Archive pour la catégorie 'CROCIFISSO (IL)'

Fulget crucis mysterium : Il mistero della croce, svelato dalla parola (PDF)

 

c’è anche una bibliografia, da vedere sul PDF, dal sito: 

http://www.chiesadimilano.it/or/ADMI/esy/objects/docs/2100793/5MONTANARI_1.pdf

CHIESA DI MILANO

——————–

Fulget crucis mysterium

Il mistero della croce, svelato dalla parola

dei Vangeli

di Antonio Montanari

 

———————–

Parte prima

Dal simbolo della croce alla croce gemmata

Le due parti di questa lezione sono dedicate a due fasi, cronologicamente successive. La prima va dal simbolo della croce nel cristianesimo primitivo fino alle grandi croci gemmate, che si sviluppano a partire dal IV secolo, in cui la croce viene vista come l’albero ornato e splendente (arbor decora et fulgida, direbbe ancora Venanzio Fortunato). Nella seconda parte, invece, cercheremo di scoprire il mysterium crucis attraverso la ricca simbologia biblica e patristica, assunta dall’iconografia dei crocifissi e delle crocifissioni, per arrivare sino alla devozione all’umanità di Cristo, come si sviluppa a partire dal XII secolo.

1. «Scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,18-24): i primi tre secoli

Gli autori antichi attestano l’abitudine diffusa del segno di croce nella pratica cristiana. E Tertulliano conferma questa prassi nel suo nel De Oratione, nel quale si legge:

Ad ogni passo, ad ogni movimento, quando entriamo e quando usciamo, quando andiamo al bagno […], in breve ovunque ci porti la vita, noi ci segniamo la fronte con il segno di croce (1 ).

Fin dagli inizi, dunque, il segno della croce caratterizza ogni gesto della vita del cristiano. Sappiamo tuttavia che, nei primi secoli, la croce di Gesù costituiva per la comunità primitiva uno scandalo, durato fino al IV secolo. La croce rappresentava, infatti, il legno della vergogna (servile supplicium), «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,18-24). Per il giudeo lo scandalo si fondava sul testo biblico di Dt 21,22-23 (cfr. Gal 3,13):

Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio.

Secondo la mentalità giudaica, un uomo appeso alla croce era considerato espulso dal suo popolo, maledetto nel popolo di Dio ed escluso dall’alleanza della vita (2). Maledetto ed escluso dal consorzio dei viventi e dalla comunione con Dio, colui che muore in croce, appare al giudeo come un segno inequivocabile che colui che vi è appeso non può essere da Dio (3). Infatti, «uno che è stato crocifisso su iniziativa delle autorità ebraiche non poteva essere il Messia. Un Messia sofferente, ucciso, crocifisso era una contraddizione in termini e del tutto impensabile nel contesto giudaico di allora» (4). La comunità primitiva era dunque costretta a guardare in faccia lo scandalo della croce, con tutto il suo carico di maledizione, perché non lo poteva evitare (5). Pertanto, essa non poteva presentare il suo messaggio al mondo giudaico senza risolvere questo scandalo, senza cioè aiutare l’ascoltatore a percepire che tale morte era conforme alle Scritture (6).

E per quanto riguarda poi i pagani, scrive Atanasio poco dopo la pace costantiniana: «I pagani ci calunniano ridendo sguaiatamente di noi, senza aver nient’altro da rimproverarci se non la croce» (7). Ciò si comprende se si pensa che, in questi primi secoli la croce era ancora usata quotidianamente come patibolo di schiavi e di stranieri, e la crocifissione era considerata il modo più infamante per punire un colpevole, il cui corpo era sovente lasciato appeso al legno a corrompersi e a diventare cibo per gli avvoltoi (8). «Per tale motivo, l’umanesimo romano avvertì la « religione della croce » sempre come qualcosa di inestetico – come afferma Moltmann –, di sconveniente e perverso. […] L’idea di un « Dio crocifisso », al quale convengono onore e adorazione, per il mondo antico era assolutamente inadeguata alla divinità. […] La fede cristiana nel Crocifisso doveva quindi suonare, sia per i romani che per i giudei, come una bestemmia che si prolunga negli anni» (9). Non meraviglia, dunque che un uomo crocifisso e coloro che lo veneravano poteva suscitare che disgusto nella società del tempo. Non bisogna poi dimenticare che i primi cristiani vivevano in una società

prevalentemente pagana e ostile in cui le autorità civili e il popolo stesso, dapprima indifferenti, si dimostrarono ben presto ostili alla nuova religione, perché i cristiani rifiutavano il culto dell’imperatore e l’adorazione delle divinità pagane di Roma. La religione cristiana fu ben presto dichiarata: strana et illicita (decreto senatoriale del 35) e, pertanto, fuori legge e perseguitata. I primi tre secoli costituiscono l’era dei martiri, che terminò nel 313 con l’editto di Milano. Si può comprendere così perché nei primi tre secoli nessun artista cristiano ha mai rappresentato Gesù inchiodato alla croce e l’arte cristiana si presenti essenzialmente aniconica. Non potendo professare apertamente la loro fede, i cristiani si servivano infatti di simboli, che dipingevano sulle pareti delle catacombe o incidevano sulle lastre di marmo che sigillavano le loro tombe (10). È dunque attraverso i simboli che essi esprimevano visibilmente la loro fede. È noto che in questi primi secoli il simbolo della croce, inciso nel tufo o tracciato con il colore, si trova raramente ed è certamente meno frequente di altri simboli come i pesci, i pani o l’ancora. Talvolta, nelle catacombe si trova talvolta la cosiddetta « crux dissimulata », ottenuta inserendo la lettera « tau » maiuscola (T) al centro del nome del defunto. Che il « tau » in questi casi richiamasse la croce risulta evidente da diverse testimonianze antiche (11). Nella Lettera di Barnaba, ad esempio – un testo composta in ambiente siriano verso il 120-130 circa –, si legge:

…Abramo, praticando per primo la circoncisione, prevedeva nello spirito Gesù, conoscendo i simboli delle tre lettere. (La Scrittura) infatti, dice: «Abramo circoncise trecentodiciotto uomini della sua casa». Quale era il significato a lui rivelato? Lo comprendete perché dice prima diciotto e, fatta una separazione, aggiunge trecento. Diciotto si indica con iota = dieci ed eta = otto. Hai Gesù. Poiché la croce è raffigurata nel tau che doveva comportare la grazia, (significa) anche trecento. Indica dunque Gesù nelle due prime lettere e la croce nell’altra (12).

Lo stesso concetto viene ripreso un po’ dopo anche da Clemente Alessandrino che negli Stromati, scrive: «Tau, la lettera che significa 300, quanto alla sua forma è tipo del segno del Signore» (13). Lo attesta, inoltre, chiaramente Tertulliano nell’Adversus Marcionem 3,22, dove, a proposito della lettera Tau si legge: «La lettera Tau è quella dei Greci, per noi è la T, immagine della croce (species crucis), la quale preannunciava che sarebbe stata sulle nostre fronti» (14). Del segno di croce, il piccolo segno, l’unico allora in uso, che si tracciava col pollice o con l’indice della mano destra in forma di T o di X sulla fronte, Tertulliano parla nel De corona:

Se ci mettiamo in cammino, se usciamo od entriamo, se ci vestiamo, se ci laviamo o andiamo a mensa, a letto, se ci poniamo a sedere, in queste e in tutte le nostre azioni ci segniamo la fronte col segno di croce (15).

Fra i simboli in uso nei primi secoli c’era anche la croce cosiddetta « decussata », indicata cioè dalla lettera x dell’alfabeto greco, che indicava il numero dieci, nota anche come croce di Sant’Andrea. Di essa san Girolamo afferma: «Decussare est per medium secare, veluti si duae regulae concurrant ad speciem litterae x, quae est figura crucis». Un altro modo per velare l’aspetto repellente della croce consisteva nel raffigurarla attraverso alcuni simboli, come, per esempio, l’àncora, rappresentata in modo cruciforme, con la barra orizzontale posta quasi a metà della barra verticale. Un tale oggetto, pur non corrispondendo ad alcuna forma reale, aveva però un riferimento preciso per gli iniziati, che non avevano difficoltà a decifrarlo. L’uomo antico, infatti, aveva «un senso vivissimo di quella che potremmo dire antiteticità dialettica tra il piccolo simbolo di nessun conto e l’inestimabile contenuto che vi si nasconde» (16). L’ancora ha il significato fondamentale della speranza nella promessa della vita futura. È nota una croce-àncora incisa sulla lapide sepolcrale di una cristiana che portava il luminoso nome di: Hèsperos (che significa « stella »). Questo simbolo ricorda che essa è ormai giunta al porto del paradiso. Il significato dell’ancora è infatti la vita futura. Nella speranza che ci è posta davanti – come afferma la Lettera agli Ebrei –, «Noi abbiamo come un’àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell’interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore» (Ebr. 6,19).

2. La croce del « Signore della gloria » (1Cor 2,8): l’epoca di Costantino

Dopo i primi tre secoli, l’avvento di Costantino è legato alla figura dell’affermazione del cristianesimo. Finiscono le esitazioni, i timori e la prudenza necessari invece nell’epoca precedente. Inoltre, con l’abolizione della crocifissione e il celebre presagio «In questo segno vincerai», si assiste al trionfo della croce, vista ormai come vessillo di vittoria. Gregorio di Nazianzo, ad esempio, nel discorso quarantacinquesimo per la Pasqua, parla del «trofeo invincibile della croce» (17). A partire da quest’epoca, nel monogramma di Cristo comincia a comparire la croce con l’alfa e l’omega. Il « monogramma costantiniano » fu introdotto proprio a partire dal III secolo dall’imperatore Costantino che, dopo aver posto fine al sistema politico della tetrarchia con l’eliminazione degli avversari, si alleò con Licinio (imperatore d’Oriente) per sconfiggere l’ultimo avversario d’occidente, Massenzio. Il monogramma costantiniano, di tradizione orientale, si compone di due lettere dell’alfabeto greco X (chi) e P (ro) che sono le prime due lettere della parola greca Christòs, che significa « unto », appellativo dato a Gesù. Ai lati di queste due lettere si trovano l’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco usate come simboli del principio e della fine. La croce diventa ormai simbolo di culto e si inizia non solo a trovarne come ornamento nelle chiese (18), ma le stesse basiliche romane, volute da Costantino poco dopo il 313, vengono costruite su una pianta cruciforme, il cui valore simbolico non può essere ignorato. Attesta ad esempio Ambrogio Milano, in occasione della dedicazione della Basilica Apostolorum, ora San Nazaro, avvenuta il 6 maggio 386, una chiesa concepita espressamente con pianta cruciforme, una tipologia nuova in occidente:

Ambrogio edificò questo tempio e lo consacrò al Signore con il titolo degli Apostoli e con il dono delle loro reliquie. Il tempio ha la forma della croce, il tempio rappresenta la vittoria di Cristo (forma crucis templum est templum victtoria Christi): la sacra immagine trionfale contrassegna il luogo. In capo al tempia è Nazario, dall’alma vita: per le reliquie del martire il suolo si innalza. Dove la croce eleva il suo sacro capo, presso la curva dell’abside, li si trova il capo del tempio e la dimora di Nazario: egli vincitore procura con la sua pietà una quiete eterna: a lui al quale la croce fu palma, la croce è pure riposo (19).

Sempre in epoca costantiniana, intorno al 335, si colloca anche la leggenda del ritrovamento della vera croce, ad opera dalla madre di Costantino, sant’Elena. Sul Calvario venne costruita una basilica e fu eretta una grande croce d’oro (20). A partire da questo momento gli onori che le vengono tributati trasformano in breve tempo gli antichi sentimenti di ripugnanza in eclatante devozione. La letteratura patristica e l’arte trovano un loro punto di partenza nella festa della inventio crucis legata alla dedicazione delle basiliche costantiniane del Santo Sepolcro e del Calvario. Da allora si sviluppa il culto della croce dando luogo a tutta una serie omiletica ed iconografica ben individuabile. La croce continua ad essere mostrata nella sua semplice nudità, ma abitualmente sotto un ornamento di gemme e di fiori che la trasformano. Nasce così la croce gemmata, vista anzitutto come signum victoriae, rapportata non tanto al crocifisso ma alla venuta gloriosa del Signore. È il segno che apparirà nel cielo per annunciare il ritorno (parousia) di Cristo (21). Talvolta, la croce gemmata è raffigurata sull’arco trionfale e sovrasta l’Etimasia (hetimasía toû thrónou = preparazione del trono), cioè il trono vuoto, come nel Battistero degli Ariani di Ravenna, un mosaico che risale agli inizi del V secolo. Quando è posta nel catino absidale, come nella raffigurazione della Trasfigurazione del mosaico absidale di Sant’Apollinare in Classe, sempre a Ravenna, la croce orienta la preghiera di coloro che celebrano l’Eucaristia «nell’attesa della sua venuta». Anche in questi casi, sembra permanere una certa ripugnanza nel raffigurare il corpo del Crocifisso, la cui vista ridesta idee di sofferenza e di umiliazione che non convengono a quest’epoca, nella quale la distruzione recente del paganesimo viene letta come una nuova vittoria di Cristo (22). Nel IV e V secolo, la croce è connotata essenzialmente come simbolo del trionfo di Cristo e non come strumento di supplizio. È il trofeo di vittoria, come attesta l’interpolazione del Salmo 95,10: «Dominus regnavit de ligno», avvenuta con tutta probabilità già nel primo secolo (23) e che trova chiara attestazione con Tertulliano:

Se hai letto presso David: « Il Signore cominciò a regnare dal legno » che cosa capisci? […] Cristo cominciò a regnare dopo la passione del legno della croce, avendo vinto la morte. Se infatti la morte ha regnato da Adamo a Cristo, perché non si dovrà dire che Cristo ha regnato dalla passione del legno, da quando, morto sul legno della croce ha cacciato il regno della morte? (24)

E poco oltre si legge:

« Il Signore è forte, il Signore è potente in guerra » (Sal 24,8). Infatti avrebbe combattuto con l’ultimo nemico, la morte, sì da trionfare per mezzo del trofeo della croce (cfr. 1Cor 15,26) (25).

3. La Croce gemmata: il patibolo del Figlio splendente della gloria della sua risurrezione

Il tema iconografico della croce gemmata si diffuse rapidamente durante il regno di Costantino. L’archetipo della croce gemmata, in oro e pietre preziose, fu posto da Costantino imperatore sul Golgota, dove sua madre sant’Elena aveva rinvenuto la vera Croce del Salvatore. Gemme e oro simboleggiano il prezzo del nostro riscatto, il corpo del Crocifisso, che i primi cristiani evitavano di rappresentare. La croce, patibolo orrendo, strumento di morte, è ormai elevato a oggetto preziosissimo e segno di vita. Tra gli esempi più significativi possiamo ricordare la croce gemmata posta sopra il Calvario, nel mosaico absidale della chiesa di Santa Prudenziana a Roma (fine del IV secolo). La croce gemmata talvolta si erge sullo sfondo di un cielo stellato, come nel Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, dove richiama il mistero cosmico, così come lo definisce ad esempio Firmico Materno: «Il segno di un legno di Croce sostiene la mole del cielo, rafforza le fondamenta della terra, adduce alla vita gli uomini che in esso si affissano» (26). Grazie alla ricchezza degli elementi simbolici che la connotano, la Croce gemmata di Cristo diventa segno e strumento per la salvezza di tutti, patibolo del Figlio di Dio, ma al tempo stesso splendente della gloria della Sua risurrezione.

———————————————-

Parte seconda

Crocifissi e crocifissioni

Il percorso che propongo in questa seconda parte consiste nell’accostarci ai crocifissi e alle crocifissioni, cercando di intuire il mysterium che in essi si disvela, proprio alla luce di quella Parola della Scrittura dalla quale hanno preso origine: la Parola dei Vangeli. Ed è questa stessa Parola che, nei racconti della Passione, pone un’enfasi del tutto particolare sulla necessità di « vedere ».

Lo fa anzitutto il Quarto Vangelo. Nessuno, infatti, prima di Giovanni era giunto a far risplendere la gloria di Gesù già nel suo infamante processo, nella sua passione e morte di croce. Questa visione paradossale è stata riservata al quarto evangelista ed è preparata dalla sua teologia. La Passione di Giovanni è anzitutto una contemplazione di amore e di fede. Di questo sguardo contemplativo posato su Gesù sofferente attestano due parole poste una all’inizio e l’altra alla fine del racconto. Alla vigilia della Passione – poco dopo l’ingresso in Gerusalemme – dei Greci che erano saliti a Gerusalemme per la festa, avevano chiesto di poter vedere Gesù (Gv 12,21). Questi uomini, degli stranieri, arrivano giusto in tempo non solo per vedere Gesù, ma per vederlo nella sua gloria, quella gloria che egli sta per manifestare sulla croce. All’altra estremità del racconto della Passione si leva la testimonianza del discepolo amato: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv 19,35). Attraverso la ferita aperta nel costato di Gesù, Giovanni ha potuto contemplare il « segno » di Dio che ha illuminato la fede del discepolo. Verso quel segno egli ormai orienta lo sguardo di ogni uomo: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». Lo sguardo del discepolo

amato, posato sul corpo inerme del Crocifisso, penetra dunque con l’occhio della contemplazione il mistero stesso di quella morte. Certamente nel racconto della Passione vengono alla luce motivi particolari, ma tutto è ordinato e subordinato all’interesse principale di rendere visibile, agli occhi della fede, la segreta intronizzazione di Gesù sulla croce, la sua « esaltazione » su di essa, la sua recondita vittoria sul potere del maligno. La croce è il trono di Gesù (19,14.19), la sua morte è il compimento della sua opera (19,30).

1. La raffigurazione del Crocifisso come celebrazione del mistero redentivo

Anche Luca, sebbene in modo differente, invita il lettore alla visione. Descrivendo il dramma della croce, l’evangelista osserva: «Tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo (theoria), ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano battendosi il petto» (Lc 23,48). Luca, dunque, descrive la crocifissione come uno « spettacolo » (theoria). Theoria non indica un’immagine ferma, ma un dramma in svolgimento, uno spettacolo – appunto – che occorreva vedere e rivedere, pensare, scrutare, ripensare. È uno spettacolo pubblico, che si svolge sotto lo sguardo di tutti i presenti, della folla e dei passanti. La croce è la grande icona, la memoria del credente, lo spettacolo dal quale non si deve mai distogliere lo sguardo. Questa memoria viene mantenuta viva anzitutto dalla proclamazione della pagina evangelica e dalla predicazione, come ricorda san Leone Magno, vescovo di Roma nel V secolo:

La lettura del Vangelo (evangelica lectio), che ci ha posto dinanzi la narrazione accurata della Passione del Signore (dominicae passionis historiam), è così nota a tutta la Chiesa, per averla ordinariamente e frequentemente ascoltata, che ciascuno di voi ricorda l’ordine degli avvenimenti (rerum gestarum ordinem) come se si fossero svolti sotto i vostri occhi (27).

E conclude:

Colui che vuole onorare veramente la passione del Signore deve guardare con gli occhi del cuore Gesù Crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne (28).

Dunque, la narrazione rende per noi visibili quegli eventi, sino a trasformare l’evangelica lectio in una vera e propria visio. Di questo, san Leone Magno è ben convinto. La lectio evangelica ha disposto il cuore di chi ascolta allo stupore di fronte al mistero che si rivela. A partire da quest’epoca, le raffigurazioni del Crocifisso si arricchiscono gradualmente di nuovi particolari, che rendono visibili quegli eventi, sino a renderli « spettacolo » per il credente che vi si accosta. Molti elementi presenti nella narrazione evangelica della Passione, ritornano anche nelle rappresentazioni del Crocifisso e della crocifissione e, insieme ad essi altri elementi simbolici. In queste raffigurazioni, gradualmente, simbolo e storia si incontrano. In un primo tempo, Gesù viene raffigurato tra i due ladroni; poi, accanto alla croce appaiono gli angeli che piangono l’orrore del crimine o raccolgono il sangue sgorgato dalle ferite di Cristo; ai due lati della croce, accanto al Cristo morente, stanno la Madre e il Discepolo amato; da un lato la pie donne e dall’altro i soldati che si giocano ai dadi la veste di Gesù. Altri elementi simbolici che vengono gradualmente ad aggiungersi alla scarna raffigurazione iniziale. Si può facilmente notare che gli schemi risultano piuttosto rigidi. Alla destra del Crocifisso si trovano il sole, la Vergine, il soldato con la lancia e un ladrone, mentre a sinistra vengono raffigurati la luna, il Discepolo amato, il soldato con la spugna e l’altro ladrone. Proviamo a soffermarci su alcuni di questi elementi storici e simbolici che caratterizzano l’iconografia del Crocifisso, così come siamo abituati a contemplarlo.

Il sole e la luna

Secondo un’antica tradizione iconografica della Crocifissione, comune all’Oriente e all’Occidente, il mistero della morte di Cristo è raffigurato con due « testimoni » cosmici dell’evento salvifico: il sole e la luna. Essi non solo esprimono la portata universale della salvezza operata da Cristo sulla croce, ma sono, in qualche modo, il simbolo permanente del rapporto tra Cristo (Sole di giustizia) e la Chiesa (Selene). Alla morte di Gesù il sole si oscura. A questo riguardo, Cirillo di Gerusalemme scrive nelle sue Catechesi: «Il sole, vedendo il suo Signore vilipeso vacillò e non sopportando più quella visione, abbandonò il suo posto». E Girolamo, nel Commento a Matteo, legge in esso simbolo della vergogna che la magnifica luce del sole prova assistendo al tramonto del vero Sole, Cristo (29). Per questo, talvolta il sole viene raffigurato con la mano o con un velo che gli copre il volto. Questa simbologia patristica sopravvive fino all’epoca delle miniature carolinge e oltre, nelle quali vediamo dipinto, sopra la croce, il sole che, rosso di vergogna, nasconde il volto (30).

La Madre e il discepolo amato

Anche Maria, le donne e il discepolo amato, presenti sulla scena, vengono così indicati come partecipanti a titolo speciale – potremmo dire sacerdotale – all’offerta di sé del Cristo che muore. Maria e Giovanni sono sempre ai lati del Cristo in croce, a rappresentare tutta la Chiesa. Nelle parole che Gesù dalla croce rivolge a sua madre e al discepolo che amava, l’elemento teologico prevale sul dato storico. Così, Agostino commenta questo episodio:

Stava presso la croce la madre di Gesù, e Gesù dice alla madre: Donna, ecco il tuo figlio. E poi dice al discepolo: Ecco la madre tua (Gv 19,25-27). Affida la madre al discepolo; affida la madre, egli che stava per morire prima di lei, e che sarebbe risorto prima che ella morisse: egli, uomo, a un uomo raccomanda una creatura umana (31).

Il titolo « donna », con cui Gesù si rivolge alla madre, collega questo episodio con Gen 3 e Ap 12. Maria è elevata a simbolo della Donna-Chiesa, che partecipa in maniera materna alla lotta contro le potenze del male. Ancora Agostino commenta:

Per preannunciare il mistero della Chiesa [...], il secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, perché con il sangue e l’acqua che sgorgarono dal suo fianco fosse formata la sua sposa (32).

Ai piedi della croce si coglie allora il nexus mysteriorum, l’intimo intrecciarsi dei misteri che uniscono Cristo e la Madre, lo sposo e la sposa, il capo e il corpo. Sul Calvario si rivela il luogo in cui «la maternità di Maria diventa teologicamente significativa come ultima concretizzazione personale della Chiesa» (33). Maria appare dunque come la nuova Sion, Madre e figura della Chiesa, mentre il discepolo rappresenta a sua volta la Chiesa come popolo escatologico dei credenti.

Il corpo del Crocifisso, nuovo tempio

Nel Quarto Vangelo, come nell’Apocalisse, il Cristo trafitto dai peccati degli uomini occupa il centro della storia religiosa del mondo. Egli è il nuovo Tempio di cui parlava il Quarto Vangelo al capito 3 dove, in occasione della Purificazione del Tempio, Gesù esclama: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Subito l’Evangelista annota: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo». In Gv 7, 37-39, dicendo: «Chi ha sete venga a me e beva. […] Come dice la Scrittura: fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno» Gesù si era identificato non solo con la roccia del deserto che disseta il popolo di Dio nel deserto (Nm 20,11), ma anche con il Tempio di Ezechiele, dal quale il profeta vedeva sgorgare una sorgente. E quella fonte sgorgava dall’altare del Tempio, uscendo dal lato destro. L’annuncio di Gesù alla grande festa trova compimento nel momento della sua glorificazione sulla croce. Il fianco del Gesù glorificato è il fianco del vero tempio, dal quale sgorgano le fonti di vita dei sacramenti (sangue) e dello Spirito (acqua):

Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia (lancea latus eius aperuit) e subito ne uscì sangue e acqua (Gv 19,33-34).

Come nel testo di Ezechiele la fonte, sgorgando dall’altare usciva dal lato destro del Tempio, così anche la trafittura del costato del Crocifisso viene abitualmente raffigurata sul lato destro del suo costato e non sul lato del cuore, proprio per richiamare questa ricca simbologia.

La tunica e la canna

Fra i particolari presenti in questo racconto possiamo ancora richiamare la tunica (19,23) e l’issopo, cioè la canna di issopo, sulla quale – secondo il Quarto Vangelo – è stata posta la spugna imbevuta di aceto per dissetare Gesù. Nella celebrazione pasquale ebraica si usava un ramo di issopo, che veniva intinto nel sangue dell’agnello per aspergere gli stipiti e l’architrave delle case (cf. Es 12,22). Sembra dunque evidente che nel contesto della morte di Gesù compaiono tutti gli elementi simbolici che caratterizzavano l’antico contesto cultuale. Ma anche la tunica inconsutile, cioè senza cuciture, viene letta da alcuni esegeti come simbolo sacerdotale: l’abito del Sommo sacerdote.Grazie alla presenza di tutti questi elementi simbolici, Giovanni invita il lettore a leggere gli avvenimenti del Calvario come una liturgia che trova compimento in questa morte. Non stupisce allora che la rappresentazione della crocifissione venga gradualmente ad assumere una forma « dogmatica ». È quanto si vede, ad esempio nella crocifissione di Santa Maria Antiqua a Roma, dove Gesù è rappresentato con gli occhi sono aperti, quasi spalancati. Il suo corpo resta dritto e vestito con il colobion, la lunga tunica sacerdotale smanicata, di origine siriaca, che cade fino ai piedi. È una delle più antiche iconografie occidentali del « Christus triumphans ». Un’altra celebre rappresentazione, che riprende diversi elementi simbolici, si trova nell’evangeliario di origine siriaca del monaco Rabula, del 586, conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, nella quale Gesù è raffigurato rivestito da una specie di camice (il colobion appunto). In questa immagine appaiono Maria e Giovanni da un lato, le pie donne dall’altro, al centro il gruppo dei soldati che si giocano la tunica di Cristo, il soldato che sta per trafiggerlo e quello che gli offre la spugna imbevuta di aceto. Gesù è vivo e non piagato. Gli artisti di quest’epoca continuano a rappresentare nella croce il mistero pasquale, la vittoria di Gesù e non la sua sconfitta.

Il teschio di Adamo

Un ultimo particolare caro alla tradizione, che vorrei riprendere, è l’immagine del teschio di Adamo (talvolta è una testa o un volto sorridete) che viene raffigurato abitualmente ai piedi della Croce. Gli evangelisti ricordano «Gesù, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Gòlgota» (Gv 19,17). Golgota, infatti, deriva dall’aramaico Gûlgaltâ e significa appunto « luogo del cranio o del teschio » – come, del resto la traduzione latina Calvario, da Calvaria – perché, secondo un’antica tradizione, vi era stato seppellito il teschio di Adamo. È risaputo che, dopo la distruzione del Tempio, nel 70 d.C., i giudeocristiani avevano traferito il ricordo di Adamo dal monte Moria al Golgota, adattando alcune tradizione ebraiche. Niente di strano che in seguito il Golgota sia diventato il centro del mondo, godendo di privilegi simili a quelli del monte del tempio. Trasferendo la teologia del

Monte Moria al Calvario, la tradizione cristiana indicava nella morte di Gesù il compimento del sacrificio di Isacco (34). Sul luogo del teschio di Adamo si leva ora l’albero della Croce – che, secondo un’antica tradizione, sarebbe stato tratto proprio dal legno dell’albero della Conoscenza del paradiso terrestre – e su cui, grazie al sacrificio di Cristo, secondo Adamo, l’umanità può ritrovare la perduta unità con Dio. Troviamo ancora questa allusione nell’inno Pange lingua di Venanzio Fortunato (530-609), per le celebrazioni della settimana santa (35). Bisogna precisare che la documentazione storica e letteraria di questo fatto risale al IV secolo, ma – come abbiamo visto – affonda le radici in una tradizione molto più antica. Testimone di questa tradizione è Girolamo che, nella Lettera 46, descrive il viaggio di Paola e ed Eustochio nei luoghi santi, allo scopo di invitare Marcella, alla quale la lettera è destinata, a raggiungerle per condividere la loro esperienza. Al par. 3, Girolamo riporta un’antichissima leggenda, secondo la quale in questa città (Gerusalemme), sarebbe vissuto e sarebbe morto Adamo, quindi aggiunge:

Da questo fatto deriva che il luogo in cui è stato crocifisso il Signore si chiama Calvario (Calvaria), perché in questo stesso luogo sarebbe stato sepolto il cranio dell’antico uomo (antiqui hominis calvaria). Così il sangue di Cristo, cadendo dalla croce, avrebbe lavato i peccati del primo Adamo, dando compimento alla parola dell’apostolo: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».

Aggiunge ancora Girolamo al par. 5:

Un tempo, i Giudei veneravano qui il Santo dei santi, poiché qui c’erano i cherubini, il propiziatorio, l’arca dell’alleanza e l’altare d’oro. Non ti sembra ora più venerabile il sepolcro del Signore?

Nella rilettura di Girolamo è chiaro che il Tempio è stato distrutto perché hanno fine i sacrifici antichi. Ora, su quello stesso luogo, Cristo, Nuovo Adamo, ha dato compimento a quei sacrifici, redimendo con il suo sangue il primo Adamo e in lui tutta l’umanità decaduta.

2. « Sacra Imago »: la devozione all’Umanità di Cristo nel cammino pedagogico di preghiera

Nel Medioevo, a partire da Bernardo di Clairvaux, si sviluppa una particolare forma di pietà, che accentua la dimensione della compassione, ponendo al centro dell’attenzione la debolezza umana e la sofferenza di Cristo. E nel tardo Medioevo, la Devotio moderna, invitando alla contemplazione della passione, suggerisce al fedele il desiderio di partecipare alla passione del Signore e a seguire il suo cammino della croce. Questa nuova forma di pietà ispira anche una nuova immagine della croce: il crocifisso gotico, incoronato di spine, con il volto segnato dalla sofferenza (36). Testimonianze di tale devozione sono le tavole cruciformi medievali. Ad esse sembra alludere san Bernardo nei Sermoni sul Cantico quando scrive:

Anche tu, se con spirito raccolto e mente sobria e libera dalle vane sollecitudini, entri da solo nella casa della preghiera37, stando davanti al Signore ad uno degli altari (stans coram Domino ad unum aliquod de altaribus), puoi toccare con la mano del santo desiderio la porta del cielo (38).

Ma che cosa significa: «stans coram Domino ad unum aliquod de altaribus»? Nelle chiese cistercensi esistevano diversi altari (39), che in origine erano costituiti da una semplice tavola sostenuta da colonne. La legislazione primitiva, che era piuttosto severa anche su questo punto, proibiva la presenza di sculture e di pitture, (40) per cui l’ornamento principale ed essenziale non poteva essere altro che una croce, la quale veniva collocata abitualmente dietro l’altare41 e doveva essere di dimensioni tali da poter servire per le processioni (42). I fondatori di Cîteaux avevano inoltre stabilito che esse non sarebbero state d’oro o d’argento, ma soltanto «di legno, dipinte a colori (cruces [...] ligneas coloribus depictas)» (43). Ci soffermiamo brevemente su questa espressione per capire di cosa si tratta. «Coloribus depictas» significa che le croci non erano nude e neppure semplicemente verniciate. Su di esse infatti poteva essere rappresentata a colori l’immagine del Crocifisso44. Bisogna dire che si trattava quasi di una novità, perché incominciano proprio in quest’epoca le prime tavole lignee cruciformi a colori. Possiamo farcene un’idea se pensiamo al crocifisso del Maestro di Rosano, così chiamato perché non si conosce l’autore, rappresenta forse il dipinto più antico che gli studiosi hanno attribuito alla scuola fiorentina di pittura (XII secolo), da collocare probabilmente tra il 1120 e 1130 (45). Sappiamo che, nelle chiese cistercensi, i monaci avevano l’abitudine, nei tempi della preghiera personale, di raccogliersi davanti ad una di queste croci, di cui erano ornati non solo l’altare del presbiterio, ma anche quelli delle varie cappelle laterali che si aprivano sul transetto. Questo fatto sembra attestato anche da un altro testo di Bernardo in cui colpisce l’espressione sacra Imago, un termine tecnico che indicava l’icona medievale (46):

L’amore del cuore è in qualche modo carnale, perché il cuore umano si volge maggiormente alla carne di Cristo e a quelle cose che egli operò e ordinò nella sua carne. [...] Da qui l’olocausto delle sue preghiere trae abbondante alimento [...]. Perciò ci sia sempre davanti a chi prega la sacra Imago dell’Uomo Dio (adstat oranti sacra Imago Hominis Dei), o nella sua nascita, o mentre viene allattato, o mentre insegna, oppure nella sua morte o nella sua risurrezione o ascensione. Questa contemplazione accende nell’animo l’amore per le virtù, distoglie dai vizi della carne, schiaccia le turpi lusinghe e calma gli appetiti smodati (47).

Tuttavia per trovare una vera e propria « teologia dell’icona » nella letteratura cistercense, dobbiamo ricorrere a Guglielmo di Saint-Thierry (1075-1148). Basti qui citare alcuni passi della decima delle sue Meditativae orationes, dalla quale si staglia luminoso il tema dell’umanità di Cristo. Contemplando il mistero dell’Incarnazione, Guglielmo si sofferma a guardare il crocifisso. L’immagine dipinta richiama la verità della Passione e suscita nel cuore sentimenti di compassione (48).

Ci poniamo davanti una rappresentazione della tua passione affinché anche i nostri occhi di carne abbiano qualcosa da vedere, qualcosa a cui aderire. Essi però non adorano un’immagine dipinta (picturae imaginem), perché l’immagine rinvia alla realtà della tua passione. Quando infatti guardiamo più attentamente l’immagine della tua passione (imaginem passionis tuae), nel suo silenzio ci sembra di udire la tua voce che ci dice: «Ecco come vi ho amato: vi ho amato sino alla fine» (49).

L’Imago crucis diventa così la tappa iniziale di una cammino pedagogico che, rendendo più tangibile agli occhi di chi prega l’amore di Cristo, offre al principiante un punto di partenza per un’ascensione spirituale. La visione del Crocifisso, sacramentum passionis (50), suscita nell’anima il desiderio di una più profonda conoscenza di Dio, di una visione più perfetta e senza fine.

Nell’abbondanza del fiume che la rallegra, all’anima sembra di vederti così come tu sei. E partendo dal sacramento mirabile della tua passione, nella dolcezza della riflessione, rumina la bontà che tu hai avuto per noi, che è grande quanto tu sei grande, o meglio, che è ciò che tu stesso sei. Le sembra di vederti faccia a faccia, mentre tu, volto del sommo bene, ti mostri sulla croce e nella tua opera di salvezza (51).

—————————

NOTE:

1 TERTULLIANO, De Oratione 3: PL 2, 99. Cfr. E. GAUTIER DI CONFIENGO, Nota sul valore di alcune dimensioni Dell’architettura paleocristiana, disponibile in http://198.62.75.1/www1/ofm/sbf/Books/LA45/45451EGC.pdf.

2 Cfr. J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 20056, p. 46.

3 G. ROSSÉ, Maledetto l’appeso al legno. Lo scandalo della croce in Paolo e in Marco, Città Nuova, Roma 2006.

4 H. KESSLER, La Risurrezione di Gesù Cristo. Uno studio biblico teologico-fondamentale e sistematico, Queriniana, Brescia 1999, nota 63, p. 92.

5 I Padri della Chiesa del II e III secolo, interpretando la croce alla luce del Nuovo Testamento, ne hanno colto lo scandalo, ribadendo il paradosso del Dio impassibile che ha sofferto (cfr. IGNAZIO DI ANTIOCHIA, A Policarpo 3,2; Agli Efesini 3,2; IRENEO DI LIONE, Adv. haereses 4,20,3; TERTULLIANO, De carne Christi 5,4. Addirittura, Tertulliano arriva a parlare del «Deus mortuus» (Adv. Marcionem 2,16,3). Cfr.W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, «Lateranum» 72 (2006) 417-435: 422.

6 È questo il motivo per cui la comunità cristiana primitiva ha riletto gli eventi del Calvario alla luce delle Scritture e, in particolare di quei passi che nel giudaismo traducevano la comprensione del « giusto sofferente » di Is 53. Attraverso le citazioni dell’Antico Testamento, la comunità primitiva cercava di superare lo scandalo di un Messia che muore in croce. I racconti evangelici della Passione vogliono allora offrire al lettore anzitutto il senso di quella morte.

7 ATANASIO DI ALESSANDRIA, Contra gentes 1: PG 25, 4.

8 Cfr. Croce, in L. RYKEN – J.C. WILHOT -T. LONGMAN, Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, p. 345.

9 J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso. p. 47.

10 Tra le decine di migliaia di iscrizioni delle catacombe, sono state trovate solo una ventina di croci (cfr. G. WILPERT, La croce nei monumenti delle catacombe, «N. Bull. Arch. Crist.» 8 (1902), pp. 5-14).

11 Cfr. M. SULZBERGER, Le symbole de la croix et les monogrammes de Jésus chez les premiers chrétiens, «Byzantion» 2 (1925); H. LECLERCQ, Croix et Crucifix, DACL, t. III/2, coll. 3053-3054.

12 Lettera di Barnaba IX,8. Come noto, nella lingua greca i numeri erano rappresentati con le lettere dell’alfabeto.

13 CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata 6,11,84, PG 9, col. 304.

14 TERTULLIANO,Adversus Marcionem 3,22,5-6.

15 TERTULLIANO, De corona 3.

16 H. RAHNER, Miti greci nell’interpretazione cristiana, Il Mulino, Bologna 1971 (or.ted. 1957), pp. 74.75.

17 GREGORIO DI NAZIANZO, Orazione 45,21.

18. L’arte romanica si ispira proprio a questa connotazione vittoriosa della croce. Ciò si evince già dalla posizione stessa in cui essa viene abitualmente collocata all’interno della chiesa, e cioè sull’arco trionfale che sovrasta l’ingresso del presbiterio (Cfr.W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, p. 422).

19 «Condidit Ambrosius templum Dominoque sacravit / nomine apostolico munere reliquiis / forma crucis templum est templum victtoria Christi, / sacra triumphalis signat imago locum / in capite est templi vitae Nazarius almae / et sublime solum martyris exuviis / crux ubi sacratum Caput extulit orbo reflexo / hac caput est templo Nazarioque domus / qui fovet aeternam victor pietate quietem: / crux cui palma fuit, crux etiam sinus est» (CIL, V, p. 617,3); cfr. M. FORLIN PATRUCCO, Il tema politico della vittoria e della croce in Ambrogio e nella tradizione ambrosiana, in Paradoxos politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati, a cura di R: CANTALAMESSA, L.F. PIZZOLATO, Vita e Pensiero, Milano 1979, pp. 406-418; M; CAGIANO DE AZEVEDO, Sant’Ambrogio committente di opere d’arte, «Arte Lombarda» 7 (1963) 55-76; E. VILLA, Il vescovo Ambrogio, Sapiens Architectus, «Ambrosius» 25 (1949) 116-137.

20 Questa croce preziosa è andata perduta in posteriori saccheggi, come ci informa Cirillo di Gerusalemme.

21 Cfr. Mt 24,30: «Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria.».

22 L. BREHIER, Les origines du Crucifix dans l’art religieux, p. 24.

23 Cfr. Lettera di Barnaba 8,5, che a proposito di Nm 19,6 e Lev 14,4 si chiede: « Perché la lana sul legno? Perché il regno di Gesù è sul legno e chi spera in lui vivrà in eterno»

24 TERTULLIANO, Adv. Marcionem 3,19,1.

25 TERTULLIANO, Adv. Marcionem 4,20,5.

26 FIRMICO MATERNO, De errore profanarum religionum 27, riportato in H. RAHNER, Miti greci

nell’interpretazione cristiana, p. 70. sostiene la mole del cielo, rafforza le fondamenta della terra, adduce alla vita gli uomini che in esso si affissano»

26. Grazie alla ricchezza degli elementi simbolici che la connotano, la Croce gemmata di

Cristo diventa segno e strumento per la salvezza di tutti, patibolo del Figlio di Dio, ma

al tempo stesso splendente della gloria della Sua risurrezione.

27 LEONE MAGNO, Disc. 15 sulla passione del Signore, 1.

28 LEONE MAGNO, Disc. 15 sulla passione del Signore, 3-4.

29 CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi 4,10; GIROLAMO, In Mat. 4,27, PL 26, col 212A.

30 Cfr. L. HAUTECOURT, Le Soleil et la Lune dans les Crucifixions «Revue Archéologique» 2 (1921), p. 12. Cfr. H. RAHNER, Miti greci nell’interpretazione cristiana, Il Mulino, Bologna 1971 (or, ted. 1957), p. 136.

31 AGOSTINO DI IPPONA, Commento al Vangelo di san Giovanni.

32 AGOSTINO D’IPPONA, In Ioh. Ev. tr. 120,2.

33 Cfr. J. RATZINGER, Maria, Chiesa nascente, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998.

34 Cfr. B. BAGATTI – E. TESTA, Il Golgota e la croce (SBF Collectio Minor 21), Jerusalem 1978, p. 27; H. VINCENT – F.-M. ABEL, Jérusalem nouvelle, Beauchesne, Paris 1914, pp. 187-226 ; B. BAGATTI, Note sull’iconografia di « Adamo sotto il Calvario », «Liber Annuus» 27 (1977) 5-32; B. BAGATTI, Le leggende di Adamo e il Golgota, «La Terra Santa» 54, 137-141.

35 «De parentis protoplasti / fraude Factor condolens, / quando pomi noxialis / morte morsu corruit,/ ipse lignum tunc notavit, / damna ligni ut solveret».

36 Cfr.U. KÖPF. Kreuz. IV, in Theologische Realenzyklopedie, vol. 19, De Gruyter, Berlin – New York, 1990, pp. 753-756; E.M. FABER, Kreuzstheologie, in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. VI, Herder, Freiburg i.Br. 1997, pp. 453-454; W. KASPER, La croce come rivelazione dell’amore di Dio, p. 423.

37 Domus orationis è l’espressione usata da Gesù quando scaccia i venditori dal Tempio e, citando Isaia 56, 7 dice: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera, mentre voi ne avete fatto una spelonca di ladri» (cfr. Lc 19, 45).

38 BERNARDO DI CLAIRVAUX, Super Cantica 49, 3.

39 Le Consuetudines definiscono l’altare del presbiterio magnum altare, o maius altare, o ancora primum altare, per distinguerlo da quelli delle cappelle laterali per le messe private.

40«Sculpturas nusquam, picturas tantum in crucibus» (Capitula, 26). Nelle chiese cistercensi non si trovano altari decorati o scolpiti prima del XIII secolo. A partire dal 1240 il Capitolo, in seguito ai vari abusi di cui era venuto a conoscenza, ordina che vengano rimosse tutte le tavole dipinte a colori che erano state collocate sugli altari del nostro Ordine, oppure vengano ricoperte di colore bianco: «Quoniam de curiositate tabularum quae altaribus Ordinis nostri superponuntur clamosa insinuatio venit ad Capitulum generale, praecipitur ut omnes tabulae depictae diversis coloribus amoveantur aut colore albo colorentur» (Capitolo Generale del 1240, stat. 12, in: J. M. CANIVEZ, Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cisterciensis ab anno 1116 ad annum 1786, t. II,

Louvain 1934, p. 218). E il Capitolo Generale del 1259 ordina che venga asportato l’altare dell’abbazia di Royaumont, benché si tratti di un dono regale.

41 «Crux quae est retro altare» (Ecclesiastica Officia 15, 54).

42 Il Capitolo Generale del 1157 prescriveva: «Cruces cum auro non habeantur, nec tamen magnae quae congrue non portentur. Item aureae vel argenteae cruces notabilis magnitudinis non fiant» (Capitolo del 1157, stat. 15, in J.M. CANIVEZ, Statuta Capitulorum Generalium Ordinis Cisterciensis, t. I, p. 61).

43 Exordium Parvum, c. 17. Cfr. Exordium Cistercii et Summa Cartae Caritatis, c. 26: «Picturas tantum licet habere in crucibus que et ipse nonnisi lignee habeantur».

44 Cfr. A. LOUF, ¿Fue san Bernardo un iconoclasta ?, in Actas. Congreso Internacional sobre san Bernardo e o Cister en Galicia e Portugal. 17-20 outobro 1991, Ourense 1992, vol. II, pp. 1011-1014.

45 Cfr. La Croce dipinta dell’Abbazia di Rosano. Visibile e invisibile. Studio e restauro per la comprensione, a cura di M. Ciatti – C. Frosinini – R. Bellucci, Edifir, Firenze 2007.

46 La Bibbia stessa riferisce a Cristo questo temine: «Illuminatio Evangelii gloriae Christi, qui est imago Dei» (2Cor 4,4); «Qui est imago Dei invisibilis» (Col 1,5).

47 BERNARDO DI CLAIRVAUX, Super Cantica 20, 6. Questo testo fa pensare ancora ad una croce dipinta simile a quella del Santo sepolcro di Pisa – di cui parlavamo nella nota 35 -, in cui sui tabelloni disposti intorno alla figura centrale sono raffigurate varie scene.

48 Cfr. J. HOURLIER, Introduction, in GUILLAUME DE SAINT-THIERRY, Oraisons Méditatives, SC 324, Paris 1985, p. 25.

49 GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Meditativae orationes 10, 7.

50 GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Meditativae orationes 10, 9. In questo testo di Guglielmo di Saint-Thierry il termine sacramentum va preso in tutta l’ampiezza semantica che aveva nell’antichità e che ha certamente conservato fino al XII secolo, cioè come « segno sacro » che ha un rapporto di somiglianza con la res designata (cfr. AGOSTINO DI IPPONA, Ep 98, 9: «Si enim sacramenta quandam similitudinem earum rerum quarum sacramenta sunt non haberent, omnino sacramenta non essent»). Solo con la Scolastica si arriverà ad elaborare un concetto più ristretto di sacramento, applicabile solo ad alcuni determinati riti che conferiscono la grazia. Cfr. C. MOHRMANN, Sacramentum dans les plus anciens textes chrétiens, in Etudes sur le latin des chrétiens, Roma 1958, pp. 233-244; P. VISENTIN, « Mysterion – Sacramentum » dai Padri alla Scolastica, in P. VISENTIN, Culmen et Fons, vol. I, Padova 1987, pp. 3-24.

51 GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Meditativae Orationes 10, 9.

 

Publié dans:CROCIFISSO (IL) |on 29 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

L’ESPERIENZA DEL CROCIFISSO IN SAN PAOLO APOSTOLO

dal sito:

http://www.amicidigesucrocifisso.org/home/?p=1026

L’ESPERIENZA DEL CROCIFISSO IN SAN PAOLO APOSTOLO

Pensiero Passionista – Maggio/Giugno 2009
 

Il 29 giungo di quest’anno termina l’Anno Giubilare Paolino indetto dal papa per celebrare il bimillenario della nascita di Paolo apostolo, supposta intorno all’8 d.C. Siccome da diversi mesi stiamo riflettendo sul suo insegnamento circa il Cristo Crocifisso, mi sembra opportuno riflettere per una volta sulla sua esperienza personale del Crocifisso. La teologia di Paolo è frutto delle sue riflessioni illuminate dallo Spirito Santo sul mistero di Gesù di Nazareth, ma nello stesso tempo anche della sua esperienza personale del mistero pasquale.

In Cristo il mistero pasquale consiste nella realtà inscindibile della sua morte e risurrezione. Egli muore in abbandono d’amore al Padre per la salvezza del mondo. Il suo morire è l’atto più vitale immaginabile. La risurrezione lo rivela e lo conferma come tale, perché è un’esigenza e conseguenza di quella morte, e in essa in qualche modo precontenuta, come dimostra il vangelo della passione secondo Giovanni.

A livello teologico possiamo disquisire su che cosa sia più importante o meno importante, sia prima o sia dopo. Sul piano della fede, la risurrezione è più importante della morte, come Paolo stesso spiega nel capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi.

Per la vita quotidiana dei cristiani è più importante la passione, perché è questa che noi sperimentiamo in concreto nella nostra situazione terrestre, mentre la risurrezione la sperimentiamo nella fede e nella speranza. Per questo la spiritualità della passione è una dimensione essenziale di ogni spiritualità cristiana.

In ogni caso bisogna affermare che secondo il disegno divino la salvezza umana si realizza nella morte e risurrezione di Cristo, mistero unico e inscindibile. Come tale il mistero si è realizzato in Cristo e tende a riprodursi nei credenti per opera dello Spirito Santo. Il nostro linguaggio teologico dovrebbe usare una terminologia più unificante. Piuttosto che parlare del Crocifisso o del Risorto converrebbe parlare, o comunque avere chiaro nella nostra percezione, il concetto di Crocifisso – Risorto.

Nel corrente anno paolino si è parlato di continuo di Paolo apostolo “conquistato dal Risorto”, del suo incontro col Risorto, di lui come annunciatore del Risorto, eccetera. È invece evidente che nella coscienza e nell’esperienza dell’Apostolo le due dimensioni non solo sono inscindibili, ma la sua passione emotiva parte ed è dinamizzata incessantemente dall’ammirazione sconfinata per il Crocifisso e dall’ansia di conformarsi a lui. Il Crocifisso è vivo, dunque risorto, ma Paolo sente di doverlo assimilare e annunciare come amore che brucia e consuma la vita per realizzare la pienezza della vita. Assimilarlo come crocifisso per sperimentarlo come risorto.

A partire dall’esperienza di Damasco

Da zelante fariseo qual è, impegnato a scovare e fare arrestare i seguaci di Gesù di Nazareth, Saulo riceve dai colleghi farisei il delicato incarico di guidare la spedizione punitiva contro i seguaci di quella setta già insediati anche a Damasco. Per la strada è accecato da una luce misteriosa che lo inchioda a terra e gli fa gridare aiuto, aiuto! Qui la retorica di certi commentatori si scatena: è il Risorto, la luce del Risorto, afferrato dal Risorto.

Certo! Ma il Risorto si presenta come perseguitato e messo in croce da una scelta di vita che si ostina a non aprirsi alla luce della nuova fase del piano divino per la salvezza di Israele e dell’umanità: il mistero pasquale in Gesù di Nazareth. “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Io sono Gesù che tu perseguiti”, At 9,4.5.

Per parlare e intervenire così, questo Gesù dev’essere per forza vivo, ma le sue parole sono il gemito del Crocifisso che soffre ancora nella comunità che è suo corpo. Lo shock emotivo di Saulo è provocato dal grido di dolore del perseguitato e crocifisso, non solo dal potere atterrante del risorto e Signore. “Chi sei, Signore?”

L’esperienza di Damasco non è mai descritta nei dettagli – né in Atti né nell’epistolario paolino – quindi non capiamo sino in fondo in che cosa sia consistita. Tra l’altro, Paolo non ne parla mai in termini di “conversione”, come noi facciamo anche per la sua commemorazione liturgica.

Se fu un’apparizione soprannaturale, com’era il Gesù che si fece vedere? Crocifisso o risorto? Fu solo una locuzione interiore di indole mistica? Quale fu la vera portata degli aspetti psico-fisici? Sappiamo di tre giorni di cecità e digiuno, e delle squame che cadono dagli occhi col recupero della vista, At 9,9.18

Nei seguenti tre misteriosi anni di seminascondimento che Paolo, dopo avere ricevuto il battesimo, trascorse tra il deserto di Arabia, la sua nativa Tarso e il ritorno a Damasco, deve avere ricevuto le illuminazioni necessarie – dal Cristo in persona e dalle diverse comunità contattate – per immergersi talmente a fondo nel mistero, da riemergerne come il più documentato e affascinante annunciatore nella chiesa delle origini.

La sua comprensione del Crocifisso

L’immagine di quel “perseguitato” e crocifisso, ma vivo e “Signore”, domina talmente il suo essere da imprimervi pian piano i tratti della sua fisionomia, fino alla piena identificazione.

Non si limiterà ad annunciare che il Crocifisso è Risorto, secondo il kerigma che ha ricevuto e deve trasmettere con tutta la comunità apostolica, ma più di tutti ne spiegherà la portata e le conseguenze. Gesù di Nazareth è risorto come Capo che più non muore, ma è ancora crocifisso nel suo corpo. Il che significa crocifisso in lui, Paolo, e in ogni credente e in ogni comunità e nell’umanità e nella creazione intera. Il mistero del Crocifisso domina la sua vita, il suo pensiero, le sue parole parlate e scritte, le sue azioni e decisioni, specie quella fondamentale di andare a predicare il vangelo ai pagani.

Non parla mai di Gesù come farebbe uno storico che descrive una biografia, ma come di un contemporaneo più vivo dei vivi, che influisce sulla vita e sulla storia. Il cuore della sua teologia è il mistero del Crocifisso – Risorto e del suo corpo che è la chiesa, anche qui nell’inscindibile unità. Com’è uno il Crocifisso – Risorto, così sono uno il Crocifisso e la Chiesa. Per Paolo il morire e risorgere di Gesù è la realtà che spiega tutte le realtà, rivela il volto e il disegno di Dio, motiva l’esistere, il divenire e il destino di tutto ciò che esiste, nell’eternità e nel tempo.

Dalla croce risplende la rivelazione piena della Trinità, nell’amore del Padre che dona il Figlio, nell’obbedienza d’amore del Figlio che si dona al Padre, nell’opera dello Spirito come amore del Padre e del Figlio. La Trinità si rivela anche nell’Annunciazione, nel Battesimo e nella Trasfigurazione di Gesù. Gesù parla spesso del Padre e dello Spirito, specie nel vangelo di Giovanni, ma è sulla croce, e di conseguenza nella risurrezione, che realizza e manifesta il culmine di attuazione del disegno di salvezza dell’umanità.

La cristologia, pneumatologia e ecclesiologia di Paolo scaturiscono dalla sua comprensione del Crocifisso. La chiesa corpo di Cristo è il prolungamento del Crocifisso – Risorto, come egli spiega parlando del battesimo, dell’Eucaristia e del matrimonio. La contemplazione del Crocifisso non è in Paolo un compiacimento speculativo (c’è il rischio di ridurre il Crocifisso a una bella filosofia, o anche teologia: l’eroe, la vita data per amore), ma confluisce sempre nella concretezza della vita quotidiana: di lui personalmente come apostolo, della comunità nelle debolezze dei rapporti interni o nelle difficoltà di una vita controcorrente, degli sposi, dei battezzati.

“Il cuore della vita cristiana è l’amore, come fu incondizionato amore quello che animò il Cristo crocifisso. L’esperienza del limite e della debolezza, come quella che Paolo stesso provò nel suo corpo, trova significato nel corpo crocifisso di Gesù che si offrì in sacrificio per noi.

Il corpo di Cristo che è la chiesa deve rendere l’onore più alto alle sue membra più deboli e trascurate, perché Dio si è rivelato al mondo attraverso un Messia crocifisso. Così il Corpo di Cristo è un corpo crocifisso, dalle ferite ancora visibili.  Le tribolazioni apostoliche e le laceranti angosce sperimentate da Paolo durante il suo ministero, o dalle sue comunità nelle lotte e difficoltà di ogni genere non sono inutili, perché la croce di Gesù ha affermato una volta per tutte che, per la potenza della grazia divina, dalla morte scaturisce vita abbondante.

E così via. La vita di Paolo fu davvero afferrata dalla memoria della Passione di Gesù” (D. Senior C.P. , Paul, our Brother: Biblical Wisdom for Passionist Apostles, Sinodo Generale dei Passionisti, 8 settembre 2008).

Alla luce della Passione di Cristo, del mistero pasquale, egli ripensa e riscopre il cuore della sua tradizione giudaica. Il Dio di Abramo è anche il Dio delle nazioni e dell’umanità. Il Dio di Gesù crocifisso è rivelato non nei segni del potere e della sapienza umana, ma nello stupore di ciò che gli uomini stimano debolezza e stoltezza: una vita donata per amore, come dichiarerà con fermezza all’inizio della sua prima lettera ai Corinzi, 1,22-25.

Dalla conoscenza all’esperienza

Non è possibile presentare in questa sede le sfaccettature della comprensione paolina del Crocifisso. Dobbiamo però dire che la sua predicazione, teologia e insegnamento sul Crocifisso derivano dalla sua esperienza del Crocifisso, secondo la sequela proposta da Gesù stesso nel vangelo. “Se il seme non muore, non porta frutto”, Gv 12,24. “Chi vuol venire dietro di me prenda la sua croce ogni giorno”, Lc 14,24, e par.

La sua teologia non è solo speculativa, né solo condizionata dalle correnti culturali del momento, ma è incarnata nel corpo vivente della chiesa e nel suo appassionato spendersi per essa. La sua predicazione è radicata nella sua partecipazione alla passione del Crocifisso. In questo egli è di esempio per quanti nella chiesa hanno il compito di studiare, insegnare e predicare. Dovrebbero essere attenti alle occasioni, e magari pregare per ottenerne, di partecipazione alla passione di Cristo, per assicurarsi che ciò che si proclama sia collegato all’impegno di sequela e scaturisca dall’esperienza personale e comunitaria della Passione.

Come la passione di Gesù è passione d’amore e passione di dolore, così il ministero di Paolo suo discepolo fu la passione della sua vita e una sofferenza che lo consumò sino al martirio.

Cominciò con progetti coraggiosi fino al limite della temerarietà. Come appare dal capitolo 15 della sua Lettera ai Romani e da altri accenni epistolari, il suo piano era di muoversi lungo la linea del Mediterraneo fondando chiese in tutte le città e permeare il mondo romano in modo da convertire i pagani a Cristo. Così egli si illudeva di fare ingelosire i suoi colleghi ebrei, che avrebbero a loro volta accettato il vangelo. Alla fine Paolo avrebbe consegnato a Cristo tutto il mondo allora conosciuto. Un bel regalo, da cancellare per sempre la macchia dell’iniziale persecuzione.

Non c’è male come sogno da innamorato.

I giudei si ingelosiranno davvero, ma fino al punto di far fuori anche lui, Paolo, non di consegnarsi a Cristo. Infatti alla fine del suo terzo viaggio apostolico, quando torna a Gerusalemme dopo aver tanto lavorato per fondare comunità cristiane tra i pagani, giudei e cristiani giudaizzanti tenteranno di eliminarlo. Ciò comporterà un suo ennesimo arresto, con conseguente appello a Cesare e partenza dalla culla di tutte le sue comunità e della chiesa intera. Davvero il Crocifisso gli insegnerà “quanto dovrà soffrire per il mio nome”, At 9,16.

La mancata accettazione del Cristo da parte del suo popolo fu per Paolo una sofferenza da spezzare il cuore; come, appunto, per il Crocifisso. Sembra chiaro che egli non s’aspettasse la sopravvivenza di un giudaismo non cristiano. I suoi compagni farisei non ebbero la sua esperienza e quindi non lo seguirono, e questo per lui è restato inspiegabile. In Rm 9,1-5 ne parla con accenti strazianti:

“Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne da testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene il Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto. Amen.”

Sappiamo che cosa significava il Cristo per Paolo. Sentirlo dirsi disposto ad essere “separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli” ci lascia sgomenti e ci fa capire quale fosse l’angoscia che gli strappò quella affermazione. Paolo soffrì non solo per la mancata realizzazione del suo sogno di cristianizzare il mondo, ma anche per le continue critiche contro le cose che aveva realizzato. Non vide mai pacificamente condivisa la sua visione di un vangelo per i pagani liberato dalla soggezione alla legge. Pare che altri leader cristiani e i soliti “guardiani della verità” seguissero furtivamente i suoi passi spargendo dubbi sulla sua ortodossia e sulla sua autorità apostolica, e attirando i neoconvertiti verso una diversa comprensione della chiesa. Alla fine sceglierà di approdare in occidente perché azzittito in oriente, rifiutato e arrestato perché la sua opera è considerata eresia, quindi offesa a Dio. Proprio come il Crocifisso!

In un noto passo di 2Cor egli sfoga la sua esasperazione per questa situazione.

“Sono ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte ho ricevuto dai giudei i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli in mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, le preoccupazione per tutte le chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che anch’io non frema?”, 2Cor 11,22-29.

 Si vede che la sua pazienza in qualche momento è venuta meno e l’indignazione è straripata non tanto contro i capi della sinagoga o le minacce degli officiali romani, ma verso i suoi compagni apostoli e i dirigenti delle sue comunità.

“La preoccupazione per tutte le chiese” è un’altra sua tipica espressione che indica la duplice faccia della sua partecipazione alla passione di Cristo, come coinvolgimento emotivo e sofferenza consumante. Il dolore del non vedere mai del tutto accettata la sua visione della chiesa.

Paolo non era una statua di cartapesta, ma una persona sensibile e ribollente. In certe notti durante i suoi frequenti arresti – a Corinto, a Efeso, a Gerusalemme, a Cesarea Marittima e a Roma – si sarà domandato con angoscia se non avesse per caso sbagliato tutto. Come può accadere in certe situazioni della vita.

Ma egli non si staccò mai dall’esperienza fondante della sua vita: l’amore del Crocifisso Risorto, scoperto nell’incontro-scontro di Damasco. Perciò contro sofferenze e difficoltà di ogni genere egli lancia la sfida di sempre: l’assoluta certezza dell’amore del Crocifisso:

“Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore”, Rm 8,35-39.

A questo punto è chiara in lui l’esperienza unificante del Crocifisso – Risorto.

Ecco dalle sue stesse parole la descrizione lapidaria della sua identità, in questa fase della sua maturità spirituale: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”, Gal 2,20.

E alla fine della stessa lettera: “D’ora in poi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo”, Gal 6,17.

Gabriele Cingolani cp

Publié dans:CROCIFISSO (IL) |on 5 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01