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SAN PAOLO: ANTESIGNANO DELLO SPIRITO EUROPEO?

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SAN PAOLO: ANTESIGNANO DELLO SPIRITO EUROPEO?  

di Emanuela Catalano  

La seguente disamina verterà sulle relazioni esistenti tra le origini del primissimo Cristianesimo, in particolar modo tra il suo sistematizzatore Saulo di Tarso e l’odierno processo di unificazione dell’Europa. Il tema apparentemente non presenta immediati punti di contatto con l’attualità; se però riflettiamo sullo sforzo paolino di rendere universale quella che fino ad allora era una religione marcatamente nazionalista ecco che iniziano a delinearsi alcuni spunti di riflessione utili ad una analisi approfondita delle radici e dello spirito che da sempre ha animato i nostri legislatori e costituzionalisti. Il richiamo a San Paolo diviene perciò imprescindibile, un punto di riferimento affascinante ed ineludibile al tempo stesso per chiunque voglia interrogarsi sul senso del nostro tempo. Qual è il nesso dunque, il collegamento fra San Paolo, le sue Lettere[1], la sua predicazione ai gentili, la sua missione evangelizzatrice in poche parole e l’attuale processo di integrazione europea, nonché la stessa identità europea? Vedremo come lo sforzo intrapreso da Paolo, attuatosi fra l’altro proprio nell’area soggetta all’odierno processo di riunificazione, sia in realtà all’origine della costituzione di quell’humus socio-culturale comune che è alla base dell’implicito pensiero collettivo dell’Europa. Paolo è di una lungimiranza straordinaria se consideriamo il fatto che questioni da lui trattate duemila anni or sono si apprestano a tornare di grande attualità, non solo sotto il profilo teologico ma anche filosofico-politico. Egli fu un uomo del suo tempo, abituato a muoversi con grande libertà all’interno delle province dell’Impero romano; ebreo della diaspora, era orgoglioso di essere cittadino romano. Emerge il ritratto di un uomo colto, che parla ben quattro lingue[2] e che si dichiara pronto a spostarsi per terra e per mare, affermando a più riprese di volersi spingere fino alle estremità della Terra allora conosciuta per adempiere al disegno che Dio aveva tracciato su di lui: il suo è già un universalismo interiore, oltre che geografico. Paolo prende le mosse da Israele per estendere il suo discorso in direzione di una prospettiva più ampia e di ben più vasto raggio. Certamente non avrebbe mai potuto immaginare che il tempo dell’attesa escatologica, così centrale nella semantica del primo Cristianesimo, si potesse protrarre fino all’inverosimile: egli credeva davvero che il tempo stesse per terminare[3]. All’interno dell’excursus paolino, si passa così dall’iniziale elezione di Israele, da un nazionalismo settario, ad un allargamento ai pagani sino a comprendere l’intero genere umano, dal momento che il Messia di cui egli recava notizia non era venuto a dividere ulteriormente bensì ad abbattere tutti i muri della separazione, avendo Dio stesso elargito la sua promessa di salvezza eterna a tutte le genti. Leggiamo nelle Scritture: «Frattanto questo Vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine» (Mt 24, 14)[4]. In poche parole, chiunque avesse avuto fede in Lui, nella sua morte e resurrezione, a prescindere dalle differenze di razza, di sesso, lingua, cultura, credo religioso, usi e costumi, sarebbe stato salvato: «Dio vi scelse come primizia per la salvezza attraverso la santificazione dello Spirito e la fede della verità» (II Tes 2, 13)[5]. Da qui, si comprende anche la necessità impellente di vigilare costantemente – si pensi all’importanza che il tema della veglia, dell’attesa riveste in certi autori, sto pensando in particolare allo scrittore ceco Franz Kafka – o ancora, a Pascal, che afferma che il “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo e che in questo frattempo non dobbiamo dormire”[6]. Il dramma dell’attesa è costituito dal fatto che non sappiamo quando e dove il Messia verrà, anzi a complicare le cose – per citare Benjamin – “ogni istante diviene quella piccola porta attraverso la quale il Messia potrà entrare”[7], dal momento che Egli verrà “come un ladro nella notte” (II Tes 5, 2). Che senso aveva promettere la salvezza ad un popolo – innalzarlo al rango di popolo eletto, modello per le altre nazioni – per poi assistere al suo annientamento nelle camere a gas? Fin dagli esordi della sua storia, Israele fa sfoggio di un privilegio, il cosiddetto “vanto” dell’elezione, condizione della sua “separatezza” (e dunque perdizione?) essendo nota la tendenza degli ebrei a vivere isolati dagli altri popoli. La loro Torah costituisce infatti una siepe, una parete divisoria, finalizzata ad evitare qualsiasi tipo di contaminazione da altri elementi, considerati estranei o comunque “impuri”[8]. Ed è proprio in virtù di questa separatezza che Paolo va a predicare fra i gentili, i pagani per intenderci (etnos in greco), elargendo il dono della salvezza a tutta l’umanità. È noto che il giudaismo, a differenza del cristianesimo, non nasce e si sviluppa come fenomeno di proselitismo. Leggiamo in Mt 10, 15: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele». È soltanto in un secondo momento che prevarrà l’opinione secondo la quale gli apostoli, illuminati dallo Spirito Santo, sarebbero stati testimoni dell’unico Dio «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della Terra» (At 1, 8). E ancora: «Sia, dunque, noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno» (At 28, 28). Gli ebrei, colpevoli di non aver riconosciuto in Gesù il Messia che tanto attendevano, sarebbero forse stati ulteriormente messi alla prova da Dio (mi riferisco alla prima terribile prova cui fu sottoposto il patriarca Abramo)? Una prova che aveva come obiettivo quello di suscitare la gelosia di Israele. Oppure era necessario che il “resto” di cui parla Isaia fosse sacrificato in nome della redenzione degli altri, fino alla successiva, perentoria affermazione, secondo la quale “tutto Israele sarà salvato”? ma perché ciò accadesse era prima necessario che tutti rientrassero all’interno del disegno soteriologico finale, che tutti i popoli venissero cioè  ricompresi nell’imperscrutabile piano divino e che la salvezza fosse estesa loro senza distinzioni. Ecco l’elemento sovversivo della predicazione di Paolo: era davvero rivoluzionario per un ebreo di quel tempo pensare di poter diffondere la lieta novella fuori dai ristretti confini dell’ebraismo, di varcare le rigide mura del separatismo ebraico. Una delle peculiarità di Israele era proprio il vanto di cui dicevamo, il fatto che, in quanto popolo eletto, ‘scelto’ direttamente da Dio, gli ebrei si reputassero gli unici detentori del sapere e della rivelazione e per tale motivo i soli destinatari della promessa di salvezza escatologica finale. Paolo invece credeva si dovesse annunciare la buona novella anche ai goyim, e per questo andò a predicare il Vangelo in quelle che oggi sono la Macedonia, la Turchia e la Grecia, manifestando più volte l’intimo desiderio di «spingersi fino alle estremità della terra allora conosciuta» (At 13, 47), nella convinzione che anche coloro che non erano ebrei sarebbero diventati membri del nuovo Israele, anche se non osservavano rigorosamente la legge di Mosè. Per l’ebraismo questo punto costituisce l’aspetto fondamentale e dirimente della questione: per questa ragione diventa essenziale comprendere come Paolo operò ed effettuò questo passaggio, al prezzo della sua stessa vita, divenendo l’architrave del Cristianesimo nascente. Egli prende le mosse dalla circoncisione, rituale basilare dell’ebraismo ma in Deut 10, 16 compare per la prima volta l’espressione «circoncisione del cuore», che sarà ripresa a sua volta dal profeta Geremia: «Dentro di loro pianterò la mia Legge, scrivendola nei loro cuori» (Ger 31, 33). Vediamo come questa pratica, da semplice segno esteriore, tangibile, della carne diventi simbolo di qualcosa di “interiore”, di un’alleanza che scaturisce dall’intimità del singolo[9]. Per Paolo «non si è giudei manifesti nella carne, e la circoncisione non è quella manifesta nella carne. Si è giudei nel segreto, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera» (Rom 2, 28-29). Un simile modo di pensare metteva chiaramente in discussione quello che era stato uno dei capisaldi della religione ebraica e destituiva di senso la principale motivazione del loro vanto, il loro esclusivismo, frutto del fatto che gli ebrei si considerassero il popolo eletto par excellence – poiché Dio aveva scelto proprio loro, un loro avo, per stipulare il suo patto – essendo essi gli unici custodi della promessa della salvezza eterna. Paolo non mancherà di polemizzare contro questo vanto, proprio a partire dai suoi discorsi sulla circoncisione, richiamandosi a quanto scritto: «Il Signore vi ha amati e vi ha scelti, non perché eravate un popolo più numeroso di tutti gli altri, anzi siete inferiori a tanti altri come numero; ma è per l’amore che vi porta e per mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Deut 7, 7). La conclusione che avrebbe tratto da questo suo insolito modo di pensare riguarda il fatto che i gentili, convertiti al nuovo messaggio evangelico, non avrebbero più necessitato della circoncisione, dal momento che «la circoncisione non è nulla, né il prepuzio: bensì la nuova creatura» (Gal 6, 15). È di conseguenza in Abramo che Paolo riconosce il vero progenitore del popolo ebraico. Al di là del racconto biblico e della sua storia, notiamo come egli, nel corso del suo ragionamento, ignori i primi versetti e concentri piuttosto la sua attenzione su un passo immediatamente antecedente a quello della promessa: «Abramo credette a Dio, e ciò gli fu accreditato a giustizia» (Gen 15, 6). Ecco il momento decisivo in cui Jahweh stabilisce il suo patto di alleanza con Abramo. La circoncisione era per gli ebrei il segno tangibile nella carne del patto con il loro Dio e chi non era circonciso, come abbiamo visto, non poteva appartenere al popolo di Israele. Il passo in questione è di una intensità e di una difficoltà ermeneutica senza pari: quando fu considerato giusto Abramo? Secondo Paolo, questo accadde prima della rivelazione della Legge, che cronologicamente viene fatta risalire a circa quattrocento anni dopo questi avvenimenti con Mosè, sul Monte Sinai. Abramo ebbe fede, credette nell’impossibile[10], «e credeva che Egli fosse giusto con lui», poiché si ricordava della promessa che Egli gli aveva fatto: «In te tutti i gentili saranno benedetti» (Gen 18, 18)[11]. Paolo può dirsi convinto che «un patto già confermato da Dio non viene infirmato dalla Legge sopraggiunta dopo quattrocento anni, al punto da dissolvere la promessa stessa» (Gal 3, 18). La circoncisione comportava tra l’altro, per chi decideva di sottoporsi ad essa, una totale sottomissione e l’impegno di osservare ‘tutta’ la Torah. Il presupposto sconcertante è che non esiste in realtà un solo uomo in grado di osservare la Legge in tutte le sue disposizioni, «nemmeno i circoncisi osservano la Legge» (Gal 6, 13); ciascuno perciò è colpevole, poiché non esiste un solo individuo che abbia fatto tutto ciò che è prescritto dalla Legge. Viene da domandarsi allora per quale motivo Dio avesse voluto dare queste disposizioni all’uomo, conscio del fatto che egli non sarebbe stato mai in grado di corrispondere pienamente ad esse. Leggiamo in Deut 27, 26 l’opinione secondo la quale chi trasgredisce anche uno solo dei precetti della Torah è maledetto[12]. Paolo stesso confessava di non essere stato in grado, nemmeno quando era uno zelante fariseo, di osservare ‘tutta’ la Legge. Da tutto questo discorso è possibile evincere il carattere assolutamente transitorio della legge, e la conseguente portata universale della predicazione del Messia, considerato il fine ma anche la fine della legge: egli giunge non per invalidare la legge, abolirla, inficiarla, bensì per “sospenderla”[13], completandola ed ampliandola. Diventava pertanto necessario passare dall’osservanza scrupolosa dei precetti ad una nuova legge, che è quella della fede nel Messia Gesù venuto a predicare l’amore universale. Ed è precisamente in virtù di tale interpretazione che Paolo poté tracciare una nuova storia della salvezza, la cui dimensione soteriologica si estendesse a tutti, senza distinzione alcuna di sesso o di razza. Non la nascita dunque ma la morte e la resurrezione del Cristo costituiscono la chiave di volta della prospettiva universalistica dal momento che essa – la resurrezione – è promessa a tutti, senza eccezione. Chiunque crederà in questo evento sarà salvato, non trattandosi più di una questione di popolo, di sangue, di razza bensì di FEDE per l’appunto e di Amore. Da qui la sostituzione della vecchia legge con quella nuova. La fedeltà ad un simile evento avrebbe eliminato i particolarismi settari e comunitari; l’enunciato “Cristo è risorto” – un evento singolare per intenderci – concerne dunque le leggi dell’universalità in generale. Un pensiero universale, partendo dalla proliferazione mondana delle alterità, produce come risultato la scomparsa delle categorie di ebreo, greco, uomo, donna, schiavo, libero, ecc. L’universale è lo Stesso che sussume in sé le varie alterità e non nega le particolarità che anzi continuano a sussistere. Ogni particolarità è un conformismo: si tratta in definitiva non di fuggire il mondo ma di convivere con esso (vedi 1 Cor 9, 19 sgg). Le differenze non si possono negare ma soltanto trascendere, attraverso la benevolenza nei riguardi di costumi ed opinioni diverse dalle proprie. In Rom 14, 1, si parla di “discernimento delle differenze” – una filosofia può contestare le varie opinioni, la fede no ed è proprio questo che la caratterizza e la contraddistingue. Mentre in Rom 2, 10, leggiamo un’espressione utile a smentire chiunque abbia tacciato Paolo di presunto antisemitismo: “per il giudeo prima”, in essa notiamo la posizione primaria dell’ebreo nel movimento che attraversa tutte le differenze per costruire l’universale. In Abramo vi è così un’anticipazione di ciò che potremmo definire universalismo del sito ebraico, dal momento che la sua promessa si riferisce a tutti i gentili e non alla sola discendenza ebraica. Le differenze dunque esistono, non si possono negare ma sono indifferenti, la vera universalità le fa venir meno ed esse possono accogliere la verità che le attraversa, sottraendole ad ogni forma di particolarismo e fondando per la prima volta nella storia la possibilità di una predicazione universale (1 Cor 14, 7). Gli uomini non dovranno più sentirsi apolidi quindi, senza patria ma figli del medesimo spirito europeo. Tutti siamo chiamati oggi a rispondere al compito che ci attende, contribuendo attivamente alla creazione e consolidazione di questo spirito, al rafforzamento dei principi della Rivoluzione francese, all’abbattimento delle frontiere[14], allo sviluppo di “nuovi” valori che, figli laici di quelli ereditati dalla bimillenaria riflessione cristiana, siano capaci di trarre l’Europa, e l’Occidente in genere, dalla crisi nichilistica oggi in atto. Urge, ancora, la necessità di partecipare ai cambiamenti che da anni ormai interessano il mondo nel quale viviamo, cooperando alla crescita ”morale” del nostro continente affinché ciascuno di noi possa sentirsi oltre che italiano, francese, rumeno, bulgaro, greco, anche e soprattutto eticamente europeo. È, perciò, necessario un mutamento delle coscienze: ed è Gadamer a ricordarci che «è probabilmente un privilegio dell’Europa il fatto di aver saputo e dovuto imparare, più di altri paesi, a convivere con la diversità»[15]. Il progetto di unificare popoli tra loro non omogenei è un esperimento unico nel suo genere. Preservare le differenze nel pieno rispetto della loro dignità significa mantenere aperti ampi varchi di libertà, perché l’Europa è una e molte al contempo, in un nuovo intendimento della sua identità e del senso di appartenenza. È dunque auspicabile che, alla raggiunta unità politica di questa compagine di stati, si aggiunga presto un’unità spirituale, compito ben più arduo in quanto coinvolge l’essere umano nella sua essenza più intima. Il limes della vecchia Europa è andato allargandosi ed ampliandosi, fino a lambire gli ultimi stati appartenenti all’ex blocco sovietico. Con l’ingresso di Bulgaria e Romania infatti il processo di integrazione si fa sempre più concreto e realizzabile. L’Europa dei ventisette è oramai una realtà di fatto; resta da verificare il processo nella fattispecie concreta ed effettualità storica, il che dipende dalle condizioni nelle quali versano i singoli paesi. Nel preambolo del Trattato costituzionale[16] sono delineati il ruolo centrale della Costituzione, già espressa dallo storico greco Tucidide e l’idea secondo la quale l’Europa sarebbe portatrice di valori universali, quali la civiltà, l’umanesimo, l’eguaglianza, la libertà, il rispetto dei vari credo religiosi, la possibilità di professare liberamente la propria fede nonché la rilevanza dell’immenso patrimonio culturale, artistico e umanistico. In particolare, si legge che la Costituzione si ispira alle “eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello stato di diritto”. I legislatori si dicono convinti che “l’Europa ormai riunificata dopo esperienze dolorose, intende avanzare sulla via della civiltà, del progresso e della prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e bisognosi”. È stato ribadito come “i popoli d’Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale, siano decisi a superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino”, certi che l’Europa offra loro le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza della loro responsabilità nei confronti della generazioni future e della terra, la grande avventura che fa di essa uno “spazio privilegiato della speranza umana”. Manca però il riferimento alle radici cristiane di cui tanto si è discusso, anche se sono accennati il concetto di ‘persona’, che è già idea cristiana e quello di ‘diritto’, che rimanda invece allo ius romano. Considerato in una prospettiva più ampia, ciò potrebbe significare la necessaria apertura dell’Europa alle altre confessioni religiose, essendo insita nel progetto, sin dalle sue origini, la coesistenza delle tre grandi religioni del Libro: è un fatto congenito che l’Europa debba vivere confrontandosi con la diversità, l’altro, l’estraneo. Consapevole del suo ruolo cardine, essa dovrà allora assurgere al suo compito – che non è più quello di mera appendice degli Stati Uniti – bensì quello di porsi come mediatore etico del delicatissimo dialogo e confronto tra Usa e mondo islamico, smussandone le tensioni. In tale ottica, più che di scontro di civiltà sarebbe opportuno parlare di incomprensione e nessun altro meglio dell’Europa, grazie alla sua straordinaria ricchezza interiore, avrà la forza di porsi come garante di un diverso assetto politico-istituzionale nei rapporti internazionali. L’“unità nella diversità” è il motto dell’Europa, nella quale unità e diversità procedono all’unisono, nel pieno rispetto delle differenze e nel mantenimento delle varie identità. È questa la sfida più grande che ciascuno di noi ha il compito e il dovere di portare avanti, facendosi carico di tutta la problematicità che questa reca con sé. L’Europa è e rimane lo spazio della speranza umana: solo interrogando le proprie radici, essa non dimenticherà il suo passato ed è proprio da questa capacità di autocritica che deriva il vantaggio della cultura europea. L’iniziale supremazia, per via degli avvenimenti che hanno funestato il secolo scorso, si è trasformata in una presa di coscienza del suo ruolo e della necessità di dialogare con le altre culture. Credo quindi, con Husserl, che l’Europa sia anzitutto un’idea da realizzare: solo quando i cittadini avranno preso pienamente coscienza del loro essere europei e superato le barriere mentali del nazionalismo, sarà possibile auspicare la completa riuscita e realizzazione del processo di unificazione europea. Un grandissimo passo in questa direzione è stato compiuto, ma molto rimane ancora da fare e proprio San Paolo può fungere da guida e da maestro: ascoltando le sue parole, il suo insegnamento, qualcosa potremmo ancora imparare. La sua missione non mirava ad erigere differenze, a scavare solchi di separazione, ma ad abbattere tutte le disuguaglianze, le diversità, poiché il Cristo stesso era venuto a far crollare tutti i muri della separazione, «non essendovi distinzione alcuna d’aspetto davanti a Dio» (Rom 2, 11). La Legge era stata per troppo tempo considerata come una siepe, una parete divisoria tra il mondo ebraico ed il variegato universo dei gentili:  «Adesso invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini per il sangue del Cristo. Egli infatti è la nostra pace; ha fatto dei due uno, ha abbattuto la parete dello sbarramento, l’inimicizia, e nella sua carne ha dissolto la legge dei comandamenti con i loro decreti. Così, facendo pace, dei due creò un uomo solo e nuovo; li riconciliò entrambi in un unico corpo per Dio mediante la croce, uccidendo con essa l’inimicizia»[17].  E questa situazione sarebbe durata fino a quando il Messia non avrebbe fatto «dei due uno». Non vi sarebbe più stata in tal modo nessuna differenza tra giudei e greci, maschio e femmina. Ciò significa che la linea di demarcazione tra pagani ed ebrei sarà abolita una volta per tutte e che gli uomini saranno salvati in virtù della fede in Cristo Gesù, a prescindere dalle distinzioni di razza, fede, cultura, lingua, religione, essendo il vangelo «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, il giudeo anzitutto e anche il greco» (Rom 1, 16) e Dio stesso potrà essere conosciuto solo in quanto gli uomini cammineranno l’uno accanto all’altro. Si passa così da uno stato di chiusura nazionalistica ad uno di “apertura universalistica”, poiché il disegno soteriologico nel piano divino ingloberà tutti i gentili. Israele però aveva peccato e si rifiutava di accettare il Vangelo; scrive Paolo:  «Una parte di Israele si è irrigidita, fino a che non sia entrata la pienezza delle genti. Così tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: Uscirà da Sion il liberatore, e stornerà le empietà da Giacobbe. E questo è il mio patto con loro, quando eliminerà i loro peccati»[18].  Non tutti gli ebrei infatti avevano riconosciuto in Gesù di Nazareth il Messia che tanto attendevano: abbiamo detto di come Dio avesse indurito i loro cuori, per salvarne poi qualcuno; parlando degli ebrei in particolare Paolo li definisce:  «questi uccisori del Signore Gesù e dei profeti, nostri persecutori, spiacenti a Dio, avversi a tutti gli uomini; essi ci impediscono di parlare ai gentili affinché siano salvi, così completando sempre la misura dei loro peccati. Ma l’ira li ha finalmente raggiunti»[19].  Dio avrebbe allora ripudiato il suo popolo? «Non sia mai» (Rom 11, 1) risponde l’apostolo che istituisce, attraverso una bellissima metafora, il parallelismo tra il popolo di Israele ed i rami di un albero:  «Ed anche loro, se non persisteranno nell’incredulità, verranno innestati, poiché Dio ha il potere d’innestarli nuovamente. Se tu infatti sei stato reciso dall’olivastro a cui eri connaturato, e innestato innaturalmente in un olivo ben formato, quanto più essi, che vi sono connaturati, saranno innestati nel proprio olivo»[20].  In realtà, tutto ciò era funzionale al disegno divino: per la caduta di pochi, molti si salvarono, dal momento che lo stesso Paolo si rivolge ai pagani e va a predicare alle genti, nella speranza di suscitare la gelosia di Israele. E conclude: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nell’incredulità, per usare a tutti misericordia» (Rom 11, 32). Subentra a questo punto il famoso “resto” di cui parlava Isaia, per cui solo nel momento in cui rimarrà un resto davvero irriducibile, ebbene solo allora tutti saranno inglobati nella salvezza ed Israele sarà salvato. Nell’iniziale schema escatologico, l’essere un popolo “eletto” significava che questo popolo sarebbe stato il primo a salvarsi; adesso invece, in virtù di un paradossale capovolgimento, questo resto sarà l’ultimo, nel senso che prima verranno compresi i gentili e, solo in un secondo momento, Israele entrerà a far parte della promessa. Per spiegare meglio questo concetto, Paolo ricorre all’immagine del rapporto intercorrente tra le molta membra del corpo ed il corpo mistico del Cristo, il quale è capo dell’unica Chiesa e solo Signore:  «Come infatti il corpo è unico con molte membra, e tutte le membra del corpo, pur molte, sono un unico corpo, così anche il Cristo. Tutti noi siamo stati immersi nell’acqua in un unico Spirito per formare un unico corpo, sia giudei sia greci, sia servi sia liberi. […] Anzi, le membra del corpo apparentemente più delicate sono le più necessarie, e a quelle da noi giudicate più vili nel corpo attribuiamo un pregio assai maggiore, e le nostre parti indecorose non hanno bisogno di nulla. Ma Dio fuse il corpo attribuendo assai maggior pregio al membro che ne mancava, per impedire scissioni nel corpo stesso, e invece le membra si preoccupino l’una dell’altra. Così, se un membro soffre, soffrono con quello tutte le altre membra, e se un membro è glorificato, tutte le altre ne gioiscono con lui»[21]. Insistiamo sul termine ‘tutto’ per ribadire la sua importanza all’interno del nostro discorso[22]. La chiesa cattolica fonda se stessa in quanto ekklesia, a confermare il carattere universale della chiamata. Nelle Scritture, leggiamo: «In te verranno benedette tutte le nazioni» (Gn 12, 3) e Paolo commenta così queste parole: «così che quanti procedono dalla fede sono benedetti con Abramo fedele» (Gal 3, 9): già queste frasi sono anticipatrici dell’universalismo salvifico mediante Abramo. Da qui si capisce il perché dell’iniziale elezione di Israele e della sua successiva perdizione: Dio – dicevamo – non aveva scelto questo popolo in quanto migliore degli altri ma la sua elezione sarebbe stata il preludio della futura salvezza generale. L’elezione dei pagani è partecipazione all’elezione di Israele e Paolo precisa:  «Non tutti i discendenti di Israele sono infatti il vero Israele; né per essere discendenza d’Abramo sono tutti suoi figli, bensì in Isacco verrà chiamata la tua discendenza: ossia, non i figli della carne sono i figli di Dio, ma i figli della promessa saranno considerati come discendenza»[23]. Non i figli discendenti da Ismaele ma quelli discendenti da Isacco sarebbero stati davvero liberi ed eredi della promessa. I popoli, pervenuti finalmente alla salvezza, smuoveranno l’Israele disperso nella diaspora dell’incredulità e lo indurranno a ritornare a Sion[24]. La salvezza, che deriva da un dono [karisma] puro ed assolutamente gratuito, potrà essere elargita agli uomini solo se tutti, pagani ed ebrei, torneranno a volgersi a Sion. Nel precetto universale dell’amore è riassunto il principio del monoteismo assoluto e della necessità di prestare obbedienza ai comandamenti divini. A Paolo spetta in definitiva il merito di aver reso “universale”[25] il messaggio cristiano, facendolo uscire dai ristretti confini della Palestina, per giungere a tutte le genti. «Ciò nonostante, Dio aveva stretto un’alleanza con Israele per unirsi di nuovo, tramite questo popolo, con tutta l’umanità»[26], è il commento di Bouwman a questo proposito. Quando, alla fine delle sue riflessioni teologiche, Paolo proclamò la salvezza dell’Israele empirico degli ultimi tempi – ad avviso di Gnilka – stava in realtà professando la propria fede nella fedeltà a Dio (Rom 11, 28) e dichiarava la propria convinzione che l’inizio del popolo di Dio e la sua fine fossero identici, vale a dire sono costituite da Israele[27]. Gerusalemme, la città santa, si trova quindi all’inizio ed alla fine del percorso di salvezza e, alla fine dei tempi, tutti avranno libero accesso alla Gerusalemme celeste, “liberata” per dirla con Torquato Tasso, in riferimento alle lotte tra cristiani e musulmani che la insanguinarono nel Medioevo per la riconquista del santo sepolcro, eppure la storia sembra destinata a ripetersi ineluttabilmente, a scorrere nel suo essere sempre uguale a se medesima, come se gli uomini non avessero tratto nulla dagli insegnamenti del passato, considerando che anche oggi i combattimenti che lacerano il mondo sembrano identici a quelli che si perpetrarono ottocent’anni fa. Alla domanda nietzscheana dell’uomo folle “Dov’è Dio?” dovremmo piuttosto chiederci che fine abbia fatto l’uomo, nella sua umanità ed in ciò che connota propriamente la sua essenza più intima, perché è lui che, in riferimento ai massacri, alle ingiustizie perpetrate nel tempo, alle aberrazioni di quest’ultimo secolo in particolar modo, ha permesso tutto ciò. Dove regna il peccato, lì sovrabbonderà la grazia: il riferimento è allo scempio delle guerre, alle migliaia di donne, uomini, bambini, massacrati inutilmente e disumanamente, come pecore destinate al macello. Ciò vuol dire, al di là dei conflitti che hanno insanguinato il teatro della scena storica, delle lotte fratricide, tra fratelli appunto, poiché Dio si era rivelato ad Abramo ed in lui aveva promesso la salvezza a tutti, non si capisce bene per quale motivo le tre grandi religioni del Libro, cristianesimo, ebraismo ed islam, abbiano perduto di vista il loro punto comune mentre hanno invece insistito sulle differenze e sugli elementi di discontinuità, facendo leva su quest’ultime per muoversi guerra a vicenda. Se tutti devono la propria origine alla medesima fonte divina – se le tre grandi religioni monoteistiche derivano veramente dallo stesso Libro – che senso avrebbe questo continuare a farsi la guerra senza pervenire mai alla stipulazione di un accordo, senza una pace che sia per così dire duratura, “perpetua” per dirla con Kant? E perché in seguito al crollo di un muro vergognoso si è assistiti sgomenti ed impassibili all’edificazione di un altro muro altrettanto doloroso[28]? Dio che creò ogni cosa, compresi gli uomini, non lascerà che nulla di ciò che Gli appartenga possa smarrirsi; per dirla con Sanders: «Tutti noi e l’intera creazione appartengono a Lui»[29]. Lo stesso Isaia mette in bocca al suo Signore le seguenti parole: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me, mentre di Israele dice: «Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle!» (Is 65, 1-2). Sulla scia di Paolo perciò non possiamo che tentare di ripensare ad una torah prima del Sinai[30], che si rivolga a ciò che esisteva prima della legge mortifera delle opere e della carne, e che torni a guardare non più a Mosè bensì ad Abramo ed all’incondizionato gesto d’amore che questi compì nel momento in cui ricevette la chiamata di Dio. Solo volgendosi indietro nel passato sarà possibile recuperare quell’autentico spirito di pace e fratellanza indispensabile per una pacifica convivenza e coesistenza delle molteplicità. Paolo parla di legge della promessa, in un contesto di “sospensione della legge”, che torni a dirigersi verso quell’incredibile promessa fattagli da Dio, alla quale egli tuttavia credette, “sperando contro ogni speranza” e pronto ad accogliere l’evento dell’impossibile. Perché, per riprendere l’annuncio del profeta Abdia, è da Sion che proverrà la salvezza: «Ma sul monte Sion vi sarà una porzione salva e sarà un luogo santo» (Abdia 1, 17). Siamo in presenza di un uomo, avanti negli anni, e di una donna, per di più sterile; eppure Abramo e Sara credettero, al di là di ogni logica e buon senso. È questo il gesto più inaudito ed incomprensibile per la sensibilità di noi uomini contemporanei; ed è da questa fede nella follia che bisogna ripartire. Ognuno di noi è chiamato, convocato da Dio a porsi su questa strada e a corrispondere al suo appello. Forse, ad avviso di Paolo, è proprio questo che ci viene richiesto: dare prova di una simile fede, prova terribile e difficile insieme ma non impossibile dal momento che solo la speranza, la fede e l’amore potranno far crollare, una volta per sempre, tutti i muri della separazione, di odio e di violenza che si erigono quotidianamente fra gli uomini, poiché, per dirla con Paolo, «uno solo è il Signore, una la fede» (Ef 4, 5) e noi tutti, a prescindere dalle apparenti differenze, «siamo stati fidanzati ad un unico sposo» (II Cor 11, 2). In un’epoca come la nostra, è necessario capire e recepire il messaggio di Paolo nella sua interezza e straordinaria attualità, comprendendo l’urgenza con la quale bisogna agire per abbattere tutte queste pareti di sbarramento. Per cui, nel momento in cui calerà il sipario e la promessa troverà finalmente la sua attuazione ed il suo compimento, quel che resterà sarà solo agape, nel suo dominio assoluto ed incontrastato. Ci piace pensare che tutto questo discorso non sia solo una mera utopia o un sogno irrealizzabile che svanirà non appena le parole non troveranno adempimento o riscontro nella realtà dei fatti ma che veramente, nel futuro regno messianico, letto oggi in una chiave secolarizzata, gli uomini possano imparare a riconoscersi come fratelli e, guidati dallo spirito della pace e dell’amore, sappiano dare vita ad una nuova comunità messianica di “eletti”, guidati dalla speranza e dallo spirito di “fratellanza, uguaglianza e libertà” e, con gli occhi infine scevri di pregiudizi ed inimicizia e di avversione l’uno per l’altro, al di là degli odi etnici e di razza contemporanei, ritrovare infine quell’elemento di comunione e di coesione che ci accomuna tutti quanti.

  NOTE SUL SITO  

G.F. RAVASI, « SULLE RADICI CRISTIANE, SULLE ANIME DELL’EUROPA »

http://www.gennarocucciniello.it/site/politica/g.f.-ravasi-sulle-radici-cristiane-sulle-anime-delleuropa.html

G.F. RAVASI, « SULLE RADICI CRISTIANE, SULLE ANIME DELL’EUROPA »

Scritto da Gennaro Cucciniello

Mercoledì 18 Luglio 2012

Un saggio sulle radici cristiane, sulle anime dell’Europa.

Pubblico una parte dell’intervento che il cardinale Gianfranco Ravasi ha scritto tempo fa per la rivista “East”, diretta da Vittorio Borelli ed edita da Baldini Castoldi Dalai. Lo faccio perché oggi l’Europa è nel pieno di una crisi gravissima, epocale. Proveniente dal greco “krinein” la parola “crisi” avrebbe un’origine medica e si riferirebbe a quel momento –“krisis”- dell’evoluzione della malattia giudicato pericoloso, difficile, decisivo. Bisogna saper ravvisare quel momento e decidere di fare una scelta che sarà determinante per la guarigione. C’è una frase di Borges per me illuminante: “Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà d’un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”.
Sui destini d’Europa viviamo tutti un forte disincanto. Ma essa è necessaria, ancor più per quei milioni di giovani che aspettavano l’Europa della conoscenza e dell’innovazione e che stanno vivendo quella della disoccupazione di massa, del precariato e della crisi del Welfare. Come tanti della mia generazione ho creduto in un’Europa unita nella ragione e nella parità delle lingue e delle sue grandissime culture, e ci credo ancora anche se questa Europa non è poi nata, sembra anzi, da quando si è data le sue prime istituzioni, più lontana che mai. Il nostro continente è stato nei secoli un laboratorio di esperienze culturali e di idee politiche e sociali senza equivalenti in nessun’altra parte del mondo e l’identità europea nasce dal dialogo e dal dissenso fra molte culture politiche diverse. Il mondo europeo custodisce nelle sue profondità un apparato d’elaborazione pressoché unico per dare un senso umano alle sfide gigantesche (filosofiche, politiche, estetiche, religiose, tecnologiche, esistenziali) attraverso cui abbiamo posto le basi per il funzionamento dell’intero Occidente. La crisi di oggi è drammatica: il welfare rattrappito, la disuguaglianza crescente, la mancanza di lavoro, la miseria. L’Europa unita serve per scongiurare insieme le sciagure: ieri le guerre, oggi la contrazione economica, la povertà, il mutamento climatico, le possibili guerre civili. Questa è la natura delle nostre menti e dei nostri cuori: persino quando sogniamo, essi provano sempre a salvare dalla distruzione quello che abbiamo vissuto.
Non dimentico, infine, quel motto di David Maria Turoldo voluto dal cardinale Ravasi quale simbolo del “Cortile dei gentili”: “Fratello ateo, nobilmente pensoso,/ alla ricerca di un Dio / che io non so darti / attraversiamo insieme il deserto”.

Gennaro Cucciniello

“L’Europa non ha quasi mai avuto una unità civica, politica o storica. Ma per secoli ha avuto una sua unità civile, culturale e spirituale. La stella polare di riferimento e contrasto è stato il Cristianesimo, ma anche la filosofia greca, il diritto romano, l’illuminismo liberale e del movimento operaio, inteso come lotta per la giustizia sociale, hanno giocato il loro innegabile ruolo.
C’è un suggestivo gioco di parole che è stato coniato dai giovani dei vari Paesi europei in occasione dei loro incontri di matrice religiosa: essi parlano di Eur-hope, un’Europa dunque da costruire nella speranza e non solo nel realismo dell’economia e della politica. Una comunità che sappia ancora tendere verso ideali e orizzonti più alti, stimolati dalla cultura, da una “politica” che riveli il senso più nobile del termine e da una spiritualità che non è solo confessione religiosa, ma anche ricerca del senso ultimo dell’esistenza e dei valori morali e umani che trascendono interessi e contingenze. Per raggiungere questa meta è paradossalmente necessario risalire lungo il fiume del passato, ritrovando le proprie sorgenti umane e spirituali. E’ ciò che il grande Goethe esprimeva in modo folgorante con la battuta: “La lingua materna dell’Europa è il cristianesimo”. Anche Kant era convinto che “il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà”.
Certo, a prima vista l’Europa si rivela come un mosaico, un vero e proprio arcipelago di culture: c’è l’area latina ma anche quella germanico-baltica, c’è l’area slava e c’è quella celtica. L’Europa non ebbe quasi mai un’unità civica o politica o storica. Tuttavia ebbe sostanzialmente per secoli e secoli una sua unità civile, culturale e spirituale. L’anima di questa unità interiore, spesso appannata o coperta da sedimenti ma mai spenta, ebbe anch’essa molte iridescenze: pensiamo solo al rilievo della filosofia greca o all’incidenza del diritto romano, ma anche, se giungiamo alle epoche più recenti, pensiamo all’influsso dell’Illuminismo liberale o del movimento operaio, cioè della ragione e della lotta per la giustizia sociale. Tuttavia è indubbio che il nodo d’oro che tenne insieme questa molteplicità o il filtro che ne vagliò gli effetti o anche la stella polare di riferimento e di contrasto fu il cristianesimo. (…)
Il cristianesimo, con la sua celebrazione della persona e della dignità umana, con la contemplazione (ora) e l’impegno sociale (labora) del monachesimo, con la riflessione del Medio Evo e con la cultura gloriosa dell’Umanesimo e del Rinascimento, costituiva il grande “codice ideale” dell’Europa. In particolare lo era attraverso la Bibbia, coinvolgendo così anche le matrici ebraiche (…) Il pittore Marc Chagall era convinto che per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’”alfabeto colorato della speranza” che sono le Sacre Scritture, tant’è vero che senza la loro conoscenza è impossibile decifrare l’iconografia dell’arte europea. E’ naturalmente impossibile delineare ora la planimetria di questa storia culturale che ha nel cristianesimo quasi il suo “grande lessico”, per usare un’espressione del poeta francese Paul Claudel. Si tratta, infatti, di un rapporto estremamente complesso, non di rado dialettico e fin conflittuale, che però risulta decisivo per la comprensione della nostra stessa identità. Perciò anche per la storia presente dell’Europa è necessario tener presente l’illuminante contrappunto che Cristo propone in quella sua celebre asserzione: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (vedi Matteo 22, 15-22). La sfera politica, economica, “laica” ha una sua dignità e una sua autonomia emblematicamente rappresentata da un parlamento comune e da una moneta, l’euro. Ma c’è un’altra sfera che è distinta ma non antitetica, ed è quella della persona umana, della cultura, della spiritualità ove si configura l’immagine non di Cesare ma di Dio: infatti, “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò” (Genesi 1, 27). L’Europa di Cesare e l’Europa di Dio, cioè immanenza e trascendenza, politica e religione, economia e cultura devono intrecciarsi tra loro, senza reciprocamente prevaricare. In questa luce il cristianesimo è, come affermava Francesco De Sanctis, spirito laico dell’Ottocento, la radice del nostro “sentimento religioso che è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato” (così nell’opera La giovinezza).
E’ su questa traiettoria che vorremmo, proprio sulla scia dell’anima cristiana che pulsa sotto la superficie della nostra civiltà, proporre un appello che impedisca la dissoluzione della nostra specificità, della nostra autenticità, della nostra identità gloriosa. E’ un discorso passibile di mille sfaccettature: noi ne scegliamo –considerati i limiti di questa riflessione soltanto “provocatoria” e quasi “impressionistica”- solo tre, componendole in un ideale trittico nel quale tutti riescano a riconoscersi e a impegnarsi, dato che “non possiamo non dirci cristiani” per le ragioni che Croce ebbe già a formulare nel suo famoso intervento del 1942 su La Critica.
E’ innanzitutto necessario lottare contro la smemoratezza nei confronti delle proprie radici, dei valori costitutivi, dell’identità genuina dell’Europa. Lo scrittore francese Georges Bernanos in una sua analisi dello svuotarsi dell’anima della nostra società, sviluppata nel saggio “La France contre les robots”, dichiarava: “Una civiltà non crolla come un edificio; si direbbe molto più esattamente che si svuota a poco a poco della sua sostanza finché non ne resta più che la scorza”. C’è il rischio che l’Europa si riduca proprio a scorza, a tronco arido, avendo disseccato la linfa delle sue radici profonde cristiane, votata solo alla “virtualità” (i Robots che si affacciavano sul panorama europeo degli anni Quaranta in cui viveva Bernanos), appiattita su modelli estrinseci come quello americano contemporaneo. Le cattedrali e i gloriosi monumenti si trasformano allora, come diceva il poeta tedesco Whilhelm Willms, in “vuoti gusci di chiocciola”, percorsi solo da distratti sciami di turisti, privi di cuore, di vita, di canti, di voci, di fede. I nobili segni della nostra cultura si riducono, così, a essere conchiglie senza l’eco del mare del passato. (…)
Un seconda lotta è da intraprendere ed è quella, conseguente alla precedente e ad essa connessa, contro la superficialità, la banalità, la vacuità, la volgarità, la bruttezza. E’ un ritorno all’etica e alla bellezza che erano le stelle fisse del cielo della civiltà europea nei secoli, proprio sullo stimolo del messaggio cristiano, un annunzio di giustizia e di bellezza, di verità e di luce, di amore e di armonia. Aveva ragione Benedetto Croce quando in un opuscolo del 1935, Orientamenti, ammoniva: “Non vi date pensiero di dove vada il mondo, ma di dove bisogna che andiate voi per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi del vostro passato tradito”. E’ necessario un sussulto di moralità, un supplemento di anima, una purificazione alle fonti della bellezza, realtà che hanno reso l’Europa un vessillo tra i popoli del mondo. (…) Sempre più quella sorta di Moloch della comunicazione che è la televisione comunica solo –a folle di persone con le mani alzate in segno di resa o di adorazione- ciò che dobbiamo mangiare, indossare, le mode e i modi della vita. Manca una voce che indichi la rotta, il senso della vita, che ci interpelli sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto, sul vero e sul falso, sull’esistere e sul morire.
Infine c’è un ultimo impegno che vogliamo evocare per ritornare a essere autenticamente europei ed è quello della lotta contro gli estremi, gli eccessi, la spirale delle pure antitesi. La cultura greca ci ricordava che il sapiente è un uomo meth’orios, “da crinale”, capace di procedere con intelligenza e cautela sul vertice tagliente di un monte, lungo il quale si distendono due versanti (così l’alessandrino ebreo Filone nel De Somniis). Da un lato, infatti, si può scivolare lungo il versante di un sincretismo che diventa relativismo incolore e che spegne e dissolve la nostra identità specifica. Dostoevskij con veemenza gridava: “L’Europa ha rinnegato Cristo. E’ per questo, è solo per questo che sta morendo”. D’altro lato, c’è il rischio di precipitare lungo il versante del fondamentalismo che diventa esclusivismo acceso e che cancella ogni rispetto e ignora ogni valore altrui, in una sorta di foga iconoclastica, feroce e impaurita al tempo stesso, nei confronti di tutto ciò che è diverso. E’, invece, indispensabile ritrovare la grande tradizione del dialogo, del confronto tra le culture e le religioni, nello spirito di quel cristianesimo genuino –spesso tradito- che vedeva i semina Verbi, cioè i semi del verbo divino nella molteplicità della ricerca umana. (…)
E’, dunque, risalendo lungo il corso del fiume della storia europea sino alle sue sorgenti che riusciamo a riproporre un’Europa che non sia solo geografica o economica. E che questo pellegrinaggio ideale, necessario per credenti e per agnostici, sia decisivo lo ricordava in modo suggestivo uno dei massimi poeti del ‘900, Thomas Stearns Eliot, un americano che scelse l’Europa come patria: “Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quel che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto”.

Gianfranco Ravasi

MOLTI POPOLI PER LA MIA PREDICAZIONE SONO RINATI AL SIGNORE, SAN PATRIZIO

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010316_patrizio_it.html

MOLTI POPOLI PER LA MIA PREDICAZIONE SONO RINATI AL SIGNORE

DALLA « CONFESSIONE » DI SAN PATRIZIO, VESCOVO (CAP. 14-16; PL 53, 808-809)

A cura dell’Istituto di Spiritualità:
Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino

« Renderò grazie al mio Dio senza mai stancarmi, perché mi ha conservato fedele nel giorno della prova, sicché oggi posso offrire in sacrificio come ostia vivente la mia vita a Cristo, mio Dio, che mi ha salvato da tutti i miei affanni. Gli dirò: Chi sono io, o Signore, o a quale vocazione mi hai tu chiamato per ricoprirmi di tanti favori?
Oggi, dovunque mi trovo, mi posso rallegrare sempre e magnificare il tuo nome tra le genti non solo nella prosperità, ma anche nelle afflizioni. Qualunque cosa, buona o cattiva che sia, devo sempre accoglierla con animo sereno e rendere incessanti grazie a Dio, il quale mi ha fatto dono di una fede incrollabile in lui e mi darà ascolto.
Ancora in questi ultimi giorni della mia vita, sto pensando se intraprendere un’opera veramente santa e meravigliosa; se imitare cioè quei santi di cui il Signore aveva già predetto che avrebbero annunziato il suo Vangelo « in testimonianza a tutte le genti », prima della fine del mondo.
Da dove è venuta in me questa sapienza, che prima non avevo? Io non sapevo neppure contare i giorni, né ero capace di gustare Dio. Come mai dunque mi è stato dato un dono così grande, così salutare, come è quello di conoscere Dio e di amarlo? Chi mi ha dato la forza di abbandonare la patria e i genitori, di rifiutare gli onori che mi venivano offerti e di venire tra le gemi di Irlanda a predicare il Vangelo, sopportando gli oltraggi degli increduli e l’infamia dell’esilio, senza contare le numerose persecuzioni fino alle catene e al carcere? Così ho sacrificato la mia libertà per la salvezza degli altri!
Se ne sarò degno sono pronto anche a dare, senza esitazione e molto volentieri, la mia vita per il suo nome. Se il Signore me ne farà la grazia, desidero consacrare tutte le mie forze a questa causa. Ho tanti debiti verso il Signore perché egli mi ha fatto il dono inestimabile di rigenerare in lui con la mia opera molti popoli e di portarli alla pienezza della vita cristiana. Per la sua grazia ho potuto ordinare in tutti i loro villaggi alcuni chierici, a cui affidare queste genti, venute da poco alla fede.
Questo è veramente un popolo che il Signore ha chiamato a sé dagli estremi confini della terra, come aveva promesso anticamente, per mezzo dei profeti: « A te verranno i popoli dall’estremità della terra e diranno: i nostri padri ereditarono molte menzogne, vanità che non giovano a nulla » (Ger 16, 19). E ancora: Ti ho posto come luce per le genti, perché tu sia loro salvezza sino all’estremità della terra (cfr. Is 49, 6). Attendo il compimento della sua promessa. Egli, infatti, che non inganna mai alcuno, dice nel vangelo: « Verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe » (Mt 8, 11). Siamo certi perciò che i credenti verranno da ogni parte del mondo. »

Orazione
O Dio, che hai inviato ai popoli dell’Irlanda il vescovo san Patrizio come apostolo del Vangelo, per sua intercessione concedi alle nostre comunità di riscoprire il senso missionario della fede e di annunziare agli uomini le meraviglie del tuo amore. Per il nostro Signore.

Biografia:
Nato in Gran Bretagna verso il 385, ancor giovane fu portato prigioniero in Irlanda e mandato a pascolare le pecore. Riconquistata la libertà, volle essere ascritto fra i chierici. In seguito, eletto vescovo d’Irlanda, evangelizzò con grande zelo i popoli di quell’isola, convertendone molti alla fede. Ebbe grandissimi meriti nella istituzione della gerarchia ecclesiastica dell’isola. Morì presso Down nel 461.

Publié dans:EUROPA, SANTI |on 16 mars, 2015 |Pas de commentaires »

17 MARZO: SAN PATRIZIO : “CRISTO CON ME, MATTINO E SERA”

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/03-Marzo/San_Patrizio.html

17 MARZO: SAN PATRIZIO, APOSTOLO DELL’IRLANDA, VESCOVO 390(?)-461

“CRISTO CON ME, MATTINO E SERA”

È solo una leggenda ma la trovo significativa. Narra che San Patrizio, giunto in Irlanda, prima di iniziare il suo lavoro di apostolo ed evangelizzatore degli abitanti, si fosse ritirato sulla sommità di un picco ossuto e sassoso che si affaccia sull’Oceano. Qui iniziò il suo “deserto”, fatto di digiuno, di preghiera e preparazione spirituale alla grande missione. Finita questa esperienza di solitudine Patrizio si mise a suonare la sua campana. A quel richiamo accorsero i serpenti dell’isola, per poi gettarsi dal dirupo nel mare, liberando l’Irlanda dai rettili. Una leggenda certo, ma che ci fa capire l’importanza del protagonista e di quanto sia radicato nell’immaginario collettivo degli Irlandesi. Ci spiega anche il perché ogni ultima domenica di luglio questo monte sacro, chiamato “The Reek”, sia meta di pellegrinaggi di migliaia di persone. Queste, si arrampicano sul monte, in preghiera e in silenzio, spesso a piedi nudi in segno di umiltà, talvolta portando vestiti di penitenza e grandi croci sulle spalle.
Un pellegrinaggio che si ripete da secoli anche se oggi con meno partecipazione e convinzione, anche perché l’isola è profondamente cambiata. Se ne andata l’immagine tradizionale di una Irlanda povera ma devotissima, dalla frequenza all’Eucarestia domenicale altissima (le ho viste anch’io un po’ di anni fa, a Dublino, queste chiese strapiene di gente devota e simpatica), un’isola che andava orgogliosa per il proprio attaccamento e fedeltà a Roma, ricca di vocazioni e generosa esportatrice di missionari in tutta la Chiesa (in Italia San Colombano, fondatore della celebre abbazia di Bobbio).
Quell’Irlanda non c’è più. Il grande cambiamento è avvenuto grosso modo in quest’ultimo ventennio. Non c’è più la povertà che si era patita per secoli (da qui anche la grande emigrazione in America). L’Irlanda ha saputo approfittare con intelligenza e tempismo degli aiuti provenienti dalla Unione Europea (della quale sono stati sostenitori convinti, a differenza degli Inglesi, ancora malati di nostalgia del loro ex-impero) non solo per vincere la povertà ma per diventare un’isola di benessere. Non c’è più una cultura chiusa e isolana, ma aperta alla globalizzazione, con molte aziende multinazionali che hanno fatto fare un salto di qualità all’Irlanda intera: dalla campagna alla telematica e alla “Net Economy”.
Molto profondo è anche l’influsso della cultura americana, particolarmente attraverso la televisione ed i film. Non si parla più di povertà economica ormai, ma di una certa “crisi spirituale” ed ecclesiale. Questa è stata innestata anche dai molti problemi creati dai fenomeni quali urbanizzazione, secolarizzazione e consumismo, e, non ultimo, da alcuni scandali del clero che ha intaccato la fiducia di molte persone. In alcune zone dell’isola la pratica religiosa domenicale è crollata dal 90% al 50% (comunque sempre più alta rispetto alla nostra cattolica Italia!). In alcune periferie di grandi città anche di meno. Ma per avere il quadro completo, qualche Irlandese direbbe “You have to go west” bisogna andare all’Ovest dell’isola, dove la frequenza alla messa è rimasta ancora molto alta, anche se minore rispetto al passato. Questo significa che il Cristianesimo rimane sempre la struttura portante della mentalità e della cultura della gente irlandese.
E questo è merito anche di San Patrizio e delle radici profonde che ha dato al cristianesimo dell’isola.

“Io, Patrizio, vado avanti sostenuto dalla forza di Dio”
Patrizio nacque attorno al 390 a Bannavem Taberniae, un villaggio della Britannia Romana, sulla costa occidentale dell’Inghilterra. Possiamo dire che era un “figlio d’arte” perché suo nonno era prete e il padre era un diacono e nello stesso tempo decurione civile, incaricato cioè della riscossione dei tributi. Ma quando Patrizio era ancora un ragazzo le legioni romane cominciarono a ritirarsi dalla Britannia, lasciandola indifesa. E in quegli anni hanno inizio le incursioni, dal continente, di altri popoli quali gli Angli, i Sassoni, gli Juti (che più tardi si stabiliranno nell’isola che diventerà così la “Terra degli Angli” (England), con una popolazione in prevalenza quindi anglo-sassone.
Ma le incursioni non arrivavano solo dal continente, ma anche dalla vicina grande isola. Ed in una di queste razzie di pirati irlandesi, Patrizio venne rapito, a sedici anni, e portato in Irlanda a fare il pastore, proprio tra quelle popolazioni che diventeranno il terreno della sua missione evangelizzatrice. Si vede proprio che le vie della Provvidenza sono infinite, e si serve anche di una apparente disgrazia (essere rapiti) per i propri progetti di salvezza. Patrizio cominciò così a conoscere e studiare l’indole ed il carattere, gli usi e i costumi di quelle popolazioni. Questo avvenimento doloroso interruppe la sua formazione scolastica (e di questo si rammaricherà spesso dichiarando di essere rimasto purtroppo “ignorantissimo”), ma nello stesso tempo fu “provvidenziale”. Scrisse lui stesso nella sua “Confessio”:
“Arrivato in Irlanda, ogni giorno portavo al pascolo il bestiame, e pregavo spesso nella giornata; fu allora che l’amore e il timore di Dio invasero sempre più il mio cuore, la mia fede crebbe, e il mio spirito era portato a fare circa cento preghiere al giorno, e quasi altrettante la notte, e stavo nelle foreste e sulle montagne, e mi alzavo prima dell’alba a pregare, e nonostante la neve, il gelo e la pioggia non sentivo alcun male, e non c’era in me pigrizia alcuna, come vedo ora, perché allora il mio spirito era pieno di ardore”.
Dopo alcuni anni riuscì a fuggire dall’Irlanda e le notizie che si hanno su questo buco di circa vent’anni della sua vita sono controverse. Si sa che Patrizio si preparò a diventare diacono e prete, e che seguì poi il vescovo Germano ad Auxerre, nella Gallia romana. Germano era una figura importante: una specie di Ambrogio di Milano. Era stato infatti funzionario imperiale, chiamato poi dal popolo all’episcopato. Aveva fatto anche dei viaggi apostolici in Britannia (nel 430 e nel 445) predicando ed insegnando. Patrizio lo scelse come suo maestro e lo seguì nella città chiamata oggi Auxerre (qualche studioso afferma che sia stato anche a Roma).

Patrizio evangelizzatore e vescovo di tutta l’Irlanda
Patrizio non è stato il primo evangelizzatore. Prima di lui era arrivato Palladio, britannico come Patrizio, inviato dal papa Celestino I. Gli Annali Irlandesi parlano anche di altri tre vescovi provenienti dal continente per predicare il Vangelo nell’isola. Ma questi sono stati solo i primi tentativi. Patrizio portò a compimento la sua missione, diventando il vero e grande apostolo di tutta l’Irlanda.
Alla morte di Palladio, Germano consacrò Patrizio vescovo e lo inviò nell’isola. Per lui era stata terra di prigionia, ora diventava terra di missione. E a questo si dedicò con tutto se stesso. Cominciò il suo lavoro apostolico nel nord, ed in seguito fissò sua sede episcopale ad Armagh. Particolare interessante, visto che parliamo molto di Unione Europea. Patrizio portò con sé un “team” multinazionale di collaboratori: c’erano Romani, Britanni, Galli, Franchi. Il risultato di questo lavoro “europeo” fu splendido. Da vecchio, Patrizio si definiva “peccator rusticissimus” (peccatore ignorantissimo), ma il suo spendersi senza risparmio e con intelligenza diffuse la fede cristiana nell’isola dandole una forte organizzazione. Nella sua predicazione ebbe un primo obbiettivo:
“Il modo di operare di Patrizio fu quello di convertire i figli e le figlie dei re (se non proprio il re stesso). E lui stesso dice che molti di questi diventarono monaci e monache, tutti dedicati a Dio. E questo sostiene bene l’idea che la cultura druidica di allora era già ben sviluppata, e pronta a quell’ultimo passo della fede, in cui la grazia poteva costruire sulla base umana già molto alta. Questi due aspetti spiegherebbero il grande successo dell’inculturazione della fede nell’Irlanda di allora” (Pat Egan SDB).
Con i suoi collaboratori seppe infondere in tutti e in tutto una particolare energia che renderà l’Irlanda una “isola di santi e di dotti” facendone sentire l’influsso anche sul continente europeo. Darà poi agli irlandesi l’orgoglio della propria identità come un popolo unificato dalla stessa fede cristiana.
Ma chi era Patrizio? Di sé parla nella Confessio. “Traspare dagli scritti la figura di un uomo molto sensibile… Ma gli elementi del carattere che risaltano di più sono una franchezza disarmante, un senso acuto dei propri limiti, e insieme la coscienza di aver ricevuto una missione alla quale consacrarsi con uno zelo smisurato, una generosità istintiva, una vera e propria passione per il Vangelo, unita alla venerazione per tutta la Scrittura, senza trascurare l’attaccamento affettuoso alle persone da lui battezzate ordinate, che traspare con tutta la forza dell’emozione soprattutto nell’Epistola” (Domenico Pezzini).
Patrizio fu specialmente un apostolo, un evangelizzatore ed un grande catecheta, molto vicino alla gente semplice, che egli sapeva capire e dalla quale si faceva capire, anche quando parlava di grandi temi teologici, quali la Trinità. Di essa è rimasta celebre la spiegazione che diede al popolo: “Le Persone della Trinità sono distinte tra loro, come queste foglioline di trifoglio sul loro stelo. Ma unica è la loro sostanza: ciascuna Persona è Dio, come ciascuna fogliolina è erba”. Qualche teologo non sarà certo felice della espressione, ma il popolo semplice intravedeva il significato del grande mistero trinitario e ne era felice. Da qui viene anche la tradizione degli Irlandesi che nel giorno della sua festa, il “Saint Patrick’s Day”, ancora oggi portano all’occhiello un trifoglio. Per ricordare e per ringraziare il grande santo che portò il Vangelo alla loro verde isola.

Mario Scudu SDB ***

*** Questo e altri 120 santi e sante sono nel volume di :
MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice Elledici, Torino

Cristo davanti a me e dietro di me
Io, Patrizio, vado avanti per la mia strada, sostenuto dalla forza di Dio.
La potenza di Dio mi protegge, la saggezza di Dio mi guida,
L’occhio di Dio mi indica la via, l’orecchio di Dio è testimone delle mie parole.
Le parole di Dio siano sulle mie labbra, la mano di Dio mi sostenga,
si apra dinanzi a me la via che conduce a Dio, lo scudo di Dio mi difenda
l’armata invisibile di Dio mi salvi dalle insidie del demonio,
dai difetti che mi imprigionano, da tutti coloro che mi vogliono ingannare.
Durante il mio viaggio, breve o lungo, da solo o accompagnato da molti,
Cristo mi protegga sulla mia via,
perché una messe abbondante sia il frutto della mia missione.
Cristo davanti a me, Cristo dietro di me,
Cristo sotto e sopra di me, Cristo dentro e di fianco a me,
Cristo attorno a me dappertutto, Cristo con me mattino e sera.
Cristo nel cuore di chi pensa a me, Cristo sulle labbra di chi parla di me,
Cristo nello sguardo di chi mi guarda, Cristo negli orecchi di chi mi ascolta.
San Patrizio d’Irlanda

 

DA EVANGELIZZATI A EVANGELIZZATORI – L’EVANGELIZZAZIONE DELL’EUROPA

http://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?azione=det&id=2274

DA EVANGELIZZATI A EVANGELIZZATORI – L’EVANGELIZZAZIONE DELL’EUROPA

Grazie all’opera di san Patrizio, santa Brigida, san Columba e molti altri, la chiesa irlandese è nata con tratti originali. Moltissimi monaci irlandesi hanno evangelizzato il continente, contribuendo fortemente alla costruzione dell’Europa.
I romani la chiamavano Hibernia, ma se ne disinteressarono. Priva di città, di metalli preziosi, con un clima ritenuto inospitale, non fu sfiorata dalla colonizzazione romana né da invasioni barbariche; così l’Irlanda rimase isolata dal continente europeo e poté conservare le sue tradizioni celtiche, la sua struttura agricola e pastorale.
E quando nel secolo v iniziò l’evangelizzazione dell’isola, l’Irlanda, più che accogliere il cristianesimo, ne fu assorbita e trasformata in qualcosa di totalmente nuovo. Alleggerita del bagaglio sociopolitico del mondo greco-romano, la chiesa irlandese nacque e si sviluppò con tratti originali, ma fieramente cattolica; si strutturò secondo una propria peculiarità, attingendo le tradizioni giuridiche dalla cultura celtica e sviluppando una straordinaria capacità di irradiazione spirituale e missionaria.

MONACI, ABATI E BADESSE
L’Irlanda diventò totalmente cristiana per opera del monaco bretone Patrizio (vedi riquadro). Per 30 anni, con zelo infaticabile, egli fondò vari monasteri, divenuti punti di riferimento della vita religiosa e culturale del paese. Nella sua attività apostolica ebbe una geniale intuizione: associare i bardi (poeti e maestri di scuola) all’annuncio del vangelo.
La missione di Patrizio aveva avviato una chiesa modellata sull’organizzazione diocesana, secondo la struttura amministrativa romana, incentrata sui vescovi, per lo più insediati nelle antiche città romane. Ben presto però, mancando l’Irlanda di una vita urbana, la struttura ecclesiale fu adattata al sistema socio-politico della società celtica, che era tenuta insieme da legami tribali e familiari.
Già prima della fine del vi secolo l’organizzazione della chiesa fu incentrata sui monasteri. La parrocchia o diocesi monastica corrispondeva al distretto di un clan, il cui capo era fondatore, patrono e proprietario del monastero, tanto che l’abate era scelto dal capo tribale. Il monastero, a sua volta, fungeva da chiesa e scuola, punto di convergenza spirituale e sociale del clan o del gruppo familiare.
Capo spirituale del monastero e del territorio annesso era l’abate, che non necessariamente era consacrato vescovo o sacerdote. La gerarchia ecclesiastica tradizionale, quella istituita al tempo di Patrizio, continuava a esistere, ma i vescovi operavano normalmente all’interno della parrocchia monastica e sotto l’autorità dell’abate.
Alcuni monaci, infatti venivano ordinati per svolgere le funzioni sacerdotali: amministrazione dei sacramenti, ordinazioni sacerdotali, consacrazione di chiese e altari. Vescovi e preti venivano pure inviati in missioni itineranti per convertire altri clan e altri popoli. Si svilupparono così alcune grandi abazie, che abbracciavano pure i territori delle nuove fondazioni, anche al di là del mare, in Scozia e Britannia.
Il secolo vi fu il periodo d’oro delle fondazioni monastiche. La tradizione attribuisce tale sviluppo all’azione di Finniano, un altro monaco della Britannia occidentale, che fondò nel Meath il monastero di Clonard, passato nella tradizione come una «scuola di santi».
Una caratteristica prettamente irlandese era il ruolo della donna nella società celtica, trasferita automaticamente nell’organizzazione ecclesiale e monastica. Oltre ai monasteri rigidamente maschili, infatti, sorsero spesso i cosiddetti «monasteri doppi», che ospitavano comunità di uomini e donne, separate ma vicine, in alcuni casi con una chiesa comune per gli uffici liturgici.
In molti casi le badesse dei «monasteri doppi» esercitavano la loro autorità su uomini e donne. Le regole concedevano loro anche il potere di ascoltare le confessioni e dare l’assoluzione. Si trattava, in genere, di fondazioni aristocratiche, per cui tali badesse erano di nobili origini, colte ed energiche. Ma la regola raccomandava che «una badessa doveva essere nobile in saggezza e santità, più che nobile di nascita».
Il primo dei monasteri doppi sarebbe stato fondato da santa Brigida a Kildare (vedi riquadro). Nobildonna di una delle più antiche famiglie irlandesi, «madre delle monache d’Irlanda», la vita di santa Brigida era radicata nei miti e nei riti della sua terra; per cui anche i racconti della sua vita sono inseparabili dalle mitologie e saghe celtiche. Per quanto leggendari, tali racconti rivelano l’importanza del ruolo femminile nel movimento monastico irlandese, caratterizzato da una tumultuosa varietà di vita religiosa, ben diversa dal più ordinato monachesimo benedettino.

«MARTIRIO VERDE»
Evangelizzazione e crescita della chiesa in Irlanda avvennero in modo pacifico, senza persecuzioni e senza martiri, almeno per un millennio, fino al tempo di Elisabetta i d’Inghilterra. In assenza del «martirio rosso», cioè con spargimento del sangue, gli irlandesi escogitarono altre forme di martirio: una di esse era il «martirio verde».
I martiri verdi, rinunciavano alle comodità e ai piaceri comuni alla società umana e si ritiravano in luoghi solitari (boschi, montagne, o isole deserte), fuori delle giurisdizioni tribali, per studiare le scritture e vivere in comunione con Dio.
Vita monastica ed eremitica era interpretata dagli irlandesi secondo la propria identità psicologica e religiosa, con pratiche ascetiche dure e intransigenti, da rasentare l’eccentricità (stando alle leggende tramandate), come cantare i salmi distesi sul ghiaccio, oppure pregare con le braccia distese a forma di croce così a lungo, che gli uccelli avevano il tempo di fare il nido sulla testa dell’orante.
È certo, tuttavia, che i monasteri, centri di spiritualità e di cultura, pullulavano di monaci, molti dei quali entrarono nel calendario liturgico, meritando all’Irlanda il titolo di «isola dei santi».

«MARTIRIO BIANCO»
Tra questi santi ci sono anche tanti missionari. Popolo socievole e nomade per indole, agli irlandesi non bastava il «martirio verde» e inventarono il «martirio bianco», una geniale combinazione di ascetismo ed evangelizzazione, attività quest’ultima che da sempre ha caratterizzato la chiesa irlandese.
Moltissimi monaci abbandonavano il monastero di origine, senza farvi più ritorno, e andavano peregrinando di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio. Grazie a tale forma di ascesi, chiamata pure «peregrinazione per Cristo» o «peregrinazione per amore di Dio», essi si sparsero a migliaia prima in Gran Bretagna, poi in tutto il continente: da evangelizzati gli irlandesi diventarono evangelizzatori.
Cominciarono con il portare il vangelo alle altre popolazioni celtiche stanziate nelle coste occidentali della Gran Bretagna; spingendosi fino all’estremità della Scozia, dove san Columba (521-597), fondò il monastero di Iona (vedi riquadro), ben presto diventato centro di irradiazione culturale, religiosa e missionaria, per le isole circostanti, fino alle Orcadi, Shetland e Islanda.
Nello stesso periodo, un numero incalcolabile di missionari-pellegrini varcarono l’oceano e invasero il continente, dalla Francia alla Polonia, dalla Svizzera all’Italia. Anche le loro gesta sono tramandate con toni epici e fantasiosi; ne è un esempio san Brentano (484-578), il quale, avventuratosi con 17 monaci in una spedizione oceanica, su una barca di vimini rivestita di pelli, celebrò la pasqua in groppa a una balena gigantesca, scambiata per un’isola.
Tali leggende, tuttavia, non fanno altro che esaltare la realtà storica, testimoniata da città e regioni che fanno risalire le loro origini ai missionari celtici e bretoni, o ne portano addirittura il nome. Per limitarci all’Italia, quasi ogni regione ne vanta uno, e spesso tanto popolare da apparire come tipico del luogo: sant’Orso d’Aosta, san Frediano di Lucca, san Cataldo di Taranto, san Donato di Fiesole, sant’Emiliano di Faenza, san Felice di Piacenza… Il più noto dei missionari itineranti è san Colombano (543c.-615), anche lui conteso tra Bobbio, Luxeuil, Bregenz.
Nel 590, con 12 compagni, Colombano lasciò il suo monastero di Bangor e passò in Gallia; dopo molto peregrinare fondò in Borgogna i monasteri di Annegray, Fontaine e Luxeuil, che diventò la Montecassino francese.
Cacciato dalla Borgogna, peregrinò lungo la valle del Reno, evangelizzando i pagani in Alsazia e Svizzera, dove fondò un monastero a Bregenz, a ovest del lago di Costanza, mentre il suo compagno san Gallo ne fondò un altro che porta ancora il suo nome. Raggiunta l’Italia, Colombano terminò la sua corsa a Bobbio (Piacenza), dove morì nel 615, mentre stava costruendo il suo ultimo monastero.

RADICI DELL’EUROPA
L’evangelizzazione di Colombano, e dei missionari irlandesi in generale, non era programmata né guidata dall’alto e, per molti aspetti, era fortemente innovativa. Il cristianesimo da loro vissuto e predicato conservava tutte le caratteristiche desunte dalle tradizioni celtiche. Regime di vita monastica, consuetudini rituali e liturgiche, data della celebrazione della pasqua, metodi ascetici e spirituali, prassi pastorali, come la confessione privata… costituivano elementi di novità, che spesso entrarono in contrasto con le tradizioni di origine romana già affermate nella cristianità del continente.
Scontri e tensioni con i vescovi erano inevitabili, sia per le bizzarrie di qualche «pellegrino», sia perché i missionari irlandesi rimproveravano preti e prelati di lassismo, re, principi e papi di rompere l’unità della chiesa.
Colombano difese con passione e solide argomentazioni la legittimità delle tradizioni della cristianità irlandese, rimanendo scrupolosamente unito e fedele alla chiesa di Roma. Ma nei secoli seguenti, con l’espansione del monachesimo benedettino, molte di tali tradizioni furono assorbite, ordinate o cancellate. Sopravvissero, invece, alcuni gusti nel campo della musica, arte, architettura, scrittura, trascrizione di codici e nella liturgia, come la confessione privata, adottata dalla chiesa universale.
Della missione Colombano e dei suoi discepoli rimase indelebile, soprattutto, un ideale: la fusione di culture e popoli diversi in una sola famiglia, sotto la guida del vescovo di Roma. In tale modo nessun popolo avrebbe potuto né dovuto minacciare l’altro, «perché, scriveva Colombano in una sua lettera – noi tutti siamo membra unite di un solo corpo, sia franchi, bretoni, irlandesi o qualsiasi possa essere la nostra razza».
Nasceva così l’Europa cristiana.

Benedetto Bellesi

 

Publié dans:EUROPA, EVANGELIZZAZIONE, SANTI |on 16 mars, 2015 |Pas de commentaires »

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