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La bellezza del raccontare Dio

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=151

La bellezza del raccontare Dio

sintesi della relazione di Brunetto Salvarani
Verbania Pallanza, 31 marzo 2001
Il tema della bellezza è stato affrontato nel corso in modo serio, andando oltre la superficie, cercando di rispondere alla domanda di quale bellezza salverà il mondo. In questa prospettiva parlerò della bellezza del raccontare, del narrare in un primo momento, per poi passare in un secondo momento al tema sempre più attuale della presenza dell’altro nelle nostre città e nelle nostre chiese e sulla necessità di creare occasioni delle persone appartenenti alle varie culture possano incontrarsi. Qui sta la vera bellezza.
la bellezza del raccontare

Il racconto è la modalità espressiva più tipica della bibbia. Raramente si trovano argomentazioni, dimostrazioni, asserzioni dogmatiche. Si trovano invece poesie, simboli, miti, racconti.
Il narrare è forse l’eco della risata di Dio sulla terra, l’eco di quel ritornello ripetuto sette volte in Genesi 1 (Dio vide che tutto era bello e buono « tov »). La prima parola di Dio sul mondo riguarda la sua bontà e bellezza.
La narrazione ha una funzione terapeutica, come per quel nonno storpio, discepolo di Baal Schem, che racconta con tale passione del maestro, da guarire.
Il parlare di Dio è poi un parlare creativo. Non sono parole vuote che si perdono nel vento ma si traducono in un avvenimento.
Il primo credo ebraico, Deut 26,5-9, non è tipo dogmatico, argomentativo, ma è un credo narrativo (« mio padre era un arameo errante, vi stette come un forestiero, con poca gente e vi diventò una nazione grande forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri. E il Signore ascoltò la nostra voce… »).
C’è qui la storia palpitante di un popolo.
Nell’autocoscienza ebraica è fortissima la dimensione dell’essere stati forestieri.
Il cuore di questo piccolo credo è la memoria di un uomo, Giacobbe, che ha combattuto contro Dio, ed anche la memoria della sofferenza.
Ciò che crea legame all’interno di una comunità non è tanto il credere in un dogma, ma avere una memoria collettiva.
La storia di Israele è una storia di una comunità che racconta (salmo 78,3-4). Così pura la storia delle prime comunità cristiane e così dovrebbe essere ancora oggi. Purtroppo oggi c’è la difficoltà di comunicare tra generazioni diverse, di raccontare la propria fede alle generazioni successive.
Il ricordo (ziqqaron), non è il ricordo oggettivo, ma il memoriale che fa entrare in un avvenimento passato. È questo un elemento che collega strettamente ebraismo e cristianesimo: come il seder pasquale ebraico in cui si fa memoria del passato di schiavitù e di liberazione così è l’eucaristia cristiana in cui si aggiunge il ricordo dell’ultima cena. Anche l’eucaristia è essenzialmente un racconto, non solo nella liturgia della parola ma anche in quella eucaristica.
Il racconto nella bibbia coinvolge anche il creato « I cieli narrano la gloria di Dio… » (salmo 19,1-2). Non solo il pio ebreo o la comunità sono orientati a raccontare, ma la creazione tutta. Sta a noi ascoltare e interpretare queste storie.
Oggi c’è un ritorno al raccontare. Nella chiesa cattolica hanno prevalso nettamente le ragioni del dogma, contro quelle, ritenute poco valide, del racconto.
La teologia narrativa è tornata sulla scena proprio nel secolo in cui si è arrivati al punto più basso della comunicazione. Come dice Benjamin « È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile: la capacità di scambiare esperienze ».
Due sono le figure che esprimono bene questa situazione. La figura del reduce, del reduce dal fronte bellico, che non racconta a nessuno ciò che ha vissuto, perché ritiene che sia talmente orribile da temere di non essere creduto.
L’altra figura è quella di Ireneo Funes (Borges), che ha una memoria infallibile e mostruosa, ricordando tutto. Ma proprio il ricordare tutto senza poter selezionare porta alla paralisi. Ha miliardi di ricordi, ma non la memoria, la capacità di cogliere ciò che è importante per noi.
Sia il reduce che Ireneo indicano l’incapacità di riandare alle antiche voci di salvezza.
Adorno si chiede se fosse ancora possibile scrivere dopo Auschwitz.
Oggi la ripresa del narrare è avvenuta grazie al pensiero teologico, alla teologia narrativa. L’esigenza di tornare a narrare le storie di Dio, le storie della bibbia, ritraducendole nella cultura di oggi. Oggi c’è un bisogno irrefrenabile di tornare ai grandi racconti, ai grandi miti, che possano attrarre i grandi e non solo i piccoli (Natale Terrin).
Il rischio è di intercettare male questo bisogno, come nel caso della New Age (De Mello, Coelho…)
l’irruzione dell’altro
È in atto un profondo cambiamento, « l’irruzione dell’altro », che è avvenuto silenziosamente e che ha spaventato e sta spaventando molti, con una spaccatura all’interno della chiesa.
Dopo la morte di Dio si parla di rivincita di Dio. Dopo la secolarizzazione, l’eclissi del sacro, il fatto che si sia spenta la spinta propulsiva delle grandi religioni, data l’attuale crisi dello stato sociale, degli stati assistenziali, che rispondevano a una serie di bisogni, si chiede la soluzione alla parola forte e autorevole della bibbia, dei testi sacri. Si propone (fondamentalismi) una risposta forte a questa crisi sociale grazie alla religione. Succede nell’islam, in buona parte dell’ebraismo israeliano, nel mondo cattolico e protestante, e anche nell’induismo.
C’è poi il bisogno una spiritualità ridotta a tecniche, che faccia poco i conti con l’etica, che non impegni troppo in profondità, che trae la propria ispirazione da un insieme di elementi presi dalle diverse tradizioni religiose sia occidentali che orientali, in un cocktail appetibile, anche se confuso ed eterogeneo (new e next age).
Anche questo tipo di bisogni andrebbe non demonizzato ma intercettato, dato che probabilmente un certo cristianesimo, giocato spesso in termini sociali, ha trascurato ambiti più personali, come quello della malattia e della guarigione, della morte, dell’al di là. Espressione di questo bisogno di spiritualità è il fenomeno in netta crescita anche in Italia del pentecostalismo, che tende a dare minore importanza alla dimensione dogmatica in favore del carattere mistico ed entusiastico, della partecipazione anche corporea (danza, ritmo…).
Ma tutti questi fenomeni esprimono un autentico bisogno di Dio, la rivincita di Dio, oppure il bisogno del tutto umano del sacro, del religioso?
Tutti questi fenomeni hanno favorito la crescita nel nostro paese di un pluralismo religioso, di un mosaico della fede, che pur presente nel passato (la comunità ebraica più antica e i valdesi) oggi è più visibile e reclama un’idea di laicità che riconosca il valore delle minoranze, viste piuttosto come ricchezza che non come fonte di problemi.
La ricerca anche faticosa di occasioni di incontro passa anche attraverso il lavoro sulla identità narrativa. Dialogare non significa necessariamente risolvere un problema: invece di argomentare o dimostrare si può anche raccontare o ascoltare la storia di un altro.
Deve essere data la possibilità ai molti del nostro paese che vogliono raccontare la propria storia di poterlo fare, moltiplicando le occasioni per entrare in contatto con gli autoctoni, per cui il nostro racconto si incroci con il loro racconto. È quanto è avvenuto con l’ondata migratoria dal meridione. L’incontrarsi giorno dopo giorno nelle scuole, nelle fabbriche ha consentito di vivere un’esperienza di socializzazione integrante.
Proprio la riscoperta della dimensione narrativa del cristianesimo, della teologia narrativa ha reso più facile l’incontro con l’ebraismo, che si è sempre maggiormente autocompreso attraverso la narrazione che non attraverso la riflessione dogmatica. L’argomentazione dogmatica tende a chiudere mentre la narrazione apre all’incontro del reciproco ascolto.

Publié dans:TEMI DI PREDICAZIONE |on 21 juin, 2011 |Pas de commentaires »

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