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SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO – BARTOLOMEO I E DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

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CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

OMELIE DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I E DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

Domenica, 29 giugno 2008

INTRODUZIONE DEL SANTO PADRE ALL’OMELIA DEL PATRIARCA
Fratelli e Sorelle,
la grande festa dei Santi Pietro e Paolo, Patroni di questa Chiesa di Roma e posti a fondamento, insieme agli altri Apostoli, della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, ci porta ogni anno la gradita presenza di una Delegazione fraterna della Chiesa di Costantinopoli, che quest’anno, per la coincidenza con l’apertura dell’ »Anno Paolino », è guidata dallo stesso Patriarca, Sua Santità Bartolomeo I. A lui rivolgo il mio cordiale saluto, mentre esprimo la gioia di avere ancora una volta la felice opportunità di scambiare con lui il bacio della pace, nella comune speranza di vedere avvicinarsi il giorno dell’ »unitatis redintegratio », il giorno della piena comunione tra noi.
Saluto pure i membri della Delegazione patriarcale, come anche i Rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, che ci onorano della loro presenza, offrendo con ciò un segno della volontà di intensificare il cammino verso la piena unità tra i discepoli di Cristo. Ci disponiamo ora ad ascoltare le riflessioni di Sua Santità il Patriarca Ecumenico, parole che vogliamo accogliere con il cuore aperto, perché ci vengono dal nostro Fratello amato nel Signore.

OMELIA DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I
Santità,
avendo ancora viva la gioia e l’emozione della personale e benedetta partecipazione di Vostra Santità alla Festa Patronale di Costantinopoli, nella memoria di San Andrea Apostolo, il Primo Chiamato, nel novembre del 2006, ci siamo mossi « con passo esultante », dal Fanar della Nuova Roma, per venire presso di Voi, per partecipare alla Vostra gioia nella Festa Patronale della Antica Roma. E siamo giunti presso di Voi « con la pienezza della Benedizione del Vangelo di Cristo » (Rom. 15,29), restituendo l’onore e l’amore, festeggiando insieme col nostro prediletto Fratello nella terra d’Occidente, « i sicuri e ispirati araldi, i Corifei dei Discepoli del Signore », i Santi Apostoli Pietro, fratello di Andrea, e Paolo – queste due immense, centrali colonne elevate verso il cielo, di tutta quanta la Chiesa, le quali – in questa storica città, – hanno dato anche l’ultima lampante confessione di Cristo e qui hanno reso la loro anima al Signore con il martirio, uno attraverso la croce e l’altro per mezzo della spada, santificandola.
Salutiamo quindi, con profondissimo e devoto amore, da parte della Santissima Chiesa di Costantinopoli e dei suoi figli sparsi nel mondo, la Vostra Santità, desiderato Fratello, augurando dal cuore « a quanti sono in Roma amati da Dio » (Rom. 1,7), di godere buona salute, pace, prosperità, e di progredire giorno e notte verso la salvezza « ferventi nello spirito, servendo il Signore, lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera » (Rom. 12, 11-12).
In entrambe le Chiese, Santità, onoriamo debitamente e veneriamo tanto colui che ha dato una confessione salvifica della Divinità di Cristo, Pietro, quanto il vaso di elezione, Paolo, il quale ha proclamato questa confessione e fede fino ai confini dell’universo, in mezzo alle più inimmaginabili difficoltà e pericoli. Festeggiamo la loro memoria, dall’anno di salvezza 258 in avanti, il 29 giugno, in Occidente e in Oriente, dove nei giorni che precedono, secondo la tradizione della Chiesa antica, in Oriente ci siamo preparati anche per mezzo del digiuno, osservato in loro onore. Per sottolineare maggiormente l’uguale loro valore, ma anche per il loro peso nella Chiesa e nella sua opera rigeneratrice e salvifica durante i secoli, l’Oriente li onora abitualmente anche attraverso un’icona comune, nella quale o tengono nelle loro sante mani un piccolo veliero, che simboleggia la Chiesa, o si abbracciano l’un l’altro e si scambiano il bacio in Cristo.
Proprio questo bacio siamo venuti a scambiare con Voi, Santità, sottolineando l’ardente desiderio in Cristo e l’amore, cose queste che ci toccano da vicino gli uni gli altri.
Il Dialogo teologico tra le nostre Chiese « in fede, verità e amore », grazie all’aiuto divino, va avanti, al di là delle notevoli difficoltà che sussistono ed alle note problematiche. Desideriamo veramente e preghiamo assai per questo; che queste difficoltà siano superate e che i problemi vengano meno, il più velocemente possibile, per raggiungere l’oggetto del desiderio finale, a gloria di Dio.
Tale desiderio sappiamo bene essere anche il Vostro, come siamo anche certi che Vostra Santità non tralascerà nulla lavorando di persona, assieme ai suoi illustri collaboratori attraverso un perfetto appianamento della via, verso un positivo completamento a Dio piacente, dei lavori del Dialogo.
Santità, abbiamo proclamato l’anno 2008, « Anno dell’Apostolo Paolo », così come anche Voi fate del giorno odierno fino all’anno prossimo, nel compimento dei duemila anni dalla nascita del Grande Apostolo. Nell’ambito delle relative manifestazioni per l’anniversario, in cui abbiamo pure venerato il preciso luogo del Suo Martirio, programmiamo tra le altre cose un sacro pellegrinaggio ad alcuni monumenti della attività evangelica dell’Apostolo in Oriente, come Efeso, Perge, ed altre città dell’Asia Minore, ma anche Rodi e Creta, alla località chiamata « Buoni Porti ». Siate sicuro, Santità, che in questo sacro tragitto, sarete presente anche Voi, camminando con noi in spirito, e che ciascun luogo eleveremo un’ardente preghiera per Voi e per i nostri fratelli della venerabile Chiesa Romano-Cattolica, rivolgendo una forte supplica e intercessione del divino Paolo al Signore per Voi.
E ora, venerando i patimenti e la croce di Pietro e abbracciando la catena e le stigmate di Paolo, onorando la confessione e il martirio e la venerata morte di entrambi per il Nome del Signore, che porta veramente alla Vita, glorifichiamo il Dio Tre volte Santo e lo supplichiamo, affinché per l’intercessione dei suoi Protocorifei Apostoli, doni a noi e a tutti i figli ovunque nel mondo della Chiesa Ortodossa e Romano-Cattolica, quaggiù « l’unione della fede e la comunione dello Spirito Santo » nel « legame della pace » e lassù, invece, la vita eterna e la grande misericordia. Amen.

OMELIA DEL SANTO PADRE
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle!
Fin dai tempi più antichi la Chiesa di Roma celebra la solennità dei grandi Apostoli Pietro e Paolo come unica festa nello stesso giorno, il 29 giugno. Attraverso il loro martirio, essi sono diventati fratelli; insieme sono i fondatori della nuova Roma cristiana. Come tali li canta l’inno dei secondi Vespri che risale a Paolino di Aquileia (+ 806): «O Roma felix – Roma felice, adornata di porpora dal sangue prezioso di Principi tanto grandi. Tu superi ogni bellezza del mondo, non per merito tuo, ma per il merito dei santi che hai ucciso con la spada sanguinante». Il sangue dei martiri non invoca vendetta, ma riconcilia. Non si presenta come accusa, ma come «luce aurea», secondo le parole dell’inno dei primi Vespri: si presenta come forza dell’amore che supera l’odio e la violenza, fondando così una nuova città, una nuova comunità. Per il loro martirio, essi – Pietro e Paolo – fanno adesso parte di Roma: mediante il martirio anche Pietro è diventato cittadino romano per sempre. Mediante il martirio, mediante la loro fede e il loro amore, i due Apostoli indicano dove sta la vera speranza, e sono fondatori di un nuovo genere di città, che deve formarsi sempre di nuovo in mezzo alla vecchia città umana, la quale resta minacciata dalle forze contrarie del peccato e dell’egoismo degli uomini.
In virtù del loro martirio, Pietro e Paolo sono in reciproco rapporto per sempre. Un’immagine preferita dell’iconografia cristiana è l’abbraccio dei due Apostoli in cammino verso il martirio. Possiamo dire: il loro stesso martirio, nel più profondo, è la realizzazione di un abbraccio fraterno. Essi muoiono per l’unico Cristo e, nella testimonianza per la quale danno la vita, sono una cosa sola. Negli scritti del Nuovo Testamento possiamo, per così dire, seguire lo sviluppo del loro abbraccio, questo fare unità nella testimonianza e nella missione. Tutto inizia quando Paolo, tre anni dopo la sua conversione, va a Gerusalemme, «per consultare Cefa» (Gal 1,18). Quattordici anni dopo, egli sale di nuovo a Gerusalemme, per esporre «alle persone più ragguardevoli» il Vangelo che egli predica, per non trovarsi nel rischio «di correre o di aver corso invano» (Gal 2,1s). Alla fine di questo incontro, Giacomo, Cefa e Giovanni gli danno la destra, confermando così la comunione che li congiunge nell’unico Vangelo di Gesù Cristo (Gal 2,9). Un bel segno di questo interiore abbraccio in crescita, che si sviluppa nonostante la diversità dei temperamenti e dei compiti, lo trovo nel fatto che i collaboratori menzionati alla fine della Prima Lettera di san Pietro – Silvano e Marco – sono collaboratori altrettanto stretti di san Paolo. Nella comunanza dei collaboratori si rende visibile in modo molto concreto la comunione dell’unica Chiesa, l’abbraccio dei grandi Apostoli.
Almeno due volte Pietro e Paolo si sono incontrati a Gerusalemme; alla fine il percorso di ambedue sbocca a Roma. Perché? È questo forse qualcosa di più di un puro caso? Vi è contenuto forse un messaggio duraturo? Paolo arrivò a Roma come prigioniero, ma allo stesso tempo come cittadino romano che, dopo l’arresto in Gerusalemme, proprio in quanto tale aveva fatto ricorso all’imperatore, al cui tribunale fu portato. Ma in un senso ancora più profondo, Paolo è venuto volontariamente a Roma. Mediante la più importante delle sue Lettere si era già avvicinato interiormente a questa città: alla Chiesa in Roma aveva indirizzato lo scritto che più di ogni altro è la sintesi dell’intero suo annuncio e della sua fede. Nel saluto iniziale della Lettera dice che della fede dei cristiani di Roma parla tutto il mondo e che questa fede, quindi, è nota ovunque come esemplare (Rm 1,8). E scrive poi: «Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi, ma finora ne sono stato impedito» (1,13). Alla fine della Lettera riprende questo tema parlando ora del suo progetto di andare fino in Spagna. «Quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza» (15,24). «E so che, giungendo presso di voi, verrò con la pienezza della benedizione di Cristo» (15,29). Sono due cose che qui si rendono evidenti: Roma è per Paolo una tappa sulla via verso la Spagna, cioè – secondo il suo concetto del mondo – verso il lembo estremo della terra. Considera sua missione la realizzazione del compito ricevuto da Cristo di portare il Vangelo sino agli estremi confini del mondo. In questo percorso ci sta Roma. Mentre di solito Paolo va soltanto nei luoghi in cui il Vangelo non è ancora annunciato, Roma costituisce un’eccezione. Lì egli trova una Chiesa della cui fede parla il mondo. L’andare a Roma fa parte dell’universalità della sua missione come inviato a tutti i popoli. La via verso Roma, che già prima del suo viaggio esterno egli ha percorso interiormente con la sua Lettera, è parte integrante del suo compito di portare il Vangelo a tutte le genti – di fondare la Chiesa cattolica, universale. L’andare a Roma è per lui espressione della cattolicità della sua missione. Roma deve rendere visibile la fede a tutto il mondo, deve essere il luogo dell’incontro nell’unica fede.
Ma perché Pietro è andato a Roma? Su ciò il Nuovo Testamento non si pronuncia in modo diretto. Ci dà tuttavia qualche indicazione. Il Vangelo di san Marco, che possiamo considerare un riflesso della predicazione di san Pietro, è intimamente orientato verso il momento in cui il centurione romano, di fronte alla morte in croce di Gesù Cristo, dice: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Presso la Croce si svela il mistero di Gesù Cristo. Sotto la Croce nasce la Chiesa delle genti: il centurione del plotone romano di esecuzione riconosce in Cristo il Figlio di Dio. Gli Atti degli Apostoli descrivono come tappa decisiva per l’ingresso del Vangelo nel mondo dei pagani l’episodio di Cornelio, il centurione della coorte italica. Dietro un comando di Dio, egli manda qualcuno a prendere Pietro e questi, seguendo pure lui un ordine divino, va nella casa del centurione e predica. Mentre sta parlando, lo Spirito Santo scende sulla comunità domestica radunata e Pietro dice: «Forse che si può proibire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?» (At 10,47). Così, nel Concilio degli Apostoli, Pietro diventa l’intercessore per la Chiesa dei pagani i quali non hanno bisogno della Legge, perché Dio ha «purificato i loro cuori con la fede» (At 15,9). Certo, nella Lettera ai Galati Paolo dice che Dio ha dato a Pietro la forza per il ministero apostolico tra i circoncisi, a lui, Paolo, invece per il ministero tra i pagani (2,8). Ma questa assegnazione poteva essere in vigore soltanto finché Pietro rimaneva con i Dodici a Gerusalemme nella speranza che tutto Israele aderisse a Cristo. Di fronte all’ulteriore sviluppo, i Dodici riconobbero l’ora in cui anch’essi dovevano incamminarsi verso il mondo intero, per annunciargli il Vangelo. Pietro che, secondo l’ordine di Dio, per primo aveva aperto la porta ai pagani lascia ora la presidenza della Chiesa cristiano-giudaica a Giacomo il minore, per dedicarsi alla sua vera missione: al ministero per l’unità dell’unica Chiesa di Dio formata da giudei e pagani. Il desiderio di san Paolo di andare a Roma sottolinea – come abbiamo visto – tra le caratteristiche della Chiesa soprattutto la parola «catholica». Il cammino di san Pietro verso Roma, come rappresentante dei popoli del mondo, sta soprattutto sotto la parola «una»: il suo compito è di creare l’unità della catholica, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli. Ed è questa la missione permanente di Pietro: far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura o con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore. Grazie alla tecnica dappertutto uguale, grazie alla rete mondiale di informazioni, come anche grazie al collegamento di interessi comuni, esistono oggi nel mondo modi nuovi di unità, che però fanno esplodere anche nuovi contrasti e danno nuovo impeto a quelli vecchi. In mezzo a questa unità esterna, basata sulle cose materiali, abbiamo tanto più bisogno dell’unità interiore, che proviene dalla pace di Dio – unità di tutti coloro che mediante Gesù Cristo sono diventati fratelli e sorelle. È questa la missione permanente di Pietro e anche il compito particolare affidato alla Chiesa di Roma.
Cari Confratelli nell’Episcopato! Vorrei ora rivolgermi a voi che siete venuti a Roma per ricevere il pallio come simbolo della vostra dignità e della vostra responsabilità di Arcivescovi nella Chiesa di Gesù Cristo. Il pallio è stato tessuto con la lana di pecore, che il Vescovo di Roma benedice ogni anno nella festa della Cattedra di Pietro, mettendole con ciò, per così dire, da parte affinché diventino un simbolo per il gregge di Cristo, che voi presiedete. Quando prendiamo il pallio sulle spalle, quel gesto ci ricorda il Pastore che prende sulle spalle la pecorella smarrita, che da sola non trova più la via verso casa, e la riporta all’ovile. I Padri della Chiesa hanno visto in questa pecorella l’immagine di tutta l’umanità, dell’intera natura umana, che si è persa e non trova più la via verso casa. Il Pastore che la riporta a casa può essere soltanto il Logos, la Parola eterna di Dio stesso. Nell’incarnazione Egli ha preso tutti noi – la pecorella «uomo» – sulle sue spalle. Egli, la Parola eterna, il vero Pastore dell’umanità, ci porta; nella sua umanità porta ciascuno di noi sulle sue spalle. Sulla via della Croce ci ha portato a casa, ci porta a casa. Ma Egli vuole avere anche degli uomini che «portino» insieme con Lui. Essere Pastore nella Chiesa di Cristo significa partecipare a questo compito, del quale il pallio fa memoria. Quando lo indossiamo, Egli ci chiede: «Porti, insieme con me, anche tu coloro che mi appartengono? Li porti verso di me, verso Gesù Cristo?» E allora ci viene in mente il racconto dell’invio di Pietro da parte del Risorto. Il Cristo risorto collega l’ordine: «Pasci le mie pecorelle» inscindibilmente con la domanda: «Mi ami, mi ami tu più di costoro?». Ogni volta che indossiamo il pallio del Pastore del gregge di Cristo dovremmo sentire questa domanda: «Mi ami tu?» e dovremmo lasciarci interrogare circa il di più d’amore che Egli si aspetta dal Pastore.
Così il pallio diventa simbolo del nostro amore per il Pastore Cristo e del nostro amare insieme con Lui – diventa simbolo della chiamata ad amare gli uomini come Lui, insieme con Lui: quelli che sono in ricerca, che hanno delle domande, quelli che sono sicuri di sé e gli umili, i semplici e i grandi; diventa simbolo della chiamata ad amare tutti loro con la forza di Cristo e in vista di Cristo, affinché possano trovare Lui e in Lui se stessi. Ma il pallio, che ricevete «dalla» tomba di san Pietro, ha ancora un secondo significato, inscindibilmente connesso col primo. Per comprenderlo può esserci di aiuto una parola della Prima Lettera di san Pietro. Nella sua esortazione ai presbiteri di pascere il gregge in modo giusto, egli – san Pietro – qualifica se stesso synpresbýteros – con-presbitero (5,1). Questa formula contiene implicitamente un’affermazione del principio della successione apostolica: i Pastori che si succedono sono Pastori come lui, lo sono insieme con lui, appartengono al comune ministero dei Pastori della Chiesa di Gesù Cristo, un ministero che continua in loro. Ma questo « con » ha ancora due altri significati. Esprime anche la realtà che indichiamo oggi con la parola «collegialità» dei Vescovi. Tutti noi siamo con-presbiteri. Nessuno è Pastore da solo. Stiamo nella successione degli Apostoli solo grazie all’essere nella comunione del collegio, nel quale trova la sua continuazione il collegio degli Apostoli. La comunione, il « noi » dei Pastori fa parte dell’essere Pastori, perché il gregge è uno solo, l’unica Chiesa di Gesù Cristo. E infine, questo « con » rimanda anche alla comunione con Pietro e col suo successore come garanzia dell’unità. Così il pallio ci parla della cattolicità della Chiesa, della comunione universale di Pastore e gregge. E ci rimanda all’apostolicità: alla comunione con la fede degli Apostoli, sulla quale è fondata la Chiesa. Ci parla della ecclesia una, catholica, apostolica e naturalmente, legandoci a Cristo, ci parla proprio anche del fatto che la Chiesa è sancta e che il nostro operare è un servizio alla sua santità.
Ciò mi fa ritornare, infine, ancora a san Paolo e alla sua missione. Egli ha espresso l’essenziale della sua missione, come pure la ragione più profonda del suo desiderio di andare a Roma, nel capitolo 15 della Lettera ai Romani in una frase straordinariamente bella. Egli si sa chiamato «a servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti, amministrando da sacerdote il Vangelo di Dio, perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,6). Solo in questo versetto Paolo usa la parola «hierourgein» – amministrare da sacerdote – insieme con «leitourgós» – liturgo: egli parla della liturgia cosmica, in cui il mondo stesso degli uomini deve diventare adorazione di Dio, oblazione nello Spirito Santo. Quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo. È questo l’obiettivo ultimo della missione apostolica di san Paolo e della nostra missione. A tale ministero il Signore ci chiama. Preghiamo in questa ora, affinché Egli ci aiuti a svolgerlo in modo giusto, a diventare veri liturghi di Gesù Cristo. Amen.

 

PAPA BENEDETTO: OMELIA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO (2009)

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SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Lunedì, 29 giugno 2009

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle!

A tutti rivolgo il mio saluto cordiale con le parole dell’Apostolo accanto alla cui tomba ci troviamo: “A voi grazia e pace in abbondanza” (1Pt 1, 2). Saluto, in particolare, i Membri della Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e i numerosi Metropoliti che oggi ricevono il Pallio. Nella colletta di questa giornata solenne chiediamo al Signore “che la Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede”. La richiesta che rivolgiamo a Dio interpella al contempo noi stessi: seguiamo noi l’insegnamenti dei grandi Apostoli fondatori? Li conosciamo veramente? Nell’Anno Paolino che si è ieri concluso abbiamo cercato di ascoltare in modo nuovo lui, il “maestro delle genti”, e di apprendere così nuovamente l’alfabeto della fede. Abbiamo cercato di riconoscere con Paolo e mediante Paolo il Cristo e di trovare così la via per la retta vita cristiana. Nel Canone del Nuovo Testamento, oltre alle Lettere di san Paolo, ci sono anche due Lettere sotto il nome di san Pietro. La prima di esse si conclude esplicitamente con un saluto da Roma, che però appare sotto l’apocalittico nome di copertura di Babilonia: “Vi saluta la co-eletta che vive in Babilonia…” (5, 13). Chiamando la Chiesa di Roma la “co-eletta”, la colloca nella grande comunità di tutte le Chiese locali – nella comunità di tutti coloro che Dio ha adunato, affinché nella “Babilonia” del tempo di questo mondo costruiscano il suo Popolo e facciano entrare Dio nella storia. La Prima Lettera di san Pietro è un saluto rivolto da Roma all’intera cristianità di tutti i tempi. Essa ci invita ad ascoltare “l’insegnamento degli Apostoli”, che ci indica la via verso la vita.
Questa Lettera è un testo ricchissimo, che proviene dal cuore e tocca il cuore. Il suo centro è – come potrebbe essere diversamente? – la figura di Cristo, che viene illustrato come Colui che soffre e che ama, come Crocifisso e Risorto: “Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta … Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1Pt 2, 23s). Partendo dal centro che è Cristo, la Lettera costituisce poi anche un’introduzione ai fondamentali Sacramenti cristiani del Battesimo e dell’Eucaristia e un discorso rivolto ai sacerdoti, nel quale Pietro si qualifica come co-presbitero con loro. Egli parla ai Pastori di tutte le generazioni come colui che personalmente è stato incaricato dal Signore di pascere le sue pecorelle e così ha ricevuto in modo particolare un mandato sacerdotale. Che cosa, dunque, ci dice san Pietro – proprio nell’Anno sacerdotale – circa il compito del sacerdote? Innanzitutto, egli comprende il ministero sacerdotale totalmente a partire da Cristo. Chiama Cristo il “pastore e custode delle … anime” (2, 25). Dove la traduzione italiana parla di “custode”, il testo greco ha la parola epíscopos (vescovo). Un po’ più avanti, Cristo viene qualificato come il Pastore supremo: archipoimen (5, 4). Sorprende che Pietro chiami Cristo stesso vescovo – vescovo delle anime. Che cosa intende dire con ciò? Nella parola greca “episcopos” è contenuto il verbo “vedere”; per questo è stata tradotta con “custode” ossia “sorvegliante”. Ma certamente non s’intende una sorveglianza esterna, come s’addice forse ad una guardia carceraria. S’intende piuttosto un vedere dall’alto – un vedere a partire dall’elevatezza di Dio. Un vedere nella prospettiva di Dio è un vedere dell’amore che vuole servire l’altro, vuole aiutarlo a diventare veramente se stesso. Cristo è il “vescovo delle anime”, ci dice Pietro. Ciò significa: Egli ci vede nella prospettiva di Dio. Guardando a partire da Dio, si ha una visione d’insieme, si vedono i pericoli come anche le speranze e le possibilità. Nella prospettiva di Dio si vede l’essenza, si vede l’uomo interiore. Se Cristo è il vescovo delle anime, l’obiettivo è quello di evitare che l’anima nell’uomo s’immiserisca, è di far sì che l’uomo non perda la sua essenza, la capacità per la verità e per l’amore. Far sì che egli venga a conoscere Dio; che non si smarrisca in vicoli ciechi; che non si perda nell’isolamento, ma rimanga aperto per l’insieme. Gesù, il “vescovo delle anime”, è il prototipo di ogni ministero episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote significa in questa prospettiva: assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita.
Così la parola “vescovo” s’avvicina molto al termine “pastore”, anzi, i due concetti diventano interscambiabili. È compito del pastore pascolare e custodire il gregge e condurlo ai pascoli giusti. Pascolare il gregge vuol dire aver cura che le pecore trovino il nutrimento giusto, sia saziata la loro fame e spenta la loro sete. Fuori di metafora, questo significa: la parola di Dio è il nutrimento di cui l’uomo ha bisogno. Rendere sempre di nuovo presente la parola di Dio e dare così nutrimento agli uomini è il compito del retto Pastore. Ed egli deve anche saper resistere ai nemici, ai lupi. Deve precedere, indicare la via, conservare l’unità del gregge. Pietro, nel suo discorso ai presbiteri, evidenzia ancora una cosa molto importante. Non basta parlare. I Pastori devono farsi “modelli del gregge” (5, 3). La parola di Dio viene portata dal passato nel presente, quando è vissuta. È meraviglioso vedere come nei santi la parola di Dio diventi una parola rivolta al nostro tempo. In figure come Francesco e poi di nuovo come Padre Pio e molti altri, Cristo è diventato veramente contemporaneo della loro generazione, è uscito dal passato ed entrato nel presente. Questo significa essere Pastore – modello del gregge: vivere la Parola ora, nella grande comunità della santa Chiesa.
Molto brevemente vorrei ancora richiamare l’attenzione su due altre affermazioni della Prima Lettera di san Pietro, che riguardano in modo speciale noi, in questo nostro tempo. C’è innanzitutto la frase oggi nuovamente scoperta, in base alla quale i teologi medievali compresero il loro compito, il compito del teologo: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3, 15). La fede cristiana è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione possiamo e dobbiamo esporre. La fede proviene dalla Ragione eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra ragione, così come l’amore vede più della semplice intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto dialettico può tener testa alla ragione. Non la contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo, conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più grande di Dio. Come Pastori del nostro tempo abbiamo il compito di comprendere noi per primi la ragione della fede. Il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre domande. La fede esige la nostra partecipazione razionale, che si approfondisce e si purifica in una condivisione d’amore. Fa parte dei nostri doveri come Pastori di penetrare la fede col pensiero per essere in grado di mostrare la ragione della nostra speranza nella disputa del nostro tempo. Tuttavia, il pensare – pur così necessario – da solo non basta. Così come parlare, da solo, non basta. Nella sua catechesi battesimale ed eucaristica nel secondo capitolo della sua Lettera, Pietro allude al Salmo usato nella Chiesa antica nel contesto della comunione, e cioè al versetto che dice: “Gustate e vedete com’è buono il Signore” (Ps 34 [33], 9; 1 Pt 2, 3). Solo il gustare conduce al vedere. Pensiamo ai discepoli di Emmaus: solo nella comunione conviviale con Gesù, solo nella frazione del pane si aprono i loro occhi. Solo nella comunione col Signore veramente sperimentata essi diventano vedenti. Ciò vale per tutti noi: al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo. La fede non deve rimanere teoria: deve essere vita. Se nel Sacramento incontriamo il Signore; se nella preghiera parliamo con Lui; se nelle decisioni del quotidiano aderiamo a Cristo – allora “vediamo” sempre di più quanto Egli è buono. Allora sperimentiamo che è cosa buona stare con Lui. Da una tale certezza vissuta deriva poi la capacità di comunicare la fede agli altri in modo credibile. Il Curato d’Ars non era un grande pensatore. Ma egli “gustava” il Signore. Viveva con Lui fin nelle minuzie del quotidiano oltre che nelle grandi esigenze del ministero pastorale. In questo modo divenne “uno che vede”. Aveva gustato, e per questo sapeva che il Signore è buono. Preghiamo il Signore, affinché ci doni questo gustare e possiamo così diventare testimoni credibili della speranza che è in noi.
Alla fine vorrei far notare ancora una piccola, ma importante parola di san Pietro. Subito all’inizio della Lettera egli ci dice che la mèta della nostra fede è la salvezza delle anime (cfr 1, 9). Nel mondo del linguaggio e del pensiero dell’attuale cristianità questa è un’affermazione strana, per alcuni forse addirittura scandalosa. La parola “anima” è caduta in discredito. Si dice che questo porterebbe ad una divisione dell’uomo in spirito e fisico, in anima e corpo, mentre in realtà egli sarebbe un’unità indivisibile. Inoltre “la salvezza delle anime” come mèta della fede sembra indicare un cristianesimo individualistico, una perdita di responsabilità per il mondo nel suo insieme, nella sua corporeità e nella sua materialità. Ma di tutto questo non si trova nulla nella Lettera di san Pietro. Lo zelo per la testimonianza in favore della speranza, la responsabilità per gli altri caratterizzano l’intero testo. Per comprendere la parola sulla salvezza delle anime come mèta della fede dobbiamo partire da un altro lato. Resta vero che l’incuria per le anime, l’immiserirsi dell’uomo interiore non distrugge soltanto il singolo, ma minaccia il destino dell’umanità nel suo insieme. Senza risanamento delle anime, senza risanamento dell’uomo dal di dentro, non può esserci una salvezza per l’umanità. La vera malattia delle anime san Pietro, alla nostra sorpresa, la qualifica come ignoranza – cioè come non conoscenza di Dio. Chi non conosce Dio, chi almeno non lo cerca sinceramente, resta fuori della vera vita (cfr 1 Pt 1, 14). Ancora un’altra parola della Lettera può esserci utile per capire meglio la formula “salvezza delle anime”: “Purificate le vostre anime con l’obbedienza alla verità” (cfr 1, 22). È l’obbedienza alla verità che rende pura l’anima. Ed è il convivere con la menzogna che la inquina. L’obbedienza alla verità comincia con le piccole verità del quotidiano, che spesso possono essere faticose e dolorose. Questa obbedienza si estende poi fino all’obbedienza senza riserve di fronte alla Verità stessa che è Cristo. Tale obbedienza ci rende non solo puri, ma soprattutto anche liberi per il servizio a Cristo e così alla salvezza del mondo, che pur sempre prende inizio dalla purificazione obbediente della propria anima mediante la verità. Possiamo indicare la via verso la verità solo se noi stessi – in obbedienza e pazienza – ci lasciamo purificare dalla verità.
E ora mi rivolgo a voi, cari Confratelli nell’episcopato, che in quest’ora riceverete dalla mia mano il Pallio. È stato intessuto con la lana di agnelli che il Papa benedice nella festa di sant’Agnese. In questo modo esso ricorda gli agnelli e le pecore di Cristo, che il Signore risorto ha affidato a Pietro con il compito di pascerli (cfr Gv 21, 15-18). Ricorda il gregge di Gesù Cristo, che voi, cari Fratelli, dovete pascere in comunione con Pietro. Ci ricorda Cristo stesso, che come Buon Pastore ha preso sulle sue spalle la pecorella smarrita, l’umanità, per riportarla a casa. Ci ricorda il fatto che Egli, il Pastore supremo, ha voluto farsi Lui stesso Agnello, per farsi carico dal di dentro del destino di tutti noi; per portarci e risanarci dall’interno. Vogliamo pregare il Signore, affinché ci doni di essere sulle sue orme Pastori giusti, “non perché costretti, ma volentieri, come piace a Dio … con animo generoso … modelli del gregge” (1 Pt 5, 2s). Amen.

 

GREGORIO PALAMAS – OMELIA 28: PIETRO E PAOLO

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GREGORIO PALAMAS – OMELIA 28: PIETRO E PAOLO

La memoria di ciascuno dei santi, che si celebra in questo giorno di festa, è portatrice di comune gioia per popoli e città, sudditi e principi e offre grandissimo giovamento a tutti coloro che di questa festa sono partecipi. La memoria del giusto è unita alle lodi, dice Salomone, il sapiente. Quando un giusto è lodato si rallegrano i popoli. Come infatti nella notte, quando si accende una lucerna, la luce appare per il vantaggio e il godimento di tutti i presenti, così avviene per la vita di ciascuno dei santi, vita cara a Dio, per la loro morte beata e per la grazia donata da Dio a ciascuno per la purezza della sua vita. Quando è celebrata la memoria del santo, avviene come se una fiaccola splendente offrisse a tutti coloro che sono insieme adunati letizia spirituale e giovamento. E come, quando viene sulla terra un tempo di fecondità, si rallegrano non solo i contadini, ma tutti gli uomini il godimento dei frutti della terra, infatti, è comune a tutti così anche i frutti prodotti dalla virtù dei santi rallegrano non solo colui che coltiva i1 campo delle anime, ma tutti noi, come frutti offerti a comune delizia e vantaggio delle nostre anime; poiché anche in questa vita tutti i santi, con la loro presenza, sono incitamento alla virtù per tutti coloro che li ascoltano e rivolgono ad essi il loro sguardo con intelligenza. I santi, infatti, sono immagini viventi della virtù; colonne di ogni bellezza, muovono di loro slancio verso di noi; libri viventi e parlanti che ci guidano al bene e che ci allontanano dalla vita di quaggiù attraverso la memoria delle loro virtù, immortale preservano per noi il frutto che da essi proviene. Memoria della loro santità è la lode, che noi ad essi dobbiamo per il bene arrecato con la loro vita, utile a noi e ora presente attraverso i frutti che dalla loro santità giungono a noi.
Nulla aggiungiamo alla loro felicità, quando facciamo memoria delle loro opere. Come infatti potremmo, noi che non siamo neppure capaci di farci un’idea di tutta la loro virtù? Essi furono premiati con le indicibili ricompense promesse loro da Dio, per quanto la natura permetteva di dimostrare il loro degno modo di vivere, cioè in tutto vincitore. Con le nostre lodi non accresceremo, dunque, la loro felicità, ma accresceremo il bene che da quelli giunge a noi, se tenderemo verso di loro come a lucerne accese di luce divina e se cercheremo di comprendere e di accogliere sempre più il dono di bellezza che da loro giunge a noi. E se la memoria di ciascuno dei santi è compiuta da noi con inni e lodi convenienti, quanto più non sarà celebrata la memoria dei santi Pietro e Paolo, la vetta più alta del sublime coro degli apostoli? Essi sono padri comuni e guide di tutti coloro che sono chiamati da Cristo, degli apostoli, dei martiri, dei santi, dei sacerdoti, dei sommi sacerdoti, dei pastori e dei maestri; sono come sommi pastori di chi è condotto al pascolo e di chi è ammaestrato, costruttori della pietà e della virtù di tutti quanti e, come astri nel mondo, tengono alta la parola di vita e di tanto superano nel loro fulgore coloro che brillano per vita di fede e virtù, quanto il sole supera le altre stelle o come i cieli dei cieli che narrano la gloria dell’altissimo Dio; e di tanto superano l’immensità dei cieli, la bellezza degli astri, la velocità di entrambi, e il loro ordine e la loro potenza, quanto fanno luce sulle cose sensibili indirizzandole alle verità che sovrastano il cielo e il cosmo. Essi emanano una luce in cui non è variazione né ombra di cambiamento, e non solo ci conducono dalla tenebra a questa mirabile luce 6, ma anche ci fanno partecipi della luce, figli di quella luce perfetta; ciascuno di essi, quando sarà il tempo della venuta e della manifestazione del principe della luce, il Verbo uomo-Dio, brillerà come il sole. Tali astri, sorti insieme oggi per noi, illuminano la chiesa; la loro unione produce non eclissi, ma sovrabbondanza di luce. Non accade che l’uno si muova nelle altezze, mentre l’altro sta sotto, in modo che chi sta sotto oscura l’altro; né che l’uno compia la sua orbita di giorno, l’altro di notte, in modo che, muovendo all’inverso, si inabissi nell’ombra; e neppure che l’uno emetta la luce e l’altro la riceva dal primo, in modo da essere soggetto a mutamento per effetto di quello, ricevendo ora l’uno ora l’altro l’illuminazione a seconda della distanza; ma entrambi partecipano in egual misura di Cristo, fonte perenne della perenne luce, uguale possiedono l’altezza, la gloria, lo splendore. Reciproca è quindi l’unione di queste luci, e duplice chiarore fornisce alle anime dei credenti.
Ma colui che primo si ribellò e fece ribellare a Dio il primo uomo, vedendo che colui che aveva plasmato Adamo, padre del genere umano, stava plasmando Pietro, padre della stirpe dei veri adoratori di Dio, e non solo vedendo, ma anche udendo che Dio gli diceva: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa il principe del male, con la sua invidiosa perversità, tendeva insidie anche a Pietro, il capo della stirpe dei fedeli a Dio, come aveva fatto un tempo con Adamo, il capo della stirpe degli uomini. Sapeva che Pietro era dotato di intelletto e infiammato d’amore per Cristo e non osò attaccarlo di fronte, ma come di traverso, dal fianco destro, con inganno furtivo si apprestava a scatenarlo contro il suo dovere. E, al tempo della passione che fu nostra salvezza, quando il Signore disse ai discepoli: Voi tutti in questa notte vi scandalizzerete di me, egli non credette e si oppose a queste parole, dicendo: Anche se tutti si scandalizzeranno, io non mi scandalizzerò. Egli prese le distanze dagli altri, tratto in inganno dalla presunzione; e così, umiliato più degli altri, quando venne il tempo, apparve più luminoso degli altri, e non avvenne a lui come ad Adamo che, tentato, fu vinto e trascinato in basso fino alla fine, ma tentato, fu trascinato per un poco e alla fine vinse il tentatore. Come? Col suo immediato rimorso, col suo grande dolore e pentimento, e con le lacrime, rimedio efficace per placare Dio. Sta scritto: Dio non disprezzerà un cuore contrito e umiliato. La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile, che è fonte di salvezza, e: Chi semina nelle lacrime, nella letizia mieterà il perdono.
Riflettendo si potrebbe vedere che Pietro non solo pose un rimedio adeguato al rinnegamento, nel quale era stato trascinato, convertendosi e dando prova di un profondo dolore, ma anche sradicò dal suo cuore quella passione da cui, più degli altri, era stato vinto. Il Signore, volendo mostrare questo a tutti, dopo aver sofferto nel suo corpo la passione per noi e dopo essere risuscitato al terzo giorno, rivolse a Pietro le parole che oggi abbiamo letto nell’evangelo: « Simone figlio di Giovanni, mi ami più di costoro, cioè, dei miei discepoli? ». Osserva la sua conversione a un’umiltà più grande del suo peccato; prima, anche senza essere interrogato, anteponendosi agli altri, aveva detto: Anche se tutti si scandalizzeranno, io non mi scandalizzerò »; ora, interrogato se amasse il Signore più degli altri, ammetteva di amarlo, ma non diceva di amarlo di più: Sì, Signore, tu sai che ti voglio bene ». E allora il Signore, dopo aver dimostrato che Pietro non si era allontanato dall’amore per lui e si era umiliato, adempie palesemente la promessa che da molto tempo gli aveva fatto, e gli dice: Pasci i miei agnelli. E quando definisce « edificazione » l’adunanza di coloro che credono in lui, promette che stabilirà Pietro come fondamento, dicendo: Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia chiesa. E quando il discorso passa alla pesca, lo fa pescatore di uomini, dicendo: D’ora in poi sarai pescatore di uomini. E quando chiama « gregge » i suoi, ne fa pastore Pietro, dicendo: Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.
È tempo di considerare, fratelli, quanto il Signore desideri la nostra salvezza: a un punto tale da richiedere a coloro che lo amano null’altro se non di guidarli al pascolo e all’ovile della salvezza. Cerchiamo di provare anche noi desiderio della nostra salvezza, e prestiamo ascolto a coloro che, con i fatti e le parole, ci guidano ad essa. È necessario che ciascuno di noi bussi alla porta che conduce alla salvezza, ed è subito presente la guida, preparata dal Salvatore di tutti, colui che ci conduce alla salvezza, prontissimo per la sovrabbondanza del suo amore per gli uomini, spontaneamente venuto, o, meglio, spontaneamente invitatosi. Tre volte lo interroga il Signore, perché, con la triplice risposta, Pietro faccia la sua bella confessione e attraverso la triplice confessione guarisca il triplice rinnegamento; e per tre volte lo pone a capo dei suoi agnelli e delle sue pecore, affidando a Pietro i tre ordini di coloro che devono essere salvati, i servi, i mercenari, i figli, ovvero la verginità, la vedovanza casta, il matrimonio secondo la legge.
Ma Pietro, più e più volte interrogato se amasse Cristo, si addolorò per le numerose domande, pensando di non essere creduto. Sapeva infatti di amare Cristo, e neppure ignorava che colui che lo interrogava lo conosceva più di quanto egli stesso si conoscesse; stretto da ogni parte, non solo dichiarava di volergli bene, ma proclamò che quello a cui voleva bene era il Dio di tutte le cose, dicendo: Tu, Signore, sai tutto, tu sai che ti voglio bene; il sapere ogni cosa, infatti, appartiene soltanto al Dio dell’universo. E il Signore, non solo elegge pastore, e pastore sommo di tutta la sua chiesa colui che dal profondo del suo cuore aveva fatto questa confessione, ma gli promette che lo cingerà di tanta forza da renderlo capace di resistere fino alla morte, e alla morte di croce; e sì che prima dell’infusione di questa forza Pietro non era stato in grado di reggere alla domanda e alla chiacchiera di una giovinetta . Così disse a Pietro il Signore: In verità, in verità ti dico: quando eri giovane, ti cingevi della giovinezza del corpo e dello spirito, cioè ti potevi valere della tua forza, e andavi dove volevi, ti muovevi da te e vivevi secondo le scelte della tua natura, ma quando sarai vecchio, giunto all’estremo dell’età fisica e spirituale, stenderai le tue mani – e con queste parole voleva sottintendere la morte di croce e testimoniava che non contro il suo volere Pietro avrebbe accettato di essere steso sulla croce stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà, cioè ti darà forza, e ti condurrà dove tu non vuoi, allontanandoti dalla vita degli uomini. La natura infatti non vuole dissolversi nella morte; con queste parole dimostra la disposizione della nostra natura verso la vita e insieme la capacità di Pietro di sottoporsi a un martirio che supera le forze della natura. Dice il Signore: « Sopporterai volentieri quelle sofferenze per me, da me rafforzato a darmi testimonianza, poiché la natura non è fatta per sopportare con le sue forze quanto è superiore ad essa ».
Tale dunque è Pietro, ed è conosciuto da pochi. E che dire di Paolo? Quale, o piuttosto, quali e quante lingue saranno in grado di mostrare, anche in misura modesta, la sua perseveranza per Cristo fino alla morte? Lui che ogni giorno moriva, o, meglio, come morto viveva, non più vivo, come egli stesso dice, ma avendo in sé il Cristo vivente . Per l’amore di Cristo non solo riteneva tutto una perdita , ma anche la vita futura egli poneva al secondo posto confrontandola con Cristo. Dice: Sono convinto che né morte, né vita, né il presente, né il futuro, né altezza, né abisso potranno separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù. Aveva per Dio una passione tale da appassionare anche noi dell’amore di Dio. E a chi sarà inferiore, se non a Pietro solo, di tutti i suoi pari? Quale fu nell’umiltà, ascoltalo quando dice di sé: lo sono il minimo fra gli apostoli, non sono neppure degno di essere chiamato apostolo. E dal momento che Paolo è uguale a Pietro nella confessione, nella passione, nell’umiltà, nell’amore, non ottenne forse i medesimi premi da parte di colui che tutto pesa e misura con somma giustizia? E come può essere questo? A Pietro Cristo dice: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa ; e di Paolo così parla ad Anania: Questi è il mio vaso di elezione, che porterà il mio nome davanti alle genti e ai re. Quale nome? Certamente quello che per noi è stato chiamato « chiesa di Cristo », che Pietro sostiene come fondamento. Vedete dunque quanto grande sia l’uguale splendore e onore di Pietro e di Paolo, e come da entrambi sia sostenuta la chiesa di Cristo? Per questo anche la chiesa ora tributa ad essi un solo e identico onore, celebrandoli entrambi con reciproca lode nella festa di oggi.
Ma noi, che abbiamo visto il loro sviamento, cerchiamo di imitare il loro ritorno, se non nel resto, almeno nella loro correzione attraverso l’umiltà e la penitenza. Infatti le loro altre opere, grandi e sublimi, si addicono ai grandi e dai grandi possono essere imitate, e ve ne sono alcune che non possono essere imitate da tutti; ma la correzione attraverso la penitenza si addice a noi più che a quelli, a noi, con le nostre cadute quotidiane, che da null’altro abbiamo speranza di salvezza, se non la conseguiamo mediante un’ininterrotta penitenza. Alla penitenza ci guida il riconoscimento delle nostre cadute, punto di partenza per ottenere la misericordia. Dice a Dio il salmista profeta: Pietà di me, poiché io riconosco il mio peccato e, riconoscendo il proprio peccato, attirò a sé la misericordia e, confessando e biasimando se stesso, ottenne la completa remissione dei peccati. Ho detto dice il profeta confesserò al Signore contro di me il mio peccato, e tu hai perdonato l’empietà del mio cuore. A1 riconoscimento dei propri peccati consegue la condanna di sé; a questa il dolore per i peccati, che Paolo definì secondo Dio. E a questo dolore secondo Dio naturalmente consegue la confessione a Dio con cuore contrito, la supplica e la promessa di tenersi per l’avvenire lontani dal male: questo è la penitenza.
Per questo Manasse fu liberato dalla condanna per i suoi peccati, sebbene fosse caduto nell’abisso di numerose e gravi cadute, e in esse fosse stato sballottato per una lunga serie di anni. E a David il Signore non solo condonò il peccato, per la sua penitenza, ma non gli tolse il dono della profezia. Con la penitenza anche Pietro non solo si risollevò dalla caduta e ottenne il perdono, ma gli fu assegnato il principato nella chiesa di Cristo. E anche Paolo troverai che si adoperò per questa, egli che, dopo la conversione e l’avanzamento, raggiunse una familiarità con Dio superiore agli altri; la penitenza infatti, se nasce sincera dal cuore, convince il penitente a non commettere più peccati, a non attaccarsi agli uomini corrotti, a non rimanere incantato di fronte ai piaceri non buoni, ma a disprezzare i beni presenti, aspettare i futuri, lottare contro le passioni, tendere alle virtù, conservare il dominio su tutto, vegliare nelle preghiere rivolte a Dio, astenersi dal guadagno ingiusto, essere misericordioso con quelli che peccano contro di lui, clemente verso chi lo supplica, prontissimo ad aiutare come può, con parole, opere, denaro chi ha bisogno del suo aiuto; egli si piega col cuore verso tutti, per acquistare amore con l’amore, ottenere da Dio la ricompensa per il suo amore verso il prossimo, attirare su di sé la divina benevolenza, e conseguire l’eterna misericordia, la benedizione e la grazia di Dio che attraversa i secoli. A tutti noi sia dato di ottenere questi doni per l’amore dell’unigenito Figlio di Dio, al quale si addice gloria, potenza, onore e adorazione insieme con il Padre senza principio e allo Spirito santissimo, buono e datore di vita, ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

GREGORIO PALAMAS : PIETRO E PAOLO

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GREGORIO PALAMAS

OMELIA 28

PIETRO E PAOLO

La memoria di ciascuno dei santi, che si celebra in questo giorno di festa, è portatrice di comune gioia per popoli e città, sudditi e principi e offre grandissimo giovamento a tutti coloro che di questa festa sono partecipi. La memoria del giusto è unita alle lodi, dice Salomone, il sapiente. Quando un giusto è lodato si rallegrano i popoli. Come infatti nella notte, quando si accende una lucerna, la luce appare per il vantaggio e il godimento di tutti i presenti, così avviene per la vita di ciascuno dei santi, vita cara a Dio, per la loro morte beata e per la grazia donata da Dio a ciascuno per la purezza della sua vita. Quando è celebrata la memoria del santo, avviene come se una fiaccola splendente offrisse a tutti coloro che sono insieme adunati letizia spirituale e giovamento. E come, quando viene sulla terra un tempo di fecondità, si rallegrano non solo i contadini, ma tutti gli uomini il godimento dei frutti della terra, infatti, è comune a tutti così anche i frutti prodotti dalla virtù dei santi rallegrano non solo colui che coltiva i1 campo delle anime, ma tutti noi, come frutti offerti a comune delizia e vantaggio delle nostre anime; poiché anche in questa vita tutti i santi, con la loro presenza, sono incitamento alla virtù per tutti coloro che li ascoltano e rivolgono ad essi il loro sguardo con intelligenza. I santi, infatti, sono immagini viventi della virtù; colonne di ogni bellezza, muovono di loro slancio verso di noi; libri viventi e parlanti che ci guidano al bene e che ci allontanano dalla vita di quaggiù attraverso la memoria delle loro virtù, immortale preservano per noi il frutto che da essi proviene. Memoria della loro santità è la lode, che noi ad essi dobbiamo per il bene arrecato con la loro vita, utile a noi e ora presente attraverso i frutti che dalla loro santità giungono a noi.
Nulla aggiungiamo alla loro felicità, quando facciamo memoria delle loro opere. Come infatti potremmo, noi che non siamo neppure capaci di farci un’idea di tutta la loro virtù? Essi furono premiati con le indicibili ricompense promesse loro da Dio, per quanto la natura permetteva di dimostrare il loro degno modo di vivere, cioè in tutto vincitore. Con le nostre lodi non accresceremo, dunque, la loro felicità, ma accresceremo il bene che da quelli giunge a noi, se tenderemo verso di loro come a lucerne accese di luce divina e se cercheremo di comprendere e di accogliere sempre più il dono di bellezza che da loro giunge a noi. E se la memoria di ciascuno dei santi è compiuta da noi con inni e lodi convenienti, quanto più non sarà celebrata la memoria dei santi Pietro e Paolo, la vetta più alta del sublime coro degli apostoli? Essi sono padri comuni e guide di tutti coloro che sono chiamati da Cristo, degli apostoli, dei martiri, dei santi, dei sacerdoti, dei sommi sacerdoti, dei pastori e dei maestri; sono come sommi pastori di chi è condotto al pascolo e di chi è ammaestrato, costruttori della pietà e della virtù di tutti quanti e, come astri nel mondo, tengono alta la parola di vita e di tanto superano nel loro fulgore coloro che brillano per vita di fede e virtù, quanto il sole supera le altre stelle o come i cieli dei cieli che narrano la gloria dell’altissimo Dio; e di tanto superano l’immensità dei cieli, la bellezza degli astri, la velocità di entrambi, e il loro ordine e la loro potenza, quanto fanno luce sulle cose sensibili indirizzandole alle verità che sovrastano il cielo e il cosmo. Essi emanano una luce in cui non è variazione né ombra di cambiamento, e non solo ci conducono dalla tenebra a questa mirabile luce 6, ma anche ci fanno partecipi della luce, figli di quella luce perfetta; ciascuno di essi, quando sarà il tempo della venuta e della manifestazione del principe della luce, il Verbo uomo-Dio, brillerà come il sole. Tali astri, sorti insieme oggi per noi, illuminano la chiesa; la loro unione produce non eclissi, ma sovrabbondanza di luce. Non accade che l’uno si muova nelle altezze, mentre l’altro sta sotto, in modo che chi sta sotto oscura l’altro; né che l’uno compia la sua orbita di giorno, l’altro di notte, in modo che, muovendo all’inverso, si inabissi nell’ombra; e neppure che l’uno emetta la luce e l’altro la riceva dal primo, in modo da essere soggetto a mutamento per effetto di quello, ricevendo ora l’uno ora l’altro l’illuminazione a seconda della distanza; ma entrambi partecipano in egual misura di Cristo, fonte perenne della perenne luce, uguale possiedono l’altezza, la gloria, lo splendore. Reciproca è quindi l’unione di queste luci, e duplice chiarore fornisce alle anime dei credenti.
Ma colui che primo si ribellò e fece ribellare a Dio il primo uomo, vedendo che colui che aveva plasmato Adamo, padre del genere umano, stava plasmando Pietro, padre della stirpe dei veri adoratori di Dio, e non solo vedendo, ma anche udendo che Dio gli diceva: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa il principe del male, con la sua invidiosa perversità, tendeva insidie anche a Pietro, il capo della stirpe dei fedeli a Dio, come aveva fatto un tempo con Adamo, il capo della stirpe degli uomini. Sapeva che Pietro era dotato di intelletto e infiammato d’amore per Cristo e non osò attaccarlo di fronte, ma come di traverso, dal fianco destro, con inganno furtivo si apprestava a scatenarlo contro il suo dovere. E, al tempo della passione che fu nostra salvezza, quando il Signore disse ai discepoli: Voi tutti in questa notte vi scandalizzerete di me, egli non credette e si oppose a queste parole, dicendo: Anche se tutti si scandalizzeranno, io non mi scandalizzerò. Egli prese le distanze dagli altri, tratto in inganno dalla presunzione; e così, umiliato più degli altri, quando venne il tempo, apparve più luminoso degli altri, e non avvenne a lui come ad Adamo che, tentato, fu vinto e trascinato in basso fino alla fine, ma tentato, fu trascinato per un poco e alla fine vinse il tentatore. Come? Col suo immediato rimorso, col suo grande dolore e pentimento, e con le lacrime, rimedio efficace per placare Dio. Sta scritto: Dio non disprezzerà un cuore contrito e umiliato. La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile, che è fonte di salvezza, e: Chi semina nelle lacrime, nella letizia mieterà il perdono.
Riflettendo si potrebbe vedere che Pietro non solo pose un rimedio adeguato al rinnegamento, nel quale era stato trascinato, convertendosi e dando prova di un profondo dolore, ma anche sradicò dal suo cuore quella passione da cui, più degli altri, era stato vinto. Il Signore, volendo mostrare questo a tutti, dopo aver sofferto nel suo corpo la passione per noi e dopo essere risuscitato al terzo giorno, rivolse a Pietro le parole che oggi abbiamo letto nell’evangelo: « Simone figlio di Giovanni, mi ami più di costoro, cioè, dei miei discepoli? ». Osserva la sua conversione a un’umiltà più grande del suo peccato; prima, anche senza essere interrogato, anteponendosi agli altri, aveva detto: Anche se tutti si scandalizzeranno, io non mi scandalizzerò »; ora, interrogato se amasse il Signore più degli altri, ammetteva di amarlo, ma non diceva di amarlo di più: Sì, Signore, tu sai che ti voglio bene ». E allora il Signore, dopo aver dimostrato che Pietro non si era allontanato dall’amore per lui e si era umiliato, adempie palesemente la promessa che da molto tempo gli aveva fatto, e gli dice: Pasci i miei agnelli. E quando definisce « edificazione » l’adunanza di coloro che credono in lui, promette che stabilirà Pietro come fondamento, dicendo: Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia chiesa. E quando il discorso passa alla pesca, lo fa pescatore di uomini, dicendo: D’ora in poi sarai pescatore di uomini. E quando chiama « gregge » i suoi, ne fa pastore Pietro, dicendo: Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore.
È tempo di considerare, fratelli, quanto il Signore desideri la nostra salvezza: a un punto tale da richiedere a coloro che lo amano null’altro se non di guidarli al pascolo e all’ovile della salvezza. Cerchiamo di provare anche noi desiderio della nostra salvezza, e prestiamo ascolto a coloro che, con i fatti e le parole, ci guidano ad essa. È necessario che ciascuno di noi bussi alla porta che conduce alla salvezza, ed è subito presente la guida, preparata dal Salvatore di tutti, colui che ci conduce alla salvezza, prontissimo per la sovrabbondanza del suo amore per gli uomini, spontaneamente venuto, o, meglio, spontaneamente invitatosi. Tre volte lo interroga il Signore, perché, con la triplice risposta, Pietro faccia la sua bella confessione e attraverso la triplice confessione guarisca il triplice rinnegamento; e per tre volte lo pone a capo dei suoi agnelli e delle sue pecore, affidando a Pietro i tre ordini di coloro che devono essere salvati, i servi, i mercenari, i figli, ovvero la verginità, la vedovanza casta, il matrimonio secondo la legge.
Ma Pietro, più e più volte interrogato se amasse Cristo, si addolorò per le numerose domande, pensando di non essere creduto. Sapeva infatti di amare Cristo, e neppure ignorava che colui che lo interrogava lo conosceva più di quanto egli stesso si conoscesse; stretto da ogni parte, non solo dichiarava di volergli bene, ma proclamò che quello a cui voleva bene era il Dio di tutte le cose, dicendo: Tu, Signore, sai tutto, tu sai che ti voglio bene; il sapere ogni cosa, infatti, appartiene soltanto al Dio dell’universo. E il Signore, non solo elegge pastore, e pastore sommo di tutta la sua chiesa colui che dal profondo del suo cuore aveva fatto questa confessione, ma gli promette che lo cingerà di tanta forza da renderlo capace di resistere fino alla morte, e alla morte di croce; e sì che prima dell’infusione di questa forza Pietro non era stato in grado di reggere alla domanda e alla chiacchiera di una giovinetta . Così disse a Pietro il Signore: In verità, in verità ti dico: quando eri giovane, ti cingevi della giovinezza del corpo e dello spirito, cioè ti potevi valere della tua forza, e andavi dove volevi, ti muovevi da te e vivevi secondo le scelte della tua natura, ma quando sarai vecchio, giunto all’estremo dell’età fisica e spirituale, stenderai le tue mani – e con queste parole voleva sottintendere la morte di croce e testimoniava che non contro il suo volere Pietro avrebbe accettato di essere steso sulla croce stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà, cioè ti darà forza, e ti condurrà dove tu non vuoi, allontanandoti dalla vita degli uomini. La natura infatti non vuole dissolversi nella morte; con queste parole dimostra la disposizione della nostra natura verso la vita e insieme la capacità di Pietro di sottoporsi a un martirio che supera le forze della natura. Dice il Signore: « Sopporterai volentieri quelle sofferenze per me, da me rafforzato a darmi testimonianza, poiché la natura non è fatta per sopportare con le sue forze quanto è superiore ad essa ».
Tale dunque è Pietro, ed è conosciuto da pochi. E che dire di Paolo? Quale, o piuttosto, quali e quante lingue saranno in grado di mostrare, anche in misura modesta, la sua perseveranza per Cristo fino alla morte? Lui che ogni giorno moriva, o, meglio, come morto viveva, non più vivo, come egli stesso dice, ma avendo in sé il Cristo vivente . Per l’amore di Cristo non solo riteneva tutto una perdita  , ma anche la vita futura egli poneva al secondo posto confrontandola con Cristo. Dice: Sono convinto che né morte, né vita, né il presente, né il futuro, né altezza, né abisso potranno separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù. Aveva per Dio una passione tale da appassionare anche noi dell’amore di Dio. E a chi sarà inferiore, se non a Pietro solo, di tutti i suoi pari? Quale fu nell’umiltà, ascoltalo quando dice di sé: lo sono il minimo fra gli apostoli, non sono neppure degno di essere chiamato apostolo. E dal momento che Paolo è uguale a Pietro nella confessione, nella passione, nell’umiltà, nell’amore, non ottenne forse i medesimi premi da parte di colui che tutto pesa e misura con somma giustizia? E come può essere questo? A Pietro Cristo dice: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa ; e di Paolo così parla ad Anania: Questi è il mio vaso di elezione, che porterà il mio nome davanti alle genti e ai re. Quale nome? Certamente quello che per noi è stato chiamato « chiesa di Cristo », che Pietro sostiene come fondamento. Vedete dunque quanto grande sia l’uguale splendore e onore di Pietro e di Paolo, e come da entrambi sia sostenuta la chiesa di Cristo? Per questo anche la chiesa ora tributa ad essi un solo e identico onore, celebrandoli entrambi con reciproca lode nella festa di oggi.
Ma noi, che abbiamo visto il loro sviamento, cerchiamo di imitare il loro ritorno, se non nel resto, almeno nella loro correzione attraverso l’umiltà e la penitenza. Infatti le loro altre opere, grandi e sublimi, si addicono ai grandi e dai grandi possono essere imitate, e ve ne sono alcune che non possono essere imitate da tutti; ma la correzione attraverso la penitenza si addice a noi più che a quelli, a noi, con le nostre cadute quotidiane, che da null’altro abbiamo speranza di salvezza, se non la conseguiamo mediante un’ininterrotta penitenza. Alla penitenza ci guida il riconoscimento delle nostre cadute, punto di partenza per ottenere la misericordia. Dice a Dio il salmista profeta: Pietà di me, poiché io riconosco il mio peccato e, riconoscendo il proprio peccato, attirò a sé la misericordia e, confessando e biasimando se stesso, ottenne la completa remissione dei peccati. Ho detto dice il profeta confesserò al Signore contro di me il mio peccato, e tu hai perdonato l’empietà del mio cuore. A1 riconoscimento dei propri peccati consegue la condanna di sé; a questa il dolore per i peccati, che Paolo definì secondo Dio. E a questo dolore secondo Dio naturalmente consegue la confessione a Dio con cuore contrito, la supplica e la promessa di tenersi per l’avvenire lontani dal male: questo è la penitenza.
Per questo Manasse fu liberato dalla condanna per i suoi peccati, sebbene fosse caduto nell’abisso di numerose e gravi cadute, e in esse fosse stato sballottato per una lunga serie di anni. E a David il Signore non solo condonò il peccato, per la sua penitenza, ma non gli tolse il dono della profezia. Con la penitenza anche Pietro non solo si risollevò dalla caduta e ottenne il perdono, ma gli fu assegnato il principato nella chiesa di Cristo. E anche Paolo troverai che si adoperò per questa, egli che, dopo la conversione e l’avanzamento, raggiunse una familiarità con Dio superiore agli altri; la penitenza infatti, se nasce sincera dal cuore, convince il penitente a non commettere più peccati, a non attaccarsi agli uomini corrotti, a non rimanere incantato di fronte ai piaceri non buoni, ma a disprezzare i beni presenti, aspettare i futuri, lottare contro le passioni, tendere alle virtù, conservare il dominio su tutto, vegliare nelle preghiere rivolte a Dio, astenersi dal guadagno ingiusto, essere misericordioso con quelli che peccano contro di lui, clemente verso chi lo supplica, prontissimo ad aiutare come può, con parole, opere, denaro chi ha bisogno del suo aiuto; egli si piega col cuore verso tutti, per acquistare amore con l’amore, ottenere da Dio la ricompensa per il suo amore verso il prossimo, attirare su di sé la divina benevolenza, e conseguire l’eterna misericordia, la benedizione e la grazia di Dio che attraversa i secoli. A tutti noi sia dato di ottenere questi doni per l’amore dell’unigenito Figlio di Dio, al quale si addice gloria, potenza, onore e adorazione insieme con il Padre senza principio e allo Spirito santissimo, buono e datore di vita, ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

Risurrezione e vita nuova secondo San Pietro (Card. Albert Vanhoye)

http://web.mac.com/mluigino/Sito/Esercizi_Spirituali/Voci/2007/11/23_Risurrezione_e_vita_nuova_secondo_San_Pietro.html

di S.Eminenza Card. Albert Vanhoye

Risurrezione e vita nuova secondo San Pietro

(è stata scritta per sacerdoti)

Nella bella luce della risurrezione, mediteremo ciò che san Pietro ci dice di questo mistero. Nelle sue Lettere, san Pietro non racconta l’apparizione che egli ebbe di Cristo risorto; parla però subito della risurrezione, ín modo molto profondo, all’inizio della sua Prima Lettera. Dopo l’indirizzo, denso di dottrina, e il saluto iniziale: «Grazia e pace a voi in abbondanza», che riecheggia il saluto di Gesù risorto, san Pietro ringrazia Dio per la risurrezione di Cristo o, più esattamente, per averci fatto rinascere mediante la risurrezione di Cristo, perché san Pietro non vede la risurrezione di Cristo come un semplice fatto individuale, che riguarderebbe soltanto Gesù, ma vede la sua fecondità per noi. Dice: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia, egli ci ha fatto rinascere mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce».
Prima osservazione: Pietro comincia con: «Benedetto Dio». Sapete che questa espressione è un modo di rendere grazie a Dio: dunque il primo atteggiamento di Pietro è quello dell’amore riconoscente; prima tale atteggiamento non gli era spontaneo; abbiamo visto nella nostra meditazione sulla conversione di Pietro che egli voleva dare il suo amore generoso prima di ricevere l’amore del Signore. Dopo la Passione e la risurrezione ha cambiato atteggiamento: ormai, il suo primo impulso è quello di ringraziare: «Benedetto Dio». Dio è anzitutto Padre del suo Figlio unigenito: «Benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo», il Figlio generato, non creato, come diciamo nel Credo. Però, nella sua grande misericordia, che Pietro gusta – «gustate come è buono il Signore» -, Dio è voluto diventare anche nostro Padre, perciò ci ha rigenerati, ci ha fatto rinascere, ci ha comunicato una vita nuova, che è una vita filiale. Dio era il nostro Creatore, e si è fatto nostro Padre: in che modo? Mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Nella risurrezione di Gesù, siamo noi coinvolti; infatti, per se stesso il Figlio di Dio non aveva bisogno della risurrezione, perché non aveva bisogno della nostra natura umana. Era l’uomo ad aver bisogno di essere completamente rinnovato per diventare figlio di Dio.
Questa trasformazione completa si è effettuata nel mistero della Passione e della Risurrezione di Gesù. Per mezzo della risurrezione del suo Figlio, il Padre di Gesù Cristo ha dato a noi una nuova esistenza, di modo che adesso Egli è Padre di Gesù Cristo e, insieme, Padre nostro. Nel v. 17 Pietro dirà: «E se pregando chiamate Padre colui che senza riguardi personali giudica ciascuno, comportatevi con rispetto nel tempo del vostro pellegrinaggio». Il testo di san Pietro ci fa ricordare la parola di Gesù risorto, in Giovanni 20,17, dove dice: «Salgo verso Colui che è mio Padre e vostro Padre, mio Dio e vostro Dio». Nella Lettera ai Romani san Paolo dice cose analoghe quando parla del battesimo: egli pone un rapporto tra la risurrezione di Cristo e la «novità di vita», aperta ai credenti. Però, l’affermazione di san Paolo è meno nitida. La partecipazione alla risurrezione è vista piuttosto in una prospettiva futura: ciò che è effettivo nel battesimo è la sepoltura con Cristo: siamo stati sepolti nella morte di Cristo grazie all’acqua del battesimo. La novità di vita, che ha un rapporto con la risurrezione, è presentata come una meta, uno scopo. San Paolo dice che «siamo stati sepolti insieme a lui nella morte per mezzo del battesimo, affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una novità di vita» (Romani 6,4). Invece san Pietro dice che, per mezzo della risurrezione, abbiamo già la nuova vita, siamo veramente con Cristo in una nuova vita. L’idea della nuova vita si trova ancora altrove nel Nuovo Testamento, in testi molto belli, ma san Pietro è il solo ad affermare così chiaramente che Dio ci ha fatto rinascere, che ci ha comunicato una vita nuova mediante la risurrezione di Gesù Cristo. Pietro poi esprime con insistenza il dinamismo della nostra nuova vita, dicendo che essa ci orienta «verso una speranza viva», ci promette una eredità incorruttibile, che già esiste per noi nei cieli. Parlando di «speranza viva», di nuovo san Pietro accenna alla risurrezione di Cristo: la nuova speranza non è soltanto un’idea, la nostra speranza è una persona che vive nel cielo e che raggiungeremo, perché già le apparteniamo.
Dopo aver parlato poi della redenzione (vv. 18-19), Pietro di nuovo nel v. 21 parla della risurrezione di Cristo per definire i cristiani ai quali si rivolge. Dice: «Voi siete coloro che per mezzo di Lui, cioè di Cristo, siete credenti in Dio, che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria». La fede cristiana è fede in Cristo risorto o, più esattamente, secondo Pietro, fede in Dio, che ha fatto risorgere Cristo dai morti e gli ha dato gloria. Aggiungendo che gli ha dato gloria, Pietro manifesta il suo amore per Cristo, si rallegra a causa della gloria di Cristo risorto. E di nuovo torna sul tema della speranza, aggiungendo «di modo che la vostra fede sia anche speranza in Dio». La gloria di Cristo risorto è per noi la base salda di fede in Dio e di immensa speranza.
San Pietro torna ad accennare alla risurrezione in un passo splendido del capitolo secondo, che esprime il dinamismo di questa nostra nuova vita, frutto della risurrezione di Cristo. Conosciamo bene questo passo, che è veramente capitale per la nostra vita spirituale e per il nostro ministero. Pietro comincia col mostrare le condizioni della vita ecclesiale dicendo ai nuovi cristiani, che lui paragona a dei neonati: «deposta dunque ogni malizia, ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale per crescere con esso verso la salvezza, se davvero avete già gustato come è buono il Signore». Questa è la prima parte. Poi viene la seconda parte del brano: «Stringendovi a Lui – il Signore -, pietra viva rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive nella costruzione di una casa spirituale, per un sacerdozio santo, che consiste nell’offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo». Vedete che l’apostolo parla della conversione cristiana sotto i suoi due aspetti contrapposti e complementari: un aspetto di rottura con il passato, e uno di adesione positiva a Cristo.
Il credente deve respingere un certo modo di vivere, e accogliere in sé una vita nuova. Pietro adopera due serie di espressioni che ritroviamo altrove nel Nuovo Testamento, e che si riferiscono al battesimo e al mistero pasquale di Gesù. La prima espressione adopera il paragone del vestito: il credente si toglie la veste del peccatore, gli indumenti vecchi e sporchi, e riveste abiti puliti e nuovi. Forse c’è un accenno a un rito antico del battesimo, non sappiamo se era già in uso nel primo secolo, ma nel secondo secolo c’era questo rito: colui che si faceva battezzare si spogliava, entrava nell’acqua, veniva battezzato e, uscito dall’acqua, riceveva una veste bianca. Il nome tradizionale della domenica che segue la Pasqua, che si chiama Domenica in Albis, cioè in vestiti bianchi, è un accenno a questo rito antico, perché i neofiti per otto giorni, cioè dalla notte di Pasqua fino alla Domenica in Albis, conservavano questi abiti bianchi. Ad ogni modo, san Pietro ci invita a respingere, a «deporre» come si depone un abito, ogni cattiveria, ogni malizia. La parola è molto generica, e aggiungendo «ogni», Pietro mostra che la rottura con il male deve essere completa. Le precisazioni che seguono prendono di mira specialmente i vizi che infettano la vita comunitaria; hanno quindi una importanza speciale per chi vive in comunità, corrispondono all’orientamento ecclesiale del pensiero in tutto il passo. Il credente deve respingere la frode, l’ipocrisia, essere sincero con i suoi fratelli e le sue sorelle nella fede. «Siamo membra gli uni degli altri», dice san Paolo, quindi «ciascuno deve dire la verità al suo prossimo» (Ef i4,25). Anche la gelosia è incompatibile con la vita nuova dei figli di Dio. «Tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1Cr12,13), quindi abbiamo grandi motivi di rallegrarci delle doti degli altri, invece di invidiarle; infatti queste doti sono un vantaggio per il corpo di cui facciamo parte e quindi per noi stessi. I doni ricevuti da ciascuno contribuiscono al bene di tutti, perciò la gelosia è da escludere completamente. A maggior ragione, un credente non può permettersi di nuocere agli altri parlando contro di loro, sparlando di loro. La maldicenza deve essere bandita. Le applicazioni concrete di questi consigli sono innumerevoli. Chiediamo al Signore di aiutarci a respingere veramente ogni forma di cattiveria nei nostri rapporti con gli altri membri della comunità, ogni mancanza di sincerità, ogni specie di gelosia, ogni maldicenza.
Dopo aver espresso questo aspetto negativo della conversione, Pietro ne esprime l’aspetto positivo e cambia metafora. Non dice di prendere un vestito nuovo, di «rivestire l’uomo nuovo», come dice san Paolo in qualche epistola (Ef 4,24; Cl 3,10; cfr. Gl 3,27; Rm 13,14), ma adopera il vocabolario della vita nuova più direttamente, cioè paragonando i neofiti a dei bimbi appena nati. Cosa fa il bimbo appena nato? Brama il latte, cerca subito di succhiare; questo è un riflesso spontaneo. San Pietro ci dice: dovete avere lo stesso riflesso, «come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale». Il nostro nuovo essere vuole vivere e crescere, e per farlo ha bisogno di un cibo appropriato, che l’apostolo definisce con questa espressione: il puro latte – non dice proprio spirituale – in greco mette logikon; sarebbe meglio dunque tradurre: «il puro latte della Parola» («Logos» è la parola). Nei versetti precedenti san Pietro ha ricordato che all’origine della nostra vita nuova si trova la Parola di Dio; ne ha parlato proprio nel versetto 23: «siete stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, per mezzo della Parola di Dio, viva ed eterna». Quindi, per crescere, occorre avere questo stesso cibo. Per svilupparsi, il figlio di Dio ha bisogno di questa parola che lo ha fatto nascere, Ia deve desiderare con grande appetito. Durante gli Esercizi vi siete nutriti abbondantemente della Parola di Dio: l’avete ascoltata, meditata, gustata, pregata… È necessario continuare, se volete crescere spiritualmente.
Dobbiamo avere un desiderio intenso di nutrirci della Parola di Dio, e non di altri cibi, talvolta più attraenti per la nostra natura umana. Chiedete al Signore di darvi questa fame e sete della sua Parola. San Pietro aggiunge un’altra condizione per il progresso spirituale, dicendo: «Se davvero avete gustato come è buono il Signore». Abbiamo già meditato questa condizione essenziale, gustare quanto è buono il Signore. La conversione cristiana non è una cosa astratta, è fondata su una relazione personale con Cristo. Il progresso spirituale non è un processo vegetativo, che potrebbe continuare senza consapevolezza della persona,
ma si effettua grazie a una relazione personale con il Signore. La Parola ispirata non ha altro scopo se non quello di stabilire, e di intrattenere, questa relazione personale, che è in primo luogo una relazione di amore riconoscente.
La relazione con il Signore viene espressa allora in maniera molto forte nei versetti seguenti, che mettono la nuova vita del cristiano in relazione con Cristo risorto. Pietro dice che dobbiamo stringerci al Signore, per diventare pietre vive come lui ed entrare nella costruzione di una casa spirituale per esercitare un sacerdozio santo che offre sacrifici graditi a Dio. La conversione cristiana è sempre conversione verso Cristo, «stringendovi a Lui». D’altra parte questa conversione assume necessariamente una dimensione ecclesiale, comunitaria. Quando entriamo in contatto con Cristo, siamo assimilati a Lui e integrati in un edificio spirituale fondato su di Lui, che è un santuario di Dio. Così siamo strappati alla dispersione, liberati dal nostro isolamento e tutti riuniti per formare la casa di Dio. Si tratta di un’unione molto forte, perché non siamo soltanto gli uni accanto agli altri come all’interno di un edificio – il che è già una relazione apprezzabile -, ma siamo saldati gli uni agli altri, come le pietre che formano l’edificio. La gente che sta all’interno di una casa, riunita per un certo tempo, può partire, andare fuori, disperdersi di nuovo: invece, le pietre che formano un edificio sono solidali in modo definitivo, non è possibile dissociarle senza violenza e senza danneggiare l’edificio intero. Quindi, vediamo qui un ideale di unità molto forte, che deve dare molta gioia ma che è anche molto esigente.
Questo paragone della costruzione non è una cosa nuova: nella Scrittura viene adoperato spesso, ed è stato adoperato anche da Gesù stesso. San Pietro ne poteva avere un’idea ancora più viva, perché doveva il suo nuovo nome, Pietro, a un’iniziativa di Gesù, in relazione con la costruzione della Chiesa: Gesù aveva
detto: «tu sei Kefa, cioè roccia, e su questa roccia costruirò la mia Chiesa». Qui, reciprocamente, san Pietro designa Cristo come la «pietra viva, respinta dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio». Quasi tutte le parole di questa lunga espressione provengono da testi profetici che l’apostolo cita nei versetti successivi. Soltanto il qualificativo «viva» è una cosa nuova. Cosa vuol dire l’apostolo? Sottolineare forse che la metafora accenna alla saldezza della pietra, non alla sua inerzia? No, non parrebbe sia questa la ragione. Pietro vuole accennare al mistero pasquale. Cristo, con la sua risurrezione, è diventato pietra viva. Egli si è manifestato come «il vivente», lo dice san Luca, o più esattamente l’angelo in Luca 24,5: «Perché cercate il vivente fra i morti?». Cristo è il vivente che ha definitivamente trionfato su tutte le forze della morte. San Pietro ci invita ad accostarci a Cristo risorto nel suo mistero pasquale, e a dargli la nostra adesione di fede.
Il mistero pasquale comprende due aspetti inseparabili. San Pietro ha premura di ricordarli tutti e due: Gesù è stato rigettato dagli uomini nella sua passione, e glorificato da Dio nella sua risurrezione. Notate che Pietro non polemizza contro i giudei, non dice: «rigettato dai giudei», ma «rigettato dagli uomini»: siamo tutti corresponsabili della passione di Gesù, non dobbiamo darne la colpa soltanto ai giudei. Gli uomini hanno respinto Gesù, l’hanno considerato come una pietra inutilizzabile, da gettare tra i rifiuti: questo viene detto nel Salmo 118, che Gesù stesso ha citato dopo la parabola dei vignaioli omicidi: «La pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare». Pietro cita poi questa frase nel v. 7. Questa pietra buttata nei rifiuti, Dio è andato a riprenderla, l’ha scelta e ne ha affermato il valore supremo per la costruzione dell’edificio. Risorto, Cristo è diventato il principio di una costruzione nuova. La pietra viva è in grado di aggregare altre, innumerevoli pietre. Vedete come san Pietro esprime l’aspetto ecclesiale del mistero pasquale, ispirandosi proprio al Salmo che parla della pietra angolare, quella che dà all’edificio la sua saldezza. Pietro ci fa capire che la risurrezione di Cristo non è una glorificazione di portata esclusivamente individuale. Al contrario, la risurrezione di Cristo lo costituisce pietra d’angolo di un nuovo edificio, centro e sorgente di unità: Cristo è morto «per radunare insieme tutti i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). Quelli che si accostano a Lui nella pienezza della fede, sono trasformati dal contatto con Lui, e diventano anch’essi pietre vive, perché la vita del Risorto li invade e li trasforma. Essi vengono rigenerati da Dio per mezzo della risurrezione di Gesù e incorporati al nuovo edificio. Così dobbiamo intendere la risurrezione di Gesù, e aderire a Gesù risorto, per essere pervasi della sua vita e trasformati profondamente.
Il nuovo edificio viene chiamato letteralmente «casa spirituale»: come capire questa espressione? È possibile interpretarla in modo piuttosto generico, dicendo che i cristiani non debbono costruire materialmente una casa, ma formare spiritualmente una costruzione salda. Questa interpretazione non è falsa, però non basta; l’espressione ha un senso più forte: qui «casa» vuol dire «casa di Dio», Tempio. Nell’Antico Testamento infatti si usa talvolta la parola ebraica «beth», «casa», per designare il Tempio di Gerusalemme. San Pietro non pensa qui a un edificio qualunque, ma a un tempio, a un santuario: lo si vede dopo, perché parla di un sacerdozio e di offerte gradite a Dio. Quindi si tratta del nuovo Tempio, che sostituisce il Tempio di Gerusalemme. Qui è il caso di ricordare la storia della costruzione, della distruzione e della ricostruzione del Tempio. Il punto di partenza è l’oracolo del profeta Natan in 2 Samuele 7: a Davide era venuta l’idea di costruire una bella casa per Dio – l’arca di Dio stava sotto una tenda, e questo non andava bene – ma il profeta fu incaricato da Dio di rispondere: «Non tu, Davide, costruirai una casa per me, ma io, Dio, ti costrurò una casa» -cioè ti darò un figlio che ti succederà, e questo figlio costruirà per me una casa. L’oracolo di Natan trovò evidentemente un primo adempimento nella storia di Salomone, figlio di Davide e suo successore, che costruì il Tempio. Però questa realizzazione materiale era imperfetta, e votata alla distruzione. La vera casa di Davide, e la vera casa di Dio si sono costruite per mezzo della morte e della risurrezione di Cristo, con una sintesi inaspettata, come accade spesso nella Bibbia quando si tratta del mistero di Cristo. Cioè, nella storia di Salomone vediamo una chiara distinzione tra due aspetti dell’oracolo: Dio aveva promesso a Davide uria casa, cioè un figlio che gli doveva succedere: Salomone. Secondo aspetto dell’oracolo: questo figlio doveva costruire una casa per Dio. Salomone costruì un tempio a Gerusalemme. Salomone e il Tempio sono due realtà ben distinte… Invece, Cristo risorto è nel contempo la casa regale data da Dio a Davide, e la casa di Dio costruita per Dio dal figlio di Davide. Cristo è le due cose insieme: Cristo è la casa regale, perché la sua vittoria sulla morte ha fatto di Gesù, discendente di Davide, il re messia che regna per sempre (cfr. Lc 1,32-33). Quindi in Gesù, Dio ha dato a Davide una casa che regna per sempre. D’altra parte, Gesù risorto è la nuova casa di Dio, perché nel suo mistero pasquale Cristo ha sostituito il tempio fatto da mani d’uomo con un tempio non fatto da mani d’uomo, costruito in tre giorni: ricordate che nella Passione nel Vangelo di Marco proprio questa accusa viene mossa contro Gesù: Egli ha detto «Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo?» «e costruirò un altro Tempio, non fatto da mani umane». La prima parte dell’accusa era falsa: Gesù non aveva mai detto: «Io distruggerò», ma aveva predetto la distruzione di quel Tempio. In Giovanni 2 abbiamo la parola di Gesù stesso: «Distruggete voi questo santuario, e io in tre giorni lo farò risorgere» e l’evangelista precisa che Gesù parlava del tempio del suo corpo. Il corpo di Cristo, rivificato dallo Spirito Santo, è diventato la vera casa di Dio, l’autentico Tempio, la vera casa spirituale, nella quale tutti gli uomini sono invitati ad entrare per trovarsi in rapporto intimo con Dio, anzi tutti sono invitati a farne parte, diventandone le pietre vive.
L’aggettivo «spirituale» deve qui venire inteso nel senso molto forte di «opera dello Spirito Santo»: grazie all’azione santificatrice dello Spirito, di cui Pietro ha parlato in 1,2, i credenti fanno parte di questa casa spirituale. L apostolo esprime un vigoroso dinamismo: il movimento dei cristiani che si accostano a Cristo continua nel movimento dell’edificazione della casa spirituale che si sta costruendo, come indica il verbo al presente, e questa casa deve servire per un sacerdozio santo, che consiste nell’offrire sacrifici spirituali. Così, siamo invitati a entrare nel dinamismo dell’offerta di Cristo. Per mezzo dell’incorporazione a Cristo, i cristiani sono consacrati sacerdoti e invitati a offrire. Formano tutti insieme un «organismo sacerdotale», dice Pietro, che prende la parola nella Settanta, la traduzione greca dell’Antico Testamento. Dio, in Esodo 19,5ss, aveva fatto a Israele una promessa, una promessa condizionata: «Se ascolterete la mia voce, e custodirete la mia alleanza, sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa». La condizione non era mai stata adempiuta, quindi questa promessa rimaneva una speranza inaccessibile. Adesso, san Pietro dice che la speranza si è attuata: ciò che era stato promesso agli israeliti è divenuto realtà per i credenti in Cristo: «Voi siete una nazione eletta, un sacerdozio regale» (Pt 2,9)
Abbiamo qui la dottrina del sacerdozio battesimale di tutti i credenti, che è l’aspetto principale del sacerdozio nella Chiesa. Facilmente si pensa il contrario, cioè che il più importante sia il sacerdozio ministeriale, ordinato; però non è esatto: parecchi documenti magisteriali lo dicono chiaramente: il sacerdozio ministeriale è al servizio del sacerdozio battesimale, che è lo scopo. Il sacerdozio ministeriale è il mezzo, non è lo scopo. È chiaro che senza il sacerdozio ministeriale il sacerdozio battesimale non potrebbe esistere; però, senza il sacerdozio battesimale di tutti i credenti, iI sacerdozio ministeriale non avrebbe nessun senso. D’altra parte, occorre osservare che il sacerdozio battesimale è il sacerdozio di tutti i battezzati, dal più piccolo al più grande. Noi siamo chiamati a esercitare il sacerdozio battesimale, che spesso viene chiamato sacerdozio comune, in tutta la nostra vita, anche quando esercitiamo il nostro sacerdozio ministeriale. siamo chiamati cioè a offrire noi stessi in unione con il sacrificio di Cristo: questo è esercizio del sacerdozio battesimale. Anche il Papa esercita il sacerdozio battesimale, anche per la persona del Papa il sacerdozio battesimale è più importante del sacerdozio ministeriale. Il sacerdozio ministeriale è un dono di Cristo alla Chiesa, non è una cosa che appartenga personalmente al Papa, non è un qualcosa che aumenti il suo valore personale; ma il modo in cui egli offre se stesso, così come ogni credente è chiamato a offrire se stesso, questo è per lui personalmente la cosa più importante. San Pietro ci precisa poi che il sacerdozio battesimaIe va esercitato con l’offerta di sacrifici spirituali. Non si tratta di sacrifici mentali, cioè di una semplice intenzione mentale di offrirsi a Dio: si tratta dell’offerta della nostra esistenza reale sotto l’impulso dato dello Spirito Santo, nella docilità allo Spirito Santo. Il culto cristiano consiste nel diventare santi in tutta la nostra condotta (1Pt 1,15) vivendo in una carità intensa (cfr. 1Pt 1,22), ciascuno secondo la propria vocazione: «Ciascuno viva secondo il dono di grazia (carisma) ricevuto, mettendolo a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio» ( Pt 4,10). Così, grazie alla risurrezione di Gesù, la nostra vita è trasformata e proclama le opere meravigliose di Colui che ci ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce, noi che un tempo eravamo non-popolo, ora invece siamo popolo di Dio, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece siamo colmati dalla misericordia (cfr. 1Pt 2,9-10). Così San Pietro ci invita a vivere pienamente uniti a Cristo nell’amore riconoscente e nell’offerta generosa.

18 NOVEMBRE FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO – OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII (1962)

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http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/homilies/1962/documents/hf_j-xxiii_hom_19620628_pietro-paolo_it.html

FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO

CELEBRAZIONE DEI VESPRI

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII

Basilica Vaticana – Giovedì, 28 giugno 1962

Le care impressioni della visita al Laterano nei secondi Vesperi di S. Giovanni — in esultanza commossa innanzi al fervore così vivo di quella folla tutta popolare e modesta, ma vibrante di sentimento filiale intorno al Papa, il suo Vescovo di Roma — sono invito continuo a letizia spirituale, per questa celebrazione dei primi Vesperi della festa di S. Pietro in Vaticano. Come è bello ed insieme edificante questo chiudersi del Testamento Antico col Precursore di Cristo e l’aprirsi del Nuovo sulle indicazioni di lui, nella luce e dell’umile pescatore di Galilea, chiamato al governo del Testamento eterno, della Chiesa universale.

SUL MARE DEL MONDO VERSO ROMA
Venerabili Fratelli! quanti qui siete, e diletti figli, non vi torni discaro qualche pensiero che intendiamo esprimervi a comune edificazione.
Con S. Giovanni noi eravamo a sentirne la voce profetica nel deserto, quando insisteva sul Parate viam Domini: rectas facite semitas eius [1]. Cioè: strada del Signore da preparare: vie giuste da rettificare e da percorrere, sino a raggiungere la salvezza per tutti.
Questa sera, siamo invece come sul mare, nella barca di Pietro, il pescatore, dove Gesù era salito, e di là parlava alle turbe. S. Luca racconta il bell’episodio.
— Finito che Gesù ebbe di parlare, disse a Simone: « Va al largo con la barca, e calate le reti per la pesca ». Gli rispose Simone: « Maestro, abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla, ma sulla tua parola calerò le reti ». Così fece infatti, e ne seguì una pescagione copiosissima [2].
Su questa pagina evangelica, Padri della Chiesa e commentatori di ogni tempo amarono trattenersi. Dai loro scritti — ricordiamo particolarmente quelli di Leone e Gregorio — scende una dottrina, la cui nota di solennità è divenuta familiare all’orecchio ed al buon gusto di quanti hanno tra mano abitualmente il Messale ed il Breviario
Distintissimo fra questi il primo, il Magno, della cui morte gloriosa abbiamo festeggiato il centenario il 15 novembre scorso.
In questa vigilia ci attira in modo speciale il pensiero di un altro Pontefice, grande lui pure, Papa Innocenzo III, che questa pagina di S. Luca ha saputo felicemente riassumere sotto amabili significazioni e figure.
Il mare di Galilea, su cui Gesù si posa, è il secolo, diremo meglio il mondo intero, che egli è venuto a redimere. La barca di Pietro è la Santa Chiesa, di cui Pietro, Simone il pescatore, fu fatto capo. L’ordine di Gesù a Pietro e ai suoi perchè vadano al largo e portino a più vasto ardimento la pescagione, il Duc in altum dell’umile naviglio, è Roma, la capitale del mondo di allora, riservata a divenire, più tardi, la vera capitale, e il centro elevato e luminoso del mondo cristiano. La rete da gettarsi su le onde per la conquista delle anime è la predicazione apostolica.

LA CHIESA DI CRISTO DIFFUSA « UBIQUE TERRARUM »
Che spettacolo questo mare di Galilea, chiamato a rappresentare i secoli e i popoli! Aquae multae: populi multi: mare magnum totum saeculum; così lo chiama Papa Innocenzo. Mare grande e spazioso.
Il libro dei Salmi lo designa bene, anche più vivacemente : pieno di pesci d’ogni genere: animalia pusilla cum magnis: illic naves pertransibunt [3]. Come il mare è turbolento e amaro, così il secolo, così il mondo degli uomini, è turbato dalle amarezze e dai contrasti: non mai pace e sicurezza; non mai riposo e tranquillità; sempre e dappertutto timore e tremore: ubique labor et dolor. L’Evangelista S. Giovanni [4] scrisse che il mondo è tutto posto sulla malignità. Il sorriso è commisto al gemito: i punti estremi del gaudio sono occupati dal lutto [5]. L’uccello è nato per il volo: l’uomo è destinato al pesante lavoro [6]. Il libro dell’Ecclesiastico è anche più incisivo : — Una continua occupazione è riservata a tutti gli uomini, un giogo preme sulle spalle di tutti i figli di Adamo. Nel mare i pesci più piccoli sono divorati dai più grandi: così nel mondo i piccoli uomini sono schiacciati dai forti e dai prepotenti [7].
Ebbene è sulla vastità di questo mondo che si stende la misericordia dell’Altissimo, a redenzione dalla schiavitù, ad elevazione delle più nobili energie; è su questo mondo che il Padre Celeste ha mandato il Figlio suo Unigenito, rivestito di umana carne, per assistere tutti i figli dell’uomo nello sforzo della loro risurrezione dalle miserie di quaggiù, e per riaccompagnarli fino alle altezze della eterna vita.
È su questo mare immenso della umanità purificata dalla virtù del Sangue di Cristo, che lo stesso Verbo del Padre propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis, et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine et homo factus est; homo et Salvator mundi, et totius mundi per Ecclesiam Sanctam suam Rex gloriosus et immortalis per saecula.

GENIALE COMMENTO DI INNOCENZO III
La Chiesa di Cristo diffusa ubique terrarum viene rappresentata nel Vangelo dalla barca di Pietro, che Gesù predilesse, da cui sovente amò parlare come Maestro dei popoli, e che in una circostanza particolarmente misteriosa e solenne — questa di cui riferisce S. Luca nel capo quinto del suo Vangelo — volle indicare agli Apostoli suoi, come il punto più elevato delle divine conquiste del suo Regno.
Avete passato una notte infeconda di navigazione col nihil cepimus. Ora dico a te, o Pietro, duc in altum: al largo la barca; e a tutti i suoi: gettate le reti, come fecero in perfetta obbedienza: et concluserunt piscium multitudinem copiosam.
Diletti figli! È a questo punto della lettura evangelica che papa Innocenzo III, nella festa di S. Pietro se ne esce con vigore esultante: L’altezza di questo mare, altitudo maris istius, di cui Gesù benedetto disse a S. Pietro: duc in altum, è Roma, quae primatum et principatum super universum saeculum obtinebat et obtinet.
La divina Provvidenza volle esaltare questa città : perchè come nel tempo del paganesimo trionfante essa sola aveva la dominazione sopra tutta la gentilità sparsa nel mondo, così dopo la venuta di Gesù Redentore iniziatasi la Cristianità, era degno e conveniente che la Chiesa Santa sola tenesse la dignità del magistero e del governo sopra tutti i fedeli della terra. E Papa Innocenzo prosegue a proclamare come Iddio abbia trovato e voluto consonum et dignum, che colui che era il capo e principe della Chiesa, costituisse la sede religiosa e principale, presso la città, che aveva il principato e il governo secolare. Per questo Gesù disse a Pietro Duc in altum, come a dire : Va a Roma e trasferisci te e i tuoi a quella città, e là gettate le vostre reti per la pesca. Così evidente parrà quanto il Signore abbia amato ed ami questa Sede augusta, e questa Roma meritasse il nome di sacerdotale e di regia, imperiale ed apostolica, depositaria ed in esercizio di dominio non solo sopra i corpi, ma anche di magistero sulle anime. Ben più nobile ora e degna di autorità divina che non fosse nel passato di potestà terrena. È assai toccante sentire dalle parole del grande Papa il richiamo della pia tradizione del Domine, quo vadis: e delle parole di Gesù a Pietro, tremante e fuggitivo: « Vado a Roma per farmi crocifiggere un’altra volta ».
Interessante anche la differenza, secondo S. Luca, di espressioni di Gesù, che a S. Pietro parla in singolare: Duc in altum: e poi prosegue in plurale al resto degli Apostoli: Laxate retia in capturam. Il solo Pietro, come solo principe della Chiesa universale, è veduto nell’altezza della sua suprema prelatura. Non possiamo però dimenticare che anche a S. Paolo, come a lui, sarebbe stato affidato il compito di stendere in Roma la rete apostolica della sacra predicazione.
Una spirituale conversazione come questa Nostra, Venerabili Fratelli e diletti figli, che introduce alla festa di S. Pietro, è naturale che si adorni come di duplice corona, che insieme conferma l’associarsi dei due grandi Apostoli, nella ammirazione e nel culto.
Papa Innocenzo arriva fino alla bella comparazione di questi due grandi apostoli della Chiesa Romana, della Chiesa universale, in riferimento storico, poetico e contraddistinto ai due fondatori della Roma primitiva, cioè a Romolo e Remo, le cui due sepolture, al dire degli archeologi, giacevano quasi a parallela distanza dall’un capo all’altro della città; cioè Pietro dalla parte dove Romolo fu tumulato: e Remo dalla parte dove fu indicata la tomba di S. Paolo.
Grande rispetto noi dobbiamo e amiamo rendere ai vetustissimi ricordi della Roma primitiva — come commentava allora Papa Innocenzo — ai duo fratres secundum carnem, qui urbem istam corporaliter non sine divina providentia — condiderunt, et honorabilibus iacent tumulata sepulcris. Ma è ben giusto che la nostra religiosa tenerezza si volga con particolare sentimento ai duo fratres secundum fidem, Petrus et Paulus, qui urbem istam spiritualiter fundaverunt, gloriosis basilicis tumulati.

IL SACRO MINISTERO DELLA GRANDE PREDICAZIONE
Notate la precisa significazione dei contrasti: duo fratres secundum carnem et corporaliter condentes: i due Santi Patroni di Roma, fratres secundum fidem: spiritualiter fundatores, gloriosis basilicis honorificentissime tumulati.
Non dobbiamo dimenticare le reti dei pescatori, all’ordine di Gesù gettate nel mare e raccolte a gran fatica, a gran trionfo di apostolica obbedienza. La rete simbolica che oggi stesso, in intreccio floreale, sta sulle soglie di questa Basilica Vaticana.
Come la barca di Pietro significa la Chiesa, come il mare mosso rappresenta il secolo e il mondo agitato, come Roma il centro dell’attività cattolica ed apostolica: così le reti sono figurazione del ministero della predicazione popolare.
Papa Innocenzo approfitta dell’accenno per dare in sintesi istruttiva e fervorosa i caratteri sacri e peculiari della eloquenza pastorale : che è quanto dire del ministero sacro per la conquista e il nutrimento prezioso, di cui il sacerdozio cattolico deve essere distributore alle anime dei fedeli. Il provvido predicatore deve preparare i suoi saggi di istruzione popolare e anche più elaborata per qualunque classe e levatura. Saper variare di argomento, di tono, di colore : ora circa le virtù, ora circa i vizi, ora circa i premi ed ora circa i castighi, della misericordia e della giustizia, assai su questi due temi, ora con semplicità, ora con sottilità, ora secondo la storia ed ora secondo l’allegoria : presentazione di autorità, di similitudini, di ragioni, di esempi.
Questi sono i fili e gli intrecci, di cui sono fatte le reti, capaci, resistenti, preziose. Queste le reti più sicure ed efficaci per convincere le anime alla chiarezza di visione della buona dottrina apostolica, per portarle al fervore, alla santificazione, alla letizia.
Di queste reti si sono serviti i Beatissimi Apostoli Pietro e Paolo. Le loro Lettere ci parlano ancora dal fondo della loro età. Per questa predicazione Roma si è convertita dall’errore alla verità, dai vizi alle virtù: ed è divenuta domina gentium, maestra del mondo.

ONORE NEL TEMPO AI BEATI PRINCIPI DEGLI APOSTOLI
La venerazione, che ogni buon cattolico nutre per gli Apostoli di Cristo di tutti i tempi e di tutti i popoli, deve mantenere il suo fervore : anzi nella imminente celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, che vuole essere tutto un profluvio di celeste dottrina, aumentare di ispirazione, di pacifica e santa esaltazione.
Ma di questi due primi e beati Apostoli di Roma, Pietro e Paolo, sempre in eco alla tradizione dei secoli come Padri e Patroni principali e preclarissimi, dobbiamo particolarmente studiare i grandi insegnamenti, a splendore delle intelligenze, a fiamma dei cuori.
Ci piace por termine a questa effusione di sentimenti e di voti paterni con la fervente invocazione augurale del grande Pontefice Innocenzo III, uno dei più insigni e gloriosi della Chiesa e della storia:
Illos patres et patronos debet specialiter et principaliter honorare Roma inclita nostra, quatenus, meritis et precibus eorum adiuta, ita nunc salubriter conservetur in terris, ut tandem feliciter coronetur in caelis. Praestante Domino nostro Iesu Christo, qui est super omnia Deus benedictus in saecula saeculorum. Amen [8].
———————————-

[1] Cfr. Matth. 3, 3; Marc. 1, 3; Luc. 3, 4.
[2] Cfr. Luc. 5, 1-7.
[3] Ps. 103, 25-26.
[4] 1 Io. 5, 19.
[5] Prov. 14, 13.
[6] Iob. 5, 7.
[7] Cfr. Eccl. 90 e 13.
[8] Innocentii III, Opera omnia, Sermo XXII, in solemnitate B. Apostolorum Petri et Pauli, Migne PL 207, col. 555, ss. 

18 novembre – Dedicazione delle Basiliche dei SS. Pietro e Paolo

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/342.html

18 novembre – Dedicazione delle Basiliche dei SS. Pietro e Paolo

BIOGRAFIA
Fin dal secolo XII nella basilica vaticana di san Pietro e in quella di san Paolo sulla via Ostiense, si celebravano gli anniversari delle loro dedicazioni fatte nel secolo IV dai santi Pontefici Silvestro e Siricio. La celebrazione di questa commemorazione in tempi più recenti fu estesa a tutte le chiese di rito romano. Come nell’anniversario della dedicazione della basilica di santa Maria Maggiore (5 agosto) si celebra la maternità della Vergine Madre di Dio, così in questo giorno si onorano i due più grandi apostoli di Cristo.

DAGLI SCRITTI…
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
Pietro e Paolo germogli della divina semente

«Preziosa agli occhi del Signore é la morte dei suoi fedeli» (Sal 115, 15) e nessun genere di crudeltà può distruggere una religione, che si fonda sul mistero della croce di Cristo. La Chiesa infatti non diminuisce con le persecuzioni, anzi si sviluppa, e il campo del Signore si arricchisce di una messe sempre più abbondante, quando i chicci di grano, caduti a uno a uno, tornano a rinascere moltiplicati. Dalla divina semente sono nati i due nostri straordinari germogli, Pietro e Paolo. Da essi si é sviluppata una discendenza innumerevole, come dimostrano le migliaia di santi martiri, che, emuli dei trionfi degli apostoli, hanno suscitato intorno alla nostra città una moltitudine di popoli, rivestiti di porpora e rifulgenti da ogni parte di splendida luce, e hanno coronato la chiesa di Roma di un’unica corona ornata di molte e magnifiche gemme.
Noi di tutti i santi celebriamo con gioia la festa. Sono infatti un dono di Dio, un aiuto alla nostra debolezza, un esempio di virtù e un sostegno alla nostra fede. Però, se con ragione celebriamo tutti i santi in letizia, un’esultanza speciale sentiamo nel commemorare i due apostoli Pietro e Paolo, perché, fra tutte le membra privilegiate del corpo mistico, essi hanno avuto da Dio una funzione davvero speciale. Essi sono quasi i due occhi di quel capo, che é Cristo. Nei loro meriti e nelle loro virtù, che superano ogni capacità di espressione, non dobbiamo vedere nessuna diversità, nessuna distinzione, perché l’elezione li ha resi pari, il lavoro apostolico li ha fatti simili e la morte li ha uniti nella stessa sorte.
D’altra parte, é la nostra esperienza, confermata dalla testimonianza dei nostri antenati, a farci credere fermamente che in tutti i travagli di questa vita saremo sempre aiutati dalla preghiere di questi due grandi protettori, per conseguire la misericordia di Dio. Avviene quindi che, come siamo precipitati in basso per le nostre colpe, così veniamo sollevati in alto dai meriti di questi apostoli.(Disc. 82 nella festa degli apostoli Pietro e Paolo 1, 6-7; PL 54, 426-428)

Colletta
Guida e sostieni, Signore, la tua Chiesa, che dalla predicazione degli apostoli Pietro e Paolo ha ricevuto il primo annunzio del Vangelo, e fà che per il loro patrocinio progredisca nella fede e nell’amore, sino alla fine dei tempi. Per il nostro Signore…

Sulle offerte
Ti offriamo, Signore, i nostri doni invocando la tua clemenza, perché la fede, trasmessa dai santi Apostoli, si conservi integra nei nostri cuori. Per Cristo nostro Signore.

Dopo la comunione
Esulti, Signore, il tuo popolo nel glorioso ricordo degli apostoli Pietro e Paolo e con la forza del pane di vita proceda sicuro nella via dell’unità e della pace. Per Cristo nostro Signore.

Publié dans:SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO |on 18 novembre, 2011 |Pas de commentaires »
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