Archive pour la catégorie 'GERUSALEMME'

I DUE VOLTI DELLA CITTA’ SANTA

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I DUE VOLTI DELLA CITTA’ SANTA

di padre Daniel Chrupcala

Oltre ai Vangeli sinottici e agli Atti degli Apostoli, gli altri libri del Nuovo Testamento non mostrano un grande interesse per Gerusalemme. Questa città è menzionata in essi soltanto 15 volte, ma in compenso assume un volto originale che trascende il lato puramente geografico e storico. (…) Gerusalemme, come fa capire anche il suo nome ebraico (Jerushalajim è una forma duale), costituisce una realtà bipolare; possiede infatti due volti diversi ma strettamente legati tra di loro: storico e trascendente, terreno e celeste, materiale e spirituale, temporale e mistico. La duplice dimensione della città santa è un concetto che si è radicato progressivamente nella tradizione ebraica, dalla quale è passato poi alla tradizione cristiana. (…)
La Gerusalemme celeste. L’autore della Lettera agli Ebrei ha tratto dalla storia biblica gli esempi di alcuni uomini credenti in Dio per presentarli ai suoi lettori come modelli da imitare. Fra questi spicca indubbiamente la figura di Abramo. Obbediente alla chiamata di Dio, egli è partito verso la Terra Promessa, dove conduceva però una vita da nomade e ramingo; in quella regione straniera infatti, che doveva prendere in possesso, abitava sotto le tende, sempre pronto a ripartire e cambiare posto. Egli si comportava in questo modo, perché «aspettava la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,10). Quella città non poteva essere la Gerusalemme terrena, la fortezza dei Gebusei, che più tardi Davide farà capitale del suo regno. Le città costruite dagli uomini sono fragili e spesso vanno in rovina, come più volte ha potuto sperimentare Gerusalemme nella sua storia. Invece la città del futuro, alla quale aspirava Abramo, è eterna e indistruttibile, dato che sorgerà secondo il progetto di Dio e da lui stesso sarà edificata. Per questo motivo è la Città di Dio: celeste, soprannaturale, invisibile, ma che merita pienamente la qualifica di vera e reale. Proprio questa città attendeva Abramo e gli altri Patriarchi dopo di lui, mentre vagavano per la Terra Promessa come stranieri e pellegrini, dirigendosi verso la patria celeste, perché lì doveva compiersi veramente la promessa di Dio.
La stessa idea si riflette nell’esortazione che più avanti l’autore della lettera indirizza ai cristiani: prendendo questa volta a modello Gesù, che per salvare il popolo ha patito fuori della porta della città, anche loro devono comportarsi in modo simile. «Usciamo dunque verso di lui fuori dell’accampamento, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (13,14). Per diventare partecipe dei beni salvifici, il vero discepolo di Gesù deve andare dietro a lui, mettersi con coraggio al suo fianco ed essere pronto a subire gli insulti insieme con lui. Ma questo sarà possibile a condizione che il cristiano esca, come Gesù, «fuori dell’accampamento», ossia quando egli si deciderà a lasciare tutto ciò che rappresenta per lui un surrogato di felicità, benessere e sicurezza. Questi beni sono illusori e instabili per natura, come le città costruite dall’uomo. I beni veri e duraturi si trovano infatti fuori della porta della città, dietro l’orizzonte della speranza umana. Ma per arrivare ad essi, è necessario vestire l’abito del pellegrino e sull’esempio di Abramo partire alla ricerca della città futura.
I cristiani, mentre compiono il loro pellegrinaggio di fede, hanno fin d’ora occasione di sperimentare, anche se in modo parziale e anticipato, la verità della promessa di Dio, che si sta attuando per loro nel raduno liturgico della Chiesa: «Voi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa, e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio… al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele» (12,22-24). La gioiosa celebrazione dell’agire salvifico di Dio nella storia, che si coglie in maniera particolare nell’Eucaristia, è una fonte continua di rinascita spirituale e di speranza per i pellegrini cristiani che con fede si dirigono verso la loro patria celeste (Fil 3,20a: «La nostra patria invece è nei cieli»).
La nuova Gerusalemme. Il libro dell’Apocalisse si chiude con la scena cosmica della nuova creazione, al cui centro si trova la visione della nuova Gerusalemme. Come si ritiene, primi destinatari dell’Apocalisse erano i cristiani dell’Asia Minore, che verso la fine del I secolo sono stati sottoposti ad una ondata di persecuzioni a motivo della loro fede in Cristo. Il libro aveva perciò lo scopo di riversare la speranza nei loro cuori e di convincerli che il destino del mondo riposa nelle mani di Dio ed è proprio lui quello che alla fine riporterà la vittoria sulle forze del male.
«Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo”» (Ap 21,2-3). Quando passerà il primo cielo e la prima terra, connessi con il peccato, la morte e il caos, ci sarà allora una nuova creazione e con essa la «nuova» Gerusalemme. Questa città degli ultimi tempi, escatologica, è opera esclusiva di Dio e dalla sua dimora celeste essa scende sulla terra. Il messaggio sembra chiaro: tra il cielo (Dio) e la terra (le creature), divisi dal peccato, sarà ristabilita l’originaria unione.
Gerusalemme, rivestita degli abiti di una «Sposa», da un lato si trova in opposizione alla «Prostituta» o alla città di Babilonia (capp. 17-18), metafora del mondo vecchio e corrotto; dall’altro invece essa raffigura la Chiesa unita con il Cristo: Agnello immolato e suo Sposo. Questa nuova Gerusalemme è chiamata a svolgere il ruolo del Tempio, in cui Dio dimorerà con gli uomini. Chiunque professa ora con coraggio la sua fede in Cristo («il vincitore»), può essere certo che nel futuro escatologico diventerà erede della nuova creazione nel rinnovato giardino dell’Eden (21,1-5: con le metafore di «un fiume d’acqua viva» e «un albero della vita»), in cui spariranno per sempre sofferenza, lacrime e morte. Questa promessa ha fatto Cristo all’«angelo della Chiesa di Filadelfia»: «Il vincitore lo porrò come una colonna nel Tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio, della Nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio» (3,12).
Dopo le prime parole di introduzione il veggente dell’Apocalisse offre una descrizione più precisa della Fidanzata, Sposa dell’Agnello: «L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio… La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte… Le mura della città poggiano su dodici basamenti… La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza… Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose» (21,10-19).
In questa visione fantasmagorica si susseguono delle immagini che servono ad esprimere la bellezza, la purezza e la perfezione della Gerusalemme nuova. Le mura della città – un segno della presenza di Dio – non svolgono di per sé funzioni difensive, dato che «le sue porte non si chiuderanno mai» (v. 25). Esse devono soltanto separare la città santa dal luogo della condanna, che si trova al di fuori (vv. 8.27; 22,15). Le porte aperte dimostrano che nella città di Dio ognuno ha la possibilità di entrare, ma non tutti entrano; infatti, l’ingresso dipende da un previo processo di purificazione (22,14).
La funzione primaria delle dodici porte, tre ad ogni lato della città, è quella di facilitare l’entrata dei re e delle nazioni, che porteranno in essa le loro ricchezze. Sopra le porte sono scritti i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele (21,12), mentre sopra i loro basamenti si vedono scritti i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello (v. 14): questo sta a significare che esiste una continuità tra il vecchio e il nuovo Israele, tra la prima e l’ultima alleanza.
Le dimensioni inverosimili esprimono la grandezza (v. 17: il muro misurava 144 braccia di altezza) e la perfezione (v. 16: la forma di un quadrato) della città. Le pietre preziose, di cui sono incastonate le sue mura (vv. 18-21), potrebbero far girare la testa a qualunque orefice o gioielliere. Stupore suscita anche il fatto che la città non ha un tempio e questa carenza è spiegata dal veggente: «Non vidi alcun tempio in essa, perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (v. 22). La città santa non necessita neppure della luce naturale: «La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (v. 23). Gli abitanti, avvolti dallo splendore della gloria di Dio, possono sentirsi davvero sicuri, dal momento che nella città, seppure aperta a tutti, hanno il permesso di entrare soltanto quelli «che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (v. 27).
La visione escatologica della Gerusalemme nuova non ha perso nulla del suo vigore originario ed è sempre attuale. I cristiani perseguitati nel I secolo sentivano un forte bisogno di speranza e di conforto per vivere in un mondo ostile, che procurava loro sofferenza e morte. Nonostante il passare dei secoli la visione profetica della nuova Gerusalemme è ancora in grado di guidare, ispirare e di infondere fiducia a coloro che in misura diversa sono costretti a fronteggiare la crudeltà e l’avversità di un ambiente nemico, che calpesta la città santa (11,2-8). Ma l’uomo di fede cammina senza timore sulle strade del presente e con speranza guarda il futuro, perché ripone la sua fiducia in Dio che certamente riuscirà a difendere «la città diletta» (20,9), trionferà sul male, distruggerà il caos, il dolore e la morte, e alla fine farà in modo che l’esistenza pacifica in amore fraterno, senza barriere e discriminazioni di sorta, cessi di essere soltanto un oggetto di sogni illusori o di false promesse, ma diventi invece una realtà sperimentabile da tutti.

(Questo brano è stato tratto dal libro di padre Daniel Chrupcala « Gerusalemme città della speranza », Edizioni Terra Santa, Milano 2009)

Publié dans:GERUSALEMME |on 15 janvier, 2018 |Pas de commentaires »

GERUSALEMME SI RICORDA DEL DONO DELLO SPIRITO – FRÉDÉRIC MANNS

http://198.62.75.1/www1/ofm/jub/JUBsymp3.html

GERUSALEMME SI RICORDA DEL DONO DELLO SPIRITO

FRÉDÉRIC MANNS

Studium Biblicum Franciscanum

Secondo il volere del S. Padre il 1998 è l’anno consacrato allo Spirito Santo. La Chiesa Madre di Gerusalemme, nata nel Cenacolo il giorno della Pentecoste, non poteva ignorare questa data. Alla Chiesa Latina è stato rimproverato di aver ignorato lo Spirito per troppo lungo tempo, ma l’avvicinarsi del Giubileo del Duemila la porta a tornare alle sorgenti. E la sorgente della Chiesa è lo Spirito.
Gerusalemme è un microcosmo unico nel suo genere. Non solo vi sono rappresentate tutte le Chiese, ma anche tutti i figli di Abramo. Essere Chiesa a Gerusalemme significa lavorare concretamente al dialogo ecumenico e interreligioso. Lo Spirito di Gesù è Spirito di unità, che egli ha donato morendo sulla croce per radunare i figli di Dio dispersi.
L’anno scorso la Chiesa di Gerusalemme ha cercato di rispondere alla domanda di Gesù: Chi sono io per voi? Quest’anno utilizza del tempo pasquale per prepararsi in modo speciale alla Pentecoste e al dono dello Spirito. La riflessione che si farà dal 30 aprile fino al 2 maggio seguirà una triplice direzione: dopo aver interrogato le Scritture, passerà all’approfondimento patristico e quindi all’esame delle varie liturgie. Infatti nella diversità delle liturgie lo Spirito continua a pregare e a parlare alle Chiese. Tale diversità presenta inoltre l’esegesi vissuta della Chiesa Madre.
Le Scritture insegnano che lo Spirito non è solo un soffio cosmico, ma è capace di ispirare i profeti e i saggi. Una lettura anche rapida della Bibbia mostra che una grande inclusione letteraria delimita il Libro sacro. All’inizio della Genesi lo Spirito di Dio aleggia sopra le acque e alla fine dell’Apocalisse risuona l’invocazione: “Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni, Signore Gesù”.
Così la fine dell’Apocalisse corrisponde all’inizio della Genesi e tutta la Scrittura è posta sotto il patrocinio dello Spirito. Anzi tutta la storia della salvezza è illuminata dallo Spirito di Dio. E’ lo Spirito la chiave che apre le Scritture e la storia della salvezza, così come per conoscere lo Spirito bisogna scrutare le Scritture. Spirito e Parola sono legati da un rapporto speciale.
La tradizione cristiana guidata dallo Spirito ha approfondito incessantemente le Scritture. Origene, fondatore della scuola biblica di Cesarea, nei suoi commenti così ricchi e istruttivi apre una linea di pensiero che sarà ripresa in Oriente, mentre Agostino è il caposcuola della tradizione occidentale. La Chiesa respira con due polmoni ed è a Gerusalemme che lo si scopre concretamente.
Per la tradizione orientale lo Spirito è estasi e dono. E’ l’apertura, il dinamismo della carità divina che si manifesta nella creazione, nella profezia e nell’Incarnazione del Figlio di Dio. Il Padre è la sorgente, il Figlio la Parola uscita dal silenzio di Dio e lo Spirito è il dinamismo divino. Il Padre opera nella creazione per mezzo delle sue Due Mani che sono il Figlio e lo Spirito, secondo l’espressione di S. Ireneo (Adv. haer. 1,22,1; 5,6,1). Queste Due Mani sono inseparabili nella loro azione rivelatrice del Padre e tuttavia sono ineffabilmente distinte. Il Verbo è in qualche modo la Mano che sbozza l’opera e lo Spirito è la Mano che la perfeziona.
Lo Spirito inonda la terra come un’acqua benefica che amalgama i fedeli in un’unica pasta, che rinfresca il suolo e fa crescere dappertutto il frumento di Cristo. La Chiesa diffusa su tutta la terra deve la sua coesione allo stesso Spirito che ispirò i profeti e che per mezzo dei quattro evangelisti dissemina il Vangelo ai quattro angoli della terra. Dio, gloria dell’uomo, si compiace di fare di lui il ricettacolo della sua sapienza. La vita presente non è che un tirocinio della vita incorruttibile data dallo Spirito.
Per la tradizione occidentale, rappresentata da S. Agostino, lo Spirito è vincolo di unità tra l’amato e l’amante, essendo lui stesso l’amore. E’ il silenzio della comunione divina. Il Padre e il Figlio sono l’uno per l’altro, relativi l’uno all’altro, mentre lo Spirito è colui che li unisce.
La tradizione orientale gli ha riconosciuto un ruolo creatore e dinamico. Lo Spirito apre la comunione dinamica a chi non è divino; è abitazione di Dio là dove Dio si trova in qualche modo fuori di se stesso. Per questo è chiamato amore. E’ l’estasi di Dio verso il suo altro, la creatura. Lo Spirito è in Dio il termine della comunicazione sostanziale.
Queste diverse teologie dello Spirito sono vissute nelle liturgie delle Chiese orientali e occidentali. La liturgia utilizza la simbolica dei colori quando prega lo Spirito; La veste liturgica secondo la tradizione armena richiama che “il culto esteriore è l’immagine di un ornamento spirituale luminoso” (Nerses Shorali). Lo Spirito riveste colui che si avvicina a Dio.
Il cristianesimo medievale ha costruito intorno al colore rosso una teologia popolare dello Spirito. Il colore è anzitutto luce tanto sul piano teologico che su quello della sensibilità. Il rosso è il colore del sangue e del vino, che è il sangue della vite. E’ anche il colore del fuoco che arde e divampa nella notte. Suggerisce la passione di Cristo e insieme simboleggia lo Spirito. In qualche modo è lo stesso mistero che si comunica col colore rosso. Cristologia e pneumatologia sono associate, benché lo Spirito sia oltre il Verbo. “Il Cristo si è offerto in uno Spirito eterno”, afferma l’autore della lettera agli Ebrei (9,14). Nel mistero della Pentecoste il rosso evoca le lingue di fuoco che scesero sui discepoli. Così lo Spirito li rende capaci di parlare. Il rosso è insieme luce e soffio, potenza e calore; brilla, illumina e purifica.
Le liturgie orientali che celebrano la divinizzazione dell’uomo, evocano un altro simbolo dello Spirito: quello dell’acqua. Nel Cristo Dio ha radunato l’umanità dispersa la quale diviene il corpo di Cristo. Il sangue sgorgato dal costato del Cristo inebria l’uomo di questo grande amore. All’unità del sangue fa riscontro la diversità del fuoco; ma di fatto il fuoco brucia già nel sangue. Il sangue è caldo; lo Spirito è fuoco. Ecco perché il diacono prima della comunione versa nel vino un po’ di acqua calda per simbolizzare il fuoco dllo Spirito.
La riflessione della Chiesa di Gerusalemme vuole essere ecumenica dato che ne fanno parte vescovi greci, armeni, latini, copti, siriani e melchiti. Vuole essere ugualmente interreligiosa e per questo un ebreo e un musulmano parteciperanno alle tavole rotonde. Il giudaismo conosce una teologia dello Spirito molto varia mentre l’Islam somiglia in parte al giudeo-cristianesimo.
Lo Spirito è la memoria della Chiesa e anche il Maestro che la istruisce. Il dono messianico dello Spirito è stato annunciato sotto forma di unzione. Questa unzione viene fatta su ogni cristiano al momento della confermazione e su chi accetta a nome della Chiesa il sacerdozio ministeriale. Il cristiano fa parte di un popolo sacerdotale che per mezzo del Cristo può offrire sacrifici spirituali a Dio graditi. È lo Spirito che gli assegna il compito di annuniare le meraviglie che Dio ha realizzato facendolo passare alla vera libertà dei figli di Dio.
Lo Spirito conferito per mezzo del simbolo dell’unzione fa del cristiano un lottatore che annuncia il Vangelo anche in mezzo ai più grandi ostacoli. Cirillo di Gerusalemme nella Catechesi 18,3 richiama che “come il pane eucaristico dopo l’epiclesi non è più pane ordinario ma il cropo di Cristo, così il santo crisma non è più un olio ordinario”.
Come ricorda lo stesso Cirillo, “la grazia dello Spirito è necessaria se vogliamo parlare dello Spirito Santo. Poiché non possiamo parlare di lui in modo adeguato, possiamo farlo senza degenerare limitandoci a quello che ne dicono le divine Scritture” (Catechesi 16,1).

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