Archive pour septembre, 2020

Gesù in croce

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 30 septembre, 2020 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 9 settembre 2020 – Catechesi – “Guarire il mondo”: 6. Amore e bene comune

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE – 9 settembre 2020 – Catechesi – “Guarire il mondo”: 6. Amore e bene comune

Cortile San Damaso

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La crisi che stiamo vivendo a causa della pandemia colpisce tutti; possiamo uscirne migliori se cerchiamo tutti insieme il bene comune; al contrario, usciremo peggiori. Purtroppo, assistiamo all’emergere di interessi di parte. Per esempio, c’è chi vorrebbe appropriarsi di possibili soluzioni, come nel caso dei vaccini e poi venderli agli altri. Alcuni approfittano della situazione per fomentare divisioni: per cercare vantaggi economici o politici, generando o aumentando conflitti. Altri semplicemente non si interessano della sofferenza altrui, passano oltre e vanno per la loro strada (cfr Lc 10,30-32). Sono i devoti di Ponzio Pilato, se ne lavano le mani.
La risposta cristiana alla pandemia e alle conseguenti crisi socio-economiche si basa sull’amore, anzitutto l’amore di Dio che sempre ci precede (cfr 1 Gv 4,19). Lui ci ama per primo, Lui sempre ci precede nell’amore e nelle soluzioni. Lui ci ama incondizionatamente, e quando accogliamo questo amore divino, allora possiamo rispondere in maniera simile. Amo non solo chi mi ama: la mia famiglia, i miei amici, il mio gruppo, ma anche quelli che non mi amano, amo anche quelli che non mi conoscono, amo anche quelli che sono stranieri, e anche quelli che mi fanno soffrire o che considero nemici (cfr Mt 5,44). Questa è la saggezza cristiana, questo è l’atteggiamento di Gesù. E il punto più alto della santità, diciamo così, è amare i nemici, e non è facile. Certo, amare tutti, compresi i nemici, è difficile – direi che è un’arte! Però un’arte che si può imparare e migliorare. L’amore vero, che ci rende fecondi e liberi, è sempre espansivo e inclusivo. Questo amore cura, guarisce e fa bene. Tante volte fa più bene una carezza che tanti argomenti, una carezza di perdono e non tanti argomenti per difendersi. È l’amore inclusivo che guarisce.
Dunque, l’amore non si limita alle relazioni fra due o tre persone, o agli amici, o alla famiglia, va oltre. Comprende i rapporti civici e politici (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC], 1907-1912), incluso il rapporto con la natura (Enc. Laudato si’ [LS], 231). Poiché siamo esseri sociali e politici, una delle più alte espressioni di amore è proprio quella sociale e politica, decisiva per lo sviluppo umano e per affrontare ogni tipo di crisi (ibid., 231). Sappiamo che l’amore feconda le famiglie e le amicizie; ma è bene ricordare che feconda anche le relazioni sociali, culturali, economiche e politiche, permettendoci di costruire una “civiltà dell’amore”, come amava dire San Paolo VI [1] e, sulla scia, San Giovanni Paolo II. Senza questa ispirazione, prevale la cultura dell’egoismo, dell’indifferenza, dello scarto, cioè scartare quello a cui io non voglio bene, quello che io non posso amare o coloro che a me sembra sono inutili nella società. Oggi all’entrata una coppia mi ha detto: “Preghi per noi perché abbiamo un figlio disabile”. Io ho domandato: “Quanti anni ha? – Tanti – E cosa fate? – Noi lo accompagniamo, lo aiutiamo”. Tutta una vita dei genitori per quel figlio disabile. Questo è amore. E i nemici, gli avversari politici, secondo la nostra opinione, sembrano essere disabili politici e sociali, ma sembrano. Solo Dio sa se lo sono o no. Ma noi dobbiamo amarli, dobbiamo dialogare, dobbiamo costruire questa civiltà dell’amore, questa civiltà politica, sociale, dell’unità di tutta l’umanità. Tutto ciò è l’opposto di guerre, divisioni, invidie, anche delle guerre in famiglia. L’amore inclusivo è sociale, è familiare, è politico: l’amore pervade tutto!
Il coronavirus ci mostra che il vero bene per ciascuno è un bene comune non solo individuale e, viceversa, il bene comune è un vero bene per la persona (cfr CCC, 1905-1906). Se una persona cerca soltanto il proprio bene è un egoista. Invece la persona è più persona, quando il proprio bene lo apre a tutti, lo condivide. La salute, oltre che individuale, è anche un bene pubblico. Una società sana è quella che si prende cura della salute di tutti.
Un virus che non conosce barriere, frontiere o distinzioni culturali e politiche deve essere affrontato con un amore senza barriere, frontiere o distinzioni. Questo amore può generare strutture sociali che ci incoraggiano a condividere piuttosto che a competere, che ci permettono di includere i più vulnerabili e non di scartarli, e che ci aiutano ad esprimere il meglio della nostra natura umana e non il peggio. Il vero amore non conosce la cultura dello scarto, non sa cosa sia. Infatti, quando amiamo e generiamo creatività, quando generiamo fiducia e solidarietà, è lì che emergono iniziative concrete per il bene comune.[2] E questo vale sia a livello delle piccole e grandi comunità, sia a livello internazionale. Quello che si fa in famiglia, quello che si fa nel quartiere, quello che si fa nel villaggio, quello che si fa nella grande città e internazionalmente è lo stesso: è lo stesso seme che cresce e dà frutto. Se tu in famiglia, nel quartiere cominci con l’invidia, con la lotta, alla fine ci sarà la “guerra”. Invece, se tu incominci con l’amore, a condividere l’amore, il perdono, allora ci sarà l’amore e il perdono per tutti.
Al contrario, se le soluzioni alla pandemia portano l’impronta dell’egoismo, sia esso di persone, imprese o nazioni, forse possiamo uscire dal coronavirus, ma certamente non dalla crisi umana e sociale che il virus ha evidenziato e accentuato. Quindi, state attenti a non costruire sulla sabbia (cfr Mt 7,21-27)! Per costruire una società sana, inclusiva, giusta e pacifica, dobbiamo farlo sopra la roccia del bene comune.[3]Il bene comune è una roccia. E questo è compito di tutti noi, non solo di qualche specialista. San Tommaso d’Aquino diceva che la promozione del bene comune è un dovere di giustizia che ricade su ogni cittadino. Ogni cittadino è responsabile del bene comune. E per i cristiani è anche una missione. Come insegna Sant’Ignazio di Loyola, orientare i nostri sforzi quotidiani verso il bene comune è un modo di ricevere e diffondere la gloria di Dio.
Purtroppo, la politica spesso non gode di buona fama, e sappiamo il perché. Questo non vuol dire che i politici siano tutti cattivi, no, non voglio dire questo. Soltanto dico che purtroppo la politica spesso non gode di buona fama. Ma non bisogna rassegnarsi a questa visione negativa, bensì reagire dimostrando con i fatti che è possibile, anzi, doverosa una buona politica,[4] quella che mette al centro la persona umana e il bene comune. Se voi leggete la storia dell’umanità troverete tanti politici santi che sono andati per questa strada. È possibile nella misura in cui ogni cittadino e, in modo particolare, chi assume impegni e incarichi sociali e politici, radica il proprio agire nei principi etici e lo anima con l’amore sociale e politico. I cristiani, in modo particolare i fedeli laici, sono chiamati a dare buona testimonianza di questo e possono farlo grazie alla virtù della carità, coltivandone l’intrinseca dimensione sociale.
È dunque tempo di accrescere il nostro amore sociale – voglio sottolineare questo: il nostro amore sociale – contribuendo tutti, a partire dalla nostra piccolezza. Il bene comune richiede la partecipazione di tutti. Se ognuno ci mette del suo, e se nessuno viene lasciato fuori, potremo rigenerare relazioni buone a livello comunitario, nazionale, internazionale e anche in armonia con l’ambiente (cfr LS, 236). Così nei nostri gesti, anche quelli più umili, si renderà visibile qualcosa dell’immagine di Dio che portiamo in noi, perché Dio è Trinità, Dio è amore. Questa è la più bella definizione di Dio della Bibbia. Ce la dà l’apostolo Giovanni, che tanto amava Gesù: Dio è amore. Con il suo aiuto, possiamo guarire il mondo lavorando tutti insieme per il bene comune, non solo per il proprio bene, ma per il bene comune, di tutti.

[1] Messaggio per la X Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 1977: AAS 68 (1976), 709.
[2] Cfr S. Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 38.
[3] Ibid., 10.
[4] Cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2019 (8 dicembre 2018).

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I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 26 septembre, 2020 |Pas de commentaires »

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (27/09/2020)

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XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (27/09/2020)

Malgrado errori e ritardi Dio crede sempre in noi
padre Ermes Ronchi

Nei due figli, che dicono e subito si contraddicono, vedo raffigurato il mio cuore diviso, le contraddizioni che Paolo lamenta: non mi capisco più, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm 7, 15.19), che Goethe riconosce: «ho in me, ah, due anime». A partire da qui, la parabola suggerisce la sua strada per la vita buona: il viaggio verso il cuore unificato. Invocato dal Salmo 86,11: Signore, tieni unito il mio cuore; indicato dalla Sapienza 1,1 come primo passo sulla via della saggezza: cercate il Signore con cuore semplice, un cuore non doppio, che non ha secondi fini. Dono da chiedere sempre: Signore, unifica il mio cuore; che io non abbia in me due cuori, in lotta tra loro, due desideri in guerra.
Se agisci così, assicura Ezechiele nella prima lettura, fai vivere te stesso, sei tu il primo che ne riceve vantaggio. Con ogni cura vigila il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita (Prov 4,23).
Il primo figlio si pentì e andò a lavorare. Di che cosa si pente? Di aver detto di no al padre? Letteralmente Matteo dice: si convertì, trasformò il suo modo di vedere le cose. Vede in modo nuovo la vigna, il padre, l’obbedienza. Non è più la vigna di suo padre è la nostra vigna. Il padre non è più il padrone cui sottomettersi o al quale sfuggire, ma il Coltivatore che lo chiama a collaborare per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. Adesso il suo cuore è unificato: per imposizione nessuno potrà mai lavorare bene o amare bene.
Al centro, la domanda di Gesù: chi ha compiuto la volontà del padre? In che cosa consiste la sua volontà? Avere figli rispettosi e obbedienti? No, il suo sogno di padre è una casa abitata non da servi ossequienti, ma da figli liberi e adulti, alleati con lui per la maturazione del mondo, per la fecondità della terra.
La morale evangelica non è quella dell’obbedienza, ma quella della fecondità, dei frutti buoni, dei grappoli gonfi di mosto: volontà del Padre è che voi portiate molto frutto e il vostro frutto rimanga…
A conclusione: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti. Dura frase, rivolta a noi, che a parole diciamo “sì”, che ci vantiamo credenti, ma siamo sterili di opere buone, cristiani di facciata e non di sostanza. Ma anche consolante, perché in Dio non c’è condanna, ma la promessa di una vita buona, per gli uni e per gli altri.
Dio ha fiducia sempre, in ogni uomo, nelle prostitute e anche in noi, nonostante i nostri errori e ritardi nel dire sì. Dio crede in noi, sempre. Allora posso anch’io cominciare la mia conversione verso un Dio che non è dovere, ma amore e libertà. Con lui matureremo grappoli, dolci di terra e di sole.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 26 septembre, 2020 |Pas de commentaires »

Giobbe

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Publié dans:immagini sacre |on 23 septembre, 2020 |Pas de commentaires »

PORTARE IL PESO DEL DOLORE – 2: ALTRI VOLTI DEL DOLORE – GIANFRANCO RAVASI – 22/05/2013

https://www.fondazionegraziottin.org/it/articolo.php/Portare-il-peso-del-dolore-2-Altri-volti-del-dolore?EW_CHILD=17619

PORTARE IL PESO DEL DOLORE – 2: ALTRI VOLTI DEL DOLORE – GIANFRANCO RAVASI – 22/05/2013

Tratto da:
Gianfranco Ravasi, Portare il peso del dolore, Edizioni San Paolo, 2013, p. 19-28
Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura
Prosegue questa settimana la pubblicazione del testo integrale del volumetto “Portare il peso del dolore”, di Gianfranco Ravasi. Nella prima parte, Ravasi ha illustrato le teorie della retribuzione e della sofferenza vicaria, che in diversi contesti dell’Antico Testamento cercano di spiegare l’origine e il significato del dolore. In questa seconda sezione, si approfondiscono la dottrina del dolore come forma di pedagogia divina, atta alla maturazione interiore dell’uomo; il concetto di tentazione-prova, che mira a distogliere l’uomo dalle cattive azioni e preservarlo dall’orgoglio; e l’idea del dolore come forza di espiazione del male del mondo, esemplificata al massimo livello dottrinale e letterario dal capitolo 53 del libro di Isaia, dedicato al “servo sofferente”.
Un primo superamento di queste concezioni si ha con il libro di Giobbe: un’opera “non apocalittica”, nel senso che non risolve il problema del male nell’attesa escatologica di un nuovo mondo in cui tutto si sistemi in una gioia senza fine, ma che – rimanendo ancorato nell’oggi della storia – arriva a postulare come Dio e dolore non siano incompatibili, pur nella permanenza di un mistero che trascende le nostre forze speculative.
Lo spartiacque definitivo rispetto alle letture veterotestamentarie è costituito dal Vangelo, che ci propone l’immagine di un Dio concretamente coinvolto nel nostro dolore e nella nostra morte: un Dio che non addita scorciatoie rispetto alla sofferenza, ma che l’attraversa al nostro fianco, facendola propria nelle sue dimensioni fisiche, morali e spirituali. E che in modo misterioso la riscatta attraverso la sua resurrezione, suscitando nel credente la speranza che, grazie all’amore, il male e la morte non abbiano nella vita l’ultima parola.
Due affermazioni precisano infine con grande intelligenza spirituale il senso generale dell’approccio biblico al senso del dolore. L’antropologia contenuta nella Scrittura è «una ricerca di senso e di salvezza globale, che fonda la più radicale pienezza e integrità dell’esistere: al centro non c’è solo l’anima o la spiritualità ma tutta la realtà dell’essere e dell’esistere umano, compresa la corporeità e la debolezza creaturale». Al tempo stesso, la vita e la prassi di Cristo ci ricordano che l’uomo «ha bisogno di risposte di senso al suo soffrire, e non soltanto di salute, come invece è proposto dall’attuale ricerca frenetica del benessere nel salutismo e nel fitness, o anche del puro e semplice miracolismo».
Da un lato, dunque, l’attenzione alla corporeità, troppo spesso trascurata da una spiritualità unilateralmente protesa all’invisibile; dall’altro, il superamento di quella stessa corporeità nella ricerca di un significato complessivo della persona e della vita.
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Il libro del Deuteronomio suggerisce di intendere talora il dolore come pedagogia divina. Esso è espressione della paideia di un Dio padre e maestro che, nel deserto della prova, educa, purifica, fa maturare e arricchisce suo figlio. Attraverso l’alternanza delle umiliazioni e delle consolazioni, dell’avvilimento e della speranza, l’uomo cresce in pienezza, come in un nuovo parto, doloroso ma fecondo. Dobbiamo citare a tale proposito un ampio passo del Deuteronomio: «Ricorda il cammino che ti ha fatto compiere il Signore tuo Dio in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti, per provarti, per conoscere ciò ch’è nel tuo cuore […]. Ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, ti ha fatto mangiare la manna […] per insegnarti che non di solo pane vive l’uomo, ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Dio vive l’uomo. Il tuo mantello non si è logorato e non si sono gonfiati i tuoi piedi in questi quarant’anni. Riconosci dunque nel tuo cuore che, come un padre corregge il figlio, così il Signore tuo Dio ti corregge; e osserva il comandamento del Signore tuo Dio seguendo la sua via e temendolo» (Deuteronomio 8,2-6).
La stessa funzione ha la tentazione-prova, quando parte da Dio: si pensi all’esperienza di Abramo per il sacrificio di Isacco (Genesi 22), prova lacerante ma destinata a rendere la fede del patriarca pura e radiosa. Come vedremo, nel libro di Giobbe questa visione è adottata dall’ultimo degli amici a intervenire, Elihu, nei capitoli 32-37. Egli è convinto che il monito del dolore è utile «per distogliere l’uomo dalle sue cattive azioni e preservare il mortale dall’orgoglio, per impedirgli di cadere nella fossa e di passare il canale [infernale]» (Giobbe 33,17-18). Anche Geremia, addestrato dal dolore, si erge come profeta di Dio, capace di comprendere in pienezza il senso della storia che sta vivendo.
Una seconda breccia nella fortezza apparentemente inespugnabile del dolore è aperta da una celebre pagina, riletta dal cristianesimo in chiave messianica, alla luce della passione e morte di Gesù. Si tratta del cosiddetto quarto carme del Servo del Signore, ripreso nel capitolo 53 di Isaia, a cui abbiamo già accennato e sul quale ora ritorniamo. Come si è visto, in esso leggiamo: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Isaia 53,5). Il dolore del giusto ha in sé una forza espiatrice per il male del mondo; la sofferenza diventa simile a una generazione che è immersa nelle doglie; esse, però, non sono vane e fini a se stesse, perché danno alla luce una nuova creatura. La storia travagliata e infame è redenta dal sangue dei martiri che fecondano il deserto dei secoli, liberano l’umanità dal suo limite, la conducono a una pienezza inattesa.
Fin qui, per usare l’espressione dell’esegeta tedesco Otto Eissfeldt, siamo di fronte a «spiegazioni teologiche della sofferenza», ma non a una vera e propria «teologia della sofferenza». Essa ci viene offerta solo da Giobbe, colui che maggiormente s’incunea in quella roccaforte misteriosa. Ora ci accontentiamo di delineare una sintesi essenziale del suo pensiero al riguardo. In seguito a lui dedicheremo un’apposita analisi attraverso una guida di lettura integrale del suo libro che si rivela particolarmente complesso e fin arduo, pur nella sua straordinaria fragranza e bellezza umana e religiosa.
Il libro di Giobbe non vuole offrire soluzioni antropologiche all’enigma che artiglia la carne dolente e ferisce la coscienza credente o agnostica. La sua è una via aperta nel mistero. Il dolore innocente e l’immenso mondo delle lacrime sono la strada più ardua e più seria per comprendere la vera realtà della fede e di Dio. Le spiegazioni razionali continuano a essere travalicate perché il dolore è riflesso di un mistero più alto, che trascende la ragione ed è penetrabile solo attraverso la Rivelazione. Un mistero che, allora, non si scioglie razionalmente, ma che non è affidato all’assurdo, al fato, all’irrazionale, bensì a una suprema razionalità, quella divina, che disegna un suo progetto.
Giobbe non è un apocalittico, convinto che il presente sia tormentato, sconcertante e confuso e che il futuro escatologico risistemerà tutto, demolirà ogni cosa, lasciando spazio a un nuovo e perfetto ordine di rapporti, a una gioia senza fine. Anche questa è, certo, una teologia della sofferenza. Giobbe, invece, rimane nella storia e ne cerca non l’eliminazione attraverso la purificazione, ma l’interpretazione teologica. Infatti essa alla fine viene affidata alla “visione” diretta del Signore, cioè a una sua rivelazione sul senso del male: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5).
Dolore e Dio non sono contraddittori e la loro coerenza è un contenuto fondamentale della fede. Su questa via si inserisce la supplica dei salmisti che, come nel caso di Giobbe, fiorisce in mezzo alla desolazione segnata da quei «perché?», «fino a quando?» (Salmi 6,4; 13,2-3; 35,17; 42,10; 43,2; 90,13), che lacerano l’anima. Alla fine, però, il dolore viene affidato a Dio. I salmi di supplica e di lamentazione si concludono sempre con un incontro, come è accaduto a Giobbe. E’ un dialogo personale con Dio; è a lui che viene rivolto l’interrogativo ed è lui a rispondere, donando talvolta la gioia e la liberazione, trasformando altre volte «il rifiuto in invocazione» (Gabriel Marcel), aprendo uno spiraglio sulla sua ‘etzah, cioè su quel «progetto» – come si afferma in Giobbe 38,2 – che riesce a contenere in sé, in un’armonia trascendente, dolore e gioia, nulla ed essere, limite e pienezza. Oltre questa frontiera procederà solo il Nuovo Testamento, che ci presenta un Dio direttamente coinvolto con la sofferenza e la morte.
Cerchiamo allora di dare uno sguardo alla concezione della malattia, della sofferenza e della guarigione nel Nuovo Testamento. Quest’analisi ci induce a ribadire un dato fondamentale: l’antropologia biblica è una ricerca di senso (e di salvezza) globale, che fonda la più radicale pienezza e integrità dell’esistere. Al centro non c’è solo l’anima o la spiritualità ma tutta la realtà dell’essere e dell’esistere umano, compresa la corporeità e la debolezza creaturale. È curioso osservare che nel vangelo di Marco il 31 per cento del testo (209 versetti su 666) è occupato da racconti di miracoli e, se ci si attesta solo sul ministero pubblico di Gesù (i primi 10 capitoli del vangelo), la percentuale sale al 47 per cento (209 versetti su 425). Le mani di Cristo si sono sistematicamente posate su carni malate e sofferenti. Interessanti, sono, però, anche alcune caratteristiche dell’atteggiamento di Gesù.
Non si ha nei vangeli una catechesi esplicita sulla malattia, sul come viverla o spiegarla. Le guarigioni operate sono ricondotte dagli evangelisti spesso alla categoria di «segni», così da orientarle verso una prospettiva più alta, quella della redenzione integrale dell’umanità nel regno di Dio. Cristo si è distaccato dalla teoria della retribuzione, già contestata da Giobbe ma – come si è visto – cara a molte pagine anticotestamentarie, secondo cui peccato e malattia si richiamano come causa ed effetto. Basti solo citare la sua reazione alla domanda dei discepoli di fronte al caso del cieco nato: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco? Rispose Gesù: Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (Giovanni 9,2-3). Egli, però, ha ricordato che l’uomo, compreso il malato, ha bisogno di risposte di senso al suo soffrire e non soltanto di salute, come invece è proposto dall’attuale ricerca frenetica del benessere nel salutismo e nella fitness, o anche del puro e semplice miracolismo.
Inoltre il passaggio stesso del Figlio di Dio nella sofferenza fisica e psichica attraverso la sua passione e morte depone in essa un seme pasquale di trasfigurazione e di liberazione trascendente. Egli, infatti, per essere veramente uomo, entra nella realtà oscura integrale della sofferenza sia morale (la solitudine degli amici e il loro tradimento, così come il rifiuto del suo popolo), sia fisica (le torture, la crocifissione), sia spirituale (il silenzio del Padre sulla croce), sia nell’approdo estremo della morte fino a divenire un cadavere. È, questo, il livello supremo ed estremo dell’Incarnazione. Ma anche in questo abisso egli non cessa di essere il Figlio di Dio e quindi feconda il nostro dolore e il nostro morire con la forza liberatrice e salvifica della sua divinità. Dopo di lui, tutta la sofferenza umana del passato, del presente e del futuro è irradiata di eternità, è illuminata dalla luce della Pasqua che supera i limiti della morte e si estende a tutta l’umanità. In questa prospettiva le guarigioni non sarebbero soltanto un segno teofanico della potenza taumaturgica di Cristo, quanto piuttosto un emblema efficace del suo amore salvifico e redentore e della sua solidarietà con l’umanità, manifestata in pienezza nella sua passione e morte.

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 23 septembre, 2020 |Pas de commentaires »

Parabola dei lavoratori della vigna

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 19 septembre, 2020 |Pas de commentaires »
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