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OMELIA XIX DOMENICA DEL T.O. – « SIATE PRONTI CON LA CINTURA AI FIANCHI E LE LUCERNE ACCESE »

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OMELIA XIX DOMENICA DEL T.O. – « SIATE PRONTI CON LA CINTURA AI FIANCHI E LE LUCERNE ACCESE »

Abbiamo l’impressione che le letture bibliche di questa Domenica non siano state né coordinate né « ritagliate » troppo bene: così, ad esempio, non si vede chiaramente come la prima lettura leghi con la terza; il brano di Vangelo ci riporta delle pericopi non del tutto omogenee fra di loro, ecc. In ogni modo, cercando di cogliere il filo unitario che, nelle intenzioni almeno, dovrebbe legare i brani tra loro, tentiamo di far emergere la tematica di fondo racchiusa nelle odierne letture: a mio parere, essa dovrebbe consistere nel senso di « attesa » vigile e laboriosa della « salvezza », che Dio ci procura e realizza per noi nella trama quotidiana degli eventi della storia e che porterà a maturazione definitiva al momento del ritorno di Cristo. Proprio per questo il cristiano avrà sempre « la cintura ai fianchi » e terrà nelle mani la « lucerna accesa » (cf Lc 12,35), in attesa del Signore che potrebbe ritornare a qualsiasi ora della « notte ».

« Il tuo popolo si attendeva la salvezza dei giusti… »

Il primo brano, ripreso dal libro della Sapienza, ci descrive per rapidi accenni e per contrapposizione ciò che è avvenuto durante la notte della fuga degli Ebrei dalla schiavitù d’Egitto: mentre Dio distrugge i primogeniti degli Egiziani, salva con prodigi gli Ebrei e i loro figli, mantenendo così le « promesse » fatte ai padri. « Quella notte fu preannunziata ai nostri padri, perché sapendo a quali promesse avevano creduto, stessero di buon animo. Il tuo popolo si attendeva la salvezza dei giusti come lo sterminio dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così ci rendesti gloriosi, chiamandoci a te » (Sap 18,6-8). In ricordo di quella liberazione prodigiosa, Dio istituì, come pegno di fedeltà verso il suo popolo, la « Pasqua », che gli Ebrei celebrano ancora « intonando prima i canti di lode dei padri » (v. 9). Come si vede, si descrive uno dei momenti culminanti della « storia della salvezza », che è stata possibile perché Israele ha « creduto » alle promesse fattegli da Dio e ha saputo attenderne pazientemente, per centinaia di anni, la realizzazione. L’attesa perciò si appoggia sulla « fede » ed è da essa continuamente alimentata: proprio per questo si può vedere facilmente come la fede, anche se ha le sue radici nel « passato », in quanto nel passato Dio ha agito e ha parlato, è aperta al « futuro » perché la salvezza deve ancora compiersi per tutti noi nella storia e, soprattutto, perché dovrà maturarsi con il definitivo ritorno di Cristo nella gloria. « Fede » e « speranza », perciò, si intrecciano mirabilmente fra di loro, creando tensione fra il « già » e il « non ancora » e impedendo al cristiano di essere prigioniero del tempo che passa e della storia: per il cristiano « il più » è ancora da venire!

« Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì »

Su questa linea si muove il meraviglioso brano della lettera agli Ebrei, che esalta la fede di Abramo in quanto aperta al futuro della realizzazione delle promesse: tutto per lui è da attendere e da verificare. Dio gli ha promesso una terra, ma i suoi discendenti la possederanno soltanto dopo circa 700 anni; Dio gli ha promesso un figlio quando sia lui che la moglie Sara non possono più averlo e, dopo che è stato ottenuto, glielo chiede addirittura in sacrificio! Una fede dunque, quella di Abramo, senz’altra garanzia che la « promessa » di Dio e la capacità del grande Patriarca di saper attendere con pazienza il maturarsi lento e silenzioso degli eventi. « Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso… Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra… » (Eb 11,8-10.13-14). È commovente e pieno di pathos questo gesto di Abramo e dei Patriarchi che « salutano da lontano… » i beni « promessi » da Dio, avviandosi, per conto proprio, verso la patria « vera », cioè quella « celeste » (v. 16), « il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (v. 10). La « terra promessa » non era per loro che il « simbolo » di una patria più grande, che sta davanti, che sta oltre e spinge a credere, a sperare, ad attendere ancora. È la nostalgia del futuro, il senso dell’attesa del non-compiuto, che Abramo esprime nella forma più acuta e paradigmatica: egli è più cristiano di tutti noi!

« Non temere, piccolo gregge, perché al Padre è piaciuto di darvi il regno »

Così recuperiamo anche il senso più giusto del lungo brano evangelico, che non è del tutto omogeneo, come abbiamo già detto. Esso infatti contiene alcuni versetti (Lc 12,32-34) che fanno capo alla pericope precedente, tutta incentrata sull’invito ad affidarsi alla Provvidenza e a non porre la propria sicurezza sui beni di questa terra. Se ben si ricorda, era questo il tema che abbiamo, almeno in parte, sviluppato la Domenica scorsa: « Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno. Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore » (vv. 32-34). Qui il discorso dovrebbe essere rivolto in modo particolare ai discepoli, chiamati « piccolo gregge » per la quasi inconsistenza del numero e la loro poca importanza. Eppure ad essi Dio si è compiaciuto di « dare il suo regno »! Non è dunque l’uomo che conquista il « regno » con le sue forze, o la sua intelligenza, o la sua scaltrezza, ma è Dio che lo « dona » gratuitamente; e siccome il « regno », in fin dei conti, non è altro che la potenza di Dio che salva, liberando l’uomo dal male, si capisce come esso si manifesti soprattutto là dove l’uomo si presenta a Dio senza nessuna sicurezza o autosufficienza. Di qui l’invito a « vendere » perfino quello che uno ha per « darlo » ai poveri: in tal modo il discepolo di Cristo, che attua il « regno di Dio » in sé e negli altri, fa già circolare nelle strutture terrene la salvezza che nasce dall’amore. Se il regno di Dio « già » opera nel mondo e nei credenti che non hanno legato il loro cuore a nessun « tesoro » di questa terra (v. 34), è anche vero, però, che esso deve soprattutto manifestarsi « alla fine ». Forse qui è appeso il filo di congiungimento e di passaggio dalla considerazione sulla libertà dalle ricchezze al senso di « vigilanza » e di attesa del « padrone » che deve tornare a casa da un momento all’altro (v. 36): sia nell’uno che nell’altro caso il discepolo deve essere « disponibile » per l’ingresso (attuale o futuro) nel regno. È indubbio, comunque, che il tono a tutto il brano evangelico è dato non tanto dai primi versetti, relativi al distacco dalle ricchezze, quanto dalle due parabole successive che, con accentuazioni e modalità diverse, sottolineano la necessità per il cristiano di essere vigilante, « perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate » (v. 40). Il « regno », in qualunque maniera o in qualsiasi momento si presenti, esige nei discepoli di Cristo cuore « libero » e « vigilante ».

« Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro »

« Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa » (vv. 35-36). La « cintura ai fianchi » descrive l’atteggiamento tipico di chi si appresta a mettersi in viaggio o a lavorare, e perciò si raccoglie la lunga veste alla cintura per essere più libero nei movimenti; le « lucerne accese » servono per l’improvviso ritorno del padrone durante la notte. Non è, però, questo atteggiamento dei servi, timido, o preoccupato, o pauroso: anzi è pervaso di gioia, come dimostra il fatto che, non appena tornato, il padrone, capovolgendo i ruoli, si metterà egli stesso a servirli: « Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli: in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli » (v. 37). È evidente qui il riferimento a Gesù come « servo di Jahvèh », che si mostra tale soprattutto nella storia della Passione: « Io sono in mezzo a voi come uno che serve » (Lc 22,27). L’idea del regno e anche la sua attesa sono dunque intimamente collegate con la « gioia »: perciò l’invito di Gesù a « tenersi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate » (v. 40), non è tanto una minaccia quanto una sollecitazione a tenere il cuore e la mente gioiosamente aperti alla luce che ci inonderà. La seconda parabola, quella dell’amministratore fedele, si muove sulla stessa linea della precedente; però è diretta soprattutto ai capi della comunità cristiana, come risulta sia dal suo contenuto, sia dalla domanda di Pietro che la provoca: « Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti? ». Il Signore rispose: « Qual è dunque l’amministratore fedele e saggio, che il Signore porrà a capo della sua servitù, per distribuire a suo tempo la razione di cibo? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro. In verità vi dico, lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: Il padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà nel giorno in cui meno se l’aspetta e in un’ora che non sa, e lo punirà con rigore, assegnandogli il posto fra gli infedeli… » (vv. 41-48). In questa seconda parabola si avverte, più che nella prima, il decadere della tensione escatologica, per un doppio motivo: il primo, che è comune a tutti i credenti, è costituito dal fatto di questa indefinita dilazione del ritorno del padrone; così, alla fine, ci si abitua a non aspettarlo più! Il secondo è tipico di chi è costituito in autorità, come l’amministratore della parabola: è la tentazione di farsi « padroni » degli altri « servi » e delle altre « serve » (cf v. 45), ormai che l’attesa dell’unico « padrone » è scomparsa dall’orizzonte. Soprattutto l’autorità (e qui si parla ovviamente dell’autorità nella Chiesa!) ha bisogno, perciò, di sentirsi continuamente posta sotto il « giudizio » escatologico, per rimanere sempre e solo « servizio », come insegna il Vangelo. E il « giudizio » è questo, e già si esprime adesso: « A chiunque fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più » (v. 48). Chi per missione insegna agli altri a essere « vigilanti » perché il Signore sta già « bussando » alla porta (cf Ap 3,20), non dimentichi che è soprattutto per gli « annunciatori » che questo è stato detto, perché lo stesso Vangelo può diventare nelle loro mani strumento di dominio e di potere. Invece, come dice Paolo, « noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia » (2 Cor 1,24).

Settimio CIPRIANI

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