extra-biblica dovremmo notare in particolare le numerose rassomiglianze tra il Salmo 104 e l’Inno di Aton del re egiziano Akhnaton (circa 1377-1360 a.C.). Però assieme a queste ed altre somiglianze dobbiamo notare anche le divergenze; il marchio del monoteismo di Israele conferisce una fondamentale unicità religiosa a tutta la poesia (come a tutta la prosa) dell’Antico Testamento.

Testo ed esegesi

Molti studiosi del secolo diciannovesimo e dei primordi del secolo ventesimo hanno supposto che nella loro forma originaria ciascun testo poetico deve aver seguito determinati schemi sistematici e documentabili. Avendo stabilito lo schema dominante per ciascun brano, i teorici della metrica giunsero ad emendare il testo delle parti poetiche dell’Antico Testamento ogni qualvolta esso non si accordava con il ritmo da loro scoperto. Questo è un criterio per la ricostruzione del testo originale che dovrebbe essere usato con grande cautela. Si può tuttavia concedere che dove abbiamo un acrostico alfabetico quasi completo, possiamo ragionevolmente supporre che esso originariamente era completo, ma ciò non garantisce che un emendamento particolare con lo scopo di ricostruire l’intero acrostico sia quello giusto. Quanto a ricostruire il testo originale tenendo conto del numero delle sillabe accentate negli stichi di un passo poetico, abbiamo dato sopra un esempio di questo procedimento citando Ger.4:23-26. Le ultime parole del passo, così come le abbiamo nel testo («a motivo dell’ardente sua ira») sono state omesse dalla nostra citazione perché esse non quadrano con lo schema metrico 4+3 e sono state considerate come se fossero un’aggiunta in prosa.
Con la scoperta e la valutazione delle tavolette di Ras Shamra, si è mostrato l’inattendibilità della metrica. G. D. Young nel suo articolo Semitic Metrics and the Ugaritic Evidence (in «The Bible Today» Febbraio 1949, pp. 150-155), giunge alla conclusione seguente: «In nessuno di questi aspetti si può trovare uno schema definito nella poesia ugaritica. La ripetizione richiesta per l’espressione poetica non sta né negli accenti né nelle sillabe, ma semplicemente in una assai bella ripetizione di idee in forma parallela… L’idea che la metrica si trovi in questa poesia, è secondo il nostro pensiero una illusione sorta dall’esistenza del parallelismo e della morfologia semitica. Una poesia il cui punto fondamentale è il parallelismo deve necessariamente essere accompagnata da linee che approssimativamente hanno una lunghezza simile; una poesia scritta in una lingua nella quale ogni espressione può essere manifestata in due o tre parole, deve naturalmente dare l’impressione di linee la cui lunghezza metrica è uniforme… I fatti però mostrano la completa assenza di schemi ad ogni livello sopra notato». L’assenza fondamentale di ogni metrica era già stata riconosciuta molto tempo fa da Franz Delitsch nel suo Commentary on Psalms, nel quale così scriveva: «L’antica poesia ebraica non presenta alcun ritmo né alcuna metrica (unità ritmica); fu solo a partire dal settimo secolo dopo Cristo che la poesia ebraica adottò l’uno e l’altro» (p. 28). Un forte senso del ritmo fa sì che la poesia produca versi contenenti lo stesso numero di parole o almeno d’accenti tonici. Il verso ed il senso terminano insieme, tranne casi eccezionali.
Possiamo concludere che la poesia ebraica è molto diversa dalla nostra. Essa non segue le basi del ritmo o la metrica. Dipende, invece, dal parallelismo – dove il secondo verso è l’eco del primo – per la sua forza comunicativa. Il parallelismo della poesia ebraica è anche evidente quando la poesia è tradotta in un’altra lingua. In tal modo possiamo leggere e capire l’enfasi dell’autore.
D’altra parte la conoscenza delle forme fondamentali della poesia biblica, particolarmente del parallelismo, contribuisce notevolmente all’esatta interpretazione del testo. Ad esempio, eviteremo di pensare che lo scrittore stia facendo due asserzioni diverse, mentre in realtà egli dice la stessa cosa due volte. Inoltre, quando una linea di un verso è difficile da comprendere, l’altra linea aiuterà a chiarirla per mezzo del parallelismo del pensiero. Anche quando il significato di un verso è chiaro, la forza del parallelismo poetico comunicherà il messaggio delle Scritture in un modo dinamico.

Per esempio:
Ada / e Tsillah / ascoltate / la mia voce;
mogli / di Lamek, / fate attenzione / alle mie parole!
ho ucciso un uomo perché mi ha ferito,
e un giovane per avermi causato una lividura
(Gen.4:23)

Lamek non ha ucciso due persone, ma una sola (cfr. il metro 4:4 nella prima parte).
La conoscenza di questo parallelismo (sinonimico) permette di afferrare il significato di certi passi ambigui, per esempio Sal.22:20
Libera la mia vita dalla spada,
l’unica mia dalla zampa del cane

L’unica è la vita del salmista, la sua unica vita.
Questo ha permesso di comprendere il senso di certe parole ebraiche che compaiono solo una volta nella Bibbia. Allo stesso modo, il significato di un tema può essere meglio definito se si considera ciò con cui l’autore lo sostituisce nelle righe parallele. Così, in Prov.1:20-33, la Sapienza che parla è messa in parallelo alla conoscenza e al timore del Signore (v.29); la sapienza di cui si parla non ha dunque nulla in comune con la sapienza greca; è la conoscenza di Dio e delle Sue leggi che conducono ad una vita di ubbidienza.

Jesus Healing the Blind, El Greco

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Publié dans:immagini sacre |on 28 mars, 2014 |Pas de commentaires »

DAVIDE – LECTIO (1SAM 16,1-13)

http://www.novena.it/Lectio_divina_personaggi_biblici/lectio_davide.htm

DAVIDE

LECTIO

(1SAM 16,1-13)

16, [1] Il Signore disse a Samuele: « Fino a quando piangerai su Saul, mentre io l’ho rigettato perché non regni su Israele? Riempi di olio il tuo corno e parti. Ti ordino di andare da Iesse il Betlemmita, perché tra i suoi figli mi sono scelto un re ». [2] Samuele rispose: « Come posso andare? Saul lo verrà a sapere e mi ucciderà ». Il Signore soggiunse: « Prenderai con te una giovenca e dirai: Sono venuto per sacrificare al Signore. [3] Inviterai quindi Iesse al sacrificio. Allora io ti indicherò quello che dovrai fare e tu ungerai colui che io ti dirò ». [4] Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato e venne a Betlemme; gli anziani della città gli vennero incontro trepidanti e gli chiesero: « E’ di buon augurio la tua venuta? ». [5] Rispose: « E’ di buon augurio. Sono venuto per sacrificare al Signore. Provvedete a purificarvi, poi venite con me al sacrificio ». Fece purificare anche Iesse e i suoi figli e li invitò al sacrificio. [6] Quando furono entrati, egli osservò Eliab e chiese: « E’ forse davanti al Signore il suo consacrato? ». [7] Il Signore rispose a Samuele: « Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. Io l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore ». [8] Iesse fece allora venire Abìnadab e lo presentò a Samuele, ma questi disse: « Nemmeno su costui cade la scelta del Signore ». [9] Iesse fece passare Samma e quegli disse: « Nemmeno su costui cade la scelta del Signore ». [10] Iesse presentò a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripetè a Iesse: « Il Signore non ha scelto nessuno di questi ». [11] Samuele chiese a Iesse: « Sono qui tutti i giovani? ». Rispose Iesse: « Rimane ancora il più piccolo che ora sta a pascolare il gregge ». Samuele ordinò a Iesse: « Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui ». [12] Quegli mandò a chiamarlo e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto. Disse il Signore: « Alzati e ungilo: è lui! ». [13] Samuele prese il corno dell’olio e lo consacrò con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore si posò su Davide da quel giorno in poi. Samuele poi si alzò e tornò a Rama.
In questi versetti viene narrata la consacrazione di Davide, figlio di Iesse, a re di Israele. Guardando il contesto di questo brano, sull’esempio del profeta Samuele, chiediamoci: perché un re, quando abbiamo Dio come re? (cfr. 1Sam 8,6).
La risposta l’abbiamo nella promessa che Dio fece ad Abramo di renderlo “nazioni”, di far nascere da lui dei « re » (Gen 17,6). Come pure, di avere un re come tutti gli altri popoli (1Sam 8,5); quindi una richiesta che sembra rientrare nei diritti civili. Dio risponde autorizzando il profeta ad esaudire la richiesta (1Sam 8,7-9) e qui su indicazione del Signore, Samuele unge re Saul “capo sopra Israele”, col compito specifico di liberare il popolo di Dio dalle mani del nemico (1Sam 10,1). In seguito alla infedeltà all’Alleanza, Dio ordina al profeta Samuele di ungere segretamente Davide e con questa elezione, inizia un fondamento particolare della storia della Salvezza nel Libro di Samuele.
La vocazione di Davide ha elementi comuni alla vocazione di Giosuè (cfr. Nm 27,18-20). Ma più di vocazione il termine esatto in questo caso è «elezione divina», manifestata a Davide per mezzo di Samuele. Per capire l’elezione divina abbiamo dei verbi: provvedere (ra’â) (v.1b) e contenuta esplicitamente nel verbo scegliere (bahar) (vv. 8-10).
Il primo verbo (ra’â) indica l’azione di Dio, che guarda quasi per cercare l’eletto e, individuandolo, lo riserva per sé (cfr. v. 1b).
Il secondo verbo (bahar) è un termine tecnico che nella Bibbia vuole indicare l’elezione divina del re, prima ancora di quella del popolo.C’è qualcosa di particolare che avviene nella scelta, una prassi che Dio segue costantemente nella storia della salvezza, in modo che «Nessuno abbia a gloriarsi davanti a lui» (cfr 1Cor 1,29): la linea di benedizione non passa mai attraverso la primogenitura, basta pensare Giacobbe preferito a Esaù (Gen 27), Efraim a Manasse (Gen 48,14-19), Giuda a Ruben (Gen 49,8-12). Così avviene anche nella famiglia di Iesse: Davide preferito a Eliab. Dio affida il compito di operare la salvezza a persone meno qualificate sul piano umano (cfr. Gdc 6,11) perché la bontà di Dio si manifesti chiaramente. per questo sceglie Davide, persona non di grande considerazione anche davanti alla sua famiglia, «Per confondere i forti e ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-29).
La vocazione di Davide è anche una consacrazione regale, un re-pastore capace di governare il suo popolo con saggezza e giustizia (cfr. Sal 78,70-72). Davide è l’unto del Signore, un’espressione che indica la stretta relazione che c’è tra Dio e il suo re. Entrato in casa di Iesse, Samuele osservando i figli e, guardando Eliab, chiede a Dio: «È forse davanti al Signore il suo consacrato?» (v. 6).
Credo che questa sia una domanda che ciascuno deve farsi dinanzi a Dio: chiedere se siamo chiamati da Lui, se siamo i suoi consacrati, se siamo i suoi prescelti.
Per capire, orientiamo la nostra riflessione sulla persona di Davide su tre piste:
1. Davide è un pastore. Pensare Davide pastore ci riporta ai suoi antenati pastori, alla fede e quindi, ad Abramo, padre nella fede. Dire Davide che è un pastore ci richiama alla profezia di cui uno, una volta investito, verrà chiamato nuovo pastore del popolo. È da notare che Davide regnerà per quarant’anni (cfr. 2Sam 5,4), un numero che ritorna con frequenza nella Bibbia per esprimere l’idea della perfezione, che solo in Dio ha il suo compimento.Abbiamo allora un rimando al vero pastore: «Io sono il vero pastore. Il vero pastore dà la sua vita per le sue pecore… Ed ho ancora altre pecore, e dovrò pascerle; vi sarà un solo gregge ed un solo pastore» (Gv 10, 11-16). L’evangelista Matteo del vero pastore dice che è anche «Figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1)
2. Davide è preso di mezzo al gregge.«Così dice il Signore: “Sono io che ti ho preso dai pascoli, mentre andavi dietro alle pecore, perché tu fossi capo del mio popolo Israele”» (2Sam 7,8). Questo ci mostra un modo chiaro e costante dell’agire di Dio; la chiamata di Dio si manifesta quando ci troviamo nel pieno della vita, nel pieno dei nostri impegni. Possiamo confrontare a riguardo, la chiamata di Gedeone, contadino astuto, la chiamata di Sansone, avventuriero dal cuore tenero etc.Dio rispettando la persona con il suo carattere, il suo passato, ma anche la professione e le più piccole aspirazioni di ciascuno, inserisce la chiamata all’interno del lavoro: Davide da pastore di pecore sarà pastore di uomini, così come Pietro da pescatore di pesci a pescatori di uomini.
3. Davide… l’ultimo, il più piccolo.Dio, quando chiama non guarda chi siamo, a quale stirpe apparteniamo, se della famiglia siamo i più grandi, cioé coloro ai quali è riservato un posto particolare. Dio passa davanti a questi e va oltre e sceglie l’ultimo, il più piccolo che sta con le pecore, colui che è indifeso e inesperto.In questi tre punti notiamo subito la “stranezza” di Dio, che agisce in un modo che contrasta con il comune agire umano.Infatti, quando noi agiamo e scegliamo siamo mossi, cioé spinti e attratti, dal valore che cogliamo riflesso nell’altro: la sua virtù, la sua forza, il suo coraggio, la sua intelligenza, la sua maestria o la sua saggezza.
Non è così che Dio rivela il segreto del suo agire: egli invita il suo profeta a non guardare tutto questo (cfr. v. 7). Ciò che conta per Dio non è quanto appare e, apparendo, si offre allo sguardo e al giudizio altrui, ma è l’altro nella sua nuda alterità sulla quale veglia il suo amore.L’insegnamento che otteniamo da questa elezione divina, non è che Dio abbia delle preferenze, quindi escludendo alcuni e accogliendo altri, ma al contrario, egli essendo libertà d’amore si china gratuitamente su tutti dicendo: «ti amo».
La grandezza di ogni persona, per la Bibbia, è nell’essere «tu» che Dio istituisce con il suo Tu e alla cui libertà di risposta egli affida il suo amore che non resta sterile, ma è sempre efficace: «Come, infatti, la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).
In questa piena libertà, anche l’elezione di Davide si trasforma in amore pur se nel secondo Libro di Samuele, quest’uomo sbaglia, si pente, ricomincia. In tutto questo noi scopriamo dentro di noi l’amore che ci guida nelle strade della vita, il volto di Dio manifestato in Cristo Gesù, il nostro volto capace di amare.

interrogarsi
1. L’uomo biblico è costitutivamente uomo responsoriale. Come ti poni davanti al Tu divino che ti chiama ogni giorno a prendere una decisione di fronte a Lui?
2. Hai paura di non essere amato, di essere rifiutato, scartato perché indifeso, inesperto?
3. Davide è stato scelto non per sé, ma per l’altro. Anche tu ti senti chiamato per l’altro?

preghiera
Indicami, Signore, la via dei tuoi decreti e la seguirò sino alla fine.Dammi intelligenza, perché io osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore.Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi, perché in esso è la mia gioia.Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti e non verso la sete del guadagno.Distogli i miei occhi dalle cose vane, fammi vivere sulla tua via.Allontana l’insulto che mi sgomenta, poiché i tuoi giudizi sono buoni.Ecco, desidero i tuoi comandamenti;per la tua giustizia fammi vivere (Sal 119,33-37.39-40).

actio
Prova a portare nella vita di ogni giorno queste parole S. Gregorio di Nazianzo: «Scruta seriamente te stessa, il tuo essere, il tuo destino; donde vieni e dove dovrai posarti; cerca di conoscere se è vita quella che vivi o se c’è qualcosa di più».

IL CIECO NATO – (EFREM, DIATESSARON, 16, 28-32)

http://www.ildialogo.org/esegesi/esegesi10032002.htm

TESTI PATRISTICI

IL CIECO NATO

(EFREM, DIATESSARON, 16, 28-32)

E perché essi avevano bestemmiato a proposito delle sue parole: « Prima che Abramo fosse, io ero » (Gv 8,58), Gesù andò verso l’incontro con un uomo, cieco fin dalla nascita: « E i suoi discepoli lo interrogarono: Chi ha peccato, lui o i suoi genitori? Egli disse loro: Né lui, né i suoi genitori, ma è perché Dio sia glorificato. E’ necessario che io compia le opere di colui che mi ha mandato, finché è giorno » (Gv 9,2-4), fintanto che sono con voi. « Sopraggiunge la notte » (Gv 9,4), e il Figlio sarà esaltato, e voi che siete la luce del mondo, scomparirete e non vi saranno più miracoli a causa dell’incredulità. « Ciò dicendo, sputò per terra, formò del fango con la saliva, e fece degli occhi con il suo fango » (Gv 9,6), e la luce scaturì dalla terra, come al principio, quando l’ombra del cielo, « la tenebra, era estesa su tutto » ed egli comandò alla luce e quella nacque dalle tenebre (cf.Gen 1,2-3). Così « egli formò del fango con la saliva », e guarì il difetto che esisteva dalla nascita, per mostrare che lui, la cui mano completava ciò che mancava alla natura, era proprio colui la cui mano aveva modellato la creazione al principio. E siccome rifiutavano di crederlo anteriore ad Abramo, egli provò loro con quest’opera che era il Figlio di colui che, con la sua mano, « formò » il primo « Adamo con la terra » (Gen 2,7): in effetti, egli guarì la tara del cieco con i gesti del proprio corpo.
Fece ciò inoltre per confondere coloro che dicono che l’uomo è fatto di quattro elementi, poiché rifece le membra carenti con terra e saliva, fece ciò a utilità di coloro che cercavano i miracoli per credere: « I Giudei cercano i miracoli » (1Cor 1,22). Non fu la piscina di Siloe che aprì gli occhi del cieco (cf.Gv 9,7.11), come non furono le acque del Giordano che purificarono Naaman; è il comando del Signore che compie tutto. Ben più, non è l’acqua del nostro Battesimo, ma i nomi che si pronunciano su di essa, che ci purificano. « Unse i suoi occhi con il fango » (Gv 9,6), perché i Giudei ripulissero l’accecamento del loro cuore. Quando il cieco se ne andò tra la folla e chiese: « Dov’è Siloe? », si vide il fango cosparso sui suoi occhi. Le persone lo interrogarono, egli le informò, ed esse lo seguirono, per vedere se i suoi occhi si fossero aperti.
Coloro che vedevano la luce materiale erano guidati da un cieco che vedeva la luce dello spirito, e, nella sua notte, il cieco era guidato da coloro che vedevano esteriormente, ma che erano spiritualmente ciechi. Il cieco lavò il fango dai suoi occhi, e vide se stesso; gli altri lavarono la cecità del loro cuore ed esaminarono sé stessi. Nostro Signore apriva segretamente gli occhi di molti altri ciechi. Quel cieco fu una bella e inattesa fortuna per Nostro Signore; per suo tramite, acquistò numerosi ciechi, che egli guarì dalla cecità del cuore.
In quelle poche parole del Signore si celavano mirabili tesori, e, in quella guarigione era delineato un simbolo: Gesù figlio del Creatore. « Va’, lavati il viso » (Gv 9,7), per evitare che qualcuno consideri quella guarigione più come un stratagemma che come un miracolo, egli lo mandò a lavarsi. Disse ciò per mostrare che il cieco non dubitava del potere di guarigione del Signore, e perché, camminando e parlando, pubblicizzasse l’evento e mostrasse la sua fede.
La saliva del Signore servì da chiave agli occhi chiusi, e guarì l’occhio e la pupilla con le acque, con le acque formò il fango e riparò il difetto. Agì così, affinché, allorché gli avrebbero sputato in faccia, gli occhi dei ciechi, aperti dalla sua saliva, avessero reso testimonianza contro di essi. Ma essi non compresero il rimprovero che egli volle fare a proposito degli occhi guariti dei ciechi: « Perché coloro che vedono diventino ciechi » (Mt 26,27); diceva questo dei ciechi perché lo vedano corporalmente, e di quelli che vedono perché i loro cuori non lo conoscano. Egli ha formato il fango durante il sabato (cf. Gv 9,14). Omisero il fatto della guarigione e gli rimproverarono di aver formato del fango. Lo stesso dissero a colui « che era malato da trentotto anni: Chi ti ha detto di portare il tuo lettuccio? » (Gv 5,5.12), e non: Chi ti ha guarito? Qui, analogamente: « Ha fatto del fango durante il sabato ». E così, anzi per molto meno, non si ingelosirono di lui e non lo rinnegarono, quando guarì un idropico, con una sola parola, in giorno di sabato? (cf. Lc 14,1-6). Cosa gli fece dunque guarendolo? Egli fu purificato e guarito con la sola parola. Quindi, secondo le loro teorie, chiunque parla viola il sabato; ma allora – si dirà – chi ha maggiormente violato il sabato, il nostro Salvatore che guarisce, o coloro che ne parlano con gelosia? 

4A DOMENICA A | QUARESIMA – OMELIA : « VA’ A LAVARTI NELLA PISCINA DI SILOE »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/3-QuaresimaA-2014/Omelie-Quaresima/04-Dom-Quaresima-A-2014/12-4a-Domenica-A-2014-SC.htm

30 MARZO 2014 | 4A DOMENICA A | QUARESIMA | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« VA’ A LAVARTI NELLA PISCINA DI SILOE »

L’episodio del cieco nato è uno dei più vivaci fra quelli descrittici da san Giovanni; nello stesso tempo, però, è pieno di drammaticità perché intende simboleggiare lo stato di cecità in cui si trovano gli uomini, se Dio non viene incontro per aprir loro gli occhi e farli vedere. Ciò nonostante, ci saranno sempre dei « ciechi » che neppure Dio può guarire, perché non hanno consapevolezza di essere ciechi: anzi, presumono di vederci fin troppo bene!

È il peccato irremissibile dei farisei, su cui con molto tristezza si chiude l’odierno brano evangelico: « Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: « Noi vediamo », il vostro peccato rimane » (Gv 9,41).
Non è perciò il tema della « luce » che qui viene proposto, come abbiamo visto in altre Domeniche, ma il « contrasto » fra la luce e le tenebre che si fanno implacabile lotta fra di loro, come viene già accennato nel prologo del Vangelo: « La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta » (1,5).
« Un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore »
E questo contrasto non è soltanto degli inizi della vita cristiana quando, come ci ricorda san Paolo nella seconda lettura, eravamo « tenebre » e per il Battesimo siamo diventati « luce nel Signore » (Ef 5,8), ma è un fatto permanente e si estende ad ogni momento della nostra esistenza.
Di qui il suo invito a comportarci « come figli della luce » e a « fugare le opere delle tenebre », denunciandole e condannandole dovunque si trovino e da chiunque siano fatte (Ef 5,8-11).
Il contrasto fra luce e tenebre in tal maniera si allarga, perché abbraccia anche la « denuncia » delle opere « tenebrose », che il più delle volte vengono programmate ed eseguite proprio nella clandestinità, « in segreto » (v. 12), sia per timore della pubblica condanna, sia per agire indisturbatamente e compiere maggiori disastri.
Se le cose stanno così, si allarga però anche la responsabilità dei cristiani, ai quali non basterà più essere personalmente, con le loro opere, i « testimoni » della luce, ma dovranno anche essere voce « profetica » che denuncia senza paura le iniquità del mondo, soprattutto quando venissero ammantate con le apparenti motivazioni della bontà, della convenienza, della necessità, dell’arte e perfino del progresso. Si pensi a certe libertà sessuali, a certi spettacoli, alla legalizzazione dell’aborto, a certe violenze, a certi cattivanti schemi politici, ecc.
D’altra parte, il cristiano non può sottrarsi a questo servizio, indubbiamente scomodo e necessariamente anche polemico, di annunciatore e testimone della « luce ». Dovrebbe rinunciare al suo Battesimo, che è essenzialmente una chiamata alla luce, anzi, una specie di « risurrezione » da morte a vita per camminare nella luce, come ci ricorda la finale del brano paolino: « Per questo sta scritto: « Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà »" (v. 14).Pur contenendo vaghi riecheggiamenti ad Isaia (60,1 e 26,19), questa citazione è quasi certamente ripresa da un antico inno cristiano che doveva essere utilizzato nella Liturgia battesimale. A imitazione di Cristo, i discepoli fanno nel Battesimo un’esperienza di passaggio dalla morte alla vita e « dalle tenebre alla luce »: esperienza che deve essere testimoniata lungo tutta la loro esistenza, così come è avvenuto per Cristo che, una volta « risuscitato dai morti, non muore più » (Rm 6,9).
« Passando, Gesù vide un uomo cieco dalla nascita… »
Ma vediamo di esaminare un po’ meglio, sia pure per rapidi tratti, il lunghissimo brano evangelico, descrittoci con toni altamente drammatici da Giovanni.
Letterariamente è una composizione perfetta, con una progressione molto calibrata di affetti e di sentimenti, di reazioni e di contrasti. Prima si descrive il miracolo del cieco nato, fatto con estrema sobrietà: « Passando, Gesù vide un uomo cieco dalla nascita… sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: « Va’ a lavarti nella piscina di Siloe (che significa ‘Inviato’) ». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva » (9,1.6-7).
La domanda degli Apostoli sulla eventuale colpa di quella situazione di cecità serve più che altro a richiamare l’attenzione sulla « manifestazione » della gloria di Dio nel gesto di bontà e di potenza che Gesù sta per compiere (vv. 2-3).
Quindi seguono in rapida successione diversi interrogatori, tendenti a decifrare, più che la stessa oggettività, il « significato » del segno operato da Cristo: il cieco viene prima interrogato dalla folla (vv. 8-12), quindi dai farisei (vv. 13-17); segue l’interrogatorio dei genitori (vv. 18-23), e ancora una volta dello stesso cieco nato (vv. 24-34). La scena si conclude con l’incontro del cieco con il suo guaritore e con la confessione di fede: « Io credo, Signore! », a cui segue un commento molto amaro di Gesù (vv. 35-41).
Tutto il racconto è disposto in modo da far emergere due atteggiamenti antitetici davanti al medesimo fatto: l’atteggiamento del cieco nato, che lentamente arriva alla « illuminazione » totale, che non è quella fisica soltanto, ma soprattutto quella spirituale; l’atteggiamento dei farisei e di quelli che più generalmente Giovanni chiama i « Giudei », i quali si ostinano, nonostante le reiterate affermazioni della veridicità del fatto, a negarne l’evidenza e a riconoscervi il segno della presenza del divino. Mentre il cieco, « desideroso » di vedere, ottiene la luce, i pretesi « veggenti », che si illudono di sapere tutto su Dio e la sua legge (« Noi siamo discepoli di Mosè! »: v. 28), diventano ciechi!
In tutto questo, come vedremo, si esprime il « giudizio » di Dio sulle intenzioni più segrete degli uomini.

La fede come « luce »
Nell’atteggiamento del cieco nato san Giovanni intende descrivere il normale itinerario di fede del cristiano con tutte le sue asperità, apparenti assurdità e contraddizioni. Si pensi semplicemente a quello strano gesto di Gesù di spalmargli gli occhi con il fango fatto con la saliva: in fin dei conti, dal punto di vista igienico, poteva essere proprio quello il modo di far perdere la vista a chi l’aveva! Eppure il cieco crede, va alla piscina di Siloe a lavarsi e ci « vede ».
Quasi certamente qui c’è un rimando all’episodio della guarigione dalla lebbra di Naaman il Siro ottenuta mediante l’immersione per sette volte nelle acque del Giordano (2 Re 5). Non è che l’acqua, o di Siloe o del Giordano, sia prodigiosa: è la fede nella parola di Dio o del Profeta che la rende tale!
La fede non solo accetta l’incredibile, ma vince tutte le ostilità e la falsa logica degli uomini. Il cieco nato si trova tutti contro: persino i genitori, che pure conoscevano benissimo la sua condizione, hanno paura di compromettersi davanti ai Giudei (v. 22) e rimettono ogni responsabilità al figlio: « Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso » (vv. 20.21).
Tutte le difficoltà vengono sollevate per indurlo a negare quella che, per lui, era l’evidenza: « Allora alcuni dei farisei dicevano: « Quest’uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato ». Altri dicevano: « Come può un peccatore compiere tali prodigi? »… « Dà gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore »" (vv. 16.24).
Come si vede, la lotta non è intorno a un fatto, a cui in fin dei conti si poteva sempre dare una qualche spiegazione, quanto attorno a Gesù: è lui che dà fastidio, è lui che crea « dissensi » (v. 16), è lui che obbliga a prendere posizione. Non si tratta di essere per il miracolo o contro il miracolo, ma « per » Cristo o « contro » Cristo, con tutte le conseguenze che l’accettare Cristo comporta.
Ma anche tutte le difficoltà vengono puntualmente dissolte dal cieco che era stato guarito, senza grandi disquisizioni o sottili ragionamenti, ma con la chiarezza delle cose semplici le quali, appunto perché tali, forse non vengono prese in considerazione dai così detti « sapienti », che potrebbero essere anche i teologi di ieri e di oggi! « Allora lo insultarono e gli dissero: « Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia ». Rispose loro quell’uomo: « Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla »" (vv. 28-33).
È interessante anche notare il progressivo « chiarificarsi » della fede del cieco nato: facendo riferimento a Gesù nei successivi interrogatori che gli vengono fatti, da principio egli è per lui semplicemente « quell’uomo che si chiama Gesù » (v. 11), quindi « un profeta » (v. 17), inviato « da Dio » (v. 33). Infine, nell’incontro a solo con lui, lo confessa come « Signore »: « Gesù, saputo che l’avevano cacciato via, e incontratolo gli disse: « Tu credi nel Figlio dell’uomo? ». Egli rispose: « E chi è, Signore, perché io creda in lui? ». Gli disse Gesù: « Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui ». Ed egli disse: « Io credo, Signore! ». E gli si prostrò innanzi » (vv. 35-38).
A questo punto la fede è completa: il cieco nato finalmente « vede » in senso totale, perché non solo ha riacquistato la vista fisica, ma soprattutto perché è capace di cogliere in « quell’uomo che si chiama Gesù » una dimensione divina, non percepibile all’occhio della pura e semplice intelligenza: « il Signore » della gloria, il « Figlio dell’uomo » che giudicherà il mondo, secondo la profezia di Daniele (7,13-14).

« Io sono venuto in questo mondo per giudicare… »
Per i Giudei, invece, Gesù rimane semplicemente « un peccatore » (v. 24), che ha violato il sabato perché « aveva fatto del fango e aveva aperto gli occhi a un cieco » (v. 14); di lui « non si sa di dove sia » (v. 29), e perciò non può venire da Dio. Essi non riescono a vedere quello che vede il cieco nato, perché non si sottopongono al « giudizio » di Dio che scardina i ragionamenti umani e può rivelarsi come a lui piace. Forse che è indegno di Dio rendere la vista ad un cieco, anche se di sabato? Non è forse il « sabato » il giorno del Signore per eccellenza, in cui egli può manifestare anche più potentemente la sua benevolenza verso gli uomini?
I « ciechi » veri sono perciò i Giudei che non riescono a vedere la presenza di Dio in Cristo, e lo respingono addirittura come « peccatore ».
E non riescono perché non vogliono: perciò la loro cecità è colpevole. In questo c’è già un « giudizio » di condanna da parte di Dio. È quanto Gesù afferma a conclusione di tutto l’episodio, mettendo in evidenza il dramma che si svolge nel cuore di ogni uomo di fronte a lui: « Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi » (v. 39).
Abbiamo qui l’eco di una frase di Gesù all’inizio del racconto: « Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo » (v. 5). E precedentemente aveva anche detto: « Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita » (8,12). Davanti alla luce basta aprire gli occhi per vedere e lasciarsi immergere nella luminosità. Soltanto chi chiude gli occhi rimane nelle tenebre; ma la colpa è tutta sua. E questa è precisamente la condanna, « il giudizio » che egli, più che Dio, pronuncia su se stesso.

Il Battesimo come « illuminazione »
Tutti gli studiosi riconoscono che in questo brano Giovanni, oltre che descriverci un fatto realmente accaduto, ci vuole istruire sugli effetti del Battesimo nella vita del cristiano: come nella fontana di Siloe il cieco ha riacquistato la vista, così il cristiano riceve nelle acque del Battesimo la sua « illuminazione », per cui accetta e confessa Cristo come « Figlio di Dio » e « Signore », e considera tutte le cose e il senso stesso della vita in un’altra luce.
Già la Lettera agli Ebrei presenta il Battesimo come « illuminazione » (6,4; 10,32; cf Ef 5,14). La tematica è ripresa ampiamente dai Padri, fra i quali ci piace citare Clemente Alessandrino: « Battezzati, noi siamo illuminati e diventiamo figli di Dio, riceviamo un dono perfetto e possediamo l’immortalità… Noi, i battezzati, liberati dai peccati, la cui oscurità faceva ostacolo allo Spirito Santo, abbiamo l’occhio dello spirito libero, trasparente, luminoso… ».1
Anche il nome della piscina, in cui è avvenuta la guarigione del cieco, è significativo per Giovanni. « Siloe », infatti, in ebraico vuol dire « inviato » (v. 7), che l’Evangelista evidentemente riferisce a Cristo qual Messia, « inviato » dal Padre: non è l’acqua che guarisce, ma Cristo! In realtà, però, la forma ebraica è più attiva che passiva: non colui che è inviato, ma « colui che invia » (con evidente riferimento al canale che alimentava la fontana di Siloe). E anche Cristo è « colui che invia » i suoi discepoli ad « annunciarlo » al mondo!
Il Battesimo è una grande « illuminazione », che non possiamo però tenere per noi: esso ci « invia » a tutti gli uomini, per partecipare anche a loro un po’ della nostra luce, perché anch’essi imparino a vedere gli altri uomini, le cose, gli avvenimenti, con gli « occhi » stessi di Dio, cioè con gli occhi della fede.
Perché rimane sempre vero quello che leggiamo nella prima lettura, che ci descrive l’elezione di Davide a re d’Israele: « L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore » (1 Sam 16,7).

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

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