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LA LUCE MODELLA IL TEMPIO CRISTIANO DI ENZO BIANCHI

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LA LUCE MODELLA IL TEMPIO CRISTIANO DI ENZO BIANCHI

L’architettura di una chiesa dovrebbe riuscire nell’operazione o meglio nella predisposizione architetturale – di rendere possibile che la luce, nella quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28), ci riveli chi è la luce del mondo, colui che ha detto: «lo sono la luce del mondo» (Gv 8,12). E se «nel Logos era la vita, la vita luce degli uomini» (cf. Gv 1,4), se «il Logos è la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (cf. Gv 1,9), allora in un’architettura di assemblea cristiana la luce deve sempre tendere a essere simbolica, sacramentale.
Questo non significa che la luce debba abbagliare, ma che il suo potere rivelativo deve modularsi in luce, penombra e oscurità, dicendo e non dicendo, mai abbagliando e mai lasciando regnare le tenebre. È significativo lo spazio di qualsiasi chiesa cristiana, nella quale la luce del giorno entra in molteplici modi: in squarci di ogiva, oppure attraverso filtri che la rendono dolce, attraverso vetrate che ne dettano un racconto…
E quando scende la sera e lo spazio della chiesa potrebbe essere invaso dalle tenebre, ecco la lampada palpitante, che impedisce alle tenebre di regnare.
«Sia la luce!» (Gen 1,3), è stata la prima parola uscita dalla bocca di Dio sulla terra che era «informe e vuota» (Gen 1,2), mentre «le tenebre ricoprivano l’abisso~ e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque » (ibid.). In questa gestazione, la parola di Dio crea la luce prima di ogni sorgente luminosa, prima del sole, della: luna e delle stelle, creati il quarto giorno. Luce che non si vedeva, ma che faceva vedere; luce creata e rivolta
verso l’altro da sé, verso le » creature, in uno slancio in cui si può cogliere come in Dio la luce sia amore e vita.

Il desiderio di Icaro
Ecco perché noi umani siamo rivolti alla luce, cerchiamo la luce, siamo affascinati dalla luce. Il desiderio di Icaro abita le profondità dei nostri cuori, e tale desiderio nel cristianesimo
è stato disciplinato, ma non negato. Basterebbe pensare all’orientamento verso oriente delle nostre chiese, soprattutto antiche e medievali, alle trifore o alle monofore cistercensi nelle absidi, alle fenditure che consentono di segnare il tempo, con la luce del sole che penetra attraverso di esse nelle chiese. Ma anche agli inni che nelle lodi mattutine della liturgia horarum cantano alla luce, al sole, alla stella del mattino. Se davvero ci fosse consapevolezza della bellezza e della forza della luce, i cristiani potrebbero capire che cosa significano le parole di Gesù: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,15), o quelle
dell’Apostolo: «Voi siete figli della luce e figli del giorno»
(1Ts 5,5 cfr. Ef 5,8). Ma la cecità oggi pare inguaribile, perché chi non vede è convinto di vedere (cfr. Gv 9,41)…
La chiesa di Bose non è una chiesa che possa vantarsi per qualche aspetto. È stata pensata, progettata e costruita da noi monaci e monache di Bose, attraverso una lunga meditazione, durata almeno
un decennio. Abbiamo anche commissionato il progetto ad architetti italiani ed europei, ma poi siamo stati incapaci di accogliere le loro suggestioni, per noi poco modeste. Volevamo infatti una chiesa modesta, una chiesa che nascesse con lo stesso spirito che aveva guidato i cistercensi a costruire le loro prime chiese monastiche. E da loro ci siamo lasciati ispirare, in particolare dalle loro granges della Francia del Nord.

Esuli nel deserto
Quella di Bose è una chiesa monastica nella quale l’assemblea si sente popolò di Dio pellegrino, esule nel deserto, dunque una chiesa che deve significare l’icona di una carovana in cammino verso il Regno. L’abside è lo spazio di gloria che raccoglie gli sguardi e le preghiere di tutti. Nell’abside la luce penetra dalla trifora, luce unica e capace di alludere alla Triunità di Dio. Sull’assemblea la luce giunge tenue, accogliente, non diretta, e permette l’habitare secum, il raccoglimento; il silenzio adorante, l’assemblea ordinata e composta.
Avendo costruito la chiesa rivolta a Nord, come quelle certosine rivolte alla stella polare – secondo l’antico adagio «Stat crux dum volvitur mundus» -, essa riceve il sole direttamente dalle finestre unicamente a mezzogiorno, quando i raggi penetrano lungo la linea centrale sulla quale stanno ambone, altare, tabernacolo e libro; e il 6 agosto, solennità della Trasfigurazione del Signore, la luce cade proprio a mezzogiorno sull’ambone. È
una povera chiesa monastica, al immagine della nostra comunità; una chiesa senza pretese, non degna di essere guardata, ma capace di insegnare, di fare segno, a chi sa guardare.

Publié dans:ENZO BIANCHI - PRIORE DI BOSE |on 5 novembre, 2018 |Pas de commentaires »

FEDELTÀ NEL TEMPO DI ENZO BIANCHI (2014)

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FEDELTÀ NEL TEMPO DI ENZO BIANCHI (2014)

Lessico della vita interiore

«Ascoltate oggi la sua voce» (Salmo 95,7): nella Bibbia è l’alleanza con il Signore che definisce il tempo di Israele, del popolo di Dio: un tempo esistenziale misurato sul davar, la parola-evento del Signore, e sull’obbedienza del popolo di Dio a questa parola. TI tempo nella Scrittura è sempre legato alla storicità radicale dell’uomo, alla sua struttura di creatura che nell’oggi decide il proprio destino tra vita e morte, tra benedizione e maledizione. Per questo la storia è orientata a un télos – fine e meta – svelato dagli interventi di Dio che si manifesta nei progressi e nelle regressioni dell’umanità, ed è storia di salvezza perché Dio chiama continuamente l’uomo a camminare verso la luce, verso una meta che è il Regno, e gli fornisce i mezzi per farlo nell’attesa dello shalom, dono di Dio e coronamento della fedeltà degli uomini.
È questa concezione del tempo che verrà prolungata nel Nuovo Testamento: venuta la «pienezza del tempo» (Galati 4,4), Dio manda suo Figlio, nato da donna, e la sua vita, la sua passione-morte-resurrezione appaiono eventi storici, unici, collocati in un tempo preciso, e inaugurano gli ultimi tempi, quelli in cui noi viviamo nell’attesa della sua gloriosa venuta, attesa del Regno e del rinnovamento del cosmo intero. Con la prima venuta di Gesù nella carne ha inizio un kairos, un tempo propizio che qualifica tutto il resto del tempo. Gesù, inaugurando il suo ministero, annuncia che il tempo è compiuto (Marco 1,15), che l’ora della piena realizzazione è iniziata, che occorre convertirsi e credere all’Evangelo (Marco 1,15; Matteo 4,17); di conseguenza occorre utilizzare il tempo: il tempo di grazia è realtà in Gesù Cristo! Passione, morte e resurrezione di Gesù non sono un semplice evento del passato: sono la realtà del presente sicché l’oggi concreto è immerso nella luce della salvezza. Questo è il tempo favorevole, questo il giorno della salvezza (cfr. 2 Corinti 6,2)! Il primo atteggiamento del cristiano di fronte al tempo è allora quello di cogliere l’oggi di Dio nel proprio oggi, facendo obbedienza alla Parola che oggi risuona. Il nostro rapporto con il tempo, con Chronos tiranno che divora i suoi figli, viene così trasformato per assumere dei connotati precisi: si tratta di saper giudicare il tempo (cfr. Luca 12,56), di «discernere i segni dei tempi» (Matteo 16,3) per giungere a cogliere «il tempo della visita di Dio» (Luca 19,44).
Il credente sa che i suoi tempi sono nelle mani di Dio: «Ho detto: Tu il mio Dio; i miei tempi nella tua mano» (Salmo 3I,I5BI6A). È l’atteggiamento fondamentale: i nostri giorni infatti non ci appartengono, non sono di nostra proprietà. I tempi sono di Dio e per questo nei Salmi l’orante chiede a Dio: «Fammi conoscere, Signore, la mia fine, qual è la misura dei miei giorni» (Salmo 39,5) e invoca: «Insegnaci a contare i nostri giorni, e i nostri cuori discerneranno la sapienza» (Salmo 90,12). La sapienza del credente consiste in questo saper contare i propri giorni, saperli leggere come tempo favorevole, come oggi di Dio che irrompe nel proprio oggi. Il cristiano deve «vegliare e pregare in ogni tempo» (Luca 21,36), impegnato in una lotta antidolatrica in cui il tempo alienato è l’idolo, il tiranno che cerca di dominare e rendere schiavo l’uomo. Per Paolo il cristiano deve cercare di usare il tempo a disposizione per operare il bene (cfr. Galati 6,10), deve approfittare del tempo e, soprattutto, quale uomo sapiente, deve salvare, redimere, liberare, riscattare il tempo (cfr. Efesini 5,16; Colossesi 4,5). Tutto questo perché il tempo del cristiano è tempo di lotta, di prova, di sofferenza. Anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle energie del Risorto al cristiano, resta ancora operante l’influsso del «dio di questo mondo» (2 Corinti 4,4), sicché il tempo del cristiano permane tempo di esilio, di pellegrinaggio (cfr. 1Pietro 1,17), in attesa della realtà escatologica in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1Corinti 15,28). Il cristiano infatti sa – e non ci si stancherà mai di ripeterlo in un’epoca che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tanto meno di eternità, in un’epoca appiattita sull’immediato e l’attualità – il cristiano sa che il tempo è aperto all’eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei 13,8; cfr. Apocalisse 1,17). Il télos delle nostre vite è la vita eterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene. Se questa è la dimensione autentica del tempo del cristiano, allora capiamo in profondità la portata di queste affermazioni di Dietrich Bonhoeffer: «La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, “memoria”, altrimenti degenerano.
Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno “smemorato”, e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile». Scritte più di cinquant’anni fa, queste parole sono ancora molto attuali e pongono il problema della fedeltà e della perseveranza: realtà oggi rare, parole che non sappiamo più declinare, dimensioni a volte sentite perfino come sospette o sorpassate e di cui – si pensa – solo qualche nostalgico dei «valori di una volta» potrebbe auspicare un ritorno. Ma se la fedeltà è virtù essenziale a ogni relazione interpersonale, la perseveranza è la virtù specifica del tempo: esse pertanto ci interpellano sulla relazione con l’altro. Non solo, i valori che tutti proclamiamo grandi e assoluti esistono e prendono forma solo grazie ad esse: che cos’è la giustizia senza la fedeltà di uomini giusti? Che cos’è la libertà senza la perseveranza di uomini liberi? Non esiste valore né virtù senza perseveranza e fedeltà! Così come, senza fedeltà, non esiste storia comune, fatta insieme. Oggi, nel tempo frantumato e senza vincoli, queste realtà si configurano come una sfida per l’uomo e, in particolare, per il cristiano. Quest’ultimo, infatti, sa bene che il suo Dio è il Dio fedele, che ha manifestato la sua fedeltà nel Figlio Gesù Cristo, «l’Amen, il Testimone fedele e verace» (Apocalisse 3,14) in cui «tutte le promesse di Dio sono diventate sì» (cfr. 2 Corinti 1,20). Queste dimensioni sono dunque attinenti al carattere storico, temporale, relazionale, incarnato della fede cristiana, e la delineano come responsabilità storica. La fede esce dall’astrattezza quando non si limita a informare una stagione o un’ora della vita dell’uomo, ma plasma l’arco della sua intera esistenza, fino alla morte. In questa impresa il cristiano sa che la sua fedeltà è sostenuta dalla fedeltà di Dio all’alleanza, che nella storia di salvezza si è configurata come fedeltà all’infedele, come perdono, come assunzione della situazione di peccato, di miseria e di morte dell’uomo nell’incarnazione e nell’evento pasquale. La fedeltà di Dio verso l’uomo è cioè diventata responsabilità illimitata nei confronti dell’uomo stesso. E questo indica che le dimensioni della fedeltà e della perseveranza pongono all’uomo la questione ancor più radicale della responsabilità. L’irresponsabile, così come il narcisista, non sarà mai fedele. Anche perché la fedeltà è sempre fedeltà a un «tu», a una persona amata o a una causa amata come un «tu»: non ogni fedeltà è pertanto autentica! Anche il rancore, a suo modo, è una forma di fedeltà, ma nello spazio dell’odio. La fedeltà di cui parliamo avviene nell’amore, si accompagna alla gratitudine, comporta la capacità di resistere nelle contraddizioni. Jankélévitch definisce la fedeltà come «la volontà di non cedere all’inclinazione apostatica». Essa è pertanto un’attiva lotta la cui arena è il cuore umano. È nel cuore che si gioca la fedeltà! Questo significa che essa è vivibile solo a misura della propria libertà interiore, della propria maturità umana e del proprio amore! Le infedeltà, gli abbandoni, le rotture di impegni assunti e di relazioni a cui ci si era impegnati, situazioni tutte che spesso incontriamo nel nostro quotidiano, rientrano frequentemente in questa griglia. E dicono come sia limitante, all’interno della chiesa, ridurre il problema della fedeltà e della perseveranza, e quindi del loro contrario, alla sola dimensione giuridica, di una legge da osservare. In gioco vi è sempre il mistero di una persona, non semplicemente un gesto di rottura da sanzionare. Il gesto di rottura va assunto come rivelatore della situazione del cuore, cioè della persona. Anzi, in profondità, la dimensione dell’infedeltà non è estranea alla nostra stessa fedeltà, così come l’incredulità traversa il cuore del credente stesso. Che altro è la Bibbia se non la testimonianza della tenacissima e ostinata fedeltà di Israele a voler narrare la storia della propria infedeltà di fronte alla fedeltà di Dio? Ma come riconoscere la propria fedeltà se non a partire dalla fede in Colui che è fedele? In questo senso il cristiano «fedele» è colui che è capace di memoria Dei, che ricorda l’agire del Signore: la memoria sempre rinnovata della fedeltà divina è ciò che può suscitare e sostenere la fedeltà del credente nel momento stesso in cui gli rivela la propria infedeltà. E questo è esattamente ciò che, al cuore della vita della chiesa, avviene nell’anamnesi eucaristica. 

SALMI (I)- A CURA DI ENZO BIANCHI

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SALMI – A CURA DI ENZO BIANCHI

IL CONTENUTO

Il Salterio si presenta suddiviso in cinque libri scanditi da una dossologia finale; il Quinto libro è concluso da una piccola collezione di Salmi (dal 146 al 150), detti alleluyatici perché hanno come titolo l’espressione «Lodate il Signore» (halelûyah), che fungono da dossologia conclusiva non solo del Quinto libro ma dell’intero Salterio (dal greco psaltérion, lo strumento a corde che accompagnava i Salmi).
Questa antica suddivisione, risalente almeno al Il secolo a.C. ma probabilmente più antica, riproduce la suddivisione in cinque libri della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e sottolinea l’autorevolezza dei Salterio: anch’esso è una Torah! La dossologia finale di ciascun libro si accompagna a una beatitudine che troviamo all’interno di ognuno dei Salmi che chiudono i cinque libri: 41,2; 72,17; 89,16; 106,3; 146,5 (all’inizio della collezione alleluyatica conclusiva dei Salterio). Il doppio registro della «beatitudine dell’uomo» e della «lode di Dio» scandisce così ciascuno dei libri dei Salterio. Ma si può dire di più: visto che i Salmi 1 e 2 costituiscono il «prologo» dell’intero Salterio e sono racchiusi dal concetto della beatitudine dell’uomo (1,1; 2,12), e visto che i Salmi 146-150, che costituiscono l’epilogo laudativo del Salterio, sono interamente pervasi dalla lode di Dio, è l’intero libro dei Salterio a essere racchiuso – secondo un tipico procedimento stilistico della letteratura ebraica detto «inclusione» -dal doppio registro della beatitudine dell’uomo e della lode di Dio. li Salterio è cosi un libro dell’uomo e di Dio, un libro teandrico, che indica all’uomo la via della felicità affermando che questa si compie nella lode di Dio: nei Salmi 146-150 la radice hll, «lodare», ricorre ben 31 volte e il Salmo 145, che di fatto è l’ultimo del corpo del Salterio – essendo i Salmi 146-150 l’epilogo – è, come recita la sua soprascritta al versetto 1, una «lode», una tehillâ.
La testimonianza di un popolo che sapeva pregare. Il Salterio è forse il libro biblico più particolare. Si tratta di una raccolta di 150 componimenti poetico-religiosi, differenti per autore, data di composizione, ambiente di origine, tonalità letteraria, lunghezza, modalità di composizione. Accanto al brevissimo Salmo 117 con i suoi due soli versetti, vi è il maestoso Salmo 119 composto da ben 176 versetti. Vi sono Salmi «studiati a tavolino», redatti da capo a fondo con l’elaborato ricorso ad artifici letterari raffinati, come il già ricordato 119; altri, invece, mostrano le tracce e il peso della storia nella stratificazione letteraria di cui sono portatori, come il Salmo 68, costituito da un nucleo originario antichissimo che celebrava una vittoria militare all’epoca dei giudici, da una successiva «rilettura» che lo ha adattato al tempo della monarchia di Giuda, e infine dall’intervento con glosse e ampliamenti di una terza «mano» nell’epoca postesilica. Tutto ciò rende impossibile parlare di una teologia dei Salmi compatta e unitaria.
Tuttavia tali componimenti hanno in comune il fatto di essere preghiere, di essere le parole che hanno retto il dialogo fra Israele e il suo Dio. È con questa prospettiva particolare che essi si collocano all’interno della struttura teologica centrale con cui Israele ha letto il proprio rapporto con Jhwh: «l’alleanza». I Salmi costituiscono la risposta di Israele alla parola di Dio, al suo intervento nella storia: essi sono «preghiere», e la «teologia del Salterio», se cosi si può dire, è essenzialmente una teologia della preghiera biblica. Questa preghiera conosce una grande quantità di inflessioni e modulazioni, parallela all’estrema diversità delle situazioni esistenziali e storiche: il Salterio è preghiera nella vita e nella storia, anzi, è storia e vita messe in preghiera. Esso può dunque essere giustamente considerato la migliore «Scuola di preghiera» in quanto tende a unificare vita e preghiera, storia e preghiera: esso insegna che «la preghiera è vivere alla presenza di Dio». Anche in una prospettiva cristiana, la quale ha al suo centro l’incarnazione e individua la storia e il mondo come il luogo della risposta a Dio, essi restano la preghiera per eccellenza: la Liturgia delle ore, vale a dire la preghiera ufficiale della chiesa, è intessuta essenzialmente di Salmi e afferma la sostanziale irrinunciabilità dei Salmi per la chiesa. E non sarebbe difficile mostrare come le grandi tematiche che attraversano la preghiera salmica (la confessione del nome salvifico di Dio, il riconoscimento della fraternità che lega i credenti nel Signore, la preghiera per l’avvento dei suo Regno, la confessione di peccato e la richiesta di perdono ecc.) sfociano quasi come in un compendio nella preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, il Padre nostro (cf. E. Beaucamp, Israël en prière. Dès Psaumes au Notre Père, Cerf, Paris 1985). Né si deve dimenticare che i Salmi, essendo pregati in tutte le confessioni cristiane, sono preghiera «ecumenica» per eccellenza.
I Salmi sono lode di Dio. I Salmi attestano che i due polmoni della preghiera biblica sono «la supplica» e «la lode». O forse, meglio, la lode e la supplica. Infatti, la lode costituisce l’orizzonte inglobante di tutta la preghiera di Israele. «La lode non è soltanto una « forma letteraria » all’interno del Salterio; la lode di Dio risuona in tutti i Salmi ed è pronunciata anche de profundis, dal profondo dell’angoscia. Lodare Dio: questa è la peculiarità di Israele, poiché nella lode è espresso il riconoscimento che il popolo di Dio è consapevole di essere « semplicemente dipendente » dal suo Dio e, al tempo stesso, che deve se stesso e tutto ciò che ha ricevuto e riceve alla bontà di Dio creatore. La lode è quindi la risposta tipica di Israele» (H. J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, p. 109). La supplica implica sempre la lode (perché la lode è anzitutto confessione di fede nel nome di Dio e questo è sempre presente nelle suppliche, anche le più disperate, come invocazione del volto e dei nome che solo può salvare) e la supplica tende sempre alla lode, com’è ben visibile nei Salmi di supplica che terminano con tonalità di lode (cf. le due parti dei Salmo 22, la prima sotto il segno dell’angoscia – versetti 2-22 – e la seconda impregnata di gioia e di esultanza – versetti 23-32; si veda anche l’espressione «ancora lo celebrerò! » dei levita esiliato che si esprime con tono di lamento in Salmi 42-43). Così, sebbene le suppliche siano il genere di preghiera più presente nel Salterio, si comprende il nome di «Lodi» (Tehillîm) che la tradizione ebraica ha attribuito all’insieme del libro. L’intersecarsi di questi diversi registri di preghiera e di atteggiamenti davanti a Dio (domanda e ringraziamento, lamento ed esultanza, grido angosciato e fiducia, lacrime e risa) dice l’intrinsecità del rapporto fra lode e supplica: « Quando ho levato il mio grido a lui, / la mia bocca già cantava la sua lode» (66,17).
I Salmi sono preghiera personale e collettiva. L’interscambio colto a proposito della lode e della supplica riguarda anche la dimensione personale e collettiva della preghiera del Salterio. Spesso queste dimensioni sono compresenti ìn uno stesso Salmo (cf. 22; 51; 130): a volte forse perché l’orante è il re, dunque una personalità corporativa che abbraccia in sé il destino del popolo, altre volte forse perché un Salmo originariamente individuale è stato rimaneggiato in senso collettivo per meglio adattarlo alla preghiera comunitaria. In ogni caso, al di là delle spiegazioni di dettaglio, va rilevato che la dimensione teologica dell’alleanza implica una intrinsecità fra «io» e «noi». Nei Salmi di ringraziamento l’orante invita i presenti al tempio a unirsi alla sua lode nella piena coscienza che il beneficio che il Signore gli ha procurato gli è stato ottenuto non grazie ai propri meriti, ma alla propria appartenenza al popolo con cui Dio ha stretto alleanza (cf. 34,4); la supplica dell’orante che invoca il perdono dei proprio peccato in vista della propria restaurazione personale e della propria riammissione alla presenza di Dio è seguita dall’invocazione a Dio per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e la ripresa del culto al tempio (51,3-19 e 20-21). La stessa utilizzazione comunitaria e liturgica di Salmi composti da un individuo fa sì che « io » del singolo e «io» di Israele si collochino in situazione di circolarità e non di esclusione. In ogni caso, il fatto che le preghiere contenute nel Salterio siano destinate a essere cantate e musicate indica che esse trovavano nella liturgia il loro luogo di destinazione. La qual cosa non ha impedito che divenissero testi usati anche nella pietà personale. Il Salterio tuttavia lascia trasparire numerose situazioni liturgiche, rituali e cultuali in cui venivano utilizzati i Salmi: processioni (48,13-15; 68,25-26; 118,26-27), pellegrinaggi (84; la collezione dei 15 Canti delle salite, espressione presente nelle soprascritte dei Salmi 120-134), sacrifici (50,23; 66,13-15; 116,17 ecc.), liturgie di ingresso al tempio (15; 24), benedizioni sacerdotali (115,14-15; 118,26; 128,5; 134,3), oracoli (12,6; 60,8-10; 81,7-17).
I Salmi sono musica e gestualità. Il riferimento a numerosi strumenti musicali (cf. 150,3-5) mostra l’estrema vivezza di queste liturgie: strumenti a corda (arpa, lira, cetra), fiati (flauti, liuti, oboe), corni (sia naturali che artificiali, cioè di bronzo o rame o argento), e poi cimbali, tamburi, campanelle… Ma lo strumento per eccellenza della preghiera salmica, e biblica in genere, è il corpo: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di « mormorio », « sussurro ». Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: « Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore? » » (P. Beauchamp, « La prière à l’école des Psaumes », in O. Odelain – R. Séguineau, Concordance de la Bible. Les Psaumes, Desclée de Brouwer, Paris 1980, P. XVII). Ecco dunque che il corpo si esprime nella preghiera inginocchiandosi (95,6), levando in alto le mani (141,2), protendendo in avanti le mani (143,6), sciogliendo le membra in danze (149,3), battendo le mani (47,2), prostrandosi faccia a terra (29,2), alzando gli occhi verso l’alto in segno di supplica (123) ecc. È cosi che i Salmi strappano la preghiera ai rischi di cerebralità e la presentano come linguaggio globale, di tutto l’uomo.
I Salmi sono poesia. Questa totalità di espressione dell’uomo trova la sua più adeguata manifestazione nella forma poetica: non bisogna dimenticare che i Salmi sono poesia e che pertanto la musicalità e il ritmo, le assonanze e le allitterazioni, cosi come tutti gli altri elementi stilistici della poetica ebraica che compongono la trama dei Salmi, sono essenziali per penetrarli, o meglio, per lasciarsene penetrare. Senza addentrarsi nella grande ricchezza della poetica ebraica, basti qui ricordare che la regola fondamentale della poesia ebraica si basa sul fatto che la lingua ebraica è accentuale, regolata dall’accento tonico distribuito fra pause e cesure. Ogni parola ha un accento su cui cade il tono della voce nel canto o nella recitazione, e il ritmo si adatta al carattere proprio di ciascun Salmo: i Salmi sapienziali, meditativi, avranno più frequentemente un ritmo pacato e disteso di 3+3 accenti (per esempio 1); le suppliche hanno spesso il ritmo detto qinâ («lamento»), un ritmo strozzato di 3+2 accenti che riproduce il parlare sincopato di chi è preso da singhiozzi e pianto (42-43). Tuttavia molti Salmi non presentano affatto una regolare struttura ritmica o per la lunga e stratificata storia letteraria che li ha prodotti, o per le corruzioni e lacune che si possono essere prodotte nel corso della tradizione manoscritta.
Altra regola essenziale della poesia ebraica è quella del «parallelismo»: un concetto è ripetuto una o più volte con parole diverse, con espressioni variate, per ottenere lo scopo di una adeguata interiorizzazione. I Salmi delle salite (120-134), tutti databili all’epoca postesilica – eccetto il Salmo 132, di origine più antica – sono redatti facendo ricorso al procedimento della «ripetizione»: una stessa parola o espressione è ripetuta più volte per aiutare la memorizzazione del testo, tra l’altro sempre molto breve (tranne, ancora, il Salmo 132). Si trattava infatti di componimenti che dovevano essere recitati durante il pellegrinaggio a Sion (detto «la salita», poiché a Gerusalemme, data la sua collocazione geografica, «si sale»: cf. Vangelo secondo Marco 10,33), e dunque dovevano essere semplici, adatti a tutti i livelli della popolazione, e facilmente memorizzabili.
Al «parallelismo sinonimico» (6,2) si affianca il «parallelismo antitetico», in cui un’idea è rafforzata dal suo contrario: «Gli uni contano sui carri, gli altri sui cavalli; / noi invochiamo il nome di Jhwh nostro Dio; / quelli si piegano e cadono, / noi restiamo in piedi e siamo saldi» (20,8-9).
Il « parallelismo sintetico » si riferisce a un concetto che, espresso nel primo membro di un versetto, viene completato dal secondo: « La volontà del Signore è luminosa / dà trasparenza allo sguardo » (1 9,9cd).
Il «parallelismo ascendente» mostra il continuo e progressivo accrescimento dell’idea fondamentale espressa: «Riconoscete a Jhwh, figli di Dio, / riconoscete a Jhwh gloria e potenza / riconoscete a Jhwh la gloria del suo nome» (29,1-2a).
Preghiera di tutto l’uomo, i Salmi rivelano la grande quantità di linguaggi che può esprimere la relazione con il Signore. Il sussurro, il brusio sommesso della meditazione (1,2), i singhiozzi e le lacrime del pianto del supplice (6,7-8; 56,9), la protesta nei confronti di un agire di Dio che non si riesce a comprendere («Perché, Signore?», 88,15), il silenzio (65,2), il grido e l’urlo (22,6; 61,2; 69,4), l’invettiva (58; 83,10ss), il lamento (5,2), la riflessione e il dialogo interiore (4,5; 42,6.12; 43,5; 73,16), il riso incontenibile della gioia straripante (126,2). Ogni linguaggio rinvia a una situazione esistenziale e storica che l’orante cerca di leggere davanti a Dio.
La molteplicità di situazioni e di atteggiamenti espressa nei Salmi si riflette sulla variegata gamma di generi letterari presenti nel Salterio che di seguito analizzeremo. Occorre però dapprima premettere che in realtà molti Salmi presentano una tale mescolanza di generi al loro interno che risulta quasi impossibile rinchiuderli in una sola griglia. Così il 36 combina il registro sapienziale con quello della supplica; il 52 contiene elementi sapienziali, ma anche i toni dell’invettiva e della requisitoria, del lamento personale e del ringraziamento; il 75 può essere annoverato tra i ringraziamenti, benché vi emerga la tematica della regalità di Jhwh e presenta elementi liturgico-profetici; il 95 e il 115 sembrano tradire un’origine liturgica senza che sia possibile specificare il tipo di liturgia; il 125 unisce il tono della supplica a quello della fiducia; il 126 è un Salmo di ringraziamento che diviene lamentazione e supplica; il 129 vede coabitare in sé i toni della supplica, della fiducia e del ringraziamento… E questo, che potrebbe essere verificato su molti altri Salmi, da un lato dice la precarietà dell’attribuzione di un Salmo a un determinato genere (mentre spesso si tratta piuttosto di giudicare la preponderanza di un tono rispetto a un altro), dall’altro attesta che i Salmi riflettono anzitutto la complessità e la non linearità della vita e della storia più ancora che la regolarità ingessata di forme e moduli letterari rigidi.

N.B.: Questo testo è solo una piccola parte dell’introduzione ai Salmi
curata da Enzo Bianchi e riportata nel volume citato più sopra.

« ELOGIO » DELLA « DEBOLEZZA » – (MA NON DELLA « MISERIA ») – ENZO BIANCHI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano10/rit_bianchi37.htm

« ELOGIO » DELLA « DEBOLEZZA »  – (MA NON DELLA « MISERIA »)

ENZO BIANCHI

(« Avvenire », 10/7/’11)

Come scriveva Gilbert K. Chesterton, il paradosso attraversa il tessuto della Fede Cristiana! E così la debolezza, l’ »asthenía » che nasce dalla malattia, dall’ »handicap », dall’umiliazione, dalla sofferenza imposta dalla vita, nel Cristianesimo se è vissuta come un cammino Pasquale può diventare addirittura un luogo in cui si fa sentire la forza di Dio. Questo viene proclamato da Gesù nel « Discorso della Montagna », quando afferma che sono « Beati », felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati (cfr. « Mt 5,1-12″). L’Apostolo Paolo, nella « Seconda Lettera ai Corinzi », compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza! ». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo! Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti, quando sono debole, è allora che sono forte!» (« 2 Cor 12,9-10″). In questo Testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza del Signore si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua « Tenda » – la « Shekinah », cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell’uomo. Si faccia però attenzione! Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al Cristianesimo – , ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel « Nuovo Testamento », è scandaloso e può sembrare follia (cfr. « 1 Cor 1,18-31″), e noi Cristiani abituati a tali parole siamo disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è « fondativa » dell’Antropologia Cristiana. Confessiamolo però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile « Beatitudine ». Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per essere condotti all’«unica cosa necessaria» (« Lc 10,42″)? Non solo individualmente, ma come Comunità, come Chiesa, siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della discreta « Caritas », dell’amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler « dare testimonianza » a noi stessi? Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di « handicappati », ma siamo di fronte a un uomo od a una donna in « carrozzella », a una persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle sue, forse solo allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo ha messo la sua « Tenda ». C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli Cristiani sia come Chiesa. «Bene per me essere stato nella debolezza!» (« Sal 119,71″), prega il « Salmista » davanti a Dio, ma è bene anche per la Chiesa essere umiliata, conoscere giorni di « non-successo », di sterilità, di impotenza tra le potenze di questo Mondo, a volte addirittura di « insignificanza ». Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell’ultima parte del suo Ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? Sì, dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo, difficile da accettare e soprattutto da vivere senza tradire l’amore! San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un Monaco nella storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una « crisi » Spirituale e Morale, che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo Monastero. In quel tempo comprese molte cose della Vita Cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la Grazia, la Misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (« Discorsi sul Cantico dei Cantici 25,7″). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova!

LA PAROLA DELLA CROCE – (AL CRISTIANO SI RIPRESENTA LA TENTAZIONE DI «SVUOTARE LA CROCE»…) – ENZO BIANCHI

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LA PAROLA DELLA CROCE – (AL CRISTIANO SI RIPRESENTA LA TENTAZIONE DI «SVUOTARE LA CROCE»…) ENZO BIANCHI

Da sempre nel cristianesimo ciò che appare «scandalo e follia» è l’evento della croce e, di conseguenza, anche le metafore e i segni della croce. Al cristiano si ripresenta la tentazione di «svuotare la croce»…

Da sempre nel cristianesimo ciò che appare «scandalo e follia» è l’evento della croce e, di conseguenza, anche le metafore e i segni della croce. Al cristiano si ripresenta la tentazione di «svuotare la croce», come denuncia Paolo nella Prima lettera ai Corinti, così come al non cristiano la croce e la sua logica appaiono disumane oppure un falso tentativo di interpretazione della sofferenza. Questo da sempre. Ma oggi – in questi nostri tempi contrassegnati nel mondo occidentale dal benessere materiale, dall’abbondanza di ricchezze e di comodità, dalla ricerca di piacere a basso prezzo, dalla convinzione che tutto ciò che è tecnicamente possibile ed economicamente ottenibile è per ciò stesso lecito e auspicabile – dobbiamo constatare che la rimozione della croce è quotidianamente attestata in mille modi, a volte rozzi, a volte molto sottili, e il fondamento stesso del cristianesimo ha perso evidenza, risulta sbiadito, annebbiato. Si pensi al tentativo di presentare la vita cristiana soltanto sotto il segno della resurrezione, quasi fosse una festa continua; si pensi alle energie spese per presentare ai giovani un Vangelo accattivante perché liberato dalle esigenze della «rinuncia» (elemento essenziale della stessa liturgia battesimale, oggi ridotto a termine impronunciabile), della disciplina, del rinnegamento di sé, del prendere su di sé la croce (espressioni evangeliche oggi considerate «sconvenienti» a pronunciarsi); si pensi alla scena, cui si assiste sempre più frequentemente nello spazio ecclesiale, di retori gnostici non cristiani che declinano a loro modo la fede cristiana, riproponendo ai credenti un cristianesimo svuotato della follia della croce e arricchito dal discorso intellettuale persuasivo.
Ormai Celso non è più il filosofo del II secolo che denigrava i cristiani a causa del loro Signore – un crocifisso – e della composizione sociologica – estremamente povera – della chiesa: no, il nuovo Celso elogia e loda un Gesù che è maestro di filantropia e adula i cristiani così importanti e determinanti nella polis, ma per fare questo annebbia, oscura, relega nell’oblio ciò che è l’evento fondatore e ispiratore della vita cristiana. E accanto al nuovo Celso c’è il nuovo imperatore, che come l’antico tratteggiato da Ilario di Poitiers, il grande Padre della chiesa del IV secolo, «è insidioso e lusinga, non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; ci spinge non verso la libertà mettendo ci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro» (Liber contra Constantium 5). Così, senza essere contestata visibilmente e direttamente, la croce è svuotata! Eppure, con quanta insistenza e con che forza Giovanni Paolo II ritorna a chiedere ai cristiani di «non svuotare la croce di Cristo»!
Almeno una volta all’anno, al venerdì santo, la croce è posta davanti ai fedeli in tutta la sua realtà e la sua verità: c’è Gesù di Nazaret, un uomo, un rabbi, un profeta che è appeso a un legno nella nudità assoluta, un uomo crocifisso che appare anatema, scomunicato, indegno del cielo e della terra, un uomo abbandonato dai suoi discepoli, un uomo che muore disprezzato da quanti sono testimoni del suo supplizio ignominioso. Quell’uomo è Gesù il giusto, che muore così a causa del mondo ingiusto in cui ha vissuto, quell’uomo è il credente fedele a Dio anche se muore come peccatore abbandonato da Dio, quell’uomo è il Figlio di Dio cui il Padre darà risposta nel passaggio dalla morte alla resurrezione.
Eppure questo evento della croce, avvenuto a Gerusalemme il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era, può essere svuotato anche attraverso le sue metafore e i suoi segni, e noi cristiani dobbiamo restare vigilanti per non finire come gli uomini «religiosi» di ogni tempo che sentono nella crocifissione uno scandalo, o come i «sapienti» di questo mondo che la giudicano follia. La croce è la «sapienza di Dio» e san Paolo, coniando l’espressione «la parola della croce» (1 Corinti 1,18) dice che l’evento che essa crea è l’Evangelo, la buona notizia. Il cristiano non è invitato dalla croce né al dolorismo né alla rassegnazione, né tanto meno a leggere la vita di Gesù a partire da essa, ma deve riconoscere che la vita di Gesù e la forma della sua morte, la crocifissione, sono state narrazioni di Dio, del Dio vivente che ama gli uomini anche quando sono malvagi, del Dio che perdona quelli che gli sono nemici nel momento stesso in cui essi si manifestano come tali, del Dio che accetta di essere rifiutato e ucciso volendo che il peccatore si converta e viva. La croce è allora anche la denuncia del nostro essere malvagi, sedotti dal male, peccatori. e ingiusti, sicché il Giusto deve patire, essere rifiutato, condannato e crocifisso.
Sì, la croce è diventata l’emblema del cristiano – emblema a volte esaltato trionfalisticamente, altre volte ridotto a monile ornamentale o svilito a gesto scaramantico, altre ancora banalizzato a metafora di semplici avversità quotidiane – ma o essa permane memoria dello «strumento della propria esecuzione» per mettere a morte l’«uomo vecchio» che è in noi, oppure è un segno non abitato dall’evento e diviene, quindi, una mistificazione. Lutero, meditando sulla croce e facendosi qui eco dei Padri della chiesa, scriveva: «Non è sufficiente conoscere Dio nella sua gloria e maestà, ma è necessario conoscerlo anche nell’umiliazione e nell’infamia della croce [...]. In Cristo, nel Crocifisso stanno la vera teologia e la vera conoscenza di Dio».

 

SALMI – A CURA DI ENZO BIANCHI

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SALMI – A CURA DI ENZO BIANCHI

IL CONTENUTO
Il Salterio si presenta suddiviso in cinque libri scanditi da una dossologia finale; il Quinto libro è concluso da una piccola collezione di Salmi (dal 146 al 150), detti alleluyatici perché hanno come titolo l’espressione «Lodate il Signore» (halelûyah), che fungono da dossologia conclusiva non solo del Quinto libro ma dell’intero Salterio (dal greco psaltérion, lo strumento a corde che accompagnava i Salmi).
Questa antica suddivisione, risalente almeno al Il secolo a.C. ma probabilmente più antica, riproduce la suddivisione in cinque libri della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e sottolinea l’autorevolezza dei Salterio: anch’esso è una Torah! La dossologia finale di ciascun libro si accompagna a una beatitudine che troviamo all’interno di ognuno dei Salmi che chiudono i cinque libri: 41,2; 72,17; 89,16; 106,3; 146,5 (all’inizio della collezione alleluyatica conclusiva dei Salterio). Il doppio registro della «beatitudine dell’uomo» e della «lode di Dio» scandisce così ciascuno dei libri dei Salterio. Ma si può dire di più: visto che i Salmi 1 e 2 costituiscono il «prologo» dell’intero Salterio e sono racchiusi dal concetto della beatitudine dell’uomo (1,1; 2,12), e visto che i Salmi 146-150, che costituiscono l’epilogo laudativo del Salterio, sono interamente pervasi dalla lode di Dio, è l’intero libro dei Salterio a essere racchiuso – secondo un tipico procedimento stilistico della letteratura ebraica detto «inclusione» -dal doppio registro della beatitudine dell’uomo e della lode di Dio. li Salterio è cosi un libro dell’uomo e di Dio, un libro teandrico, che indica all’uomo la via della felicità affermando che questa si compie nella lode di Dio: nei Salmi 146-150 la radice hll, «lodare», ricorre ben 31 volte e il Salmo 145, che di fatto è l’ultimo del corpo del Salterio – essendo i Salmi 146-150 l’epilogo – è, come recita la sua soprascritta al versetto 1, una «lode», una tehillâ.
La testimonianza di un popolo che sapeva pregare. Il Salterio è forse il libro biblico più particolare. Si tratta di una raccolta di 150 componimenti poetico-religiosi, differenti per autore, data di composizione, ambiente di origine, tonalità letteraria, lunghezza, modalità di composizione. Accanto al brevissimo Salmo 117 con i suoi due soli versetti, vi è il maestoso Salmo 119 composto da ben 176 versetti. Vi sono Salmi «studiati a tavolino», redatti da capo a fondo con l’elaborato ricorso ad artifici letterari raffinati, come il già ricordato 119; altri, invece, mostrano le tracce e il peso della storia nella stratificazione letteraria di cui sono portatori, come il Salmo 68, costituito da un nucleo originario antichissimo che celebrava una vittoria militare all’epoca dei giudici, da una successiva «rilettura» che lo ha adattato al tempo della monarchia di Giuda, e infine dall’intervento con glosse e ampliamenti di una terza «mano» nell’epoca postesilica. Tutto ciò rende impossibile parlare di una teologia dei Salmi compatta e unitaria.
Tuttavia tali componimenti hanno in comune il fatto di essere preghiere, di essere le parole che hanno retto il dialogo fra Israele e il suo Dio. È con questa prospettiva particolare che essi si collocano all’interno della struttura teologica centrale con cui Israele ha letto il proprio rapporto con Jhwh: «l’alleanza». I Salmi costituiscono la risposta di Israele alla parola di Dio, al suo intervento nella storia: essi sono «preghiere», e la «teologia del Salterio», se cosi si può dire, è essenzialmente una teologia della preghiera biblica. Questa preghiera conosce una grande quantità di inflessioni e modulazioni, parallela all’estrema diversità delle situazioni esistenziali e storiche: il Salterio è preghiera nella vita e nella storia, anzi, è storia e vita messe in preghiera. Esso può dunque essere giustamente considerato la migliore «Scuola di preghiera» in quanto tende a unificare vita e preghiera, storia e preghiera: esso insegna che «la preghiera è vivere alla presenza di Dio». Anche in una prospettiva cristiana, la quale ha al suo centro l’incarnazione e individua la storia e il mondo come il luogo della risposta a Dio, essi restano la preghiera per eccellenza: la Liturgia delle ore, vale a dire la preghiera ufficiale della chiesa, è intessuta essenzialmente di Salmi e afferma la sostanziale irrinunciabilità dei Salmi per la chiesa. E non sarebbe difficile mostrare come le grandi tematiche che attraversano la preghiera salmica (la confessione del nome salvifico di Dio, il riconoscimento della fraternità che lega i credenti nel Signore, la preghiera per l’avvento dei suo Regno, la confessione di peccato e la richiesta di perdono ecc.) sfociano quasi come in un compendio nella preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, il Padre nostro (cf. E. Beaucamp, Israël en prière. Dès Psaumes au Notre Père, Cerf, Paris 1985). Né si deve dimenticare che i Salmi, essendo pregati in tutte le confessioni cristiane, sono preghiera «ecumenica» per eccellenza.
I Salmi sono lode di Dio. I Salmi attestano che i due polmoni della preghiera biblica sono «la supplica» e «la lode». O forse, meglio, la lode e la supplica. Infatti, la lode costituisce l’orizzonte inglobante di tutta la preghiera di Israele. «La lode non è soltanto una « forma letteraria » all’interno del Salterio; la lode di Dio risuona in tutti i Salmi ed è pronunciata anche de profundis, dal profondo dell’angoscia. Lodare Dio: questa è la peculiarità di Israele, poiché nella lode è espresso il riconoscimento che il popolo di Dio è consapevole di essere « semplicemente dipendente » dal suo Dio e, al tempo stesso, che deve se stesso e tutto ciò che ha ricevuto e riceve alla bontà di Dio creatore. La lode è quindi la risposta tipica di Israele» (H. J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, p. 109). La supplica implica sempre la lode (perché la lode è anzitutto confessione di fede nel nome di Dio e questo è sempre presente nelle suppliche, anche le più disperate, come invocazione del volto e dei nome che solo può salvare) e la supplica tende sempre alla lode, com’è ben visibile nei Salmi di supplica che terminano con tonalità di lode (cf. le due parti dei Salmo 22, la prima sotto il segno dell’angoscia – versetti 2-22 – e la seconda impregnata di gioia e di esultanza – versetti 23-32; si veda anche l’espressione «ancora lo celebrerò! » dei levita esiliato che si esprime con tono di lamento in Salmi 42-43). Così, sebbene le suppliche siano il genere di preghiera più presente nel Salterio, si comprende il nome di «Lodi» (Tehillîm) che la tradizione ebraica ha attribuito all’insieme del libro. L’intersecarsi di questi diversi registri di preghiera e di atteggiamenti davanti a Dio (domanda e ringraziamento, lamento ed esultanza, grido angosciato e fiducia, lacrime e risa) dice l’intrinsecità del rapporto fra lode e supplica: « Quando ho levato il mio grido a lui, / la mia bocca già cantava la sua lode» (66,17).
I Salmi sono preghiera personale e collettiva. L’interscambio colto a proposito della lode e della supplica riguarda anche la dimensione personale e collettiva della preghiera del Salterio. Spesso queste dimensioni sono compresenti ìn uno stesso Salmo (cf. 22; 51; 130): a volte forse perché l’orante è il re, dunque una personalità corporativa che abbraccia in sé il destino del popolo, altre volte forse perché un Salmo originariamente individuale è stato rimaneggiato in senso collettivo per meglio adattarlo alla preghiera comunitaria. In ogni caso, al di là delle spiegazioni di dettaglio, va rilevato che la dimensione teologica dell’alleanza implica una intrinsecità fra «io» e «noi». Nei Salmi di ringraziamento l’orante invita i presenti al tempio a unirsi alla sua lode nella piena coscienza che il beneficio che il Signore gli ha procurato gli è stato ottenuto non grazie ai propri meriti, ma alla propria appartenenza al popolo con cui Dio ha stretto alleanza (cf. 34,4); la supplica dell’orante che invoca il perdono dei proprio peccato in vista della propria restaurazione personale e della propria riammissione alla presenza di Dio è seguita dall’invocazione a Dio per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e la ripresa del culto al tempio (51,3-19 e 20-21). La stessa utilizzazione comunitaria e liturgica di Salmi composti da un individuo fa sì che « io » del singolo e «io» di Israele si collochino in situazione di circolarità e non di esclusione. In ogni caso, il fatto che le preghiere contenute nel Salterio siano destinate a essere cantate e musicate indica che esse trovavano nella liturgia il loro luogo di destinazione. La qual cosa non ha impedito che divenissero testi usati anche nella pietà personale. Il Salterio tuttavia lascia trasparire numerose situazioni liturgiche, rituali e cultuali in cui venivano utilizzati i Salmi: processioni (48,13-15; 68,25-26; 118,26-27), pellegrinaggi (84; la collezione dei 15 Canti delle salite, espressione presente nelle soprascritte dei Salmi 120-134), sacrifici (50,23; 66,13-15; 116,17 ecc.), liturgie di ingresso al tempio (15; 24), benedizioni sacerdotali (115,14-15; 118,26; 128,5; 134,3), oracoli (12,6; 60,8-10; 81,7-17).
I Salmi sono musica e gestualità. Il riferimento a numerosi strumenti musicali (cf. 150,3-5) mostra l’estrema vivezza di queste liturgie: strumenti a corda (arpa, lira, cetra), fiati (flauti, liuti, oboe), corni (sia naturali che artificiali, cioè di bronzo o rame o argento), e poi cimbali, tamburi, campanelle… Ma lo strumento per eccellenza della preghiera salmica, e biblica in genere, è il corpo: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di « mormorio », « sussurro ». Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: « Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore? » » (P. Beauchamp, « La prière à l’école des Psaumes », in O. Odelain – R. Séguineau, Concordance de la Bible. Les Psaumes, Desclée de Brouwer, Paris 1980, P. XVII). Ecco dunque che il corpo si esprime nella preghiera inginocchiandosi (95,6), levando in alto le mani (141,2), protendendo in avanti le mani (143,6), sciogliendo le membra in danze (149,3), battendo le mani (47,2), prostrandosi faccia a terra (29,2), alzando gli occhi verso l’alto in segno di supplica (123) ecc. È cosi che i Salmi strappano la preghiera ai rischi di cerebralità e la presentano come linguaggio globale, di tutto l’uomo.
I Salmi sono poesia. Questa totalità di espressione dell’uomo trova la sua più adeguata manifestazione nella forma poetica: non bisogna dimenticare che i Salmi sono poesia e che pertanto la musicalità e il ritmo, le assonanze e le allitterazioni, cosi come tutti gli altri elementi stilistici della poetica ebraica che compongono la trama dei Salmi, sono essenziali per penetrarli, o meglio, per lasciarsene penetrare. Senza addentrarsi nella grande ricchezza della poetica ebraica, basti qui ricordare che la regola fondamentale della poesia ebraica si basa sul fatto che la lingua ebraica è accentuale, regolata dall’accento tonico distribuito fra pause e cesure. Ogni parola ha un accento su cui cade il tono della voce nel canto o nella recitazione, e il ritmo si adatta al carattere proprio di ciascun Salmo: i Salmi sapienziali, meditativi, avranno più frequentemente un ritmo pacato e disteso di 3+3 accenti (per esempio 1); le suppliche hanno spesso il ritmo detto qinâ («lamento»), un ritmo strozzato di 3+2 accenti che riproduce il parlare sincopato di chi è preso da singhiozzi e pianto (42-43). Tuttavia molti Salmi non presentano affatto una regolare struttura ritmica o per la lunga e stratificata storia letteraria che li ha prodotti, o per le corruzioni e lacune che si possono essere prodotte nel corso della tradizione manoscritta.
Altra regola essenziale della poesia ebraica è quella del «parallelismo»: un concetto è ripetuto una o più volte con parole diverse, con espressioni variate, per ottenere lo scopo di una adeguata interiorizzazione. I Salmi delle salite (120-134), tutti databili all’epoca postesilica – eccetto il Salmo 132, di origine più antica – sono redatti facendo ricorso al procedimento della «ripetizione»: una stessa parola o espressione è ripetuta più volte per aiutare la memorizzazione del testo, tra l’altro sempre molto breve (tranne, ancora, il Salmo 132). Si trattava infatti di componimenti che dovevano essere recitati durante il pellegrinaggio a Sion (detto «la salita», poiché a Gerusalemme, data la sua collocazione geografica, «si sale»: cf. Vangelo secondo Marco 10,33), e dunque dovevano essere semplici, adatti a tutti i livelli della popolazione, e facilmente memorizzabili.
Al «parallelismo sinonimico» (6,2) si affianca il «parallelismo antitetico», in cui un’idea è rafforzata dal suo contrario: «Gli uni contano sui carri, gli altri sui cavalli; / noi invochiamo il nome di Jhwh nostro Dio; / quelli si piegano e cadono, / noi restiamo in piedi e siamo saldi» (20,8-9).
Il « parallelismo sintetico » si riferisce a un concetto che, espresso nel primo membro di un versetto, viene completato dal secondo: « La volontà del Signore è luminosa / dà trasparenza allo sguardo » (1 9,9cd).
Il «parallelismo ascendente» mostra il continuo e progressivo accrescimento dell’idea fondamentale espressa: «Riconoscete a Jhwh, figli di Dio, / riconoscete a Jhwh gloria e potenza / riconoscete a Jhwh la gloria del suo nome» (29,1-2a).
Preghiera di tutto l’uomo, i Salmi rivelano la grande quantità di linguaggi che può esprimere la relazione con il Signore. Il sussurro, il brusio sommesso della meditazione (1,2), i singhiozzi e le lacrime del pianto del supplice (6,7-8; 56,9), la protesta nei confronti di un agire di Dio che non si riesce a comprendere («Perché, Signore?», 88,15), il silenzio (65,2), il grido e l’urlo (22,6; 61,2; 69,4), l’invettiva (58; 83,10ss), il lamento (5,2), la riflessione e il dialogo interiore (4,5; 42,6.12; 43,5; 73,16), il riso incontenibile della gioia straripante (126,2). Ogni linguaggio rinvia a una situazione esistenziale e storica che l’orante cerca di leggere davanti a Dio.
La molteplicità di situazioni e di atteggiamenti espressa nei Salmi si riflette sulla variegata gamma di generi letterari presenti nel Salterio che di seguito analizzeremo. Occorre però dapprima premettere che in realtà molti Salmi presentano una tale mescolanza di generi al loro interno che risulta quasi impossibile rinchiuderli in una sola griglia. Così il 36 combina il registro sapienziale con quello della supplica; il 52 contiene elementi sapienziali, ma anche i toni dell’invettiva e della requisitoria, del lamento personale e del ringraziamento; il 75 può essere annoverato tra i ringraziamenti, benché vi emerga la tematica della regalità di Jhwh e presenta elementi liturgico-profetici; il 95 e il 115 sembrano tradire un’origine liturgica senza che sia possibile specificare il tipo di liturgia; il 125 unisce il tono della supplica a quello della fiducia; il 126 è un Salmo di ringraziamento che diviene lamentazione e supplica; il 129 vede coabitare in sé i toni della supplica, della fiducia e del ringraziamento… E questo, che potrebbe essere verificato su molti altri Salmi, da un lato dice la precarietà dell’attribuzione di un Salmo a un determinato genere (mentre spesso si tratta piuttosto di giudicare la preponderanza di un tono rispetto a un altro), dall’altro attesta che i Salmi riflettono anzitutto la complessità e la non linearità della vita e della storia più ancora che la regolarità ingessata di forme e moduli letterari rigidi.

N.B.: Questo testo è solo una piccola parte dell’introduzione ai Salmi
curata da Enzo Bianchi e riportata nel volume citato più sopra.

LA VITA CRISTIANA COME VITA BUONA, BELLA E BEATA – DI ENZO BIANCHI

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LA VITA CRISTIANA COME VITA BUONA, BELLA E BEATA – DI ENZO BIANCHI

«C’è un uomo che desidera la vita
e brama giorni per gustare il bene?» (Sal 34,13).

Esprimendo questa domanda, il Salmo ipotizza un progetto di vita buona, bella e felice, perché secondo l’autore c’è un ethos, c’è un comportamento che può rendere il vivere umano vita autentica, vita segnata dal bene…

INTRODUZIONE

In un Salmo si legge questa domanda:
«C’è un uomo che desidera la vita
e brama giorni per gustare il bene?» (Sal 34,13).

Esprimendo questa domanda, il Salmo ipotizza un progetto di vita buona, bella e felice, perché secondo l’autore c’è un ethos, c’è un comportamento che può rendere il vivere umano vita autentica, vita segnata dal bene. Ma questa domanda è in verità un’istanza presente in ogni uomo, perché ogni uomo desidera la vita, è alla ricerca di un modo di vivere la propria esistenza quotidiana che «salvi la vita». L’uomo vuole vivere, vivere il più possibile, e ciascuno porta in sé una visione ideale di ciò che vorrebbe essere: riuscire, per un uomo, è tentare di vivere la felicità, di «gustare il bene» in sé e attorno a sé.
La filosofia antica e recente ha sempre riconosciuto che la felicità è la motivazione ultima dell’agire umano, e le scienze umane lo confermano. Agostino d’Ippona ha potuto scrivere: «Noi tutti bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi l’assenso a questa affermazione, anche prima che venga spiegata in tutta la sua portata». Freud, dal canto suo, nell’opera Il malessere della civiltà si chiede: «Quali sono i progetti e gli obiettivi vitali rivelati dal comportamento degli uomini?»; e risponde: «Si è certi di non sbagliare: essi aspirano alla felicità; gli uomini vogliono essere e rimanere felici!».
È allora altamente significativo ricordare che la paternità della domanda del salmista va forse ritrovata in un’iscrizione egiziana del XIV secolo a.C. presente a El-Amarna nella tomba del faraone Ai, il successore di Tut-ank-amon. L’iscrizione dice: «C’è un uomo amante della vita e desideroso di una vita felice?».
Sì, la domanda appartiene a ogni uomo, è specifica dell’umanità! Ed è una domanda che si colloca nella ricerca di senso, una ricerca che la modernità non solo non ha evacuato, ma al contrario ha fornito di un’acutezza nuova: per vivere l’uomo non può fare a meno del senso, cioè di un significato e di un orientamento, di riferimenti e di una finalità; ma non può neppure fare a meno dell’estetica, essa pure dimensione essenziale nella ricerca di senso!
Non c’è cammino degno di questo nome senza queste tre domande: perché andare? dove andare? come andare? E oggi, se non vogliamo accelerare i nostri passi verso la barbarie, soprattutto all’interno della polis, della comunità umana, appare sempre più urgente la riscoperta di una «sapienza» che accompagni l’espansione quantitativa e produttiva nel nostro occidente, e che soprattutto accompagni le nostre società in questo periodo di disincanto.
Di fronte a questa problematica, a queste domande, il cristianesimo che si vuole nato da una «buona notizia» (questo significa letteralmente «vangelo», dal greco euanghélion) che cosa ha da dire? Ha ancora una bella notizia?

UN’ARTE DEL VIVERE CHE È SALVEZZA
Secondo l’Antico Testamento, davanti a ogni uomo e davanti all’umanità stanno la vita e il bene, la morte e il male (cfr Dt 30,15 ss.): l’uomo è posto dinanzi a una scelta decisiva tra bene e male, tra felicità e rovina, tra bellezza e devastazione. La vita è sempre associata al bene, cioè a tutto quello che rende un’esistenza umana bella e felice, e proprio per questo la condizione in cui la vita è vera, autentica e in pienezza, degna di essere vissuta dall’uomo, è lo shalom, la pace piena.
Dio ha voluto e creato l’uomo perché viva una vita terrena nella bontà e nella felicità, e il compito assegnato all’adam, al «terrestre», è tendere alla comunicazione, alla relazione, alla comunione, per conoscere il bene e la felicità. Per questo appare sovente nelle Scritture il grido: Beato! Beati! per indicare la condizione di chi vive secondo la volontà del Signore, di chi fugge il male e opera il bene, di chi opera la pace e la giustizia (si pensi anche solo al Salmo 1)…
Il Nuovo Testamento vede inverata e realizzata questa beatitudine nella vita cristiana, cioè nell’esistenza umana vissuta come Gesù Cristo stesso l’ha vissuta. Una vita umana fragile e povera, compresa tra la nascita e la morte, ma conformata a quella di Gesù fino a riprodurne le caratteristiche e ad assumerne la destinazione. Questo perché secondo la fede cristiana Gesù Cristo è l’Uomo per eccellenza, mandato da Dio per mostrare agli uomini come è da vivere l’esistenza umana. Il Figlio di Dio è venuto tra di noi «per insegnarci a vivere in questo mondo», ci ricorda l’apostolo Paolo (cfr Tt 2,11-12).
Ma fin dall’«in principio» della creazione, e questa è una lettura specificamente cristiana, Dio ha pensato e voluto l’uomo secondo l’immagine – e quindi sul modello – del Figlio suo Gesù Cristo (cfr Col 1,16-17), sicché il vero Adamo, il «primogenito di ogni creatura» (Col 1,15), per mezzo del quale e in vista del quale tutte le cose sono state create, è il Figlio di Dio, al quale deve riferirsi l’Adamo tratto dalla terra. In forza di questa somiglianza profonda, l’Adamo tratto dalla terra, l’uomo, è dunque fin dalla creazione dotato coerentemente di quanto è necessario per vivere come Gesù Cristo ha vissuto. In altri termini, ha la possibilità di «riuscire la sua vita»; in altri termini ancora, ha la possibilità di vedere salvata la sua vita.
Il Nuovo Testamento svela che la salvezza inizia e si innesta come arte del vivere qui sulla terra, perché la vita di Gesù nei giorni della sua esistenza terrena è stata una vita «salvata» dalla forma stessa del suo vivere. C’è stata in Gesù una «pratica di umanità» conforme alla volontà di Dio, e questa pratica racconta la salvezza, il progetto di Dio di salvare tutta l’umanità e la storia.
La realizzazione della salvezza va dunque pensata anche come pratica di umanità, come umanizzazione autentica, e questo è possibile condividendo la vita di Gesù di Nazaret. Non c’è contraddizione tra il vivere la vita di Gesù e l’umanizzarsi, tra il condurre un’esistenza cristiana e il riuscire la propria vita, perché questa è l’esistenza dei figli e delle figlie di Dio.

LA VITA DI GESÙ: VITA BUONA, BELLA, BEATA
«PERCHÉ DIO SI È FATTO UOMO?»
Cur Deus homo? La domanda sul perché Dio si è fatto uomo, domanda che è risuonata ininterrottamente lungo i secoli della fede cristiana, ha ricevuto sostanzialmente un’unica risposta, seppure in due forme distinte e non contraddittorie, in oriente e in occidente. Nella tradizione cristiana orientale si è imposta l’espressione di Atanasio: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio», conosca cioè il cammino della théosis, della divinizzazione; mentre in occidente si è di più insistito sull’azione di salvezza operata da Dio in Gesù: «Dio si è fatto uomo per salvare l’uomo». Ma se si approfondiscono le due risposte, io sono convinto — e spero che nessuno si scandalizzi — che la risposta può anche essere formulata così: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi veramente uomo!».
Sì, Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazaret per mostrarci l’uomo autentico, l’uomo veramente sua immagine e sua somiglianza, e così insegnarci a vivere in pienezza, fino a conoscere, oso dire, non solo giorni pieni di gioia, ma conoscere addirittura la gloria. D’altronde è proprio questa la comprensione dell’incarnazione che ci viene presentata soprattutto dal quarto vangelo: «Si è fatto carne, ha abitato tra di noi, ha mostrato la sua gloria…» (cfr Gv 1,14).
Nel III secolo, quando ormai il cristianesimo è fortemente consapevole della propria specificità, Ippolito di Roma così si esprime: «Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo della stessa nostra pasta (uomo come noi siamo uomini!): perché, se non fosse così, invano ci avrebbe domandato di imitarlo. Se l’uomo Gesù fosse stato di un’altra sostanza, come avrebbe potuto chiederci, a noi deboli per natura, di comportarci come lui si è comportato?».
La fede cristiana proclama dunque che Dio si è fatto umano, che Dio si è reso leggibile nella vita di un uomo, e che solo in un’esistenza pienamente umana Dio si è espresso in pienezza: l’uomo Gesù è per i cristiani «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), è colui che ha raccontato Dio (exeghésato: Gv 1,18), è Figlio di Dio, ma nello stesso tempo figlio dell’uomo, l’Uomo: Ecce homo! (Gv 19,5).
Gesù si è presentato, secondo la testimonianza dei vangeli, come un uomo fino all’estremo, cioè un uomo fino alla fine, fino alla morte violenta e ingiusta, ma una morte «meritata» proprio dalla forma della sua esistenza umana, in cui le sue parole erano carne e sangue, il suo comportamento la negazione dell’autosufficienza e della pretesa di vivere per se stesso senza l’altro, le sue scelte un rifiuto della violenza e una vicinanza ai deboli, ai poveri, agli ultimi, alle vittime della storia, la sua difesa e la sua resistenza un restare fino alla fine un uomo di comunione, un uomo capace di amare.
Purtroppo i cristiani l’hanno dimenticato da tempo: Gesù non si è manifestato come un Dio venuto con potenza e gloria tra gli uomini, né così è stato creduto; è accaduto invece che alcuni uomini e alcune donne, coinvolti nella sua vita, diventati suoi discepoli, hanno saputo vedere nella sua esistenza, nella sua umanità, dei tratti divini, e per questo lo hanno chiamato Kyrios, Signore.
Guai a quei cristiani che «deificano» Gesù e lo chiamano Dio senza aver prima conosciuto la sua umanità, la forma della sua esistenza spesa e donata agli altri! È questa forma di vita che è vangelo, buona notizia, e se non la si conosce, quando si proclama che Gesù è Dio, non si fa certo una confessione di fede cristiana: si fa un’operazione religiosa in cui si snatura Gesù Cristo…
È altamente significativo ed eloquente che quegli stessi discepoli, dopo la sua morte ignominiosa in croce, lo abbiano riconosciuto vivente non nei tratti del suo corpo, ma nei tratti della sua esistenza per gli altri, della sua relazionalità: nella forma con cui chiamava per nome (cfr Gv 20,16), con cui parlava e offriva del pane da mangiare (cfr Lc 24,30.32), nei segni (le sole e autentiche reliquie cristiane!) della sua vita che ha subìto violenza fino alla crocifissione (cfr Gv 20,20.27). Proprio perché lo hanno visto vivere e morire in quel modo, essi hanno potuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, hanno potuto aderire a un uomo che con la sua vita ha veramente raccontato Dio. L’esistenza di Gesù di Nazaret, un’esistenza nella libertà e vissuta per amore, è parsa a quegli uomini e a quelle donne la stessa vita di Dio. Sì, quella vita è l’epifania di Dio per gli uomini, ed è al tempo stesso l’epifania dell’uomo per tutta l’umanità!
Dice il quarto vangelo nel prologo: «In lui era la vita e quella vita era luce per gli uomini» (Gv 1,4), cioè Gesù è stato un vero vivente e come tale può insegnare a vivere. Questo è avvenuto per chi gli è vissuto accanto, ma avviene ancora oggi per quanti conoscendo Gesù attraverso il vangelo si sentono attratti e ispirati a conformarsi a lui attraverso la sequela.

LA VITA DI GESÙ BUONA

La prima qualità che connota la vita di Gesù è certamente la bontà. Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, con felice espressione, definiva Gesù l’uomo per gli altri: la sua esistenza è stata una pro-esistenza, una vita segnata dal dono di sé, dal servizio ai fratelli, una vita sempre tesa alla comunione. Ma già nel più antico dei vangeli, quello di Marco, è affermata la bontà della vita di Gesù: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi, fa parlare i muti» (Mc 7,37); e Pietro nella sua predicazione, sintetizzando la vita di Gesù di Nazaret, dice: «Egli passò operando il bene, guarendo, liberando» (cfr At 10,38). Proprio per questa sua bontà Gesù fu chiamato: «Maestro buono» (Mc 10,17).
Tutta la tradizione cristiana ha sempre compreso questa bontà, e lo mostra in particolare il fatto che l’esemplarità proposta e insegnata sia incentrata soprattutto sulla caritas, sull’agape, sull’amore di Gesù per i fratelli, specialmente i piccoli e gli ultimi. Smettere di conoscere se stessi nel senso di smettere ogni autosufficienza, lavare i piedi al fratello ponendosi nella condizione del servizio, riconoscere l’alterità di chi è prossimo fino ad amarlo con intelligenza, spingere i sentimenti di accoglienza e di amore verso l’estraneo e addirittura verso il nemico, e comunque sempre vivere l’amore e la carità sotto il segno della gratuità: questa è la vita cristiana nel senso di vita principiata da Cristo, vita secondo la volontà di Dio. Una vita che non contraddice la migliore realizzazione di se stessi, perché darsi interamente «per l’altro» non contraddice l’essere per sé!
Un cristiano, proprio perché discepolo di Cristo, sull’esempio di Gesù è chiamato a fare della propria vita una pro-esistenza, cioè un’esistenza tesa a far vivere gli altri che gli stanno intorno. Questo è l’itinerario: amare l’altro che ci è prossimo, che ci è accanto; amare quelli che incontriamo, e tra di loro soprattutto gli ultimi, i feriti dalla vita; esercitarci ad amare tutti gli uomini, anche i nemici. Solo questa pratica di una vita umana buona ci permette di conoscere qualcosa del mistero di Dio (e me lo si permetta: questo vale per cristiani e non cristiani, credenti e non credenti!). Senza questa pratica umanissima, quotidiana, di amore dell’altro, Dio è solo un’illusione immaginaria. D’altronde Gesù, prima di morire, ha voluto consegnare ai suoi un mandatum, e ha dato loro il comandamento nuovo, nuovo perché non ce ne sono altri per Gesù: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 13,34; 15,12). L’amore e la giustizia verso il prossimo come li ha vissuti Gesù sono amore per Dio e sostituiscono tutti i precetti della legge!
Certo, questa bontà della vita di Gesù, e dunque del suo discepolo, non è esente dalla sofferenza, dall’inimicizia, dal tradimento, dalla violenza e dalla morte. E non è esente neppure dall’ignominia e dal rifiuto, non solo da parte degli empi e dei potenti, ma anche della «gente», magari della maggioranza… Ma, come ci narra il quarto vangelo, questa «passione» non è una minaccia alla vita buona, anzi è un’occasione per rivelarsi tale: è occasione di gloria! Gloria dell’amore, gloria dello spendere la vita per gli altri. Purtroppo, accanto a questa comprensione della bontà della vita cristiana, si sono addensati e anche sovrapposti cliché devozionali e morali e soprattutto, nell’immaginario comune, la croce: la croce compresa e diventata esemplare in modo sviante, la croce come una finzione che in profondità misconosce proprio il Crocifisso e il significato della sua morte.
In verità la croce è l’esito di una vita vissuta sotto il segno dell’amore, è l’esito del racconto che Gesù ha fatto di Dio, perché ciò che ha portato Gesù alla condanna e alla morte è stata la sua interpretazione di Dio e della religione, e di conseguenza la sua interpretazione del potere politico nella storia. Lì è nato il conflitto, su questi temi la sua condanna. Va detto con forza: non è la croce che ha dato gloria al Crocifisso, ma è Gesù che ha saputo dar senso perfino a un simbolo infamante e orrendo come la croce!

LA VITA DI GESÙ BELLA E BEATA

Certamente gli scritti evangelici, non avendo voluto consegnarci una biografia di Gesù, né trasmetterci un suo ritratto psicologico, restano sobri nel narrare come Gesù ha vissuto, e tuttavia, come annota il teologo Giuseppe Colombo, ciò non giustifica «la scarsità o addirittura l’assenza di una letteratura sull’esistenza bella e felice di Gesù». La stessa ricerca esegetica cristologica, che pure ha utilizzato ampiamente la categoria del messianismo e del profetismo per leggere la vita di Gesù, non ha saputo dare spazio sufficiente alla sua dimensione umana, alla sua arte di vivere. Così, anche per il prevalere dell’ideologia della croce, è stata prodotta l’immagine di una vita cristiana che per essere autentica dev’essere contrassegnata dalla militanza, dall’impegno e dal sacrificio, ritenuti incompatibili con una visione di bellezza e di felicità.
In verità i vangeli, pur nella loro sobrietà, ci testimoniano una serie di tratti della vita di Gesù che mostrano la sua umanità semplice, fragile, umanissima, ma anche sapiente, ricca, capace di amicizia con la vita e con le cose della vita, capace soprattutto di bellezza. Nella sua lotta contro ciò che è contro l’uomo, contro ciò che è inumano, nella lotta dell’amore, c’è stato spazio per una vita anche bella, non solo buona.
Sì, la vita di Gesù è stata anche un’esistenza umanamente bella! È stata la vita di un uomo povero, ma sempre una vita dignitosa, mai toccata dalle bruttezze se non da quelle che gli altri gli buttavano addosso, una vita seriamente e responsabilmente vissuta, ma con sapienza e con la capacità di cogliere e di fruire di ciò che è evento di bellezza. Gesù non ha vissuto da isolato, ma ha conosciuto la gioia del vivere insieme (una decina di uomini e alcune donne che sono stati pienamente coinvolti nella sua vita), ha conosciuto la gioia dell’amicizia e dell’esperienza affettiva con Marta, Maria e Lazzaro, con il discepolo diletto, con Pietro, Giacomo e Giovanni, persone con le quali sostava vivendo l’avventura di chi conosce cosa significa «amare ed essere amato». Come dimenticare che addirittura alla vigilia della sua condanna, quando ormai il cerchio si chiudeva intorno a lui, ha sentito il bisogno di fermarsi tra i suoi amici per gustare quell’amore umano che tanta gioia gli procurava?
E come non cogliere l’eco della bellezza della sua vita, della sua capacità di gratuità e di contemplazione, del tempo passato a pensare e a considerare, in quelle sue creazioni sapienziali e letterarie che sono le parabole o i suoi aforismi? Non è racconto di bellezza come Gesù parla del fico che annuncia l’estate con le sue gemme tenere, come ci parla della chioccia che raduna i suoi pulcini, dei gigli dei campi tessuti più splendidamente dei vestiti di Salomone, delle donne che impastano la farina e il lievito, degli uccelli del cielo nutriti dal Padre?
Per creare queste immagini, perché avvengano eventi di bellezza occorre una vita bella, una vita capace di cogliere sinfonicamente la propria esistenza assieme a quella degli altri e delle altre creature. E poi quella sua arte nell’incontrare a tavola… Quanti banchetti e quanti incontri di comunione a tavola, fino a farsi chiamare «mangione e beone, amico di peccatori manifesti e di prostitute» (cfr. Mt 11,19; Lc 7,34). E che atteggiamento verso i peccatori: non moralistico, ma sempre teso a risvegliare in loro la novità di vita, la consapevolezza della capacità di amore che c’è nell’uomo, l’estetica dei gesti dell’amore.
Anche la sua libertà, che tanto scandalizza gli uomini maestri in religione, è una forma di amore verso il prossimo e al tempo stesso una forma di bellezza, perché sempre sinfonica alla communitas, alla dignità di ogni uomo e di ogni donna. Mi sia concessa questa annotazione: sovente mi sembra che la vita di Gesù sia stata molto più bella di quella di tanti che sono impegnati nella sua imitazione, di tanti seguaci che restano militanti e non diventano discepoli…
E infine non va dimenticato: questa vita di Gesù buona e bella è anche vita felice, beata. Certo, non in senso mondano e banale, ma felice nel senso vero, profondo, perché la felicità è la risposta alla ricerca di senso, come dicevo all’inizio. Gesù ha vissuto una vita felice perché la sua vita possedeva un senso, anzi il senso del senso. Solo chi conosce una ragione per cui vale la pena di dare la vita, di perdere la vita, conosce anche una ragione per cui vale la pena di vivere. E Gesù questa ragione la possedeva: più volte infatti ha affermato di vivere al servizio degli altri, quotidianamente e con semplicità, gratuitamente e liberamente, e ha saputo leggere la violenza che si scaricava su di lui, fino alla morte violenta, come una necessità per chi vive per la verità, la giustizia e la comunione tra gli uomini.
Gesù ha conosciuto la beatitudine del povero, dell’affamato di giustizia, del mite e umile di cuore, del facitore di pace, perché ha trovato senso in queste condizioni umane. Sì, Gesù sapeva rispondere alla domanda: cosa posso sperare? E rispondeva con la certezza che l’amore è più forte della morte, dell’odio, dell’inferno!
Non Pilato è stato un uomo felice, non Erode, pur con tutto il loro potere e la loro voracità. Gesù invece, pur andando verso una morte ignominiosa, e proprio perché vi andava nella libertà (senza essere schiacciato dal destino o da una volontà divina superiore) e per amore dell’altro, conosceva la vera felicità di chi ha un’esistenza che è un’arte di vivere segnata da bontà, bellezza, beatitudine.

CONCLUSIONE
Questa dovrebbe essere la vita cristiana, a immagine di quella vissuta da Gesù: vita liberata dagli idoli alienanti, ma liberata anche dalle comprensioni svianti della religione, vita che porta il segno della speranza e della bellezza. Hanno sempre ripetuto i grandi maestri della spiritualità cristiana: «O il cristianesimo è filocalia, amore della bellezza, via pulchritudinis, via della bellezza, o non è»! E se noi sapremo coniugare nella nostra vita bontà, bellezza e beatitudine, allora potremo trasmettere la fede alle nuove generazioni.
Tutto l’itinerario percorso trova la sua sintesi in una domanda semplicissima ma essenziale, che ogni cristiano dovrebbe avere il coraggio di porsi ogni giorno: sono capace di amare e di accettare di essere amato? La risposta affermativa a questo duplice interrogativo è infatti l’unica reale condizione per vivere il comandamento nuovo lasciatoci da Gesù: è la condizione in cui la nostra vita è buona, perché segnata dall’amore; è bella, in quanto piena di senso; è beata, perché ci fa pregustare qualcosa della vita eterna, ci fa sperare in una continuità oltre la morte di quello che abbiamo in parte già conosciuto qui sulla terra, alla sequela di Cristo.
(L’autore) Enzo Bianchi, scritti vari – autore: Enzo Bianchi

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