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IL REALISMO DI NASCERE NELLA STORIA – GIANFRANCO RAVASI

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GIANFRANCO RAVASI NE RIPROPONE UNA SINTESI E LA PRESENTA COME « IL REALISMO DEL NASCERE NELLA STORIA »!!! IL SUO ARTICOLO – A CURA DI FEDERICO LA SALA

IL REALISMO DI NASCERE NELLA STORIA

Dio abbandona gli edifici simbolici e sceglie una residenza carnale: il grembo. Gesù a Betlemme è il trionfo della maestà della vita. Così il Natale illumina e consacra tutte le esistenze. di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2010)

Una decina d’anni dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1982, lo scrittore lombardo Giovanni Testori – a seguito di un incontro pubblico milanese, dedicato a un libro su Maria Maddalena a cui entrambi avevamo collaborato – mi inviò una sua opera poco nota intitolata La maestà della vita. Di lì a poco egli sarebbe morto (nel 1993). Ora, sfogliando di nuovo quelle pagine, m’imbatto in questo paragrafo: «lI Natale è la nascita assoluta che riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite di prima e tutte le nascite di poi. Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale di Cristo; perché è Dio che decide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. È proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l’ha spinto da sempre a incarnarsi». Sono parole che invitano spontaneamente a riflettere proprio su quel verbo finale così tipico del cristianesimo, l’«incarnarsi» di Dio. Non per nulla si ripete spesso che l’«incarnazione» è nel cuore stesso dell’annuncio cristiano, ne è – assieme alla risurrezione – quasi il vessillo tematico.

La definizione immediata, spoglia di tecnicismi teologici, potrebbe essere così formulata sulla scia delle righe di Testori: il Figlio di Dio è nato, ha voluto avere un inizio nel tempo lui che era e che rimane eterno, proprio per condividere realmente con noi la storia, la « carne ». Come tutti noi, ha anche avuto una fine nel tempo, una morte. Con questo ingresso nella sequenza temporale ha deposto in tutte le nascite e in tutte le morti un seme divino, trascendente il tempo stesso. Come scrive Testori, il Natale del Figlio di Dio, «riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite», tutte le vite. L’«incarnazione» è incisa nella memoria di tutti, anche di chi è agnostico, con una frase lapidaria del celebre prologo del Vangelo di Giovanni, un testo che è stato definito «una parabola teandrica», proprio per l’intreccio inestricabile che propone tra divinità e umanità. Da un lato, infatti, c’è il Logos che è «in principio» – come si dice del Creatore nell’incipit stesso della Bibbia (Genesi 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra…») -, egli è «presso Dio» ed è Dio. D’altro lato, però, questo Logos divino, perfetto, creatore, assoluto – che è Wort, Parola, Kraft, Potenza, Sinn, Significato, Tat, Atto, per usare la famosa resa semantica offerta da Goethe nel suo Faust – si insedia nell’orizzonte contingente e mutevole del tempo e dello spazio: «Il Logos divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14). Il Verbo eterno e divino assume la sarx, ossia la caducità temporale, divenendo ospite nomadico del nostro spazio: come è noto, il testo originario giovanneo usa, infatti, il verbo greco eskénosen che è il termine dell’«attendarsi», dell’accamparsi tra gli uomini che migrano di luogo in luogo. Naturalmente, l’allusività di Giovanni non ignora il valore simbolico della « tenda » che era il santuario mobile dell’Israele pellegrino nel Sinai, «tenda dell’incontro» tra Dio e Israele, ma al tempo stesso tenda della « presenza » divina: in ebraico « presenza » è shekinah, vocabolo curiosamente fondato sulle stesse tre consonanti (s-k-n-) dell’«attendarsi» greco (skenoun). Resta, comunque, grandioso il paradosso. Non è più di scena un telo o un edificio simbolico: questa nuova residenza divina è « carnale ». Tenendo conto che la sarx, « carne », è la resa ideale dell’ebraico basar, l’ambito in cui Dio si insedia e di cui diventa pienamente partecipe è la condizione umana, terrestre, carica di caducità e finitudine. Essa è assunta senza riserve, ha nella nascita il suo emblema, ma presuppone anche l’intero arco dell’esistere, fatto di un impasto di riso e lacrime, speranza e delusione, salute e malattia, sentimenti e umori, atti e parole, affetti e tradimenti, esperienze e silenzi. In questa luce è suggestiva la ripresa del tema che Jorge Luis Borges ha proposto nella sua poesia emblematicamente intitolata Giovanni 1,14, presente nella raccolta Elogio dell’ombra (1969): «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo… / Vissi stregato, prigioniero di un corpo / e di un’umile anima… / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, / l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce». A lungo si potrebbe riflettere attorno a questo nodo d’oro nel quale «anche il soprannaturale è carnale», come affermava Charles Péguy nel suo poema Eva (1913). Là il Figlio di Dio diventa «frutto di un ventre carnale», assumendo e riassumendo in sé tutta l’umanità fatta di carne e di sangue. Si potrebbe, inoltre, individuare il tessuto delle allusioni e dei rimandi evocati da Giovanni nel suo testo: egli attinge alle categorie « Parola » e « Sapienza », care all’Antico Testamento, senza però escludere del tutto ammiccamenti al Logos greco, che si era infiltrato nello stesso giudaismo di Filone d’Alessandria d’Egitto, celebre pensatore giudeo-ellenistico del I secolo. Così, sarebbe pure possibile ritrovare una sottile ma efficace punta polemica contro l’affacciarsi, nella cristianità delle origini, di tentazioni gnostiche o docetiche. Esse – come ben si evince dagli stessi termini di matrice greca che evocano la « gnosi », la conoscenza alta e pura, e l’ »apparenza », il dokéin – rifiutavano la « pesantezza » della « incarnazione », di quel «diventare carne». Al massimo l’accettavano come metafora dell’epifania del Logos nel suo mostrarsi esteriore, del suo « apparire », oppure come espressione mitica dell’agire atemporale di Dio, mero rivestimento simbolico dell’Essere trascendente. L’evangelista Giovanni non cesserà di contrastare questa visione che estenua la presenza storica di Dio e che rende esangue il volto di Cristo, e lo farà soprattutto nelle sue Lettere, ribadendo che è possibile un’esperienza uditiva, visiva e tattile del «Verbo della vita» (1 Giovanni 1, 1-3), per cui la discriminante dell’autentica teologia cristiana è netta: «Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio e ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Anzi, questo è lo spirito dell’Anticristo» (4,2-3). «Sono, infatti, apparsi nel mondo molti seduttori che non riconoscono Gesù venuto nella carne» (2 Giovanni 7). Il realismo dell’ »incarnazione » diventa, quindi, una sorta di carta di tornasole dell’autenticità della stessa professione di fede cristiana, anche se il termine greco specifico sárkosis, « incarnazione », non appare direttamente nel Nuovo Testamento e sarà adottato per la prima volta nel II secolo dal Padre della Chiesa Ireneo nella sua opera Contro le eresie (3, 18,3; 19, 1-2) e diverrà comune a partire solo dal IV secolo, quando si accentueranno le discussioni e le diatribe cristologiche. Noi ora vorremmo accennare brevemente solo a due questioni contestuali, simili a cerchi che si aprono attorno a questo tema teologico giovanneo. Il primo cerchio che isoliamo è il più ristretto, ed è quello che rimanda al resto del Nuovo estamento, antecedente al quarto Vangelo a livello cronologico. Certo, non vi possiamo identificare l’esplicitazione che Giovanni fa del tema, ma i prodromi sono del tutto evidenti. Per quanto riguarda gli altri Vangeli, cioè i Sinottici, la loro stessa impostazione narrativa, che parte dalla genealogia e dal racconto della nascita di Gesù (Matteo e Luca) e si sviluppa secondo una trama storica di eventi per approdare a una morte, è l’attestazione più limpida del legame intimo di Cristo con la « carne » fatta appunto di avvenimenti, tempo, spazio, esistenza. Egli è per eccellenza l’Emmanuele, Dio-con-noi, che procede spalla a spalla con l’umanità, rimanendo «con noi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (si vedano Matteo 1,23 e 28,20). Interessante, a livello più teorico, risulta – sempre in questo cerchio – il pensiero di san Paolo. Non possiamo, ovviamente, approfondire i percorsi tematici che al riguardo egli ci offre e che sono sempre uno specchio della complessità e della ricchezza del suo pensiero. È, comunque, facile reperire nel suo corpus epistolare alcune dichiarazioni indirette: «Dio ha mandato il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato» (Romani 8,3); «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Galati 4,4); «uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo…; egli fu manifestato nella carne umana» (1 Timoteo 2,5; 3,16); «in lui abita corporalmentetutta la pienezza della divinità» (Colossesi 2,9); «il Figlio di Dio è nato dal seme di Davide secondo la carne… e dagli Israeliti proviene Cristo secondo la carne» (Romani 1,3; 9,5). Questa sequenza testuale parla da sola. Riserviamo, però, un cenno specifico all’inno – forse prepaolino – che l’Apostolo incastona nella sua Lettera agli amati cristiani della città greca di Filippi. In quel testo, l’elemento capitale per il nostro discorso è in un contrasto tratteggiato dall’Apostolo. Da un lato, c’è la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna: egli precipita fino allo « svuotamento » (in greco kénosis) di tutta la sua gloria divina nella morte di croce, il supplizio dello schiavo, cioè l’ultimo degli uomini per poter essere, in tal modo, vicino e fratello dell’intera umanità. D’altro lato, ecco l’ascesa trionfale che si compie nella Pasqua quando Cristo si ripresenta nello sfolgorare della sua divinità, nell’ »esaltazione » gloriosa celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti. Questa visione grandiosa presenta innicamente sia l’umanità sia la divinità di Cristo, ed «enfatizza con solenne immediatezza – come scrive il teologo Giuseppe Mazza della Pontificia Università Gregoriana – lo scandaloso movimento dello svuotamento che si fa spoliazione, abbassamento e autoumiliazione» così che il Figlio di Dio possa «partecipare della natura umana, dissimile da quella divina». Citiamo, comunque, le parole della descrizione paolina del movimento « discensionale » dell’Incarnazione: «Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Filippesi 2,6-8). C’è, tuttavia, un eventuale secondo cerchio contestuale più ampio e fluido che sarebbe quello anticotestamentario, legato a categorie rilevanti come le citate Parola e Sapienza di Dio, le quali sono realtà trascendenti che entrano e operano nelle coordinate della storia e del cosmo. Noi, però, vorremmo anche accennare al cerchio ancor più largo e dai contorni vaghi, quello delle culture religiose dell’antico Vicino Oriente e della classicità greca. L’epifania della divinità sotto forme o apparenze umane è nota anche a esse, ma ignoto rimane il concetto esplicito di « incarnazione ». Detto in altri termini, nessuna divinità greca diventa « un uomo » nel senso vero della parola. Adone, Tammuz, Osiride discendono nell’oltretomba e vi riemergono senza, però, assumere la natura e la condizione umana, ma solo per rappresentare miticamente il cielo naturistico stagionale. L’ »incarnazione » resta, perciò, un unicum cristiano, lontana anche da un parallelo remoto, talora evocato, quello induista degli avatara che sono l’assunzione di una forma corporea umana o animale da parte della divinità, assunzione varia e molteplice, ritmica e ciclica secondo il succedersi delle ere. Manca, quindi, in questa visione ogni puntuale e diretta immissione nella trama del tempo e nella realtà di una persona umana, propria dell’evento Gesù Cristo. Scriveva significativamente nel suo Diario il filosofo Ludwig Wittgenstein: «Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell’anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».

Buon Natale a tutti!

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NATALE DEL SIGNORE 2011 – OMELIA PAPA BENEDETTO

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20111224_christmas.html

SANTA MESSA DI MEZZANOTTE

SOLENNITÀ DEL NATALE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – SAN PAOLO APOSTOLO A TITO

Basilica Vaticana

Sabato, 24 dicembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

La lettura tratta dalla Lettera di san Paolo Apostolo a Tito, che abbiamo appena ascoltato, inizia solennemente con la parola “apparuit”, che ritorna poi di nuovo anche nella lettura della Messa dell’aurora: apparuit – “è apparso”. È questa una parola programmatica con cui la Chiesa, in modo riassuntivo, vuole esprimere l’essenza del Natale. Prima, gli uomini avevano parlato e creato immagini umane di Dio in molteplici modi. Dio stesso aveva parlato in diversi modi agli uomini (cfr Eb 1,1: lettura nella Messa del giorno). Ma ora è avvenuto qualcosa di più: Egli è apparso. Si è mostrato. È uscito dalla luce inaccessibile in cui dimora. Egli stesso è venuto in mezzo a noi. Questa era per la Chiesa antica la grande gioia del Natale: Dio è apparso. Non è più soltanto un’idea, non soltanto qualcosa da intuire a partire dalle parole. Egli è “apparso”. Ma ora ci domandiamo: Come è apparso? Chi è Lui veramente? La lettura della Messa dell’aurora dice al riguardo: “apparvero la bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” (Tt 3,4). Per gli uomini del tempo precristiano, che di fronte agli orrori e alle contraddizioni del mondo temevano che anche Dio non fosse del tutto buono, ma potesse senz’altro essere anche crudele ed arbitrario, questa era una vera “epifania”, la grande luce che ci è apparsa: Dio è pura bontà. Anche oggi, persone che non riescono più a riconoscere Dio nella fede si domandano se l’ultima potenza che fonda e sorregge il mondo sia veramente buona, o se il male non sia altrettanto potente ed originario quanto il bene e il bello, che in attimi luminosi incontriamo nel nostro cosmo. “Apparvero la bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini”: questa è una nuova e consolante certezza che ci viene donata a Natale. In tutte e tre le Messe del Natale la liturgia cita un brano tratto dal Libro del Profeta Isaia, che descrive ancora più concretamente l’epifania avvenuta a Natale: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine” (Is 9,5s). Non sappiamo se il profeta con questa parola abbia pensato a un qualche bambino nato nel suo periodo storico. Sembra però impossibile. Questo è l’unico testo nell’Antico Testamento in cui di un bambino, di un essere umano si dice: il suo nome sarà Dio potente, Padre per sempre. Siamo di fronte ad una visione che va di gran lunga al di là del momento storico verso ciò che è misterioso, collocato nel futuro. Un bambino, in tutta la sua debolezza, è Dio potente. Un bambino, in tutta la sua indigenza e dipendenza, è Padre per sempre. “E la pace non avrà fine”. Il profeta ne aveva prima parlato come di “una grande luce” e a proposito della pace proveniente da Lui aveva affermato che il bastone dell’aguzzino, ogni calzatura di soldato che marcia rimbombando, ogni mantello intriso di sangue sarebbero stati bruciati (cfr Is 9,1.3-4). Dio è apparso – come bambino. Proprio così Egli si contrappone ad ogni violenza e porta un messaggio che è pace. In questo momento, in cui il mondo è continuamente minacciato dalla violenza in molti luoghi e in molteplici modi; in cui ci sono sempre di nuovo bastoni dell’aguzzino e mantelli intrisi di sangue, gridiamo al Signore: Tu, il Dio potente, sei apparso come bambino e ti sei mostrato a noi come Colui che ci ama e mediante il quale l’amore vincerà. E ci hai fatto capire che, insieme con Te, dobbiamo essere operatori di pace. Amiamo il Tuo essere bambino, la Tua non violenza, ma soffriamo per il fatto che la violenza perdura nel mondo, e così Ti preghiamo anche: dimostra la Tua potenza, o Dio. In questo nostro tempo, in questo nostro mondo, fa’ che i bastoni dell’aguzzino, i mantelli intrisi di sangue e gli stivali rimbombanti dei soldati vengano bruciati, così che la Tua pace vinca in questo nostro mondo. Natale è epifania – il manifestarsi di Dio e della sua grande luce in un bambino che è nato per noi. Nato nella stalla di Betlemme, non nei palazzi dei re. Quando, nel 1223, San Francesco di Assisi celebrò a Greccio il Natale con un bue e un asino e una mangiatoia piena di fieno, si rese visibile una nuova dimensione del mistero del Natale. Francesco di Assisi ha chiamato il Natale “la festa delle feste” – più di tutte le altre solennità – e l’ha celebrato con “ineffabile premura” (2 Celano, 199: Fonti Francescane, 787). Baciava con grande devozione le immagini del bambinello e balbettava parole di dolcezza alla maniera dei bambini, ci racconta Tommaso da Celano (ivi). Per la Chiesa antica, la festa delle feste era la Pasqua: nella risurrezione, Cristo aveva sfondato le porte della morte e così aveva radicalmente cambiato il mondo: aveva creato per l’uomo un posto in Dio stesso. Ebbene, Francesco non ha cambiato, non ha voluto cambiare questa gerarchia oggettiva delle feste, l’interna struttura della fede con il suo centro nel mistero pasquale. Tuttavia, attraverso di lui e mediante il suo modo di credere è accaduto qualcosa di nuovo: Francesco ha scoperto in una profondità tutta nuova l’umanità di Gesù. Questo essere uomo da parte di Dio gli si rese evidente al massimo nel momento in cui il Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, fu avvolto in fasce e venne posto in una mangiatoia. La risurrezione presuppone l’incarnazione. Il Figlio di Dio come bambino, come vero figlio di uomo – questo toccò profondamente il cuore del Santo di Assisi, trasformando la fede in amore. “Apparvero la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”: questa frase di san Paolo acquistava così una profondità tutta nuova. Nel bambino nella stalla di Betlemme, si può, per così dire, toccare Dio e accarezzarlo. Così l’anno liturgico ha ricevuto un secondo centro in una festa che è, anzitutto, una festa del cuore. Tutto ciò non ha niente di sentimentalismo. Proprio nella nuova esperienza della realtà dell’umanità di Gesù si rivela il grande mistero della fede. Francesco amava Gesù, il bambino, perché in questo essere bambino gli si rese chiara l’umiltà di Dio. Dio è diventato povero. Il suo Figlio è nato nella povertà della stalla. Nel bambino Gesù, Dio si è fatto dipendente, bisognoso dell’amore di persone umane, in condizione di chiedere il loro – il nostro – amore. Oggi il Natale è diventato una festa dei negozi, il cui luccichio abbagliante nasconde il mistero dell’umiltà di Dio, la quale ci invita all’umiltà e alla semplicità. Preghiamo il Signore di aiutarci ad attraversare con lo sguardo le facciate luccicanti di questo tempo fino a trovare dietro di esse il bambino nella stalla di Betlemme, per scoprire così la vera gioia e la vera luce. Sulla mangiatoia, che stava tra il bue e l’asino, Francesco faceva celebrare la santissima Eucaristia (cfr 1 Celano, 85: Fonti, 469). Successivamente, sopra questa mangiatoia venne costruito un altare, affinché là dove un tempo gli animali avevano mangiato il fieno, ora gli uomini potessero ricevere, per la salvezza dell’anima e del corpo, la carne dell’Agnello immacolato Gesù Cristo, come racconta il Celano (cfr 1 Celano, 87: Fonti, 471). Nella Notte santa di Greccio, Francesco quale diacono aveva personalmente cantato con voce sonora il Vangelo del Natale. Grazie agli splendidi canti natalizi dei frati, la celebrazione sembrava tutta un sussulto di gioia (cfr 1 Celano, 85 e 86: Fonti, 469 e 470). Proprio l’incontro con l’umiltà di Dio si trasformava in gioia: la sua bontà crea la vera festa. Chi oggi vuole entrare nella chiesa della Natività di Gesù a Betlemme, scopre che il portale, che un tempo era alto cinque metri e mezzo e attraverso il quale gli imperatori e i califfi entravano nell’edificio, è stato in gran parte murato. È rimasta soltanto una bassa apertura di un metro e mezzo. L’intenzione era probabilmente di proteggere meglio la chiesa contro eventuali assalti, ma soprattutto di evitare che si entrasse a cavallo nella casa di Dio. Chi desidera entrare nel luogo della nascita di Gesù, deve chinarsi. Mi sembra che in ciò si manifesti una verità più profonda, dalla quale vogliamo lasciarci toccare in questa Notte santa: se vogliamo trovare il Dio apparso quale bambino, allora dobbiamo scendere dal cavallo della nostra ragione “illuminata”. Dobbiamo deporre le nostre false certezze, la nostra superbia intellettuale, che ci impedisce di percepire la vicinanza di Dio. Dobbiamo seguire il cammino interiore di san Francesco – il cammino verso quell’estrema semplicità esteriore ed interiore che rende il cuore capace di vedere. Dobbiamo chinarci, andare spiritualmente, per così dire, a piedi, per poter entrare attraverso il portale della fede ed incontrare il Dio che è diverso dai nostri pregiudizi e dalle nostre opinioni: il Dio che si nasconde nell’umiltà di un bimbo appena nato. Celebriamo così la liturgia di questa Notte santa e rinunciamo a fissarci su ciò che è materiale, misurabile e toccabile. Lasciamoci rendere semplici da quel Dio che si manifesta al cuore diventato semplice. E preghiamo in quest’ora anzitutto anche per tutti coloro che devono vivere il Natale in povertà, nel dolore, nella condizione di migranti, affinché appaia loro un raggio della bontà di Dio; affinché tocchi loro e noi quella bontà che Dio, con la nascita del suo Figlio nella stalla, ha voluto portare nel mondo. Amen.

 

NATALE DEL SIGNORE OMELIA – MESSA DELLA NOTTE

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NATALE DEL SIGNORE – MESSA DELLA NOTTE

Omelia (25-12-2014)

dom Luigi Gioia

Oggi è nato per voi il Salvatore

Anche noi in questa notte di Natale siamo un popolo nelle tenebre. Nella notte ci incamminiamo per recarci nelle nostre chiese, ed è una cosa inconsueta. Generalmente ci andiamo la domenica alla luce del sole, invece per Natale ci incamminiamo nel cuore della notte. Anche a noi, ad un certo punto, appare la luce – è il momento nel quale intoniamo il Gloria: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Dio ama. Le nostre chiese si riempiono di luce, suonano le campane, un evento gioioso si rende presente. E’ il momento nel quale – come dice la seconda lettura – appare per noi la grazia di Dio. Appare per noi, cioè si manifesta, si fa vedere la grazia di Dio. « Grazia di Dio » vuol dire dono di Dio, ma vuol anche dire bellezza di Dio. Quale dono il Signore ci fa, quale bellezza vediamo? Che apparizione abbiamo? Quando la gloria di Dio appariva nell’Antico Testamento, c’erano lampi, tuoni, suono di tromba. Tutti nascondevano la faccia ed avevano paura, proprio come i pastori del vangelo di questa notte. Qui invece, il segno che ci è dato è triplice: un bambino in una mangiatoia, uno straniero, un povero. Il Signore della storia, questo Dio che può tutto, lo vediamo qui, in questo contesto, apparentemente in balia degli eventi della storia. C’è un censimento che obbliga Maria e Giuseppe a lasciare la sicurezza di Nazareth, per recarsi in un luogo straniero e ostile proprio nel momento in cui Maria deve partorire. I genitori di Gesù si trovano in una situazione di emigrati, si trovano lontani dalla loro patria, e appunto perché stranieri suscitano sospetto, sono messi da parte, sono oggetto di pregiudizi: Da Nazareth può venire qualcosa di buono? Tutto questo succede nel momento di più grande fragilità, di più grande bisogno: proprio quando Maria deve partorire si trova lontana da casa, sola con Giuseppe, rifiutata. In cosa tutto ciò manifesta la gloria, la grazia, la bellezza, il dono di Dio? In cosa, attraverso eventi così tristi, vediamo la bellezza di Dio? Tutto dipende dall’immagine che ci facciamo di Dio. Pensiamo a lui come un Dio potente, come ad un imperatore romano che scomoda il mondo intero per misurare l’ampiezza del suo potere, facendo questo censimento, così da poter contare quanti milioni di sudditi ha e soprattutto può determinare quante tasse far pagare loro? Oppure l’idea che abbiamo di Dio è quella di un Dio di cui avere paura, come i pastori che sono presi da grande timore? O ancora abbiamo l’idea di un giudice inflessibile che, quando pecchiamo, è pronto a punirci? Oppure di un Dio lontano, che è difficile da raggiungere, che forse neanche ci ascolta? Non c’è niente di bello, niente di grazioso in un tale Dio che in realtà è un riflesso dell’uomo, della sua idea di Dio, è un idolo. Dio si è chiesto: « Come posso far percepire agli uomini la mia vera bellezza, cioè il mio amore per loro? Come posso far capire loro che vengo non per giudicarli, ma per salvarli, non per infierire su di loro, ma per curare le loro ferite, non per rimproverare loro le loro colpe, ma per liberarli dalla colpevolezza, dal peso che grava sulle loro spalle? » Dio si è chiesto: « Come posso far capire agli uomini qual è la mia vera bellezza? Aiutarli a superare i loro idoli, l’immagine falsa che si fanno di me? ». Ebbene, quando Dio si è chiesto queste cose, ciò che ha deciso di fare, il modo nel quale ha deciso di farsi vedere, di apparire a noi – il modo nel quale la grazia, la bellezza di Dio ci è apparsa, è stato quello paradossale di un bambino, di un bambino immobilizzato in fasce, in una mangiatoia, pronto a farsi cibo per noi, cioè tutto offerto a noi, dono per noi. E poi, un bambino nella situazione di straniero. Infine, un bambino in una situazione di povertà. Che cosa straordinaria questa! Ce lo siamo ripetuti, lo abbiamo sentito tante volte, ma non lo avremo mai meditato abbastanza: il luogo che Dio ha scelto per farsi uomo è stato quello dell’emarginazione, della povertà. E’ stato un luogo di rifugio, di riparo, perché non era voluto lì dove vivevano gli altri. E’ questo il Signore. E’ questo il Dio potente: sulle sue spalle c’è il potere. Grande sarà il suo potere. Però non è il potere che immaginiamo noi, quello che schiaccia, quello che pesa. E’ il potere di colui che conquista per mezzo della sua debolezza. Che cosa c’è di potente, di bello, in un bambino immobilizzato in fasce in una mangiatoia? C’è di potente il fatto che questa notte, tutti celebriamo la sua nascita. Pensiamoci: 2000 anni fa nasceva un bambino da genitori sconosciuti, in un luogo sconosciuto, emarginato, povero, straniero, e da allora ne celebriamo ogni anno la nascita. C’è di potente il fatto che questo bambino fa rinascere in noi la speranza, il desiderio di cambiare la nostra vita, di ritornare al Signore, il pentimento. E’ spesso questa la notte, l’occasione nella quale tutti o quasi tutti ci confessiamo, ci riconciliamo con Dio o piuttosto ci lasciamo riconciliare con lui. C’è di potente il fatto che vedendo Dio rendersi così indifeso, muto, inerme, siamo spiazzati – la nostra immagine, il nostro idolo di Dio è infranto. C’è di potente che di fronte a un Dio che si fa piccolo in questo modo, non sappiamo, non possiamo, non vogliamo più resistere. Un bambino ispira tenerezza per un po’, ma poi ci si fa l’abitudine. Questo Dio-bambino invece, ha sconvolto la storia e ci commuove, ci seduce, ci scomoda nel cuore della notte, a mezzanotte, ci conquista da duemila anni. Questo bambino con le braccia aperte, questo Dio impotente, come può essere lui il salvatore? Eppure lo è. E’ il salvatore, perché Dio non vince con la forza, ma con la persuasione. Non vince con la violenza, ma con la dolcezza. Non vince con la punizione, ma con il perdono e la misericordia. Questo bambino, questo Dio-bambino ci ripete: « Non abbiate paura. Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò riposo. Imparate da me che sono mite e umile di cuore ». Ci ripete: « Non abbiate paura di chi è in una situazione di povertà. Non abbiate paura dello straniero, dell’immigrato ». La crisi che attraversiamo, manipolata purtroppo da potenti spinte demagogiche, gioca sulle preoccupazioni normali cercando di esasperarle. Vuole farci avere paura di tutto ed in particolare di coloro che sono più inermi e poveri intorno a noi, e spesso proprio dello straniero e dell’immigrato. Vuole che li rigettiamo, che li rifiutiamo. Vuole perpetuare quello che in questa notte è stato fatto subire a Maria, a Giuseppe e a Gesù. Vuole ripetere la storia di duemila anni fa: non c’era posto per lui. Vuole condurci, ancora oggi, a rifiutare di accogliere Cristo: ogni volta che avrete rifiutato il povero, l’immigrato, lo straniero, avete rifiutato me.

NATALE A BETLEMME

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=826

NATALE A BETLEMME

Verso le ore due, terminata la concelebrazione , il clero in processione si incammina verso la GROTTA , dove dal Patriarca viene portato un bellissimo Bambinello che viene deposto nella Mangiatoia, dove rimarrà fino ai Vespri dell`Epifania. Il tutto ha termine con il canto del Te Deum. In questi anni di Intifada la partecipazione dei locali alla festa del Natale, la loro festa per eccellenza, si è limitata ad una santa messa alla Grotta o alle grotte, rifugendo da manifestazioni di solennità esteriore, e per la tristezza della situazione e per le grosse difficoltà economiche dovute alla quasi totale carenza di lavoro.

 Le festività natalizie assumono a BETLEMME, città di Giuda, una particolare importanza perché in essa, come ricordano i vangeli dell`infanzia e una lunga tradizione che risale ai primi secoli, si trova la GROTTA – STALLA  dove ha visto la luce come Uomo, il Figlio di Dio e di Maria, la Seconda Persona della Santissima Trinità. A Betlemme il Natale viene solennizzato per ben tre volte: nei giorni 24-25 dicembre dai cattolici, segnatamente latini, e da tutti i protestanti , il 6-7 gennaio dai greci ortodossi, siriani ortodossi e copto ortodossi…, il 17-18 gennaio dagli armeni ortodossi, che ricordano però l`Epifania. La Celebrazione piu` solenne . sentita e partecipata , è quella del 24-25.12, con  un numero di fedeli e curiosi veramente notevole. Il Natale Latino, èpreparato da una  animata ( la chiesa parrocchiale  di santa Caterina, a fianco della basilicà della natività sempre stracolma di fedeli) e spiritualmente , profondamente vissuta,  NOVENA, che inizia il 15.12, per terminare il 23, e così lasciare libera la giornata del 24 per altre manifestazioni : l`entrata del Patriarca latino e i primi vespri della solennità. Il Patriarca parte da Gerusalemme con gli altri dignitari ecclesiastici del suo seguito verso mezzogiorno per entrare nella porticina della Basilica della Natività intorno alle 14.30. A Mar Elias vicino a Tantur  viene accolto dai tre sindaci cristiani della zona (Betlemme, Beit Giala, Beit Sahour) insieme ad altre personalità cristiane , e con un lunghissimo corteo di macchine  piano piano ci si avvia verso Betlemme.    È l`inizio ufficiale delle celebrazioni. Alla tomba di Rachele altri si uniscono al corteo rispettando una  antica tradizione. Piu` avanti si inseriscono centinaia di scouts ponendosi alla testa del corteo dietro un gruppo di poliziotti palestinesi a cavallo. Lungo il percorso, una volta entrati a Betlemme, una marea di gente, compresi molti musulmani (il Natale a Betlemme è festa anche civile per tutti, voluta dal defunto presidente Arafat). I pellegrini ed altri eventuali stranieri si assiepano nella grande piazza prospiciente la Basilica. Il corteo, nell`ultimo tratto, procede molto lentamente, e all`entrata della piazza, il Patriarca con il seguito lasciano le macchine,  vengono accolti e salutati dalle autorità governative palestinesi , mentre alcuni metri piu` avanti ha inizio la lunga processione  liturgica con seminaristi, religiosi, clero, che si incamminano verso la piccola porta della Basilica, dove il Patriarca in ginocchio  bacia la croce presentatagli dal superiore dei PP.Francescani del convento del Presepio e, subito dopo, attravero la Basilica della Nativita ci si porta nella chiesa di Santa Caterina dove il Patriarca rivestite le vesti liturgiche presiede i primi vespri solenni del Natale. Le funzioni notturne del Natale , con la chiesa di Santa Caterina,  strapiena di fedeli (ci vuole un permesso speciale per entrare e il controllo è molto severo), in genere pellegrini, e con le personalità, comprese le autorità musulmane dell` autonomia palestinese e l`intero corpo consolare di sede a Gerusalemme , schierate nei primi banchi, hanno inizio intorno alle 22,30, con il canto dell`ufficio divino del mattutino, seguito dalla nutrita solennissima concelebrazione, in cui il canto del Gloria  coincide con la mezzanotte. Alla comunione le autorita non cristiane lasciano la Basilica. Verso le ore due, terminata la concelebrazione ,  il clero in processione si incammina verso la GROTTA , dove dal Patriarca viene portato un bellissimo  Bambinello  che viene deposto nella Mangiatoia, dove rimarrà fino ai Vespri dell`Epifania. Il tutto ha termine con il canto del Te Deum. A partire dalla mezzanotte nella GROTTA il Parroco francescano da inizio alla celebrazione di Sante Messe che continua fino alle ore 16.30 del pomeriggio con solo tre  interruzioni : arrivo della processione, messa dei greci ortodossi, messa degli armeni ortodossi, comproprietari con i Latini della Grotta e della Basilica di Sant`Elena. Nella Mattinata, alle ore 09.00,  in Santa Caterina c`è un`altra Concelebrazione , presieduta sempre dal Patriarca, cui partecipano in modo speciale i cattolici di Betlemme…  è un po` la messa grande dei concitadini di Gesù, che affollano inoltre la GROTTA e le Grotte poste intorno a quella del Bambinello, dove ci sono Messe per tutta la notte e la giornata sucessiva. Intorno alle 13 con i PP. Francescani si fa un pellegrinaggio al Campo dei Pastori a Beit Sahour. In questi anni di Intifada la partecipazione dei locali alla festa del Natale, la loro festa per eccellenza, si è limitata ad una santa messa alla Grotta o alle grotte, rifugendo da manifestazioni di solennità esteriore, e per la tristezza della situazione e  per le grosse difficoltà economiche dovute alla quasi totale carenza di lavoro. Anche questo Natale, pur rispettandosi tutte le tradizioni ufficiali, ha detto il sindaco della città, Hanna Nasser, si cercherà di evitare lo sfarzo, essendo il popolo ancora nel periodo dei quaranta giorni di lutto ufficiale per la morte di Arafat . Inoltre sono ancora pesanti le difficoltà economiche. Che il Divino Bambino doni la sua Pace alla città natale, a noi e al mondo intero! A tutti auguri d’ogni bene da Betlemme  e un memento orante dalla Grotta.    (Teologo Borèl) Dicembre 2004 – autore: don Giovanni Laconi

Publié dans:NATALE 2015, TERRA SANTA (LA) |on 21 décembre, 2015 |Pas de commentaires »

CELEBRARE L’AVVENTO NON SIGNIFICA ALTRO CHE PARLARE CON DIO COME HA FATTO GIOBBE (DA J. RATZINGER)

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CELEBRARE L’AVVENTO NON SIGNIFICA ALTRO CHE PARLARE CON DIO COME HA FATTO GIOBBE (DA J. RATZINGER)

Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /05 /2013 -

da J. Ratzinger, Tempo di Avvento, Queriniana, Brescia, 2005, pp. 7-14

In queste settimane la chiesa, e noi con essa, celebriamo l’Avvento. Se cerchiamo di ripensare a quanto nella nostra infanzia abbiamo imparato a proposito dell’Avvento e del suo senso, ci ricorderemo che ci fu detto che la corona dell’Avvento e le sue luci ci rammentano i millenni [forse le centinaia di millenni] della storia dell’umanità prima di Gesù Cristo. Tale corona rammenterebbe a noi e alla chiesa il tempo in cui un’umanità irredenta aspettava la redenzione. Ci rammenterebbe le tenebre di una storia ancora irredenta, in cui solo lentamente si accesero le luci della speranza, finché alla fine Cristo, la luce del mondo, venne e liberò il mondo dalle tenebre della mancanza di redenzione.
Inoltre ci ricorderemo d’aver imparato che questi millenni prima di Cristo sarebbero stati i tempi della perdizione provocata dalla caduta nel peccato, mentre abbiamo imparato a chiamare i secoli successivi alla nascita del Signore “anni salutis reparatae”, anni della salvezza ristabilita. Infine ricorderemo che ci fu detto che durante l’Avvento la chiesa non riflette soltanto sul passato, nel quale per l’umanità l’Avvento fu un tempo di mancanza di redenzione e di attesa, bensì guarda contemporaneamente al di là di sé alla schiera di coloro che non sono ancora battezzati, di quelli per i quali e ancor sempre tempo di ‘avvento’, perché essi attendono e vivono ancor sempre nell’oscurità della mancanza di redenzione.
Quando, come uomini del nostro secolo e forti delle esperienze del nostro secolo, ripensiamo a queste affermazioni imparate da bambini, ben difficilmente riusciamo ancora ad accettarle in misura piena. Le parole che parlano degli anni della salvezza successivi a Cristo, contrapposti a quelli antecedenti la sua nascita, non ci muoiono sulle labbra, anzi, non suonano come un’amara ironia, se pensiamo a date come quelle del 1914, 1918, 1933, 1939, 1945, a date che delimitano il periodo di guerre mondiali in cui milioni di uomini persero la vita spesso in circostanze terribili, a date che risvegliano il ricordo di atrocità, di cui l’umanità prima non sarebbe stata capace già per motivi puramente tecnici? Inoltre tra di esse c’è anche la data che ricorda l’inizio di un regime, che aveva portato a una feroce perfezione lo sterminio di massa, nonché la data che ricorda l’anno in cui la prima bomba atomica fu fatta brillare su una città popolata da creature umane e che con la sua luminosità accecante aveva dato inizio a una possibilità del tutto nuova di tenebre per il mondo.
Quando riflettiamo su queste cose, non riusciamo semplicemente più a suddividere la storia in tempi della perdizione e in tempi della salvezza. Se poi allarghiamo il nostro sguardo e prendiamo in considerazione i disastri e i guai che i cristiani [quindi persone che diciamo uomini ‘redenti’] hanno combinato nel nostro secolo e nei secoli precedenti, non siamo più capaci di suddividere i popoli del mondo in popoli che vivono nella salvezza e in popoli che vivono nella mancanza di salvezza. Se siamo onesti, non dipingiamo più un quadro in bianco e nero, che divide la storia e la cartina geografica in zone della salvezza e in zone della perdizione. Tutta la storia e tutta l’umanità ci appaiono piuttosto come una massa grigia, in cui brillano in continuazione lampi di un bene mai del tutto sopprimibile, in cui gli uomini cercano in continuazione di migliorarsi, ma in cui si verificano anche in continuazione cadute in tutte le forme spaventose del male.
E così nel corso di tale riflessione vediamo che l’Avvento non è [come forse si poteva dire in tempi passati] una sacra rappresentazione della liturgia, nella quale questa ci fa, per così dire, ripercorrere ancora una volta le vie del passato e ci mostra ancora una volta in maniera plastica com’era una volta la situazione, affinché possiamo adesso gustare con tanta maggior gioia e felicità la salvezza odierna.
Forse dovremo piuttosto ammettere che l’Avvento non è soltanto un ricordo e una rappresentazione del passato, bensì anche un nostro presente e una nostra realtà: nel corso di queste settimane la chiesa non tiene una sacra rappresentazione, ma ci indica quel che costituisce la verità anche della nostra esistenza cristiana. Il senso del tempo dell’Avvento nell’anno liturgico è anche quello di risvegliare in noi questa coscienza. Esso ci deve spingere a prendere posizione di fronte a questi dati di fatto, ad ammettere la grande mancanza di redenzione che non aleggiava solo una volta e che forse non aleggia ancora soltanto da qualche parte sul mondo, ma che è una realtà pure tra di noi e in mezzo alla chiesa.
Mi sembra che qui siamo non di rado vittime di un certo pericolo: non vogliamo vedere queste cose; viviamo per così dire con le luci abbassate, perché temiamo che la nostra fede non sia in grado di sopportare la luce accecante della realtà. Perciò ci schermiamo nei suoi confronti e la espelliamo dalla coscienza, per non cadere.
Ma una fede, che riconosce solo una metà della realtà o non la riconosce affatto più, è in fondo già una forma di rifiuto della fede o perlomeno una forma molto profonda di pusillanimità, la quale teme che la fede non sia in grado di guardare in faccia la realtà. Essa non ha il coraggio di ammettere di essere la forza che vince il mondo. Credere veramente significa invece guardare senza timore e a viso aperto tutta la realtà, anche se tale tutto depone contro l’immagine che per qualche motivo ci siamo fatti della fede. L’esistenza cristiana comporta perciò anche che osiamo parlare, nel bel mezzo della tentazione della nostra oscurità, come l’uomo Giobbe con Dio. Comporta che non pensiamo di poter presentare a Dio soltanto la metà della nostra esistenza e di dovergli risparmiare il resto, perché forse lo potremmo così infastidire.
No, proprio davanti a lui possiamo e dobbiamo presentare molto sinceramente tutto il peso della nostra esistenza. Dimentichiamo un po’ troppo che nel libro di Giobbe, tramandatoci nella Sacra Scrittura, alla fine del dramma Dio dichiara giusto Giobbe, che gli aveva mosso le accuse più gravi, mentre disapprova i suoi amici come gente che parla in maniera sbagliata, quegli amici che avevano difeso Dio e che avevano trovato una qualche bella risposta e spiegazione a tutto.
Celebrare l’Avvento non significa altro che parlare con Dio come ha fatto Giobbe. Significa guardare francamente in faccia tutta la realtà e tutto il peso della nostra esistenza cristiana e presentarli davanti al volto giudicante e salvante di Dio, e ciò anche quando non abbiamo come Giobbe alcuna risposta da dare a essi, bensì non ci rimane altro che lasciare che sia Dio stesso a dare la risposta e dirgli come siamo senza risposte nella nostra oscurità.

SEMPLICITÀ DEL NATALE – CARLO MARIA MARTINI SJ

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SEMPLICITÀ DEL NATALE – CARLO MARIA MARTINI SJ

«Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono». Una meditazione da Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini

del cardinale Carlo Maria Martini sj

Gerusalemme, dicembre 2006

Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono. È composto magari di molte figurine disparate, di diversa grandezza e misura: ma l’essenziale è che tutti in qualche modo tendono e guardano allo stesso punto, alla capanna dove Maria e Giuseppe, con il bue e l’asino, attendono la nascita di Gesù o lo adorano nei primi momenti dopo la sua nascita. Come il presepio, tutto il mistero del Natale, della nascita di Gesù a Betlemme, è estremamente semplice, e per questo è accompagnato dalla povertà e dalla gioia. Non è facile spiegare razionalmente come le tre cose stiano insieme. Ma cerchiamo di provarci. Il mistero del Natale è certamente un mistero di povertà e di impoverimento: Cristo, da ricco che era, si fece povero per noi, per farsi simile a noi, per amore nostro e soprattutto per amore dei più poveri. Tutto qui è povero, semplice e umile, e per questo non è difficile da comprendere per chi ha l’occhio della fede: la fede del bambino, a cui appartiene il Regno dei cieli. Come ha detto Gesù: «Se il tuo occhio è semplice anche il tuo corpo è tutto nella luce» (Mt 6, 22). La semplicità della fede illumina tutta la vita e ci fa accettare con docilità le grandi cose di Dio. La fede nasce dall’amore, è la nuova capacità di sguardo che viene dal sentirsi molto amati da Dio. Il frutto di tutto ciò si ha nella parola dell’evangelista Giovanni nella sua prima lettera, quando descrive quella che è stata l’esperienza di Maria e di Giuseppe nel presepio: «Abbiamo veduto con i nostri occhi, abbiamo contemplato, toccato con le nostre mani il Verbo della vita, perché la vita si è fatta visibile». E tutto questo è avvenuto perché la nostra gioia sia perfetta. Tutto è dunque per la nostra gioia, per una gioia piena (cfr. 1Gv 1, 1-3). Questa gioia non era solo dei contemporanei di Gesù, ma è anche nostra: anche oggi questo Verbo della vita si rende visibile e tangibile nella nostra vita quotidiana, nel prossimo da amare, nella via della Croce, nella preghiera e nell’eucaristia, in particolare nell’eucaristia di Natale, e ci riempie di gioia. Presepe, Luca della Robbia il Giovane, XVI secolo, convento domenicano di Santa Maria Maddalena, Caldine, Firenze Presepe, Luca della Robbia il Giovane, XVI secolo, convento domenicano di Santa Maria Maddalena, Caldine, Firenze Povertà, semplicità, gioia: sono parole semplicissime, elementari, ma di cui abbiamo paura e quasi vergogna. Ci sembra che la gioia perfetta non vada bene, perché sono sempre tante le cose per cui preoccuparsi, sono tante le situazioni sbagliate, ingiuste. Come potremmo di fronte a ciò godere di vera gioia? Ma anche la semplicità non va bene, perché sono anche tante le cose di cui diffidare, le cose complicate, difficili da capire, sono tanti gli enigmi della vita: come potremmo di fronte a tutto ciò godere del dono della semplicità? E la povertà non è forse una condizione da combattere e da estirpare dalla terra? Ma gioia profonda non vuol dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame del mondo, per le tante sofferenze delle persone. Vuol dire semplicemente fidarsi di Dio, sapere che Dio sa tutte queste cose, che ha cura di noi e che susciterà in noi e negli altri quei doni che la storia richiede. Ed è così che nasce lo spirito di povertà: nel fidarsi in tutto di Dio. In Lui noi possiamo godere di una gioia piena, perché abbiamo toccato il Verbo della vita che risana da ogni malattia, povertà, ingiustizia, morte. Se tutto è in qualche modo così semplice, deve poter essere semplice anche il crederci. Sentiamo spesso dire oggi che credere è difficile in un mondo così, che la fede rischia di naufragare nel mare dell’indifferenza e del relativismo odierno o di essere emarginata dai grandi discorsi scientifici sull’uomo e sul cosmo. Non si può negare che può essere oggi più laborioso mostrare con argomenti razionali la possibilità di credere, in un mondo così. Ma dobbiamo ricordare la parola di san Paolo: per credere bastano il cuore e la bocca. Quando il cuore, mosso dal tocco dello Spirito datoci in abbondanza (cfr. Rm 5, 5; Gv 3, 34), crede che Dio ha risuscitato dai morti Gesù e la bocca lo proclama, siamo salvi (cfr. Rm 10, 8-12). Tutte le complicazioni, tutti gli approfondimenti che talora ci confondono, tutto ciò che è stato sovrimposto attraverso il pensiero orientale e occidentale, attraverso la teologia e la filosofia, sono riflessioni buone, ma non ci devono far dimenticare che credere è in fondo un gesto semplice, un gesto del cuore che si butta e una parola che proclama: Gesù è risorto, Gesù è Signore! È un atto talmente semplice che non distingue fra dotti e ignoranti, tra persone che hanno compiuto un cammino di purificazione o che devono ancora compierlo. Il Signore è di tutti, è ricco di amore verso tutti coloro che lo invocano. Giustamente noi cerchiamo di approfondire il mistero della fede, cerchiamo di leggerlo in tutte le pagine della Scrittura, lo abbiamo declinato lungo vie talora tortuose. Ma la fede, ripeto, è semplice, è un atto di abbandono, di fiducia, e dobbiamo ritrovare questa semplicità. Essa illumina tutte le cose e permette di affrontare la complessità della vita senza troppe preoccupazioni o paure. Per credere non si richiede molto. Ci vuole il dono dello Spirito Santo che egli non fa mancare ai nostri cuori e da parte nostra occorre fare attenzione a pochi segni ben collocati. Guardiamo a ciò che successe accanto al sepolcro vuoto di Gesù: Maria Maddalena diceva con affanno e pianto: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno posto». Pietro entra nel sepolcro, vede le bende e il sudario piegato in un luogo a parte e ancora non capisce. Capisce però l’altro discepolo, più intuitivo e semplice, quello che Gesù amava. Egli «vide e credette», riferisce il Vangelo, perché i piccoli segni presenti nel sepolcro fecero nascere in lui la certezza che il Signore era risorto. Non ha avuto bisogno di un trattato di teologia, non ha scritto migliaia di pagine sull’evento. Ha visto piccoli segni, piccoli come quelli del presepio, ma è stato sufficiente perché il suo cuore era già preparato a comprendere il mistero dell’amore infinito di Dio. Talora noi siamo alla ricerca di segni complicati, e va anche bene. Ma può bastare poco per credere se il cuore è disponibile e se si dà ascolto allo Spirito che infonde fiducia e gioia nel credere, senso di soddisfazione e di pienezza. Se siamo così semplici e disponibili alla grazia, entriamo nel numero di coloro cui è donato di proclamare quelle verità essenziali che illuminano l’esistenza e ci permettono di toccare con mano il mistero manifestato dal Verbo fatto carne. Sperimentiamo come la gioia perfetta è possibile anche in questo mondo, nonostante le sofferenze e i dolori di ogni giorno.

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