Archive pour la catégorie 'ARTE: LE CHIESE'

COME SCOPRIRE NELL’EDIFICIO SACRO IL VOLTO DELL’ETERNO (O.R. e Sandro Magister)

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/190141

COME SCOPRIRE NELL’EDIFICIO SACRO IL VOLTO DELL’ETERNO

(da un articolo di Sandro Magister)

Da « L’Osservatore Romano » del 4-5 febbraio 2008

di Enrico Maria Radaelli

Alzare lo sguardo e trovarmi come in paradiso fu un tutt’uno: santi e sante, angeli, potenti arcangeli, cherubini, serafini giocosi, rosei, veloci; una festa radiosa, schiere lontane e vicine; tra le nubi papi eccelsi, giovani martiri, severi dottori, estatiche vergini, austeri eremiti; tutti lì, uomini e angeli innumerevoli, sparsi nell’aere dei cieli fino a salire ai cerchi più alti: ecco i patriarchi antichi, il Battista, la Maddalena, gli Apostoli, lo splendore della Vergine, e, al centro, il cuore abbagliante della vita: l’eterna Trinità.
Non ero « fuori di me », ma sotto la volta della cupola della chiesa del Gesù a Roma, a rimirare il grande affresco del Baciccia a nome appunto « La visione del Cielo », uno tra i più belli e ricchi tra tutti quelli disseminati nella Città dei Papi.
Non ero in mistico rapimento dunque, ma in quella mirabile estasi di massa alla quale accedono adoranti i fedeli da duemila anni, allorché, durante i divini misteri, un Dio davvero discende e – come dice Romano Amerio – quel Dio davvero si prende. Da mille e mille anni, siano catacombe o cattedrali, la liturgia trinitaria che si svolge nei cieli discende tra le sue greggi sotto le forme delle sacre Specie. Discende la liturgia e si sostanzia il Cristo, liturgo e vittima. E la Chiesa, con la saggezza di sposa sua e di madre dei chiamati ai sacrosanti misteri, procura di rendere queste greggi sempre edotte della cosa: non solo ammaestrandole con la più veritiera dottrina, ma anche conducendo i loro sensi quasi a toccare la realtà procurata, a metterle, come diceva suor Elisabetta della Trinità, « faccia a faccia pur nelle tenebre » con la Gloria di Dio.
È per tale intima e religiosa necessità, infatti, che ben presto le pareti e le volte delle sacre stanze destinate all’Eucaristia — a partire da quelle nascoste nelle catacombe, poi dei templi pagani convertiti alla Trinità, poi di tutti gli edifici sacri di ogni dimensione e fattezza, sparsi ovunque si diffondesse la cristianità — si dilatano facendo largo ai santi, si dissolvono e trapuntano di stelle, si squarciano dando posto non solo al glorioso passato della Chiesa militante, come coi cortei di vergini e di martiri delle basiliche di Ravenna, ma pure al futuro, già arcanamente presente, della Chiesa trionfante, ai festosi cieli delle cupole che stiamo vedendo, a significare, nella rappresentazione pittorica, la loro effettiva se pur nascosta discesa.
Quanto era stato realmente ricevuto nei cuori era ciò da cui i cuori erano circondati; la realtà invisibile sull’altare era visibile intorno all’altare, e i fedeli perdonavano il dolce inganno suggerito dagli artisti, ben sapendo che gli occhi vedevano cieli « finti » — che ispiravano realtà arcanamente già vive — ma non « falsi », ossia che non sbagliavano realtà. Dunque cieli « profetici » di realtà a venire, mentre le loro bocche ricevevano cieli « veri » e i loro cuori si allargavano a una realtà già presente in tutta la sua divinità e in tutta la sua umanità.
La realtà eucaristica, intorno alla quale si radunano i popoli facendo Ekklesia, adunanza di chiamati, Chiesa, sollecita da subito il suo insegnamento e al tempo stesso la sua visibilità. Se fosse necessario, la Chiesa vergherebbe in oro zecchino, come già faceva a suo tempo nei codici medievali, i caratteri delle pagine di dottrina, in modo da far risaltare la nobiltà, la somma superiorità, anzi la divinità che esse sottendono.
In qualche modo, Verità e Bellezza sono accompagnate dalla stessa premura: la Verità di irrompere in pienezza nei cuori, la Bellezza di rifulgere nel suo splendore sui muri.
L’ispirazione di dare agli edifici sacri la forma di croce nasce direttamente dalla sacralità dell’Eucaristia, sicché ai fedeli pare quasi di introdursi direttamente nel legno della croce e nel corpo stesso di Cristo — al quale davvero accederanno — quasi potesse verosimilmente avvenire quel mistico inserimento nel sacramento ecclesiale, anticipo d’eternità.
Nel Quattrocento Filippo Brunelleschi aggiunge ai muri che con la loro disposizione cruciforme rimandano fisicamente al mistero dell’incarnazione, la figurazione architettonica dell’altro e più alto mistero, la Trinità, e reinventa nella cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze la cupola quale « luogo cosmico » per incrociare adeguatamente i bracci longitudinale e trasversale della basilica cristiana proprio lì dove batte il cuore di Cristo, lì dove si compie il Sacrificio, dando così modo alla chiesa di trasfondere nei suoi fedeli altri necessari ed eccelsi pensieri: lì dove l’Alto discende sull’altare, « alzate gli occhi », o fedeli, e « vedrete » tutto ciò che attraverso l’altare vi è entrato nel cuore.
Con il ricorso alla cupola il geniale architetto — come poi tutti i grandi e meno grandi architetti rinascimentali e barocchi — dà modo alla chiesa di poter suggerire alla cristianità forse la più compiuta e profonda metafora della Trinità che si possa avere sotto le vestigia dell’arte, almeno da come ci viene descritta nelle pagine specialmente di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, per illustrare con la massima verosimiglianza l’indicibile e sommo arcano dove batte il cuore di Cristo. Il cuore di Cristo batte infatti per il Padre, quel Padre che l’ha generato « prima dell’aurora » (Salmo 109, 3), quel Padre a cui offre il proprio sacrificio per aprirne le cateratte di misericordia — che sono poi in realtà egli stesso: il Cristo.

Che cosa dicono infatti della Trinità quei grandi dottori della Chiesa? San Tommaso, in specie, raccogliendo nel « De Trinitate » della sua « Summa Theologiæ » (I, 27-43) la più compiuta formulazione di tutte le verità scritte dai santi teologi sull’argomento, ci offre la sintesi più esauriente e in qualche modo a noi più comprensibile, per concludere che la santissima Trinità è simile a una mente che con le sue operazioni pensa e ama.
Anche sant’Agostino accenna alla stessa analogia, in particolare nel suo « De Trinitate », X, 10, 18, che infatti sarà d’ispirazione agli sviluppi dell’altro dottore, l’Angelico. Naturalmente il mistero trinitario si eleva al di là di ogni figura, almeno per il fatto che quanto viene assimilato a una mente è in realtà una Persona, cosa valevole anche per un pensiero, altra Persona, e per la stessa loro « spirazione », che è la Terza. Ma l’analogia proposta dai due dottori resta utile almeno « per chiarire — riassume bene Battista Mondin nel suo ‘Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino’ — come in Dio sia possibile a un tempo la sussistenza di tre individui distinti e l’identità della natura, senza cadere nel politeismo ».
Si potrà apprezzare ancor più l’opera materna della Chiesa allorché essa, dopo aver sviluppato adeguatamente la similitudine in teologia, mettendo al lavoro le sue menti più alte e sante, la traslocherà dai libri ai muri nell’influsso che avrà sui suoi artisti, di modo che la Chiesa parrà quasi una sconfinata Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana, dove libri e quadri sono accostati in un unico insieme, e la Trinità potrà essere adorata sia sui libri, sia poi quando gli uomini alzeranno gli sguardi sul gran cupolaio romano, verso le potenti curve della cupola di San Pietro, sia quando un parroco di paese alzerà gli occhi verso l’umile cupoletta della sua chiesuola di campagna.
Ma cerchiamo di capire la relazione tra la cupola e il mistero trinitario e, ancor prima, di capire come questo sia stato spiegato da san Tommaso.
Una mente che intende — dice l’Aquinate — genera o emana un pensiero, che è il « logos », il « verbum ». La mente è il principio — prima del quale altro non c’è — del pensiero che spira da essa, e questo è il motivo per cui la Persona divina da cui è generato l’Unigenito si chiama « Padre »: perché una mente ha la paternità del pensiero che ne viene generato.
Ma ciò nasce dalla mente — il pensiero — non sarebbe di per sé un pensiero ma un nulla se non rispecchiasse in sé la mente da cui procede, se non riflettesse la sua natura. Non si avrebbe il pensiero, se esso non fosse la perfetta immagine della mente da cui spira.
È così che accanto al « Logos », o « Verbum », emerge con forza il concetto di « Imago »: il nome, lo specchio, il volto, solo grazie al quale è perfettamente sorretta la somiglianza tra Figlio e Padre. Come spiega san Tommaso: « Il Figlio procede come Verbo, e il concetto di verbo implica somiglianza di specie con il soggetto da cui procede [e che è il Padre] » (« Summa Theologiae » I, 35, 2).
Nel caso della Trinità il pensiero generato dalla mente del Padre è il pensiero che dice tutto della mente da cui nasce e di cui è lo specchio fedele e completo. È il pensiero dell’ »essere », in conformità a ciò che Dio dice di sé quando alla domanda su chi Egli sia, quale sia il suo Nome, Egli risponde: « Io sono Colui che sono » (Esodo 3, 14). La mente è la realtà forte dell’essere; e il pensiero generato dalla mente esprime l’ »essere », ossia ne è il Verbo, è la Parola infinita, positiva, forte, di « Io sono Colui che sono ».
La cosa si capisce meglio se torniamo alla nostra cupola, che, tra l’altro, possiamo riscontrare anche piuttosto somigliante alla testa di un uomo. La cupola si erge alta nel cielo, incurvandosi verso il centro, verso la lanterna da dove riceve la luce. Le sue pietre scaricano le loro forze lungo i costoloni, e questi le scaricano potentemente verso il basso, in modo tale che, ricevendo più giù, sotto il tiburio, le spinte contrarie dei bracci delle navate su cui poggia, esse vengano corrette nella loro traiettoria e restino all’interno dell’area di appoggio, e ciò va notato, perché tutto questo potente costrutto viene così a costituire in qualche modo il corrispettivo architettonico di quello che nella Trinità è dato dalla persona del Padre: la potente stanzialità dell’ »Essere », e ciò non a caso, poiché da sempre la pietra è stata chiamata dall’uomo a testimoniare la solida fermezza dell’eternità; si pensi per esempio a tutte le volte che Giacobbe alza grandi pietre per stabilire che lì, in quei certi luoghi, « per sempre » sarà ricordato il Signore che gli ha parlato.
La volta della cupola è, dunque, nella sua possanza il Padre, e come il Padre essa è. E potentemente è, voltando il cielo in una larga immensità tenuta in piedi da pilastri immani. Ed ecco che, ancora come il Padre, la volta della cupola spira dalla potenza delle pietre l’affresco dei cieli, emana cioè il Figlio, genera sull’infinita superficie del suo « essere » il Pensiero che rispecchia il Padre e la sua potenza. Come lo genera? Con la più esaustiva illustrazione della sua essenza, cioè di tutto ciò che il Padre rimira in sé. Quello che vediamo, quasi fossimo nella Mente del Padre, è il Logos, è la visione della Gloria di Dio come la vede in sé Dio, e ciò per via quasi di una trasudazione di figure e colori dalle pietre della cupola — ecco l’azione dello Spirito Santo — perché le pietre della cupola « parlano », e rivelano in cosa consista la beatitudine del proprio celestiale firmamento.
Struttura architettonica e affresco sono tutt’uno. Sicché la cupola quasi spira ed emana l’affresco e l’affresco esprime e manifesta la volta della cupola. L’affresco si vede, la cupola non si vede, come quando Gesù dice: « Chi vede Me vede il Padre » (Giovanni 14, 9). Chi vede il « Logos », « Imago » e Affresco del Padre, vede il Padre che l’ha generato, vede la divina Cupola che l’Essere dà a sé e alla sua intellettuale spirazione.
L’analogia della cupola mette in campo con forza quella che senza dubbio si presenta come una delle più significative scoperte teologiche di san Tommaso d’Aquino, non mai però successivamente scavata nei notevolissimi suoi risvolti scientifici e filosofici. Parlo del secondo Nome del Figlio, « Imago », che, sulla base qualificata delle Sacre Scritture (Giovanni 14, 9; Colosses, 1, 15; Ebrei 1, 3), l’Angelico pone con autorità accanto al primo nome, « Logos », tanto quanto la rappresentazione di un pensiero va posta accanto al pensiero, il volto di un concetto accanto al concetto, l’espressione di una nozione accanto alla nozione. Come potrebbe infatti un pensiero esprimersi – ossia, dall’etimo, « premersi fuori di sé » – se non attraverso il suo volto, la sua effigie, la sua immagine? Anzi, si deduce da san Tommaso, un pensiero neanche esisterebbe se non si formulasse in un suo volto: sarebbe un nerume, uno sgorbio, un rumore.
Nell’epoca che stiamo passando — di relativismo, di debolezza e scoordinamento dell’arte dalla religione — l’avere il Figlio due Nomi e non uno, ossia essere il Figlio tanto la « Imago » quanto il « Verbum » del Padre, permette di ristabilire un legame forte, soprannaturale, tra Bellezza e Verità.
La similitudine della cupola non può ovviamente soddisfare in tutto, ma sembra la più riuscita raffigurazione associabile alla Trinità in architettura, e, non a caso, segnala con ineguagliata forza icastica la cattolicità di un edificio.
Sarebbe dunque anche un atto notevolmente religioso reinventare la cupola in termini attuali, ricchi come siamo oggi di materiali elastici quasi fatti apposta per piegarsi alle esigenze, diciamo così, « trinitarie ». L’importante è che ne sia preservato il carattere di sacro « teatro dei Cieli », rispettata la proporzione aurea — misura quasi sacra, per la sua stretta attinenza al « Logos » —, esaltato il mistero aureo della Trinità, dalla cui sublime liturgia può discendere la più superba arte. Davvero una « trinoliturgica » arte, per rendere alla Verità la più adeguata divina Bellezza.

LA CROCIFISSIONE DI SAN PIETRO E LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO: IL MOVIMENTO DELLA SANTITÀ

http://www.zenit.org/it/articles/la-crocifissione-di-san-pietro-e-la-conversione-di-san-paolo-il-movimento-della-santita

LA CROCIFISSIONE DI SAN PIETRO E LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO: IL MOVIMENTO DELLA SANTITÀ
LA CAPPELLA CERASI DI CARAVAGGIO IN SANTA MARIA DEL POPOLO

(c’è una foto delle pitture citate in:

http://thearkofgrace.com/wp-content/uploads/2012/07/Cappella-Cerasi.jpg )

Roma, 17 Giugno 2013 (Zenit.org) Rodolfo Papa

Nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze (XIII secolo) leggiamo: «Alcuni si chiedono se Pietro e Paolo morirono lo stesso giorno.  […] Gerolamo e quasi tutti i santi che parlano di questo concordano su  di un fatto, che morirono lo stesso giorno e anno, come anche si può chiaramente desumere dall’epistola di  Dionigi, e come dice Leone o Massimo –secondo alcuni in un sermone- dove dice questo “Se riteniamo che subirono la stessa sentenza nello stesso luogo e per ordine dello stesso tiranno, non lo facciamo senza ragione. Subirono la passione in uno stesso giorno per giungere assieme a Cristo, nello stesso luogo perché a nessuno dei due mancasse Roma; sotto un solo persecutore, perché cadessero vittime di una identica crudeltà. Il giorno corrisponde al loro merito, il luogo alla gloria, l’identità di persecutore alla loro virtù”.  […] A proposito di questo esiste una poesiola: Se san Paolo ebbe la spada, Per San Pietro fu la croce: Stesso luogo, stessa luce, Stesso duce fu Nerone, E fu Roma la passione» (cap. LXXXIX).
Proprio a Roma, luogo del martirio di Pietro e Paolo, crocifisso uno, decapitato con la spada l’altro,  proprio nella città che li festeggia come santi patroni, troviamo una delle più belle rappresentazioni artistiche a loro dedicate, ovvero le due tele dipinte da Caravaggio per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. Queste due tele non sono propriamente dei ritratti,  piuttosto si impegnano nel ritrarre il legame tra l’interiorità del santo e Dio, che è l’essenza di ogni santità.
Le due tele vengono proposte a Caravaggio in un momento molto felice della sua vita romana. Contemporaneamente alla commissione della Cappella Contarelli, dedicata al ciclo delle storie di san Matteo, per la Chiesa di San Luigi dei Francesi, riceve infatti da monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere di Clemente VIII, l’incarico di lavorare per la sua cappella in Santa Maria del Popolo. Caravaggio può entrare così nell’ambito dei più importanti artisti che lavoravano a Roma, quali per esempio Annibale Carracci, al quale il Cerasi aveva commissionato l’Assunta per collocarla sull’altare, e Carlo Maderno, al quale era stato richiesto il progetto per la stessa cappella, che doveva ampliare la vecchia cappella Foscari. A Caravaggio, Tiberio Cerasi chiede, invece, due dipinti su tavola di cipresso, rappresentanti il martirio di san Pietro e quello di san Paolo, secondo il contratto stipulato nel 1600.
Le prime versioni realizzate vengono rifiutate dal committente, e Caravaggio deve realizzare allora due nuovi dipinti che verranno collocati nella cappella, dove tuttora sono conservati.
Questi due dipinti  scelgono di rappresentare due momenti diversi della vita dei santi: per san Pietro il martirio, per san Paolo la conversione sulla via di Damasco. Ciononostante, la simmetria tra le due opere e la omogeneità di significato risulta evidente nella capacità della pittura. Infatti san Pietro viene dipinto proprio nel lento issarsi della sua croce che, come è noto, fu posta con la testa in basso; san Paolo viene mostrato disarcionato  dal cavallo, con gli occhi accecati, nella novità di qualcosa che sta ancora accadendo.  Entrambi sono colti in un momento dinamico, in un movimento di rovesciamento. La crocifissione a testa sotto del vecchio Pietro e il disarcionamento del giovane Paolo sono l’identico andamento di una sovversione delle prospettive del mondo: un guardare le cose da un punto di vista prima inattingibile, che rovescia la visione, trovando il proprio centro solo in Dio. Caravaggio sembra saper rappresentare in entrambe le tele, seppure con narrazioni diverse, quel movimento di conversione che non finisce mai per tutta la vita del santo, e che significa sovversione e cambiamento, significa lasciarsi andare a  Dio, affidarsi totalmente e globalmente, tanto da lasciarsi rovesciare.  Guardando le due tele scopriamo infatti un unico dinamismo, e colpisce l’identica posizione delle braccia dei due santi: le braccia di Pietro inchiodate sulla croce, quelle di Paolo allargate nella caduta, sono braccia aperte, l’apertura di chi si abbandona Così lo sguardo cieco di Paolo rappresenta lo stesso movimento: un non vedere più per vedere sempre.
La profondità di Caravaggio sta anche nella modalità con cui nelle versioni definitive riesce a dire questo legame con Dio, che è il denominatore comune e la condizione indispensabile per ogni respiro di fede. In un atteggiamento, anch’esso comprensibile solo con un rovesciamento, essi liberamente scelgono di essere schiavi di chi li chiama: Pietro non persegue il martirio, Paolo non cerca  la conversione, ma entrambi ricevono e accettano, allargando le braccia. La prima versione della Conversione di san Paolo fu giudicata poco corretta  in quanto Cristo appariva troppo violentemente presente, tanto da spezzare un ramo al pioppo alla sua sinistra, e quasi sembrava che la libertà di Paolo fosse annientata. Si vivevano gli anni della riforma protestante, che proprio sulla questione del libero arbitrio aveva creato un punto di discussione, e allora è come se i committenti chiedessero a Caravaggio di pronunciarsi correttamente con il linguaggio della pittura. E Caravaggio per questa cappella -come anche per la cappella Contarelli di san Luigi dei Francesi-, riesce a rappresentare, con efficacissime soluzioni pittoriche, il rapporto tra l’onnipotenza di Dio e la libertà dell’uomo, nel momento della chiamata  e nel momento del martirio.
Nel contratto del Cerasi era previsto che Caravaggio presentasse, ancor prima dei quadri finiti, dei disegni o dei bozzetti perché fossero approvati. Dal fatto che le prime versioni non furono accettate, possiamo presumere che egli non abbia presentato alcun bozzetto e che, confidando nella sua rapidità esecutiva, abbia consegnato direttamente le opere finite, incorrendo nel rifiuto. Sappiamo che questo inconveniente capitò spesso a Caravaggio, e sicuramente consente alcune riflessioni, di carattere propriamente tecnico e anche poetico. Egli lavorava in studio dal vero, atteggiando i modelli nei vari personaggi da ritrarre, e per questo non era propenso a presentare bozzetti e studi preventivi. Non concepiva forme idealizzate come i pittori del tardomanierismo romani, non lavorava con manichini, ma usava modelli veri, in carne ed ossa, presenti e agenti davanti ai suoi occhi.  Era propenso a lavorare direttamente sulla tela, facendo emergere le figure dal buio, costruendo l’opera lentamente, per piccoli scarti approssimativi. Grazie anche a questa tecnica, le figure di san Pietro e san Paolo ancora si muovono davanti agli occhi dei fedeli, in quell’abbassamento che significa innalzamento, non appena le braccia vengono aperte per accettare ciò che in nessun modo si può pretendere.
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio.

LA CHIESA DI S. MARIA IN COSMEDIN NEL FORO BOARIO

http://www.zenit.org/article-30226?l=italian

LA CHIESA DI S. MARIA IN COSMEDIN NEL FORO BOARIO

ho scelto delle immagini e spiegazione:
http://www.romaspqr.it/roma/CHIESE/Chiese_Medievali/S_Maria_Cosmedin.htm

La cultura greca nella Roma primordiale

di Paolo Lorizzo*

ROMA, sabato, 7 aprile 2012 (ZENIT.org).- Quella che oggi rappresenta una delle più antiche e caratteristiche aree storico-artistiche ed archeologiche della capitale, nota con il nome di Foro Boario (Forum Boarium o Bovarium, l’antico mercato del bestiame), sei secoli prima di Cristo non era altro che una zona paludosa che venne interamente bonificata con la costruzione della Cloaca Maxima, il grande collettore per la raccolta delle ‘acque scure’ che scaricava all’altezza dell’Isola Tiberina.
Pochi sono a conoscenza del fatto che siamo in presenza di uno dei più antichi contesti archeologici della città. Qui infatti sono state ritrovate prove inconfutabili della presenza della cultura greca ancor prima della fondazione di Roma che la tradizione attribuisce a Romolo e avvenuta il 21 aprile del 753 a.C. Da allora l’area ha sempre avuto una destinazione mercantile, soprattutto grazie alla costruzione del primo porto usato dai mercanti greci, noto come Porto Tiberino. Anche quando l’area portuale venne meno, questa venne inglobata in un grande contesto comprendente, tra l’altro, l’area ludica del Circo Massimo. La sua destinazione cultuale è caratterizzata dalla presenza di tre strutture, due delle quali ancora interamente visibili: il tempio di Portunus, il tempio di Ercole Olivario (spesso erroneamente attribuito a Vesta) e l’Ara Massima di Ercole.
Se i due templi rappresentano un unicum nel panorama edilizio cultuale di epoca repubblicana a Roma, ormai celebri e conosciuti attraverso le molte immagini nelle cartoline e nei libri di storia, l’Ara di Ercole è praticamente sconosciuta. Questa rappresenta il primo centro cultuale costruito e dedicato ad Ercole da Evandro, al di sopra del luogo in cui, secondo Tito Livio, l’eroe uccise il gigante Caco durante una delle sue celebri fatiche.
I pochissimi resti del monumento greco (e dei suoi rimaneggiamenti romani) sono attualmente visibili all’interno della Basilica di Santa Maria in Cosmedin, le cui maggiori testimonianze sono visibili all’interno della cripta e consistono in blocchi di tufo formanti una parte del podio.
La Basilica è uno dei più fulgidi esempi di architettura ecclesiastica di epoca medievale. Fin dal VI secolo infatti, al di sopra di antichi edifici romani (comprendenti anche l’ara di Ercole) identificati come statio annonae ( luogo di approvvigionamento e distribuzione di cibo per il popolo), venne edificata una diaconia, trasformata appena il secolo dopo da papa Gregorio I in una piccola chiesa. Fu comunque papa Adriano I nell’VIII secolo a dargli l’aspetto attuale, dividendola in tre navate ed inglobando al suo interno molti materiali e reperti di epoca romana. E’ interessante notare come la tradizione della cultura greca sia un elemento ininterrotto fina dall’VIII secolo a.C. Sappiamo infatti che papa Adriano affidò la gestione del luogo ad una comunità di monaci greci, stanziata in quella che già veniva definita lungo il Tevere la ‘Riva Greca’. Fu nel IX secolo che vennero aggiunti l’oratorio e la sacrestia, mentre nel XII secolo l’edificio venne completato dallo splendido campanile (scandito da bifore e trifore e decorato da maioliche) e il portico.
La presenza dell’elemento culturale greco (presente ancora oggi visto che la chiesa è di rito cattolico greco-melchita) condizionò il toponimo dell’edificio fin dalle origini, facendo riferimento al termine greco kosmidion che significa ‘ornamento’. Mai termine fu così appropriato vista la bellezza dei contenuti artistici che si ammirano nel suo interno. I pavimenti presentano numerosi esempi della più fine decorazione cosmatesca, la splendida schola cantorum è antico esempio di liturgia cristiana, formata da due pulpiti e relativi baldacchini datata al XIII secolo, il baldacchino e l’altare maggiore, ricavato da un unico pezzo di granito rosso e il cero pasquale, qui dedicato nel XIII secolo completano la navata centrale dell’edificio, nell’alternanza di pietre colorate con la lucentezza del marmo bianco.
La magia della sacralità del luogo viene spesso turbata dalla calca di turisti che pullulano il portico per poter sperimentare personalmente i prodigi della celebre Bocca della Verità, legata a molteplici tradizioni e leggende. Fin dalla notte dei tempi gli si attribuiscono poteri divinatori, rivelando adultéri e tradimenti a chi infilava la ‘colpevole’ mano all’interno della sua bocca. Un altro frammento di ‘profana’ storia romana, divenuto leggenda nell’immaginario popolare ma ricondotto dagli studi degli ultimi anni ad un tombino romano, ultima testimonianza di come spesso l’uomo abbia bisogno dei miti per poter credere nella realtà.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali  e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.

Publié dans:ARTE, ARTE: LE CHIESE |on 10 avril, 2012 |Pas de commentaires »

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