JOHN HENRY NEWMAN SU SAN PAOLO
JOHN HENRY NEWMAN SU SAN PAOLO
di HERMAN GEISSLER
Per John Henry Newman l’evangelizzatore per eccellenza è san Paolo, «il glorioso apostolo, il più soave degli scrittori ispirati, il più commovente e il più attraente dei maestri». Newman ha dedicato quattro omelie interamente all’Apostolo delle genti, dove il tema non è tanto l’attività esteriore di Paolo, quanto i sentimenti e l’atteggiamento interiore che caratterizzano la sua opera evangelizzatrice. Nessuno può essere apostolo se non è stato afferrato dalla grazia di Dio. In un’omelia che risale al tempo in cui era ancora anglicano, Newman parla infatti dell’esp erienza della conversione di Saulo come dell’effettivo esordio del ministero di Paolo. Saulo è conosciuto come il capo dei persecutori dei cristiani e approva la lapidazione di Stefano che, morendo, prega per i suoi uccisori. In seguito, ottiene dai capi l’autorizzazione a mettere in prigione i discepoli della nuova «via» anche a Damasco.
Ma davanti alle porte della città viene «gettato a terra prodigiosamente e convertito alla fede, che perseguitava». La conversione di Paolo è prima di tutto una dimostrazione della potenza di Dio e del suo trionfo sul Nemico: «Per mostrare la sua potenza, la sua mano s’introdusse in mezzo alla schiera dei persecutori del suo Figlio e afferrò il più energico di essi». Allo stesso tempo, la conversione è frutto della preghiera di Stefano: «La preghiera del giusto può molto. Con l’aiuto di Dio, il primo martire ha avuto il potere di suscitare il più grande degli apostoli». Paolo è come predestinato alla missione presso i pagani, non solo per la sua scienza e per i suoi doni spirituali, ma anche per il suo cammino di fede e di conversione. La sua esperienza gli insegna a non farsi scoraggiare dalla gravità del peccato commesso, a saper trovare le scintille di fede nascoste negli uomini, a immedesimarsi nei più diversi tipi di tentazione, a utilizzare saggiamente le proprie esperienze per la conversione di altri. Certo, Paolo non è diventato un cristiano migliore a causa della colpa commessa, ma «essa lo rese più idoneo — in quanto convertito — a un determinato scopo della provvidenza di Dio, più idoneo, cioè, a convertire anche altri». Newman sottolinea che la vita di Paolo, prima della conversione, non era una vita immorale. Egli ascoltava la voce della coscienza e non si volgeva orgogliosamente contro Dio. La coscienza di Paolo però non era sufficientemente illuminata dalla sacra Scrittura, come lo fu, ad esempio, per Simeone e Anna, che a partire dalle Scritture hanno riconosciuto Gesù come il salvatore che attendevano. Paolo, invece, non ha riconosciuto il messia ed è diventato così un persecutore dei cristiani. Che conseguenze trae Newman da queste riflessioni per il singolo cristiano? Ogni credente «deve nutrire e seguire la santa luce della coscienza, come fece Saulo. Deve studiare accuratamente le Scritture, come non fece Saulo. Dio, che ha avuto misericordia perfino con il persecutore dei suoi santi, effonderà certamente la sua grazia su ogni cristiano, e lo condurrà alla verità che è in Gesù». Come Newman mostra nell’omelia intitolata Il dono caratteristico di san Paolo, l’Apostolo delle genti fa parte dei santi «in cui il soprannaturale non si sostituisce alla natura, ma si combina con essa e la rinvigorisce, la eleva, la nobilita. «Costoro non sono meno uomini per il fatto che sono santi». In questa omelia, che Newman tiene nella chiesa universitaria di Dublino alcuni anni dopo la sua conversione alla Chiesa cattolica, si chiede quale sia la caratteristica che distingue l’ap ostolo dagli altri santi. Secondo lui Paolo si caratterizza soprattutto per il fatto che la pienezza dei doni divini non distrugge, ma perfeziona quanto di umano è in lui. Perciò Paolo comprende particolarmente bene l’uomo con tutte le sue forze e debolezze, le sue tentazioni e aspirazioni: «La natura umana, cioè, la natura che tutta la stirpe d’Adamo ha in comune, parlava, agiva in lui, era presente in lui in tutta la sua forza, con una pienezza, direi, corposa: sempre sotto la guida sovrana della grazia divina, ma senza perdere alcunché della sua effettiva libertà e del suo potere a causa di tale subordinazione. Ed è proprio perché la natura dell’uomo si manifesta in lui con tanto vigore che san Paolo riesce a penetrare così a fondo nella natura umana, che riesce a simpatizzare così profondamente con essa, per un dono che è caratteristicamente suo». Paolo si sente solidale con i suoi simili, con tutta la stirpe di Adamo. È consapevole di essere in possesso di una natura compromessa con tutta la gamma di emozioni, inclinazioni, intenzioni, di peccati che caratterizzano la vita dell’uomo nel mondo. In questo senso Paolo, sulla scia del Signore, porta su di sé il peccato di tutti gli uomini e si sente in piena comunione con loro. Egli non punta il dito sull’altro, perché è consapevole che il peccato e la cupidigia sono presenti anche in lui. È un grande conoscitore della natura umana «perché — attraverso la propria natura che la grazia aveva santificato — egli aveva compreso vividamente che cosa fosse la natura priva della grazia, nelle sue tendenze e nei suoi effetti». L’apostolo mostra il suo amore per la natura umana anche perché non esita a ricorrere ad autori pagani. Newman si riferisce a tre noti brani di alcuni scrittori greci che Paolo cita. Innanzi tutto, sull’A re o -pago di Atene, quando fa riferimento all’iscrizione di un altare che dice: «Al Dio ignoto» (Atti degli apostoli, 17, 23). Poi quando rammenta una parola del poeta Menandro: «Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi» (1 Corinzi, 15, 33). E dove viene citato il filosofo Epimenide: «I cretesi sono sempre bugiardi, brutte bestie e fannulloni» (Ti t o , 1, 12). Perché queste citazioni di autori pagani? Newman risponde che Paolo «è un vero innamorato delle anime: ama questa nostra povera natura umana di un amore profondamente appassionato. La letteratura dei greci è l’espressione di questa natura, sulla quale l’ap ostolo si curva con tenerezza e con dolore, desiderando la sua rigenerazione, sperando la sua salvezza». Il piano di salvezza di Dio comprende tutti i popoli. Così come san Paolo insegna «che i pagani sono nelle tenebre e in potere del Maligno, altrettanto chiaramente insegna che lo sguardo della divina misericordia si posa su di loro». L’ap ostolo ha un cuore accogliente perché è convinto che Dio vuole la salvezza di tutti. Un’altra omelia tenuta poco dopo, sempre nella chiesa universitaria di Dublino, si intitola Il dono di simpatia di san Paolo. Newman mostra con quale affetto l’apostolo tratta i suoi fratelli e sorelle nella fede e mette in risalto la suahumanitas, «una virtù che nasce dalla grazia soprannaturale di lui, ed è coltivata per amore di lui, nonostante che ne sia oggetto la natura umana in se stessa, nel suo intelletto, nei suoi affetti e nella sua storia. Questa è la virtù che io considero caratteristica di san Paolo al massimo grado; spesso l’inculca egli stesso in persona nelle sue epistole, come quando comanda viscere di misericordia, di benignità, di gentilezza e simili». Newman sottolinea che Paolo è così pieno d’amore per gli altri che «nel tenore dei suoi pensieri d’ogni giorno, perde quasi di vista i doni e privilegi suoi, il suo stato e la dignità, a meno che non sia forzato a ricordarli per dovere», come «un fragile uomo che parla a fragili uomini; ed è tenero verso il debole, per il sentimento che ha della debolezza propria». Paolo sa che non solo gli altri hanno bisogno della misericordia di Dio, ma lui stesso per primo. L’apostolo parla spesso delle sue lotte (cfr. 2 Corinzi, 1, 8), dei suoi timori e battaglie (cfr. 2 Corinzi, 7, 5), della spina nella sua carne (cfr. 2 Corinzi, 12, 7), delle sue lacrime e delle sue prove (cfr.Atti degli apostoli, 20, 18-19). Perché Paolo fa vedere con tanta franchezza e naturalezza le sue debolezze? Newman spiega: un uomo che sa spogliarsi della sua grandezza e si sa mettere a livello dei suoi fratelli mostra una profonda condivisione della natura umana; un uomo che parla con semplicità e comunica le sue emozioni è in grado di sentire e manifestare un grande amore per gli uomini e allo stesso tempo di farsi a m a re . Paolo vive in comunione con il suo amato Signore e allo stesso tempo è sempre sensibile ai sentimenti delle persone che lo circondano. Newman vede in questo l’essenza dell’umanità del cuore di Paolo: «Stupendo a dirsi, lui che trovava il suo riposo e la sua pace nell’a m o re di Cristo, non era soddisfatto senza l’amore dell’uomo; la maggiore ricompensa la poneva nell’a p p ro v a z i o -ne di Dio, e tuttavia cercava l’a p p ro -vazione dei suoi confratelli. Dipendeva esclusivamente dal Creatore, eppure sottometteva se stesso alla creatura. Pur possedendo quel che è infinito, non si esonerava dal finito. Amava i suoi confratelli, non soltanto “per amore di Gesù”, volendo usare l’espressione sua, ma anche per amor loro. Viveva in loro; sentiva con loro e per loro; era ansioso per loro, li aiutava, e in cambio se ne riprometteva dell’incoraggiamento. La sua anima assomigliava a quegli strumenti musicali, come l’arpa e la viola, le cui corde entrano in vibrazione, benché non toccate, dalle note che emettono gli altri strumenti; e sempre, secondo il suo stesso precetto, “godeva con quelli che godevano, piangeva con quelli che piangevano” (Romani, 12, 15); riuscendo così il meno magistrale di tutti i maestri, e il più gentile e il più amabile di tutti i superiori». Particolarmente forte è il legame di Paolo con i suoi amici e collaboratori: uomini e donne, coppie e famiglie. Newman ne è profondamente toccato e scrive: «Paolo è il predicatore particolarissimo della grazia divina, ed è insieme l’amico singolare e intimo della natura umana. Rivela a noi i misteri dei decreti supremi di Dio, e al tempo stesso manifesta l’interesse più sviscerato per le singole anime». L’apostolo ha un grande cuore, pensa al mondo intero e prega per tutti. Ma allo stesso tempo con amore si immedesima in ogni singola persona. Questo sentimento di Paolo spiega bene la sua indignazione di fronte alla gelosia, l’invidia e le rivalità esistenti nelle comunità cristiane. Considera vergognosi questi atteggiamenti e irriverenti non solo nei confronti di Cristo, ma anche nei riguardi della comune natura umana che conferisce a tutti la medesima dignità. Paolo amava così tanto gli uomini che «simpatizzava con loro, dovunque e comunque fossero; e sentiva come una misericordia speciale, trasmessa a loro tramite il Vangelo, il fatto che la natura umana da quel momento in poi fosse stata riconosciuta e redenta in Gesù Cristo. Lo spirito partigiano era quindi puramente e semplicemente all’opp osto dello spirito dell’apostolo, costituiva un gran peccato per lui». Nelle brevi note di un’omelia del periodo cattolico tenuta a braccio su san Paolo come modello della Chiesa missionaria Newman afferma che Paolo era soprattutto un seminatore della parola: «Seminò in tutti i paesi». Ed era anche un campione, non solo come David contro Golia, ma «contro il mondo». Quest’azione sarà continuata dalla Chiesa in ogni luogo e in ogni tempo e Paolo ne è il modello per eccellenza di questo: egli lotta nella fede contro gli zeloti del giudaismo (cfr. Atti degli apostoli, 23, 12) e contro i fanatici del paganesimo, come mostra la rivolta degli argentieri di Efeso (cfr. Atti degli apostoli, 19, 23-40). Deve confrontarsi con gli indifferenti, per esempio con il governatore Festo, che lo dichiara pazzo (cfr.At t i degli apostoli, 26, 24), o con i filosofi greci sull’Areopago, che, dopo il suo discorso sulla risurrezione lo deridono e gli dicono che lo avrebbero ascoltato un’altra volta (cfr.Atti degli apostoli, 17, 32). Newman applica questi esempi alla sua epoca: la Chiesa, nell’Inghilterra dell’Ottocento, doveva combattere, da una parte, contro coloro che disprezzavano Roma come Anticristo e, dall’altra, contro l’i n d i f f e re n z a e lo spirito mondano che cercava di adattare la fede al pensiero corrente. Ma Newman non è in alcun modo pessimista; al contrario, è pieno di fiducia, perché vede nella fede la grandezza e l’unità della Chiesa di tutti i tempi: «Questa ammirabile unità della Chiesa è la nostra consolazione». Ciò mostra che «la Chiesa viene da Dio» e «nulla le capita di strano». Per tutti i membri della Chiesa vale il principio: «Nostra cura sia seminare, combattere e lasciare il resto a Dio».
Osservatore Romano – 10 agosto 2014