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ENZO BIANCHI: PREGARE SIGNIFICA ENTRARE NEL CUORE DELLA STORIA

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ENZO BIANCHI: PREGARE SIGNIFICA ENTRARE NEL CUORE DELLA STORIA

03/09/2014 «Intercedere significa fare un passo in mezzo, entrare nel vivo delle situazioni», dice il priore di Bose.

Davvero un bel rebus la preghiera. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, lo dice chiaro e tondo: «Noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8, 26-27), assicurando, però, il “soccorso” dello Spirito Santo. Agostino, invece, sosteneva che non servono le parole: «Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi».
Padre André Louf, monaco trappista francese morto nel 2010 e grande maestro di spiritualità, sosteneva che «la preghiera più contemplativa e l’azione più impegnata sono praticamente identiche». Per un laico inquieto come Cesare Pavese la preghiera è nient’altro che «lo sfogo come con un amico».
Forse, però, bisogna chiedersi se per l’uomo secolarizzato e iperattivo di oggi sia ancora possibile pregare. A tutte queste questioni, Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, ha dedicato un libro. Il titolo, eloquente, va dritto al punto: Perché pregare, come pregare, che verrà allegato al numero di Famiglia Cristiana in edicola dall’11 settembre.
Partiamo proprio da qui. Oggi pregare non rischia di essere un lusso?
«È vero, è un momento di crisi per la preghiera e questo appannamento si avverte in tutto il cosiddetto mondo occidentale, che corrisponde al mondo dell’abbondanza, dell’opulenza. La preghiera viene a mancare perché l’uomo confida talmente in sé stesso, nella scienza e nella tecnica che gli sembra di non aver più bisogno di Dio. Per questo dobbiamo fare un atto di discernimento e chiederci anzitutto che cos’è esattamente la preghiera cristiana senza confonderla con la preghiera tout court».
Qual è lo specifico del pregare cristiano?
«È vero che la preghiera è un’espressione universale dell’umano ma la preghiera cristiana ha una sua peculiarità. Essa consiste anzitutto nell’ascoltare Dio prima ancora di parlargli, chi prega si mette in ascolto prima di chiedere a Dio qualcosa. Questo significa che la preghiera deve trasformarsi, rifiorire: dobbiamo ridarle il primato cristiano dell’ascolto. Oggi, invece, accade sempre più spesso che la preghiera venga presentata come una pratica che genericamente “fa bene”, che “giova alla buona salute del corpo”, oppure come un’attività di igiene mentale, come un antidepressivo. Il senso autentico della preghiera cristiana non è questo».
Dunque pregare finisce per passare in secondo piano?
«Un tempo si discuteva molto di certe modalità di pregare: le devozioni, la pietà popolare. Le scuole di spiritualità hanno sperimentato e proposto tante forme di preghiera, che rappresentano anche un rinnovamento spirituale. Pensiamo alla preghiera contemplativa che ci ha insegnato la scuola di Charles de Foucauld alla fine del secolo scorso. Oggi, però, la domanda è più radicale: non è tanto come pregare ma perché pregare. La preghiera, per il cristiano, non è un atto automatico o scontato, per farlo bisogna avere la fede o ritrovarla. Uno prega se ha fede, se nutre la fiducia di ottenere risposta, se è sorretto dalla speranza di essere in una relazione, se è fiducioso di poter ascoltare un Altro e di poter essere a sua volta ascoltato. Oggi la contestazione alla preghiera è molto più radicale in Occidente rispetto ad altre parti del mondo, dall’Africa all’America latina, dove pure ci sono forme profonde di preghiera, perché qui da noi si è smarrito il senso stesso del pregare».
La fede è fondamentale, quindi…
«Certamente. Anzi, direi che il problema della preghiera è un problema di fede, la preghiera è l’eloquenza della fede, se non c’è l’una non c’è neanche l’altra».
Non c’è il rischio che anche il cristiano avverta la preghiera come inutile o comunque poco concreta? «Il cristiano deve saper leggere la storia e vedere che nella storia una componente costante è proprio la preghiera: ce lo dicono tutti i libri della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse. In realtà, quando preghiamo non facciamo un’attività intellettuale o di pensiero ma ci predisponiamo a entrare in una situazione, in un contesto di relazione. L’intercessione, pregare per la pace, per i migranti morti nel Mediterraneo o i cristiani perseguitati e uccisi, non è inutile perché ci prepara a essere responsabili nei confronti di questi fratelli. Intercessione significa, letteralmente, fare un passo in mezzo, entrare nel vivo delle situazioni della storia. La preghiera non è evasiva. È significativo che papa Francesco chieda insistentemente di pregare per lui, per la Chiesa, per tante situazioni difficili. È come dire: cari fratelli, vi chiedo corresponsabilità, vi chiedo di operare insieme, in comunione, questo è il senso autentico e profondo del pregare insieme. Senza la preghiera non si prepara nulla di quella che è un’azione all’interno della storia».
Si potrebbe obiettare che oggi manca il tempo per pregare.
«È un problema concreto ma anche falso. In realtà, quel che è difficile per noi non è tanto pregare quanto fermarsi, stare da soli, restare in silenzio. Chi afferma di non avere tempo è un alienato del tempo, che non domina e ordina il tempo e la sua vita ma ne è inghiottito»

Publié dans:LA PREGHIERA (SULLA) |on 4 novembre, 2019 |Pas de commentaires »

PERCHÉ ALCUNI SALMI CONTENGONO ESPRESSIONI FORTI E VIOLENTE? COME È POSSIBILE PREGARE CON QUESTI SALMI?

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Come è possibile pregare “contro”? (3 marzo 2019)

PERCHÉ ALCUNI SALMI CONTENGONO ESPRESSIONI FORTI E VIOLENTE? COME È POSSIBILE PREGARE CON QUESTI SALMI?

Sì, in effetti la violenza, il castigo, la vendetta di Dio o dei credenti, rappresentano un ostacolo per chi non ha ancora familiarizzato con la preghiera dei Salmi. Come è possibile restare fedeli al Vangelo, che esorta al perdono e alla preghiera per i nemici, e poi contraddire questa fedeltà invocando per loro il castigo di Dio?
Già nel 2° secolo alcuni cristiani, estranei alla tradizione ebraica e digiuni di sensibilità biblica, si trovarono disorientati, al punto che uno di loro (un certo Marcione) propose di eliminare dalle Scritture cristiane l’Antico Testamento e di espellere anche dal Nuovo ogni riferimento a castighi, violenze o vendette da parte di Dio. La Chiesa non condivise tale proposta, anzi l’accantonò
come erronea, e mantenne gelosamente nel suo insostituibile “bagaglio” di Fede sia le Scritture del Nuovo come quelle dell’Antico Testamento (compresi i Salmi).
I Salmi infatti non offrono soltanto espressioni di preghiera; rappresentano una scuola, un tirocinio per chiunque intenda pregare con fede (costantemente), anziché per sola religiosità (quasi sempre occasionale e saltuaria). Sì, anche i Salmi dalle espressioni forti e violente hanno qualcosa da insegnare ai credenti. In essi, colui che ha subìto delle ingiustizie, racconta e consegna a Dio, senza pudore o vergogna, i sentimenti negativi del suo cuore. Ogni cristiano, del resto, lo sperimenta: certe offese subìte, soprattutto se pesanti, assediano e arroventano mente e cuore, tanto che nemmeno nella preghiera si riesce a liberarsene… Ma perché liberarsene? Perché non lasciare che arrivino fino a Dio, proprio durante la preghiera? Dio dal canto suo, che conosce e
scruta il cuore dell’uomo, non si scandalizza affatto, anche perché, consegnando a lui i propri desideri di vendetta, si rinuncia ad attuarli personalmente
e si rimette a lui ogni giudizio. In fondo, questi Salmi sanciscono il principio in base al quale, anche di fronte all’ingiustizia e al male subìti, il credente rinuncia a farsi giustizia da solo e non cede alla tentazione di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, ma lascia fare alla giustizia di Dio.
Ecco quanto afferma Enzo Bianchi a questo riguardo: “Di fronte al male operante nella storia le «preghiere contro avversari e nemici», sono lo strumento dei poveri, degli oppressi, dei giusti perseguitati: essi intervengono con le loro grida, visto che nella storia per loro non ci sono altri spazi! Una preghiera che non esprimesse tali sentimenti sarebbe assai poco biblica e alquanto ideologica, dunque ipocrita, lontana da un autentico e vivace rapporto con Dio: verso di lui si grida, si urla nei momenti dell’angoscia, della disperazione, della violenza subita (Gesù grida sulla croce!). Sarebbe una preghiera lontana dalla storia e dal reale male che l’attraversa, dai reali empi e malvagi che sono i prepotenti-onnipotenti che imperversano sullo scenario del mondo. Certamente sono suppliche a volte eccessive; ma chi può mai pesarle e condannarle, se non si è trovato nella stessa situazione di violenza sofferta nella propria persona? Che cosa grideremmo noi in simili situazioni? E soprattutto: grideremmo stando davanti a Dio, invocando lui?”.
Ho l’impressione che pure l’individualismo tipico della cultura del nostro tempo costituisca un ostacolo nel familiarizzare con il linguaggio dei Salmi. Infatti, anche se il loro linguaggio è alla prima persona singolare (“io”), in realtà quella preghiera non è mai espressione d’un “io” individualista, indifferente alle traversie, alle sofferenze e sventure del prossimo. Oltre che a nome suo, il credente che prega con i Salmi dev’essere consapevole di farlo a nome di tutti, anche e soprattutto di quanti si trovano oppressi da prove a tal punto opprimenti, da non aver più nemmeno la capacità di esprimersi in un lamento…
Occorrerà pure che qualcuno si faccia loro portavoce! Ecco, su tale orizzonte di fede “solidale e fraterna” anche le espressioni forti e violente dei Salmi hanno pieno diritto di essere accolte e condivise.

don Piero Rattin

 

Publié dans:LA PREGHIERA (SULLA) |on 7 mai, 2019 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI (la preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20120314.html

BENEDETTO XVI (la preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 14 marzo 2012

Cari fratelli e sorelle,

con la Catechesi di oggi vorrei iniziare a parlare della preghiera negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo. San Luca ci ha consegnato, come sappiamo, uno dei quattro Vangeli, dedicato alla vita terrena di Gesù, ma ci ha lasciato anche quello che è stato definito il primo libro sulla storia della Chiesa, cioè gli Atti degli Apostoli. In entrambi questi libri, uno degli elementi ricorrenti è proprio la preghiera, da quella di Gesù a quella di Maria, dei discepoli, delle donne e della comunità cristiana. Il cammino iniziale della Chiesa è ritmato anzitutto dall’azione dello Spirito Santo, che trasforma gli Apostoli in testimoni del Risorto sino all’effusione del sangue, e dalla rapida diffusione della Parola di Dio verso Oriente e Occidente. Tuttavia, prima che l’annuncio del Vangelo si diffonda, Luca riporta l’episodio dell’Ascensione del Risorto (cfr At 1,6-9). Ai discepoli il Signore consegna il programma della loro esistenza votata all’evangelizzazione e dice: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). A Gerusalemme gli Apostoli, rimasti in Undici per il tradimento di Giuda Iscariota, sono riuniti in casa per pregare, ed è proprio nella preghiera che aspettano il dono promesso da Cristo Risorto, lo Spirito Santo.
In questo contesto di attesa, tra l’Ascensione e la Pentecoste, san Luca menziona per l’ultima volta Maria, la Madre di Gesù, e i suoi familiari (v. 14). A Maria ha dedicato gli inizi del suo Vangelo, dall’annuncio dell’Angelo alla nascita e all’infanzia del Figlio di Dio fattosi uomo. Con Maria inizia la vita terrena di Gesù e con Maria iniziano anche i primi passi della Chiesa; in entrambi i momenti il clima è quello dell’ascolto di Dio, del raccoglimento. Oggi, pertanto, vorrei soffermarmi su questa presenza orante della Vergine nel gruppo dei discepoli che saranno la prima Chiesa nascente. Maria ha seguito con discrezione tutto il cammino di suo Figlio durante la vita pubblica fino ai piedi della croce, e ora continua a seguire, con una preghiera silenziosa, il cammino della Chiesa. Nell’Annunciazione, nella casa di Nazaret, Maria riceve l’Angelo di Dio, è attenta alle sue parole, le accoglie e risponde al progetto divino, manifestando la sua piena disponibilità: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua volontà» (cfr Lc 1,38). Maria, proprio per l’atteggiamento interiore di ascolto, è capace di leggere la propria storia, riconoscendo con umiltà che è il Signore ad agire. In visita alla parente Elisabetta, Ella prorompe in una preghiera di lode e di gioia, di celebrazione della grazia divina, che ha colmato il suo cuore e la sua vita, rendendola Madre del Signore (cfr Lc 1,46-55). Lode, ringraziamento, gioia: nel cantico del Magnificat, Maria non guarda solo a ciò che Dio ha operato in Lei, ma anche a ciò che ha compiuto e compie continuamente nella storia. Sant’Ambrogio, in un celebre commento al Magnificat, invita ad avere lo stesso spirito nella preghiera e scrive: «Sia in ciascuno l’anima di Maria per magnificare il Signore; sia in ciascuno lo spirito di Maria per esultare in Dio» (Expositio Evangelii secundum Lucam 2, 26: PL 15, 1561).
Anche nel Cenacolo, a Gerusalemme, nella «stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi» i discepoli di Gesù (cfr At 1,13), in un clima di ascolto e di preghiera, Ella è presente, prima che si spalanchino le porte ed essi inizino ad annunciare Cristo Signore a tutti i popoli, insegnando ad osservare tutto ciò che Egli aveva comandato (cfr Mt 28,19-20). Le tappe del cammino di Maria, dalla casa di Nazaret a quella di Gerusalemme, attraverso la Croce dove il Figlio le affida l’apostolo Giovanni, sono segnate dalla capacità di mantenere un perseverante clima di raccoglimento, per meditare ogni avvenimento nel silenzio del suo cuore, davanti a Dio (cfr Lc 2,19-51) e nella meditazione davanti a Dio anche comprenderne la volontà di Dio e divenire capaci di accettarla interiormente. La presenza della Madre di Dio con gli Undici, dopo l’Ascensione, non è allora una semplice annotazione storica di una cosa del passato, ma assume un significato di grande valore, perché con loro Ella condivide ciò che vi è di più prezioso: la memoria viva di Gesù, nella preghiera; condivide questa missione di Gesù: conservare la memoria di Gesù e così conservare la sua presenza.
L’ultimo accenno a Maria nei due scritti di san Luca è collocato nel giorno di sabato: il giorno del riposo di Dio dopo la Creazione, il giorno del silenzio dopo la Morte di Gesù e dell’attesa della sua Risurrezione. Ed è su questo episodio che si radica la tradizione di Santa Maria in Sabato. Tra l’Ascensione del Risorto e la prima Pentecoste cristiana, gli Apostoli e la Chiesa si radunano con Maria per attendere con Lei il dono dello Spirito Santo, senza il quale non si può diventare testimoni. Lei che l’ha già ricevuto per generare il Verbo incarnato, condivide con tutta la Chiesa l’attesa dello stesso dono, perché nel cuore di ogni credente «sia formato Cristo» (cfr Gal 4,19). Se non c’è Chiesa senza Pentecoste, non c’è neanche Pentecoste senza la Madre di Gesù, perché Lei ha vissuto in modo unico ciò che la Chiesa sperimenta ogni giorno sotto l’azione dello Spirito Santo. San Cromazio di Aquileia commenta così l’annotazione degli Atti degli Apostoli: «Si radunò dunque la Chiesa nella stanza al piano superiore insieme a Maria, la Madre di Gesù, e insieme ai suoi fratelli. Non si può dunque parlare di Chiesa se non è presente Maria, Madre del Signore… La Chiesa di Cristo è là dove viene predicata l’Incarnazione di Cristo dalla Vergine, e, dove predicano gli apostoli, che sono fratelli del Signore, là si ascolta il Vangelo » (Sermo 30,1: SC 164, 135).
Il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare in modo particolare questo legame che si manifesta visibilmente nel pregare insieme di Maria e degli Apostoli, nello stesso luogo, in attesa dello Spirito Santo. La Costituzione dogmatica Lumen gentium afferma: «Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero della salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste “perseveranti d’un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi fratelli” (At 1,14); e vediamo anche Maria implorare con le sue preghiere il dono dello Spirito che all’Annunciazione l’aveva presa sotto la sua ombra» (n. 59). Il posto privilegiato di Maria è la Chiesa, dove è «riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro…, figura ed eccellentissimo modello per essa nella fede e nella carità» (ibid., n. 53).
Venerare la Madre di Gesù nella Chiesa significa allora imparare da Lei ad essere comunità che prega: è questa una delle note essenziali della prima descrizione della comunità cristiana delineata negli Atti degli Apostoli (cfr 2,42). Spesso la preghiera è dettata da situazioni di difficoltà, da problemi personali che portano a rivolgersi al Signore per avere luce, conforto e aiuto. Maria invita ad aprire le dimensioni della preghiera, a rivolgersi a Dio non solamente nel bisogno e non solo per se stessi, ma in modo unanime, perseverante, fedele, con un «cuore solo e un’anima sola» (cfr At 4,32).
Cari amici, la vita umana attraversa diverse fasi di passaggio, spesso difficili e impegnative, che richiedono scelte inderogabili, rinunce e sacrifici. La Madre di Gesù è stata posta dal Signore in momenti decisivi della storia della salvezza e ha saputo rispondere sempre con piena disponibilità, frutto di un legame profondo con Dio maturato nella preghiera assidua e intensa. Tra il venerdì della Passione e la domenica della Risurrezione, a Lei è stato affidato il discepolo prediletto e con lui tutta la comunità dei discepoli (cfr Gv 19,26). Tra l’Ascensione e la Pentecoste, Ella si trova con e nella Chiesa in preghiera (cfr At 1,14). Madre di Dio e Madre della Chiesa, Maria esercita questa sua maternità sino alla fine della storia. Affidiamo a Lei ogni fase di passaggio della nostra esistenza personale ed ecclesiale, non ultima quella del nostro transito finale. Maria ci insegna la necessità della preghiera e ci indica come solo con un legame costante, intimo, pieno di amore con suo Figlio possiamo uscire dalla «nostra casa», da noi stessi, con coraggio, per raggiungere i confini del mondo e annunciare ovunque il Signore Gesù, Salvatore del mondo. Grazie.

 

BENEDETTO XVI – L’UOMO IN PREGHIERA (2011)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110504.html

BENEDETTO XVI – L’UOMO IN PREGHIERA (2011)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 4 maggio 2011

Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi vorrei iniziare una nuova serie di catechesi. Dopo le catechesi sui Padri della Chiesa, sui grandi teologi del Medioevo, sulle grandi donne, vorrei adesso scegliere un tema che sta molto a cuore a tutti noi: è il tema della preghiera, in modo specifico di quella cristiana, la preghiera, cioè, che ci ha insegnato Gesù e che continua ad insegnarci la Chiesa. E’ in Gesù, infatti, che l’uomo diventa capace di accostarsi a Dio con la profondità e l’intimità del rapporto di paternità e di figliolanza. Insieme ai primi discepoli, con umile confidenza ci rivolgiamo allora al Maestro e Gli chiediamo: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1).
Nelle prossime catechesi, accostando la Sacra Scrittura, la grande tradizione dei Padri della Chiesa, dei Maestri di spiritualità, della Liturgia vogliamo imparare a vivere ancora più intensamente il nostro rapporto con il Signore, quasi una “Scuola della preghiera”. Sappiamo bene, infatti, che la preghiera non va data per scontata: occorre imparare a pregare, quasi acquisendo sempre di nuovo quest’arte; anche coloro che sono molto avanzati nella vita spirituale sentono sempre il bisogno di mettersi alla scuola di Gesù per apprendere a pregare con autenticità. Riceviamo la prima lezione dal Signore attraverso il Suo esempio. I Vangeli ci descrivono Gesù in dialogo intimo e costante con il Padre: è una comunione profonda di colui che è venuto nel mondo non per fare la sua volontà, ma quella del Padre che lo ha inviato per la salvezza dell’uomo.
In questa prima catechesi, come introduzione, vorrei proporre alcuni esempi di preghiera presenti nelle antiche culture, per rilevare come, praticamente sempre e dappertutto si siano rivolti a Dio.
Comincio con l’antico Egitto, come esempio. Qui un uomo cieco, chiedendo alla divinità di restituirgli la vista, attesta qualcosa di universalmente umano, qual è la pura e semplice preghiera di domanda da parte di chi si trova nella sofferenza, quest’uomo prega: “Il mio cuore desidera vederti… Tu che mi hai fatto vedere le tenebre, crea la luce per me. Che io ti veda! China su di me il tuo volto diletto” (A. Barucq – F. Daumas, Hymnes et prières de l’Egypte ancienne, Paris 1980, trad. it. in Preghiere dell’umanità, Brescia 1993, p. 30). Che io ti veda; qui sta il nucleo della preghiera!
Presso le religioni della Mesopotamia dominava un senso di colpa arcano e paralizzante, non privo, però, della speranza di riscatto e liberazione da parte di Dio. Possiamo così apprezzare questa supplica da parte di un credente di quegli antichi culti, che suona così: “O Dio che sei indulgente anche nella colpa più grave, assolvi il mio peccato… Guarda, Signore, al tuo servo spossato, e soffia la tua brezza su di lui: senza indugio perdonagli. Allevia la tua punizione severa. Sciolto dai legami, fa’ che io torni a respirare; spezza la mia catena, scioglimi dai lacci” (M.-J. Seux, Hymnes et prières aux Dieux de Babylone et d’Assyrie, Paris 1976, trad. it. in Preghiere dell’umanità, op. cit., p. 37). Sono espressioni che dimostrano come l’uomo, nella sua ricerca di Dio, ne abbia intuito, sia pur confusamente, da una parte la sua colpa, dall’altra aspetti di misericordia e di bontà divina.
All’interno della religione pagana dell’antica Grecia si assiste a un’evoluzione molto significativa: le preghiere, pur continuando a invocare l’aiuto divino per ottenere il favore celeste in tutte le circostanze della vita quotidiana e per conseguire dei benefici materiali, si orientano progressivamente verso le richieste più disinteressate, che consentono all’uomo credente di approfondire il suo rapporto con Dio e di diventare migliore. Per esempio, il grande filosofo Platone riporta una preghiera del suo maestro, Socrate, ritenuto giustamente uno dei fondatori del pensiero occidentale. Così pregava Socrate: “Fate che io sia bello di dentro. Che io ritenga ricco chi è sapiente e che di denaro ne possegga solo quanto ne può prendere e portare il saggio. Non chiedo di più” (Opere I. Fedro 279c, trad. it. P. Pucci, Bari 1966). Vorrebbe essere soprattutto bello di dentro e sapiente, e non ricco di denaro.
In quegli eccelsi capolavori della letteratura di tutti i tempi che sono le tragedie greche, ancor oggi, dopo venticinque secoli, lette, meditate e rappresentate, sono contenute delle preghiere che esprimono il desiderio di conoscere Dio e di adorare la sua maestà. Una di queste recita così: “Sostegno della terra, che sopra la terra hai sede, chiunque tu sia, difficile a intendersi, Zeus, sia tu legge di natura o di pensiero dei mortali, a te mi rivolgo: giacché tu, procedendo per vie silenziose, guidi le vicende umane secondo giustizia” (Euripide, Troiane, 884-886, trad. it. G. Mancini, in Preghiere dell’umanità, op. cit., p. 54). Dio rimane un po’ nebuloso e tuttavia l’uomo conosce questo Dio sconosciuto e prega colui che guida le vie della terra.
Anche presso i Romani, che costituirono quel grande Impero in cui nacque e si diffuse in gran parte il Cristianesimo delle origini, la preghiera, anche se associata a una concezione utilitaristica e fondamentalmente legata alla richiesta della protezione divina sulla vita della comunità civile, si apre talvolta a invocazioni ammirevoli per il fervore della pietà personale, che si trasforma in lode e ringraziamento. Ne è testimone un autore dell’Africa romana del II secolo dopo Cristo, Apuleio. Nei suoi scritti egli manifesta l’insoddisfazione dei contemporanei nei confronti della religione tradizionale e il desiderio di un rapporto più autentico con Dio. Nel suo capolavoro, intitolato Le metamorfosi, un credente si rivolge a una divinità femminile con queste parole: “Tu sì sei santa, tu sei in ogni tempo salvatrice dell’umana specie, tu, nella tua generosità, porgi sempre aiuto ai mortali, tu offri ai miseri in travaglio il dolce affetto che può avere una madre. Né giorno né notte né attimo alcuno, per breve che sia, passa senza che tu lo colmi dei tuoi benefici” (Apuleio di Madaura, Metamorfosi IX, 25, trad. it. C. Annaratone, in Preghiere dell’umanità, op. cit., p. 79).
Nello stesso periodo l’imperatore Marco Aurelio – che era pure filosofo pensoso della condizione umana – afferma la necessità di pregare per stabilire una cooperazione fruttuosa tra azione divina e azione umana. Scrive nei suo Ricordi: “Chi ti ha detto che gli dèi non ci aiutino anche in ciò che dipende da noi? Comincia dunque a pregarli, e vedrai” (Dictionnaire de Spiritualitè XII/2, col. 2213). Questo consiglio dell’imperatore filosofo è stato effettivamente messo in pratica da innumerevoli generazioni di uomini prima di Cristo, dimostrando così che la vita umana senza la preghiera, che apre la nostra esistenza al mistero di Dio, diventa priva di senso e di riferimento. In ogni preghiera, infatti, si esprime sempre la verità della creatura umana, che da una parte sperimenta debolezza e indigenza, e perciò chiede aiuto al Cielo, e dall’altra è dotata di una straordinaria dignità, perché, preparandosi ad accogliere la Rivelazione divina, si scopre capace di entrare in comunione con Dio.
Cari amici, in questi esempi di preghiere delle diverse epoche e civiltà emerge la consapevolezza che l’essere umano ha della sua condizione di creatura e della sua dipendenza da un Altro a lui superiore e fonte di ogni bene. L’uomo di tutti i tempi prega perché non può fare a meno di chiedersi quale sia il senso della sua esistenza, che rimane oscuro e sconfortante, se non viene messo in rapporto con il mistero di Dio e del suo disegno sul mondo. La vita umana è un intreccio di bene e male, di sofferenza immeritata e di gioia e bellezza, che spontaneamente e irresistibilmente ci spinge a chiedere a Dio quella luce e quella forza interiori che ci soccorrano sulla terra e dischiudano una speranza che vada oltre i confini della morte. Le religioni pagane rimangono un’invocazione che dalla terra attende una parola dal Cielo. Uno degli ultimi grandi filosofi pagani, vissuto già in piena epoca cristiana, Proclo di Costantinopoli, dà voce a questa attesa, dicendo: “Inconoscibile, nessuno ti contiene. Tutto ciò che pensiamo ti appartiene. Sono da te i nostri mali e i nostri beni, da te ogni nostro anelito dipende, o Ineffabile, che le nostre anime sentono presente, a te elevando un inno di silenzio” (Hymni, ed. E. Vogt, Wiesbaden 1957, in Preghiere dell’umanità, op. cit., p. 61).
Negli esempi di preghiera delle varie culture, che abbiamo considerato, possiamo vedere una testimonianza della dimensione religiosa e del desiderio di Dio iscritto nel cuore di ogni uomo, che ricevono compimento e piena espressione nell’Antico e nel Nuovo Testamento. La Rivelazione, infatti, purifica e porta alla sua pienezza l’anelito originario dell’uomo a Dio, offrendogli, nella preghiera, la possibilità di un rapporto più profondo con il Padre celeste.
All’inizio di questo nostro cammino nella “Scuola della preghiera” vogliamo allora chiedere al Signore che illumini la nostra mente e il nostro cuore perché il rapporto con Lui nella preghiera sia sempre più intenso, affettuoso e costante. Ancora una volta diciamoGli: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1).

 

LA DANZA – SEGNO DI GIOIA E DI GRATITUDINE

http://www.nostreradici.it/titoli.htm

LA DANZA – SEGNO DI GIOIA E DI GRATITUDINE

La Danza, nella Bibbia è intesa soprattutto come lode, manifestazione di gioia spirituale ed espressione liturgica. Si danza per festeggiare una vittoria ottenuta con l’intervento divino; per il ritorno di una persona cara, e in occasione di nascite e matrimoni.
La profetessa Miriam, sorella d’Aronne, esterna la sua esultanza e ringrazia Dio, dopo il passaggio del Mar Rosso, “formando cori di danze” con le altre donne, suonando i timpani e cantando (Cf Es 15,20). Un’altra danza molto famosa è quella che fece Davide, in occasione del trasferimento dell’arca a Gerusalemme.
Danzando e saltellando agilmente, il re d’Israele manifesta con tutto il suo essere la gioia incontenibile che prova per il singolare avvenimento.
“Allora Davide andò e trasportò l’Arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. (…) Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Davide era cinto di un efod Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportarono l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba” (2Sam 6,12; 6,14-15).
Per descrivere l’esultanza del re Davide di fronte all’arca dell’Alleanza, l’autore sacro usa le parole: “gioia” e “con tutte le forze”, rimarcando così il coinvolgimento totale della persona nel movimento ritmico della danza.

Simbologia rituale
Nell’Arca sono custodite le Tavole della Legge date da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Danzando davanti all’arca, Davide indossa un costume sacerdotale succinto, una specie di perizoma adatto a compiere i sacrifici: l’efod di lino. Il testo sacro ci fa capire che la nudità del re e la sua danza sono in rapporto con gli “olocausti e i sacrifici di comunione” che egli si appresta ad offrire davanti al Signore.
Il modo in cui Davide esprime la sua gioia per la Legge (Torà), è ritenuto sconveniente dalla figlia di Saul che se ne scandalizza. “Mentre l’Arca del Signore entrava nella città di David, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo” (2Sam 6,16). Più tardi il re chiarirà alla donna il senso rituale del suo gesto: “L’ho fatto dinanzi al Signore, (…) ho fatto festa davanti al Signore” (2Sam 6,21).
Gli ebrei di oggi, al termine della festa dei Tabernacoli (Sukkot), celebrano nelle sinagoghe la Simchat Torà – o gioia della Legge – danzando, a saltelli ritmati, con i rotoli della Torà e cantando inni in onore dell’Eterno. La danza è anche in questo caso un gesto liturgico che esprime il rapporto di tutto l’essere con Dio. È un’espressione di gioia e di “festa davanti al Signore”, per il dono della Torà. Ed è ancora con la danza che gli ebrei chassidici [i], dopo le preghiere quotidiane, esternano il loro entusiasmo religioso.

La Danza in cerchio: hag
Ai tempi biblici, le processioni danzanti di uomini e donne caratterizzavano le tre grandi feste di pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli. Sembra che tali danze ritmate avvenissero in modo circolare, ed è forse per questo motivo che nell’ebraismo, la danza in cerchio è chiamata hag: festa.
In cerchio si danza intorno ad un luogo sacro, o durante una cerimonia religiosa, esprimendo così il clima gioioso e comunitario della festa. La simbologia della danza in cerchio ci dice che nessuno può ritenersi più importante dell’altro, mentre tutti sono rivolti verso Colui che è al centro della vita di ognuno.

Rito Bizantino: la triplice danza
Ritroviamo il movimento circolare nella celebrazione del matrimonio cristiano nel Rito bizantino, la cui liturgia prevede una triplice danza in cerchio del sacerdote e degli sposi. Dopo essersi recati presso l’iconostasi, essi girano per tre volte intorno all’altare, mentre si cantano alcuni tropari.

Rito Romano
Col progredire dell’inculturazione, il Rito Romano si va arricchendo di gesti e simboli appartenenti ad altre culture. Sempre più frequentemente, anche grazie al mezzo televisivo, si possono vedere celebrazioni liturgiche in cui la danza, la musica e il canto di altri popoli, trovano uno spazio adeguato.
“I gesti e gli atteggiamenti dell’assemblea, in quanto segni di comunità e di unità, favoriscono la partecipazione attiva esprimendo e sviluppando l’intenzione e la sensibilità dei partecipanti. Nella cultura di un paese, si sceglieranno gesti e atteggiamenti del corpo che esprimano la situazione dell’uomo davanti a Dio, dando ad essi un significato cristiano, in corrispondenza, se possibile, con i gesti e gli atteggiamenti provenienti dalla Bibbia.
Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono avere il loro posto nell’azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo”.[ii]

[i] Chassidismo, da Chassid: pio, devoto. È un movimento ebraico sorto in Europa intorno al 1750. I suoi membri pongono l’accento sulla gioia del cuore e sulla retta intenzione.
[ii] Da: “ La Liturgia romana e l’inculturazione” (III, 41-42) – Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 25 gennaio 1994.

 

PREGHIERA PER LA PACE – CARLO MARIA MARTINI

http://www.qumran2.net/ritagli/index.php?ritaglio=3170

PREGHIERA PER LA PACE – CARLO MARIA MARTINI

O Dio nostro Padre, ricco di amore e di misericordia, noi vogliamo pregarti con fede per la pace, addolorati e umiliati come siamo a causa degli episodi di violenza che hanno insanguinato e insanguinano Gerusalemme, città il cui nome evoca subito il mistero di morte e di risurrezione del tuo Figlio, di Gesù che ha donato la sua vita per riconciliare ogni uomo e ogni donna di questo mondo con te, con se stessi, con tutti i fratelli. Città santa, città dell’incontro eppure città da sempre contesa, da sempre crocifissa e sulla quale il tuo Figlio, i profeti e i santi hanno invocato la pace. Noi vogliamo pregarti con fede per la pace in tanti altri paesi del mondo, per i numerosi focolai di lotte e di odio; vogliamo pregarti per gli aggressori e per gli aggrediti, per gli uccisi e gli uccisori, per tutti i bambini che non hanno potuto conoscere il sorriso e la gioia della pace. E’ vero, Signore, che noi stessi siamo responsabili del venire meno della pace, e per questo ti supplichiamo di accogliere il nostro accorato pentimento, di donarci una volontà umile, forte, sincera per ricostruire nella nostra vita personale e comunitaria rapporti di verità, di giustizia, di libertà, di carità, di solidarietà. Ti confessiamo i nostri peccati personali e sociali: il nostro attaccamento al benessere, i nostri egoismi, le infedeltà e i tradimenti a livello familiare, la pigrizia e lo sciupio delle energie vitali per cose vane e frivole, dannose, il nostro voltare la faccia di fronte alle miserie di chi ci sta vicino o di chi viene da lontano. Vivendo così, non abbiamo forse pensato di renderci responsabili della distruzione di quell’edificio invisibile che è la pace. La pace terrestre è riflesso della tua pace che tu ci doni e ci affidi, nasce dal tuo amore per l’uomo e dal nostro amore per te e per tutti i fratelli. Cambia il nostro cuore, Signore, perché siamo noi i primi ad avere bisogno di un cuore pacifico. Purificaci, per il mistero pasquale del tuo Figlio, da ogni fermento di ostilità, di partigianeria, di partito preso; purificaci da ogni antipatia, da ogni pregiudizio, da ogni desiderio di primeggiare. Facci comprendere, o Padre, il senso profondo di una preghiera vera di pace, di una preghiera di intercessione e di espiazione simile a quella di Gesù su Gerusalemme. Preghiera di intercessione che ci renda capaci di non prendere posizione nei conflitti, ma di entrare nel cuore delle situazioni insanabili diventando solidali con entrambe le parti in contesa, pregando per l’una e per l’altra. Noi vogliamo abbracciare con amore tutte le parti in causa, fiduciosi soltanto nella tua divina potenza. Se noi preghiamo perché tu dia vittoria all’uno o all’altro, questa preghiera tu non l’ascolti; se ci mettiamo a giudicare l’uno o l’altro, la nostra supplica tu non l’ascolti. Manda il tuo santo Spirito su di noi per convertirci a te! Non ci illudiamo di superare le nostre inquietudini interiori, i rancori che ci portiamo dentro verso un popolo o verso un altro se non lasciamo spazio allo Spirito di gioia e di pace che vuole pregare in noi con gemiti inenarrabili. E’ lo Spirito che ci fa accogliere quella pace che sorpassa ogni nostra veduta e diventa decisione ferma e seria di amare tutti i nostri fratelli, in modo che la fiamma della pace risieda nei nostri cuori e nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e si irradi misteriosamente sul mondo intero sospingendo tutti verso una piena comunione di pace. E’ lo Spirito che ci aiuta a penetrare nella contemplazione del tuo Figlio crocifisso e morto sulla croce per fare di tutti un popolo solo. E tu, Maria, Regina della pace, intercedi affinché il sorriso della pace risplenda su tanti bambini sparsi nelle varie parti del mondo, segnate dalla violenza e dalla guerriglia; veglia sulla tua terra, su Gerusalemme, suscita nei suoi abitanti desideri profondi e costruttivi di pace, desideri di giustizia e di verità. Noi ti promettiamo di non temere le difficoltà e i momenti oscuri e difficili, purché tutta l’umanità cammini nella pace e nella giustizia, così che si avveri pienamente la parola del profeta Isaia: « Ho visto le vostre vie e voglio sanarle [...] Pace, pace ai lontani e ai vicini, dice il Signore, io guarirò tutti ».

PREGHIERA COME LOTTA CON DIO – DEL RABBINO STUART DAUERMAN, PHD

http://www.nuovoadamo.net/Nuovo_sito/12_Gerusalemme/Preghiera.html

PREGHIERA COME LOTTA CON DIO

DEL RABBINO STUART DAUERMAN, PHD

(l’italiano risulta un po’ strano forse è una traduzione)

Nel Libro della Genesi, leggiamo del Patriarca Giacobbe che sta per incontrare di nuovo suo fratello Esaù  per la prima volta dopo 20 anni. L’ultima volta che si videro, Esaù era fuori per uccidere Giacobbe, perché percepiva che Giacobbe lo aveva imbrogliato sulla sua eredità. In realtà però, Esaù aveva fatto alcuni stupidi errori, che hanno avuto come risultato la sua perdita di quel diritto di nascita. Ma ora Giacobbe ha udito che Esaù sta uscendo per incontrarlo con 400 uomini armati. Giacobbe è spaventato. Ed ecco che cosa è successo.

25 – Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. 26 – Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27 – Quello disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. 28 – Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. 29 – Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. 30 – Giacobbe allora gli chiese: “Svelami il tuo nome”. Gli rispose: “Perchè mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse. 31 – Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: “Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”. ( Gen 32 ) Quali sono le lezioni che possiamo trarre da questa storia per la nostra vita? 1) Dio vuole lottare con noi in incontro intimo. 2) Possiamo incontrare Dio intimamente – la carne mortale può toccare il Regno Eterno. In altre parole, Dio è veramente conoscibile. 3) Dio prende sempre l’iniziativa in questi incontri avanzamento. Tuttavia, ci vogliono due persone per lottare. Senza la nostra risposta costante e incondizionata, tale incontro rimane niente più che una esperienza superficiale transitoria, un contatto fortuito con il trascendente nel mezzo della oscurità. Mera pelle d’oca invece di gloria. Per quasi tutti noi, queste occasioni di stretto incontro con Dio  vengono in mezzo alla crisi e alla sofferenza di qualche genere. Non tutti i tempi di sofferenza diventano incontri con Dio, ma la maggior parte degli incontri con Dio vengono nel contesto di crisi e di sofferenza. Perchè questo? Penso che la ragione principale è che è quando siamo alle prese con un bel problema, quando ci sentiamo minacciati o impauriti o distrutti, quando siamo profondamente e totalmente tormentati da un senso di necessità, è allora e solo allora che siamo pronti finalmente a prestare  a Dio la nostra assoluta attenzione. Egli ha promesso che lo avremmo cercato e  trovato, quando lo avremmo cercato con tutto il nostro cuore. Di solito è solo quando siamo in profonda crisi o sofferenza che lo cerchiamo in questo modo. La maggior parte del tempo, la miglior cosa che facciamo con lui è o pagargli il servizio delle labbra o trattarlo come un vantaggio o aggiungere alle nostre vite già indaffarate. Non dovremmo farci delle illusioni qui: pochissimi di noi vivono e agiscono come se la nostra relazione con Dio fosse priorità alta – molto meno la nostra priorità più alta. E per questa ragione, la maggior parte di noi hanno, nella migliore delle ipotesi, una conoscenza superficiale di Dio. Tutto quello, che la maggior parte di noi ha, è informazione e pelle d’oca – ma niente di più. Queste crisi, in cui Dio finalmente ha la nostra attenzione ed in cui noi finalmente decidiamo di lottare e di sforzarsi di impegnarci con il Santo, sono spesso vecchi temi ricorrenti, che ritornano ad ossessionarci ripetutamente. Tale fu il caso di Paolo, la cui crisi – la sua spina nella carne – fu un problema  persistente e ricorrente, che lo tormentò e lo turbò. Lo spinse  a  cercare il Si-ore, a supplicarlo tre volte durante tre stagioni differenti di preghiera. Voi avete l’impressione che questi non erano  tipi di preghiera, in cui fate a testa e croce in aria, mentre  state fuggendo in qualche altro luogo. No, questi erano tempi di preghiera congiunta, che lotta, che combatte.  Di fatto, Paolo parla di lottare in preghiera in Colossesi 4, 12, dove scrive del suo collega Epafra: “non smette di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio.” Per Epafra, lottare in preghiera era un’abitudine di vita. E potete essere sicuri che questo uomo realmente conosceva Dio in modo profondo. Per quel che riguarda Paolo, anche se non aveva sollievo dalla sua spina nella carne, fece esperienza di un avanzamento  nella sua relazione con Dio. Dio gli disse – e Paolo lo udì fino al midollo delle ossa – “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.” ( 2  Corinzi 12, 9 ). Come risultato, la vita di Paolo fu trasformata nella sua relazione con la sua spina nella carne – qualunque essa fosse. Ciò che, in precedenza, era  stata una preoccupazione irritante divenne una occasione per la lode. Guardate come la sua relazione con la sua afflizione fu trasformata: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Dio. Perciò mi compiaccio delle mie debolezze…nelle difficoltà. Infatti quando sono debole, è allora che sono forte.” ( 2 Corinzi 12, 8-10 ). Egli ora “si vanta” e “si compiace” delle sue debolezze, che precedentemente lo hanno fatto gridare a Dio per la salvezza. Combattendo nella oscurità, come Giacobbe nella nostra storia, Paolo ha lottato con Dio nella preghiera e Dio ha trasformato la sua vita. E lo stesso potrebbe accadere a ciascuno di noi, cioè se veramente vogliamo trasformazione piuttosto che solo pelle d’oca e dati. Paolo caratterizza le sue stagioni di preghiera come volte in cui egli “ha pregato il Signore che  l’allontanasse da me.”  Le nostre arene di sofferenza o luoghi oscuri, i nostri tempi di crisi dovrebbero, come nel caso di Paolo e di nostro padre Giacobbe, portare anche noi a cercare Dio con fervore e profondamente -  supplicarlo. Sapete qualcosa sul supplicare Dio per la vostra vita? La maggior parte delle persone non lo fa mai realmente e certamente non lo fa come una abitudine di vita.  Quale è il risultato? Il risultato è che la maggior parte delle persone ha “esperienze spirituali”, contatti con il numinoso, ma non incontri profondi con il Santo e certamente non sa nulla di relazione trasformazionale che Dio desidera profondamente per tutti noi. E questo è importante: Dio lo desidera profondamente per noi: ma noi siamo troppo occupati o inconsapevoli , così non succede niente. Invece di gloria, il meglio che abbiamo è un cumulo crescente di dati religiosi e di ricordi di pelle d’oca. Quindi per oggi la lezione è questa: Dio ci invita a lottare con lui. Lottare è un lavoro duro, ma le ricompense sono grandi. Tu sei a favore?

 

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