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FEDE E OPERE. SULLA GIUSTIFICAZIONE

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FEDE E OPERE. SULLA GIUSTIFICAZIONE

Editoriale

[Gesù Cristo] è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione. Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. (Rm 4,25-5,1) 

Quando si sente il termine giustificazione la prima cosa che viene in mente a molti è quel foglietto, firmato dai genitori, che ciascuno di noi doveva riportare alla maestra una volta tornato a scuola dopo un’assenza. Non potevamo redigere o firmare da soli la nostra giustificazione, anche se a volte, con l’astuzia innocente dei bambini, abbiamo sognato di farlo per evitare un’interrogazione incombente. Non è inutile partire da questa comune e semplice esperienza, apparentemente insignificante, per cercare di illuminare una parola che segna l’originalità della fede cristiana, ma è anche stata causa di incomprensioni e profonde separazioni tra le chiese in Occidente. Giustificazione, nell’esperienza dello scolaro e in quella del peccatore perdonato, è un essere giustificati, un esser riammessi nel consesso da cui la malattia (e analogamente il peccato) li aveva allontanati. Il mistero della giustificazione è contemplare l’azione misericordiosa di Dio che in Cristo riscatta i peccatori per costituirli figli, fino a renderli «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4). Diceva il teologo A. Birmelé, in un intervento alla XXXVII Sessione del Segretariato attività ecumeniche: «La grazia guarda e sceglie; è parziale, vive di un partito preso. Dio non è imparziale: ha preso partito per gli esseri umani». La dottrina della giustificazione lo afferma: Dio non è imparziale, anzi rende giusti gli ingiusti, figli i nemici. Davanti a questa affermazione non si può fare a meno di chiedersi perché mai Dio faccia una cosa del genere. Rispondeva Agostino: «Avendo un Figlio unigenito, Dio l’ha fatto figlio dell’uomo, e così viceversa ha reso il figlio dell’uomo figlio di Dio. Cerca il merito, la causa, la giustizia di questo, e vedi se trovi mai altro che grazia» (Disc. 185). Riflettere ancora sulla giustificazione non è quindi facoltativo per i cristiani, soprattutto per quanti sono immersi nella cultura del commercio, dello scambio a pagamento, in cui lo spazio per la gratuità e per il dono immeritato si va riducendo a un mero ricordo. La cultura occidentale è stata e sarà sempre tentata di pelagianesimo: salvarsi da soli, mettersi davanti a Dio con una giustizia propria, ecco il «mito» anticristiano di chi non vuole riconoscere l’extra nos della salvezza. La reazione luterana a ogni forma di pelagianesimo portò a interpretare le opere buone che l’uomo compie come «pagamento» per meritarsi la salvezza, finendo per insistere unicamente sulla passività ricettiva degli esseri umani in ordine all’azione di Dio. Questa presa di posizione condusse poi i teologi della Controriforma a sospettare che i luterani non credessero al reale cambiamento dell’uomo giustificato e alla necessità della libera collaborazione all’opera della grazia. Secoli di condanne e di reciproci fraintendimenti, alimentati da un’apologetica aggressiva, hanno scavato tra le confessioni cristiane d’Occidente un fossato. Ci aiuta a risalire alle origini della frattura fra le chiese l’articolo di Jos Vercruysse, che presenta la posizione delle varie comunità riformate (luterani, calvinisti e anglicani) a confronto con le prese si posizione del concilio di Trento e le reciproche condanne dottrinali. Il 1999 segna una tappa fondamentale nel superamento della divisione. In quell’anno è stata firmata dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione luterana mondiale la prima Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. La novità di questo testo sta nel fatto che l’accordo raggiunto, pur parziale, non è rimasto al livello del dialogo fra teologi, come nel caso di tanti documenti che hanno preceduto la Dichiarazione, ma è stato ufficialmente sottoscritto dalle chiese. L’iter della stesura e della ricezione del documento, che segna una decisiva acquisizione nel progresso dell’ecumenismo, ci viene presentato nell’articolo affidato a PawelHolc. Un’espressione centrale descrive sinteticamente i risultati raggiunti: «Consenso differenziato». Il treno del dialogo viaggia su una coppia di binari che corrono paralleli, senza convergere in una monorotaia né divergere a rischio di tragici deragliamenti. Pur differenziato e parziale il consenso guadagnato è irrevocabile. Le chiese coinvolte nel dialogo si sono sentite chiamate dalla Dichiarazione congiunta a trovare un nuovo linguaggio, capace di rendere comprensibile agli uomini e alle donne del nostro tempo l’essenziale verità della giustificazione. A questo proposito l’articolo di AndreaToniolo cerca di approfondire il ruolo e le conseguenze della dottrina della giustificazione nella società postmoderna. Egli mette in rilievo il «buon annuncio» della giustificazione per grazia, che libera l’uomo dall’impossibile compito moralistico di salvarsi da solo, e afferma invece il primato della persona al di sopra di ogni conquista o insuccesso individuale. Affinché le chiese possano però confessare insieme la verità da comunicare al mondo assetato di salvezza, è necessario che esse arrivino prima a un consenso più ampio e a una comune espressione delle verità fondamentali. Si apre a questo punto il vasto problema del linguaggio, vera chiave di volta del dialogo ecumenico. Ciò comporta una paziente ermeneutica delle affermazioni del partner di dialogo, per giungere non a sopprimere ogni differenza linguistica, di sottolineature o di formulazione teologica, ma piuttosto a cogliere, nell’espressione dell’altro, i riflessi di una «diversità riconciliata». A questo livello si situa il contributo di BasilioPetrà, che sintetizza i risultati del dialogo tra ortodossi e luterani sul tema della giustificazione. Tale colloquio ha prodotto un’intesa che precede quella cattolico-luterana e ne apre la via, componendo il dissidio sui reciproci malintesi della giustizia imputata e della divinizzazione. Ortodossi e luterani riconoscono adesso che le differenze che permangono nelle loro teologie sono date dalle peculiarità dei loro rispettivi linguaggi, entrambi comunque biblicamente fondati. Anche LucianoBordignon, partendo da una analisi dei limiti dell’espressione scolastica della giustificazione, si sofferma sulle categorie linguistiche che descrivono l’offerta divina della giustizia. L’articolo propone un interessante studio delle metafore di salvezza contenute nei testi biblici. Quindi, rilevata una certa «estraneità» della mentalità cristiana attuale, sia cattolica che luterana, riguardo al tema della giustificazione, afferma l’urgenza di trovare una metafora-chiave che permetta di rimettere in contatto i cristiani di oggi con questo tema centrale per la vita di fede. L’immagine del dono, con i suoi corollari della gratuità e della gratitudine, viene colta come una possibile via per ridare senso esistenziale alla sopita coscienza della giustificazione. Se davvero il cammino dell’ecumenismo teologico, come mostra in modo paradigmatico la vicenda della Dichiarazione congiunta, è avviato verso un sempre più ampio consenso nella fede che rispetti la pluralità dei modi di esprimerla, è anche indispensabile approfondire le basi comuni su cui poggia il consenso. In particolare, il recupero della dimensione biblica della giustificazione. AntonioPitta, riflette sulla radice della giustificazione rappresentata dall’offerta gratuita dell’alleanza veterotestamentaria. Essa fiorisce nel Nuovo Testamento nella letteratura paolina, tanto valorizzata dai fratelli luterani;  questo però non deve condurre a trascurare la prospettiva complementare che sottolinea la lettera di Giacomo. Solo così si arriva a una visione completa del rapporto fede e opere in ordine al nostro tema. Il percorso compiuto nel chiarire la questione della giustificazione mostra, tuttavia, che si è solo agli inizi. Certo, si è riusciti ad accordarsi su un articolo di fede assolutamente centrale, ma sono comunque rimaste aperte varie domande e soprattutto non è stato adeguatamente sciolto il nodo che riguarda la posizione di questo articolo di fede nell’ambito delle teologie cattolica e protestante. Se infatti per i luterani esso è il criterio unico attraverso il quale si può giudicare tutto il complesso dottrinale cristiano, per i cattolici, pur rimanendo centrale, deve essere armonicamente collegato alle altre verità gerarchicamente ordinate. Ci espone questi problemi l’articolo di AngeloMaffeis, che in modo equilibrato sottolinea i risultati raggiunti, senza timore di puntualizzare i motivi che non rendono ancora possibile la piena unità visibile. In particolare si riconosce che non è ancora stata raggiunta un’intesa circa le implicazioni ecclesiali della giustificazione. GiampieroBof ci fa riflettere sul contributo che può fornire oggi la teologia nell’aiutare le chiese a farsi promotrici di giustizia a ogni livello. L’articolo di congedo è affidato a GianniColzani che rilegge il tema della giustificazione seguendo il pensiero di Karl Barth. La sua proposta, pur confessionalmente qualificata, è un tentativo sinceramente cristiano di porre con forza la centralità di Gesù Cristo. La giustizia di Cristo, che diviene nostra in virtù della fede, ha per Barth una vera azione trasformatrice dell’uomo, è una ri-creazione. Nel cogliere gli aspetti positivi della teologia barthiana, Colzani ne rileva anche le fragilità. In particolare la debolezza antropologica: il sola fide, sempre fortemente ribadito, mette l’uomo in una condizione di quasi-estraneità all’opera che Dio compie in lui:  è solo spettatore, mai collaboratore attivo. Un grande merito del dibattito tra autori cattolici e protestanti, a partire dalle posizioni di Barth, è stato quello di chiarire definitivamente il rapporto «motivazione-effetto» tra fede e opere, su cui non sussiste più alcuna disputa.

Nella documentazione non abbiamo voluto far mancare almeno la parte centrale della Dichiarazione (il capitolo 4). L’invito alla lettura, curato da AldoModa,  fa il punto bibliografico sui commenti alla Dichiarazione e aiuta il lettore ad orientarsi nell’approfondimento delle questioni trattate.

LA SPERANZA NELLA BIBBIA (anche Paolo) – Giuseppe Barbaglio

http://www.finesettimana.org/pmwiki/?n=Db.Sintesi?num=5

LA SPERANZA NELLA BIBBIA (anche Paolo)

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

Verbania Pallanza, 28 febbraio-1 marzo 1981
Nella relazione ci si sofferma su quattro filoni: 1) sulla fede di Abramo che è speranza; 2) sulla speranza come pianticella esile, ma anche rigogliosa, che cresce lungo i fiumi di Babilonia: l’esperienza dell’esilio per il popolo di Israele; 3) sulla speranza in alcuni testi di Paolo; 4) la speranza di Gesù.

1. la fede di Abramo che è speranza
Il capitolo 15 della Genesi contiene la riflessione del redattore sulla vicenda di Abramo quale fu rivissuta da Israele in tempi molto lontani dall’esistenza di Abramo stesso.
« Abramo credette e gli fu computato a giustizia ».
Nella tradizione biblica, credere significa stare appoggiato. Abramo credette: stette saldamente appoggiato alla Parola di Dio, visse ancorato alla promessa di Dio. La promessa di Dio è promessa di una terra e promessa di una numerosa discendenza. Ma la promessa di una terra è contraddittoria, perché i possessori di questa terra sono altri (i Cananei); anche la promessa di una numerosa discendenza è contraddittoria, perché Abramo non ha discendenti. E’ una promessa in un contesto di deserto di vita. La promessa di Dio si pone perciò in termini alternativi alla storia, alle condizioni obiettive.
Abramo credette, superò la contraddizione tra promessa e realtà attuale e si ancorò alla promessa. La sua fede gli permise di occupare la giusta collocazione nei confronti di Dio. L’appoggiarsi di Abramo alla promessa di Dio (alternativa, contraddittoria rispetto alla situazione attuale) è la speranza.
Scrive Paolo nella lettera ai Romani (4,18): « Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza ». Credette in un Dio « che rende vita ai morti e chiama all’essere le cose che ancora non sono » (versetto 17). La riflessione di Paolo è in chiave cristologica, perché Paolo ha presente la resurrezione di Cristo. Come Dio resuscitò dalla sterilità di Sara e dall’anzianità di Abramo il figlio Isacco, così Dio resuscitò da morte suo figlio Gesù. Dice Paolo: come ad Abramo fu computato a giustizia, così anche per noi. Abramo è il prototipo di colui che crede contro ogni speranza umana.

Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza in un Dio che resuscita e che chiama all’essere ciò che non esiste; è speranza contro ogni speranza umana. La speranza di Abramo (che rappresenta il tipo di ogni credente) non va confusa con il facile ottimismo. Non è un ottimismo che si basa sull’evoluzione positiva delle situazioni, ma è una speranza che si coniuga in termini di sfida alla situazione attuale. È una speranza nonostante. Questo deve far riflettere noi, che siamo i figli delle speranze facili, ottimistiche, a basso prezzo (quali le speranze del ’68: sembrava che i cambiamenti fossero dietro l’angolo). La speranza di Abramo (e perciò dei credenti) è ad altissimo prezzo.
- La speranza di Abramo è speranza in possibilità prodigiose, le quali sono promesse di vita, di resurrezione (in senso molto vasto). Prendiamo i discorsi sui miracoli della Bibbia: non vanno interpretati secondo la nostra sensibilità positivista. Il metro della realtà è il metro del prodigio, del miracolo, della possibilità di vita dove regna la morte, della resurrezione nella nostra storia nonostante tutto. La speranza è sotto il segno della contraddizione, si lega al prodigio, che è promessa.
- La promessa di Dio (promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione, promessa di una terra ad Abramo mentre ci sono altri possessori, di una discendenza dove non ci sono figli), che sfida lo status quo, non va interpretata in chiave trascendentalistica; al contrario, essa è incarnata nella promessa umana, si colloca in un orizzonte in cui giocano le promesse umane. La promessa di Dio, il dono di Dio, lo Spirito di Dio non sono una realtà che ci coglie direttamente: sono mediati (a cominciare da Cristo, che è il solo mediatore). Troviamo la promessa di Dio nelle promesse che ci scambiamo. Essa è lo sfondo della promessa di vita e resurrezione tra noi, la profondità escatologica finale delle promesse tra noi. Le promesse che ci scambiamo sono vere nella misura in cui riflettono la logica della promessa di Dio, che è promessa di vita dove c’è morte, di resurrezione dove c’è cimitero.
- La speranza è affidarsi alla promessa, è appoggiarsi. Ma questo affidarsi alla promessa di Dio, questa fiducia, non vanno interpretate in termini di pigrizia storica. Abramo non si è affidato alla promessa di Dio in termini contemplativi: si è mosso, ha agito, è venuto nella terra che era sua per promessa, ma dei Cananei per titolo storico, giuridico. Affidarsi alla promessa significa uscire dalla situazione, dal passato e dal presente, che possediamo, e camminare verso. E’ un processo di sradicamento. Abramo è stato sradicato dalla sua situazione di possesso (« Esci dalla tua terra, dalla tua famiglia, dalla tua parentela ») per un nuovo radicamento: nella terra promessa.
- La speranza di Abramo è speranza di nomade, di chi perde ciò che possiede. Abramo, ancorandosi alla promessa di Dio, ha abbandonato quello che possedeva. Venendo in Canaan, non ha ancora quello che avrà. La speranza di Abramo è la speranza dei poveri, di quelli senza alcun titolo di possesso, perché sono usciti dalla sicurezza, dal possesso, e non hanno ancora quello che è stato promesso. Possiedono solo la parola promissoria di Dio. In base ad essa si sono mossi, camminano. Il camminare, il muoversi ha valore simbolico. Nella lettera agli Ebrei (cap. 13, versetto 14) si parla dei credenti come di coloro che non hanno qui la loro città, stabile, ma sono in cerca di quella futura. Abramo è in cerca della terra futura.

2. la speranza durante l’esperienza dell’esilio del popolo di Israele
Nel 586 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, conquista Gerusalemme e la rade al suolo. Alcune migliaia di abitanti del regno di Giuda (gli strati più elevati) vengono deportati lungo i fiumi di Babilonia. Il salmo 137 è il canto nostalgico degli esuli che, lontani dalla loro patria, hanno appeso le cetre ai salici: non possono cantare un cantico del Signore in terra straniera. « Se io mi dimenticherò di te, o Gerusalemme, sia messa in oblio la mia destra. Si attacchi la mia lingua alle mie fauci, se io non avrò memoria di te, se io non metterò Gerusalemme al di sopra di ogni mia allegrezza ».
C’è una grande nostalgia in questi esuli, anche perché Gerusalemme contava tutto per loro. Su una sponda del fiume di Babilonia cresce la pianta della rassegnazione, del disfattismo, della disperazione, poiché questi esuli sono coscienti di aver perduto tutto: terra, re, tempio, sacerdozio. Pensano che il progetto di Dio su di loro, popolo di Dio, sia finito, che sia la fine della storia dell’Alleanza. Dicono: siamo morti, come ossa aride, sparse nella valle tra i due fiumi; o si considerano dei cadaveri chiusi ermeticamente nei sepolcri. Sull’altra sponda del fiume di Babilonia si fa udire la voce profetica di Geremia e Ezechiele, in contraddizione con il disfattismo degli esuli.
Geremia abitava a Gerusalemme, ma seguiva da vicino gli esuli, col cuore era con loro, ritenendo che la rinascita del popolo di Israele partisse da loro. Quando a Gerusalemme la svalutazione delle proprietà terriere era al culmine, Geremia fece un gesto in contraddizione rispetto al processo inflazionistico, che spingeva tutti a vendere: comprò un campo e pubblicamente stese un atto notarile di compravendita (i profeti annunciavano la Parola di Dio non solo vocalmente, ma anche con azioni simboliche). Davanti alla meraviglia di tutti di fronte al suo gesto, Geremia disse: « Verrà quel giorno in cui si compreranno campi in questo paese, di cui voi dite: « È una desolazione, senza uomini e senza bestiame, abbandonato in potere dei Caldei. Si compreranno campi con denaro, si stenderanno dei contratti e si sigilleranno… » (32-43-44). Geremia annuncia la speranza in un momento di desolazione.
Ezechiele viveva con gli esuli, perché faceva parte della classe sacerdotale di Gerusalemme. La sua parola però risuonava in esilio. Ha una visione di una valle piena di ossa aride; da Dio riceve l’ordine di profetizzare su quelle ossa, cioè di dire la Parola di Dio. Sotto l’effetto della Parola di Dio pronunciata dal profeta, il popolo si rialza, ma non può ancora camminare. Allora Dio dà ad Ezechiele il secondo ordine, di dire a quelle ossa aride: « Io mando il mio Spirito che è soffio di vita ». La parola profetica di Ezechiele annuncia la rianimazione delle ossa aride e lo scoprimento dei sepolcri. Su questa sponda del fiume di Babilonia nasce la pianticella di speranza per bocca di Geremia ed Ezechiele.

Alcune riflessioni:
- Questa speranza è speranza contro ogni motivo di disfattismo, di disperazione. Ancora una volta è una speranza contraddittoria rispetto allo status quo; è speranza di resurrezione di un popolo.
- Mentre la storia di Abramo è la storia di un credente (anche se il prototipo di tutti i credenti) la parola di Geremia ed Ezechiele presenta una speranza comunitaria, di popolo.
- È una speranza sostenuta sia dalla Parola di Dio (che rimette in piedi, ma non fa muovere), sia, in un secondo momento, dallo Spirito di Dio (che è il principio creativo). La speranza presentata dai profeti non equivale ad un programma per il futuro, da realizzare più o meno volontaristicamente, ma nasce in un campo di lotta tra forze di rassegnazione e forze vivificanti, dello Spirito. Speranza, nella bibbia, è sinonimo di dinamismo, di creazione, di movimento. La speranza è una bandiera puntata sul campo di lotta che in noi e intorno a noi. Le forze vivificanti sono forze donate da Dio, che è lo Spirito: perciò sono forze di vita, di resurrezione. La speranza si gioca nella lotta. Non è attendere comodamente che piova la manna dal cielo: è la speranza dei combattenti che si appoggiano alla forza della Parola di Dio. Questa è forza che produce fiducia, che fa passare alla speranza; è energia, è come una pioggia, che risale al cielo non senza aver fecondato il campo; è creatrice, suscitatrice di essere dove non c’è essere. Parola e Spirito di Dio nella bibbia sono sempre coniugate come forze operative, creatrici. Giovanni: la Parola è energia creatrice solo se animata dallo Spirito.
- La speranza, in quanto si appoggia allo Spirito di Dio, alle forze creatrici, è una forza creatrice del nuovo. La storia del popolo di Dio, così come viene interpretata dai profeti, è storia contraddittoria, perché da una parte c’è la speranza di Dio e dall’altra parte c’è la delusione, poiché la storia non realizza mai i grandi sogni di speranza. Tuttavia dalla delusione non nasce la rassegnazione, ma un rilancio di speranza. Poi subentrerà una nuova delusione, ma il rilancio di speranza continua. Isaia, in una situazione di delusione, rilancia la speranza. Promette in nome di Dio la creazione di qualcosa di nuovo. « Non abbiate nostalgia del passato: Io, Dio, sto per creare cose nuove ». Scrive Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (1, 20): « Tutte le promesse di Dio in Lui sono diventate ‘sì’ « . Il rilancio della speranza dopo Cristo è un rilancio della speranza per coloro che solidarizzano con Cristo.
- Lo Spirito di Dio sostiene questa speranza che è forza creazionistica. Lo Spirito di Dio non va inteso in termini trascendentalistici: al contrario, è una realtà che ci è donata, che è in noi, che è operante in noi. Dio promette: Io darò il mio Spirito al popolo. La speranza assume il volto della disponibilità allo Spirito, del fare spazio all’azione dello Spirito che è in noi.

3. Paolo fa della speranza il tema specifico della sua teologia
Prima lettera ai Tessalonicesi (4, 14-18)
Paolo risponde ai quesiti che gli pone la comunità di Tessalonica (che noi dobbiamo ricostruire sulla base della risposta di Paolo). È convinzione comune tra i cristiani, in questi primi anni dalla morte di Gesù (neanche vent’anni dopo la sua morte), che Cristo ritornerà a brevissima distanza di tempo a chiudere la storia. Il suo ritorno provocherà il rapimento dei credenti nel cielo. Questi non passeranno attraverso la morte perché, essendo risorto Cristo, non c’è più morte, si pensa, ma solo un passaggio da questo all’altro mondo. Accade che a Tessalonica avvengano alcuni decessi: si crede allora che queste persone morte siano ormai perdute, non possano essere più salvate. La comunità giace nella desolazione, nell’abbattimento, che nasce appunto dalla perdita di speranza nel destino dei morti. Ma i cristiani di Tessalonica sono nella desolazione anche per se stessi. Si chiedono infatti: « Se morissi anch’io prima del ritorno di Cristo? Anch’io avrei questo destino di perdizione. » Paolo dice loro che si comportano « come coloro che non hanno speranza », cioè come i pagani. Questa è la sua prima risposta: « Come crediamo che Gesù è morto e resuscitato, così anche quelli che si sono addormentati in Gesù, Dio li radunerà con Lui » (versetto 14). Paolo si appella alla fede cristiana nella resurrezione di Cristo: Dio ha resuscitato Cristo, cioè ha vinto la morte a favore di Cristo, ne consegue la speranza nella comunione nostra con Cristo. La speranza, cioè, nasce dalla fede nella resurrezione di Cristo, nell’intervento di Dio che ha vinto la morte in Cristo. È una speranza che poggia sulla solidarietà nostra con Cristo. È Cristo risorto il motivo della nostra speranza. In questo solidarizziamo con Lui nella fede, possiamo sperare. Non più abbattimento, ma consolazione, o meglio incoraggiamento. Paolo entra poi nel problema di quelli che sono morti e di quelli che sono ancora vivi: « … noi, i vivi, non saremo avvantaggiati su quelli che si sono addormentati. Perché il Signore stesso, a un cenno, alla voce di arcangelo e alla tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i rimasti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole… »

Alcune riflessioni:
- Esiste un legame molto stretto tra fede e speranza. La speranza è una possibilità che nasce dalla fede, non da una visione ottimistica delle cose; la speranza cristiana si fonda sull’adesione al Cristo risorto, non su una concezione filosofica o antropologica della realtà. Ciò vuol dire che la speranza cristiana ha una dimensione cristologica, è speranza in Cristo come fonte di aggregazione (Cristo risorto che aggrega a sé i credenti nella resurrezione). La speranza cristiana è quel movimento per cui scopriamo, nella fede, la dimensione di promessa che ha l’Evento (la resurrezione di Cristo). È evento avvenuto, per Cristo e promessa di realizzazione per noi. La speranza scaturisce da un Evento, si compie unicamente nella fede.
- I contenuti obiettivi della speranza (in cosa speriamo). Paolo conclude: « e così saremo sempre con il Signore ». Questo è il contenuto: la comunione con il Signore. La speranza dona a questa comunione il carattere di indefettibilità: sarà comunione per sempre, totale. L’oggetto della speranza è una realtà interpersonale (Gesù). Il soggetto è il noi della comunità cristiana: noi saremo sempre con il Signore.

Prima lettera ai Corinzi (cap. 15).
A Corinto c’era una vivace minoranza di credenti, che interpretava la salvezza di Cristo in termini di attualismo e di spiritualismo. Non credeva nella resurrezione futura e corporea: la resurrezione è già avvenuta (attualismo) e riguarda l’io interiore (spiritualismo). Il legame con la storia, con il mondo, con il tempo, c’è ancora, ma esso non è determinante. Davanti a quest’interpretazione massimalistica, di « fuga in avanti », Paolo dice:
1) la salvezza, la resurrezione, non sono attuali, ma future. Non siamo ancora risorti.
2) la resurrezione che attendiamo è corporea.
Paolo fonda la resurrezione futura e corporea rifacendosi a Cristo: Cristo è risorto (lo crediamo e lo predichiamo), perciò i credenti resusciteranno. Pone un rapporto tra evento e promessa. Se i morti in Cristo non resuscitano, allora neppure Cristo è risuscitato. Perché questo legame tra Cristo e la resurrezione futura dei credenti? Perché Cristo è resuscitato non come caso sporadico ed eccezionale, ma come primizia; come primo, non come unico. Ci sono i secondi, e siamo noi i secondi. Ma l’immagine della primizia fa pensare ad una successione cronologica: al contrario, il legame tra Cristo e noi è più profondo di una successione cronologica. Infatti a questa immagine segue quella del Cristo risorto come nuovo Adamo. Adamo rappresenta un individuo e insieme il genere umano. Tre sono i rapporti tra Cristo (l’Evento) e l’evento promesso per noi:
- prima lui, poi noi;
- come lui, così noi (a sua immagine)
- noi in forza di lui (lui è il resuscitato che resuscita noi).
Cristo è risorto come primizia, immagine esemplare per noi, principio di resurrezione per noi, per cui l’evento della resurrezione di Cristo comporta la promessa di resurrezione per noi. La speranza nasce da questa solidarietà tra Cristo e noi. Da ciò comprendiamo come Cristo sia la nostra salvezza. Cristo è un individuo singolo, ma occupa nella storia della salvezza un posto unico: quella di avere una funzione per gli altri uomini. Cristo è il principio di una nuova umanità. Cristo, il nuovo Adamo, per l’umanità significa speranza. L’evento di Cristo è promessa per noi.
Da questa lettera di Paolo emerge anche il tema della resurrezione corporea. Per corpo qui si intende non la parte materiale contrapposta allo spirito, ma tutto l’uomo in quanto si apre, si relaziona a Dio, agli altri, al mondo. La resurrezione dei corpi interessa l’uomo come soggetto relazionale, comunicativo, in rapporto agli altri, a Dio, al mondo. Paolo declina i contenuti della speranza in chiave personalistica. La speranza riguarda l’uomo come persona, nella sua comunicatività, relazionalità. La solidarietà dell’uomo è il suo rapporto con gli altri, la sua mondanità è il suo rapporto nel mondo.
La speranza cristiana di Paolo è in antitesi con la speranza del mondo greco. Questa si basa sull’abbandono del mondo, sull’esilio dal mondo. In Paolo la mondanità è intensificata, è oggetto di speranza, nel senso della sua piena realizzazione. Dice Paolo che i corpi resuscitati saranno corpi spirituali: è la corporeità invasa e pervasa dallo Spirito di Dio, il principio della creatività. L’uomo spiritualizzato non è l’uomo tolto dalla storicità, ma è l’uomo in cui la mondanità raggiunge la sua pienezza e purezza in forza dello Spirito. L’uomo vive in questo mondo, è persona a questo mondo.

Lettera ai Romani (8, 18-25)
Al presente, l’intero mondo creato è in attesa del riscatto, della redenzione. Al presente, geme nella sofferenza « e soffre nelle doglie del parto »: sono i dolori che preparano una nuova nascita, dolori pieni di vita, di una nuova vita, anche se a caro prezzo. Anche noi credenti gemiamo come il mondo: i cristiani non rappresentano il piccolo numero degli arrivati, ma sono integrati perfettamente nel gemito. Gemono nell’attesa del riscatto della loro corporeità, mondanità. In questo testo c’è la negazione del tentativo di fare della comunità cristiana un luogo a parte, di privilegiati, di esseri in stato di possesso, mentre il resto dell’umanità è in stato di ricerca. I credenti sono solidali con il mondo nel gemito, nella sofferenza, nel dubbio, nella disperazione. Ma sono i dolori della nuova nascita. Allora speranza vuol dire « attendere con costanza ». La « upomoné » (pazienza) significa stare sotto senza piegare le ginocchia, sopportare un peso, ma senza arrendersi. Esige perciò la costanza, il tener duro, il non arrendersi nella lotta delle doglie. La speranza è un tener duro in un contesto di gemiti, di doglie del parto. La costanza è l’agire in condizioni difficilissime, senza cedere, è la resistenza. I credenti che sono quelli che sperano, in opposizione ai pagani, sono i resistenti nella storia, coloro che non si arrendono. Questa è la speranza. La speranza non è semplice: le pianticelle cresciute senza sforzo si rivelano speranze con frutti non buoni. L’unica speranza è la speranza dei crocefissi, la speranza che nasce all’ombra della croce.

4. la speranza di Gesù
a) nella sua vita, nella sua missione
Un dato certo è che Gesù ha incentrato la sua missione profetica nell’annuncio imminente del Regno di Dio. « Regno di Dio » è un’espressione peculiare della tradizione giudaica per dire che Dio si fa re. Il Regno di Dio è la regalità di Dio, non il territorio in cui Dio regna. L’antico Israele, come altri popoli, aveva una particolare ideologia regale: il re è anche l’istanza suprema di difesa, di giustizia nei confronti di coloro che non ne hanno nella società. La giustizia del re (da distinguere da quella della magistratura) è partigiana, sempre a favore dell’oppresso, del povero, dell’indifeso. La monarchia di Israele non soddisfece le attese dei poveri, perciò essi proiettarono la loro speranza in Dio re, nel Regno di Dio. Gesù si innesta in questo filone di attese dei poveri che Dio si faccia re e ne annuncia l’imminenza. Non è più un’attesa a lunga scadenza, ma ormai Dio bussa alla porta della storia. Gesù ha avuto coscienza di rappresentare nella storia questo momento in cui Dio re sta per entrare nella storia a rendere giustizia. Ma Gesù non si limita a proclamare quest’imminenza: egli proclama beati i beneficiari di Dio re.
« Beati gli umili, perché di loro è il Regno dei Cieli » (Matteo 5, 3). « Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli » (Luca, 6,20). La beatitudine è una proclamazione di felicità: fortunati voi. In questa proclamazione, Gesù si felicita con i poveri. È paradossale che Gesù si feliciti con i poveri, cioè con quelli che non hanno potere nella storia, gli emarginati, i disperati. Per quale motivo? Non perché gli emarginati sono i più disponibili al suo annuncio, al Regno di Dio, ma perché Dio sta per diventare re a loro favore. Sta per venire il giorno in cui i poveri non saranno più tali, perché Dio farà giustizia. Dio è a loro favore con la sua giustizia partigiana. Gesù si congratula per questo, c’è la sua partecipazione.
Ma Gesù non si limita a congratularsi, opera per la venuta del Regno, apre la porta attraverso la quale Dio entra nella storia come re. Nella missione di Gesù, una delle caratteristiche peculiari, è la guarigione degli indemoniati. Gli indemoniati erano persone con malattie psichiche, nella cultura di allora attribuite ad un possesso demoniaco, non potendo dare di esse una spiegazione scientifica. Gli avversari di Gesù attribuivano la sua attività sdemonizzatrice in senso malevolo, demoniaco. Rispondeva Gesù: « Ma se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora il Regno di Dio è già venuto fra voi » (Matteo 12, 28). La versione di Luca è più primitiva: « Ma se io scaccio i demoni col dito di Dio, è dunque venuto tra voi il Regno di Dio ». Il Regno di Dio comincia realmente a germinare nella storia attraverso l’azione di Gesù. Dio si fa re nella storia, è Lui che viene a rendere giustizia, ma non interviene immediatamente, bensì mediante l’azione di un uomo. Il Regno di Dio è una svolta rivoluzionaria come appare nelle parabole di Gesù cosiddette della crisi (le parabole del seminatore, della zizzania, del grano di senape), raccontate da Gesù in un momento in cui la gente, dopo un grande entusiasmo iniziale, iniziò a dubitare della venuta del Regno, non vedendo quel cambiamento in cui aveva sperato. Gesù, con queste parabole, voleva recuperare credibilità nei suoi ascoltatori. La parabola del seminatore ci dice che la missione di Gesù è esposta allo scacco, alla frustrazione, ma alla fine un quarto del suo annuncio porta frutto. Il piccolissimo granello di senape rappresenta il Regno che comincia a germinare nella storia, mentre l’albero derivato da quel granello è il Regno nella sua esplosione ultima.
La speranza di Gesù è operativa. È una speranza che lo fa mediatore di questo anticipo reale, anche se parziale. La speranza di Gesù è una speranza riposta in Dio re. Se Dio è re, Gesù non è ancora quello che sarà, perché non è ancora diventato re, lo sarà alla fine, ma comincia ad essere nella storia quello che sarà rendendo giustizia. La speranza è speranza nella pienezza dell’essere degli uomini, correlativa alla speranza nella pienezza dell’essere di Dio. Speriamo di essere nella pienezza e speriamo che Dio sia anch’egli nella pienezza come re.
La missione di Cristo si prolunga nella missione della comunità dei discepoli di Cristo. La speranza di Dio divenuto re a favore dei poveri dipende da questa mediazione storica. Dio si è legato a Cristo per diventare Lui re a beneficio dei poveri. La speranza è finalizzata alla piena realizzazione della realtà finale, però questa realtà escatologica è connessa con la sua validità per la storia. La speranza nella sua profondità escatologica diventa credibile solo se riesce ad anticipare realmente questa esplosione ultima nella storia, se pure solo parzialmente. È proprio per questa anticipazione che si può sperare nella realtà finale. Bisogna far germinare il Regno, portare nella storia i segni del Regno.

b) nella sua morte in croce.
Gesù si accorse che lo stavano condannando a morte. Pensò anche che il suo destino fosse simile a quello del servo di Dio (Isaia, capitoli 52 e 53), che subisce passione e morte violenta e attraverso essa rende riscatto al popolo e che sarà glorificato da Dio nella morte. Gesù andò incontro alla morte nella speranza che Dio gli avrebbe reso giustizia. Si affidò a Dio (« Nelle tue mani consegno la mia vita »). Gesù morì in croce con la speranza in Dio.
La speranza cristiana è la speranza dei crocifissi, che nasce all’ombra della croce, nascosta nei fori dei chiodi che trafissero Gesù. La speranza dei crocifissi è una speranza nell’impotenza, nella frustrazione estrema. Ma la speranza all’ombra della croce non è la speranza di chi si dimette dai suoi compiti, di chi si rassegna nella storia, di chi si abbandona a Dio. La croce, al contrario, significa lotta, azione nella storia, ma lotta da poveri, da crocifissi. Gesù è morto in piedi sulla croce. Non è sceso a compromessi, ma si è battuto bene, fino alla fine; però si è battuto da povero, da uomo qualunque, non da forte, perché questa sarebbe stata una speranza satanica. Gesù non è venuto meno nel suo battersi, nel senso che è morto in piedi contestando le forze che lo stavano schiacciando. Non scendendo a compromesso, non gettando le armi, ha tolto la maschera a queste forze: sono forze violenti, più forti di Gesù, ma non onnipotenti, perché non riescono a firmare l’atto di resa. Finché ci sono i resistenti, le forze della morte sono battibili, la lotta va avanti. E’ una lotta tra forze non onnipotenti. La speranza è la lotta che continua, è il risorgere della lotta.
La Croce significa morte dei sogni di onnipotenza dell’uomo. Essa annulla la pretesa dell’uomo di giocare nella storia da superuomo. Chi più di Gesù poteva giocare da Figlio di Dio nella storia? C’è un modo demoniaco di confessare Gesù Figlio di Dio: quello che esce dalla bocca dei demoni. Al contrario il centurione confessa questo guardando la Croce. È l’ombra della Croce che rende vera la figliolanza di Dio. Guardando la Croce, non c’è più l’equivoco di costituirsi come comunità messianica potente nella storia. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che non risparmia la morte a suo figlio e quindi a noi, suoi figli. È speranza in un Dio neppure Lui onnipotente nella storia. Non è stato potente a liberare Gesù dai suoi nemici. Dio non ha liberato Gesù perché non ha potuto, non perché non ha voluto: sarebbe un Dio malvagio se, potendo liberare suo figlio, non lo facesse.
Gli uomini hanno sempre sognato l’onnipotenza; ma, di fronte alle frustrazioni, ammettono realisticamente di non essere onnipotenti. Tuttavia trasferiscono in Dio questo loro sogno di onnipotenza. « Se non sono io onnipotente, lo sia almeno Dio. Io lo prego e ho a disposizione un Dio onnipotente ». Il Dio di Gesù sconvolge questa immagine di Dio: sulla Croce di Gesù, con il Figlio di Dio che muore crocifisso, muore quest’immagine di Dio onnipotente. Dio si è battuto accanto a suo figlio, non da onnipotente, ma standogli accanto, morendo con Lui. Allo stesso modo, Dio si batte con noi nella storia, ma non ci rende più forti.
Ogni discorso su Dio parte da Gesù. In Gesù leggiamo il volto di Dio. Gesù è crocifisso: allora Dio è crocifisso. Se Dio non ha risparmiato la morte, ciò significa che è incapace di risparmiare la morte ai suoi. Dio è colui che resuscita, non colui che risparmia ai suoi, né colui che fa ai suoi sconti generosi di travaglio storico. La speranza di Gesù è speranza in un Dio che resuscita. Non ha risparmiato la morte a Gesù, ma lo ha resuscitato. Questo Dio che resuscita è il modo di Dio di essere presente nella storia oggi. Dio non è vincente, perché se Cristo è battuto, Dio è battuto in Cristo. Ma Cristo resuscita, Dio resuscita in Cristo: cioè, la sconfitta non è definitiva, non è ultima. La lotta continua. Cristo resuscita, si batte di nuovo, esce vivo, più vivo di prima, anche se la vitalità di Dio nella storia è ancora debole. Quando l’ultimo nemico sarà vinto e anche la morte sarà vinta, allora Gesù sarà diventato re, anche lui si assoggetterà a Dio e Dio sarà il re. Davanti ai fallimenti storici diciamo: questo fallimento è una lotta perduta, ma non perduta totalmente, perché la lotta rinasce di nuovo. Le resurrezioni storiche sono la lotta che non cessa. Finché ci si rialza, nella storia questa è la resurrezione. La speranza nasce dal disfacimento. La vita che si crea nella storia è resurrezione, nasce dalla morte con resurrezione. È una vita a caro prezzo, una vita che scaturisce dalle doglie. I dolori del parto producono vita; ma, in quanto dolori, sono dolori. Cristo ha dato la sua vita perché noi abbiamo la vita. La vita scaturisce da questo dare la vita, non nel senso materiale del morire. Lottare fino all’estremo produce germi di resurrezione. Il Dio di Gesù benedisse « il maledetto » resuscitandolo. Quando gli apostoli si accorsero che Dio aveva resuscitato Gesù, dissero: il Dio di Gesù Cristo è colui che benedice i crocifissi, è il Dio che sale il Golgota insieme con i crocifissi. Dio è il custode, l’alleato dell’uomo, è colui che cammina con l’uomo, non rendendolo per questo più forte, ma stando accanto a lui. L’uomo, cosciente di avere Dio accanto, si batte e Dio si batte con l’uomo. I grandi sogni del ’68, le grandi speranze troppo facili coltivate in certe comunità cristiane, cedono il posto alla speranza all’ombra della Croce, che sta nei fori lasciati dai chiodi di Gesù. Questa speranza lascia un vuoto, ma è proprio in questo vuoto che si annida la speranza. Le altre speranze sono più comode, esaltanti. Il Cristo risorto porta i segni del crocifisso: non è trionfante; sarà vincente alla fine, ma allo stato attuale si batte con i suoi e la lotta si trova nei fori dei chiodi della Croce.

TEMI: EFESINI 2, 14-18 – COL 2, [19,20] – UNITÀ UOMO DONNA (Lo propongo per la giornata mondiale della pace)

http://famiglia.diocesidicagliari.it/docum/Colossesi%20e%20Efesini%20-%20Lai.pdf

DIOCEDI DI CAGLIARI

[LO PROPONGO PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE]

TEMI: EFESINI 2, 14-18 – COL 2, [19,20] – UNITÀ UOMO DONNA

[14]Egli infatti è la nostra pace,
colui che ha fatto dei due un popolo solo,
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo,
cioè l’inimicizia,
[15]annullando, per mezzo della sua carne,
la legge fatta di prescrizioni e di decreti,
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace,
[16]e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo
corpo,
per mezzo della croce,
distruggendo in se stesso l’inimicizia.
[17]Egli è venuto perciò ad @annunziare pace$
a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini.
[18]Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli
altri, al Padre in un solo Spirito.

Un cantico esultante e gioioso. Cosa c’era di tanto grande e nuovo da suscitare un tale slancio ed un tale vigore? C’era un evento che aveva già prodotto, per esempio, una situazione del tutto unica nel mondo e nella storia: ex giudei ed ex pagani che insieme formavano un’unica Chiesa. Dove le differenze di cultura d’origine, pur senza sparire, venivano superate verso una più grande e piena unità. C’è ben di che sottolineare una tale novità e di che esultarne ! una cosa così nuova da essere essa stessa prova dell’azione salvifica di Dio.

Il mistero della volontà di Dio.
Col 2, [19,20]:
Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza [20] e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

Il “desiderio” di Dio è un tuttuno col mysterion di cui parla Paolo. Egli lo ha annunciato da secoli e lo ha realizzato in Cristo. Cristo è la pienezza della verità divina, cosmica e umana. Il mistero è rivelato in Lui, ma resta ancora mistero, verità altra, non totalmente comprensibile all’uomo e tuttavia verità e vita alla quale l’uomo può aderire e partecipare
attraverso la fede e l’esperienza che ne consegue. In Cristo il mistero è accessibile e, anche se non totalmente possedibile, esso è totalmente partecipabile. È già e non ancora… Un punto fondamentale nell’adesione al mistero è che esso è per la piena liberazione dell’uomo. Chiamato da Dio, entrando e vivendo nel mistero di Cristo, l’uomo è
realmente liberato e integrato nella Vita. Egli è pienamente vivo. Contro questo mistero rivelato e accessibile ci sono le false dottrine. Esse sono frutto della pretesa umana di trovare logicamente le “giuste” e “concrete” soluzioni ai problemi, che tengano conto di tutti i parametri in gioco nella dovuta proporzione. In questa pretesa si insinua e si
espande facilmente la volontà diabolica di distinguere, di precisare ambiti e competenze, contrapporre interessi competitivi. Si maschera la sete di possesso e prevaricazione con criteri di giustizia ed eguaglianza, ma questo processo tendenzialmente acuisce ed esaspera le diversità fino allo scontro violento. Frutto dell’essere innestati in Cristo è al contrario la riconciliazione, l’unità nella diversità, la complementarietà, il servizio reciproco. Tutto questo non significa appiattimento noioso, uguaglianza banalizzante. La diversità è vita ed essa non è a scapito dell’unità ma è a servizio di essa nella complementarietà. Uomini diversi, storie diverse, culture diverse hanno senso completandosi a vicenda pur restando distinti. L’unità non è mediata dall’uguaglianza ma dal servizio reciproco. Il primo è colui che
serve: la gara al primato è gara ad un servizio più ampio e più profondo, fino al dono totale di sé, come Cristo ha concretamente mostrato. Gareggiare nel dono è gareggiare nella carità, che è amore gratuito. Quando non è più possibile distinguere e tenere il conto di chi più ha dato e chi più ha ricevuto, ciascuno per quello che può, allora si accende l’unità piena.

L’unità fra uomo e donna.
La dinamica uomo-donna è forse l’esempio più eclatante di dinamica unità-diversità. Uomo e donna si cercano, si desiderano, hanno bisogno l’uno dell’altra, ma pure si fronteggiano, sono in guerra fra loro. Sono in guerra perché non si capiscono mai pienamente, nessuno dei due può pretendere di “prendere” l’altro in pienezza, anche se lo desiderasse profondamente e per un nobile fine. Nella dinamica tipicamente umana e tipicamente sociale, questo porta spesso a due schieramenti contrapposti, alla rivendicazione di diritti non accordati, alla prevaricazione reciproca, operata ora con prepotenza, con la violenza fisica e non solo, ora con l’inganno ed il sotterfugio. Ciascuna parte può restare ancorata alla sua propria sensibilità, al suo proprio modo di vedere e di essere, ritenersi fondamentalmente non capita, in una solitudine profonda e incolmabile. In questa situazione l’uno o l’altra, e spesso ambedue insieme, cercano di prendere quello che possono a danno dell’altro, perché si sentono ampiamente in credito rispetto alla controparte: mi riprendo solo qualcosa che mi è stata tolta ingiustamente, ma mai ti toglierò abbastanza, perché tu mi hai rovinato la vita! Uomo e donna, pur essendo evidentemente “l’uno per l’altra” per la loro stessa natura, possono essere profondamente divisi e inconciliabili. La mentalità umana è normalmente guidata dalla paura di non concedersi troppo, per non restare delusi e non rischiare di essere “fregati”, perché l’”altro” – uomo o donna che sia – non se ne approfitti. Questo è il punto di partenza per la creazione di territori ed ambiti distinti e per fondare l’impossibilità di una piena unità. Una unione che in partenza pone delle riserve alla piena donazione reciproca, si mette di fronte ad una salita impervia e piena di buche in cui rischia di inciampare e sprofondare. L’idea di base di questa dinamica è che la gratuità piena non esiste e l’amore non essendo mai pieno, neppure è mai eterno. È un rapporto che si articola sullo stare guardinghi, sul concedere e concedersi ma non troppo, sul riservarsi porzioni private di vita dai quali l’altro è
scontatamente escluso. È una vita a due faticosa, complicata ma – si sa – da che il mondo è mondo è sempre andata così. D’altronde a non sposarsi, superata una certa età ci si sente soli, almeno i figli servono a darci un futuro!
Oggi le “false dottrine”, le dottrine dell’individualismo e della prevaricazione, dilagano. La coppia esplode. Non è chiaro se ciò dipenda da una maggior forza raggiunta dalle false dottrine o semplicemente perché molti tabù di “decenza” e dignità di facciata sono caduti. Forse ambedue le cose, ma forse la sostanza nel rapporto uomo-donna non è poi così tanto cambiata. È vero, le vecchie false dottrine oggi sembrano avere più forza, una diffusione
socialmente più capillare, nuovi mezzi tecnologici all’avanguardia. La vera dottrina ha invece sempre solo un unico mezzo: l’amore gratuito. Qualcuno ha amato per primo così. Qualcun altro si è sentito amato così. Il dono di sé nasce quando si fa esperienza di questo sentirsi amati gratuitamente. Allora si diventa capaci di credere che è possibile fare
altrettanto e si è presi dalla sete di ripetere quel gesto del dare e del ricevere all’infinito, perché solo lì si è perimentata la vera vita, la vera felicità. Scatta la reciprocità, parte la gara del dono. È una dinamica in cui si capitalizza insieme una tale quantità di bene e felicità che questa poi diventa una riserva, un capitale da utilizzare per superare i momenti di carestia, di aridità, che pure ci sono, a causa delle nostre chiusure e ignoranze, degli egoismi, dei sospetti che sempre sono pronti a farsi strada nei momenti di difficoltà. È la dinamica e la logica di Cristo, che non è la logica del mondo. Chi ha sperimentato questa logica del vivere considera l’altra come spazzatura e le persone che vi vivono come dei disgraziati da tirar fuori dalla miseria, come qualcun altro ha già fatto con noi.

Maschilismo e femminismo in Efesini 5, 21-33. Ovvero: chi è il migliore, il marito o la moglie?
Quando durante la messa viene letto questo brano le donne si indispettiscono e gli uomini o si gongolano o si imbarazzano. Magari guardano le mogli con un sorrisino tra l’ebete ed il compiaciuto: se le cose andassero così, che stai sottomessa, allora tutto andrebbe meglio, stanne certa! Le più giovani, al limite del disgusto, con un fremito di rabbia mal trattenuto, si guardano fra loro per spirito di corpo. Le meno giovani, ma comunque già ampiamente emancipate, si ripetono: cose di altri tempi – è chiaramente un brano ancorato alla mentalità dell’epoca e S. Paolo qui rivela il suo limite di uomo (maschio) di 2000 anni fa. La chiesa dovrebbe cambiare e ammorbidire certe posizioni ormai sorpassate… Pensieri che salgono come un brusio dalla platea che subisce nervosamente questo scomodo brano…
Ma qui non c’è ebreo né gentile, non schiavo né padrone e non c’è uomo né donna, perché tutti sono uno in Cristo. E come sono uno in Cristo? È fondametale il fatto che nell’unione le differenze non svaniscono ma si valorizzano. L’unità avviene non per privazione degli attributi di ciascuna parte ma attraverso il dono reciproco, ciascuno nel suo ruolo: siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Chi dei due, dunque, è il più grande? Colui che fra i due è più “sottomesso”, chi dei due più “serve”. Il più grande fra tutti gli uomini è Cristo non tanto perché figlio di Dio, ma
perché, pur essendo Dio, scelse di spogliare se stesso, donandosi totalmente. Se la logica è quella del dono e non del dominio, che è la logica del diavolo, il senso del brano è molto diverso. Quasi mette alla prova il nostro grado di comprensione del mistero. Sembra quasi che Paolo dica: mariti, volete essere i più grandi? bene, buona idea! Potete
farcela!, ma sappiate che il prezzo della grandezza è la totalità del dono, è il sacrificio della vostra individualità per la vostra sposa. Mogli, volete essere le più grandi? Bene! Buona idea, potete farcela anche voi! Ma sappiate che il prezzo è l’abbassamento, il servizio per l’altro, l’essere disposte a lavare i piedi anche ad un marito che non vi è superiore, come fece Gesù, inginocchiandosi davanti ai suoi discepoli per lavar loro i piedi. Se voi mariti e mogli non entrerete in questa logica del dono gratuito, non può esserci unità ed il dono di Cristo può essere reso vano. Ma se entrerete, sarete una corpo solo e troverete Cristo stesso, la pienezza della vita, stabilire la sua dimora presso di voi e con voi rimanere sempre fino alla rivelazione totale del mistero, quando tutti potremo vederlo faccia a faccia.
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[21]Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.
[22]Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; [23]il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. [24]E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.
[25]E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei,
[26]per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola,
[27]al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata.
[28]Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso.
[29]Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, [30]poiché siamo membra del suo corpo.
[31]Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola
[32]Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!
[33]Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito.

FEDE E OPERE. SULLA GIUSTIFICAZIONE (Rm 4,25-5,1)

http://www.credereoggi.it/upload/2002/articolo130_3.asp

FEDE E OPERE. SULLA GIUSTIFICAZIONE (Rm 4,25-5,1)

EDITORIALE

[Gesù Cristo] è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.
Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
(Rm 4,25-5,1)

Quando si sente il termine giustificazione la prima cosa che viene in mente a molti è quel foglietto, firmato dai genitori, che ciascuno di noi doveva riportare alla maestra una volta tornato a scuola dopo un’assenza. Non potevamo redigere o firmare da soli la nostra giustificazione, anche se a volte, con l’astuzia innocente dei bambini, abbiamo sognato di farlo per evitare un’interrogazione incombente. Non è inutile partire da questa comune e semplice esperienza, apparentemente insignificante, per cercare di illuminare una parola che segna l’originalità della fede cristiana, ma è anche stata causa di incomprensioni e profonde separazioni tra le chiese in Occidente. Giustificazione, nell’esperienza dello scolaro e in quella del peccatore perdonato, è un essere giustificati, un esser riammessi nel consesso da cui la malattia (e analogamente il peccato) li aveva allontanati. Il mistero della giustificazione è contemplare l’azione misericordiosa di Dio che in Cristo riscatta i peccatori per costituirli figli, fino a renderli «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4).
Diceva il teologo A. Birmelé, in un intervento alla XXXVII Sessione del Segretariato attività ecumeniche: «La grazia guarda e sceglie; è parziale, vive di un partito preso. Dio non è imparziale: ha preso partito per gli esseri umani». La dottrina della giustificazione lo afferma: Dio non è imparziale, anzi rende giusti gli ingiusti, figli i nemici. Davanti a questa affermazione non si può fare a meno di chiedersi perché mai Dio faccia una cosa del genere. Rispondeva Agostino: «Avendo un Figlio unigenito, Dio l’ha fatto figlio dell’uomo, e così viceversa ha reso il figlio dell’uomo figlio di Dio. Cerca il merito, la causa, la giustizia di questo, e vedi se trovi mai altro che grazia» (Disc. 185).
Riflettere ancora sulla giustificazione non è quindi facoltativo per i cristiani, soprattutto per quanti sono immersi nella cultura del commercio, dello scambio a pagamento, in cui lo spazio per la gratuità e per il dono immeritato si va riducendo a un mero ricordo.
La cultura occidentale è stata e sarà sempre tentata di pelagianesimo: salvarsi da soli, mettersi davanti a Dio con una giustizia propria, ecco il «mito» anticristiano di chi non vuole riconoscere l’extra nos della salvezza. La reazione luterana a ogni forma di pelagianesimo portò a interpretare le opere buone che l’uomo compie come «pagamento» per meritarsi la salvezza, finendo per insistere unicamente sulla passività ricettiva degli esseri umani in ordine all’azione di Dio. Questa presa di posizione condusse poi i teologi della Controriforma a sospettare che i luterani non credessero al reale cambiamento dell’uomo giustificato e alla necessità della libera collaborazione all’opera della grazia. Secoli di condanne e di reciproci fraintendimenti, alimentati da un’apologetica aggressiva, hanno scavato tra le confessioni cristiane d’Occidente un fossato. Ci aiuta a risalire alle origini della frattura fra le chiese l’articolo di Jos Vercruysse, che presenta la posizione delle varie comunità riformate (luterani, calvinisti e anglicani) a confronto con le prese si posizione del concilio di Trento e le reciproche condanne dottrinali.
Il 1999 segna una tappa fondamentale nel superamento della divisione. In quell’anno è stata firmata dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione luterana mondiale la prima Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. La novità di questo testo sta nel fatto che l’accordo raggiunto, pur parziale, non è rimasto al livello del dialogo fra teologi, come nel caso di tanti documenti che hanno preceduto la Dichiarazione, ma è stato ufficialmente sottoscritto dalle chiese. L’iter della stesura e della ricezione del documento, che segna una decisiva acquisizione nel progresso dell’ecumenismo, ci viene presentato nell’articolo affidato a PawelHolc. Un’espressione centrale descrive sinteticamente i risultati raggiunti: «Consenso differenziato». Il treno del dialogo viaggia su una coppia di binari che corrono paralleli, senza convergere in una monorotaia né divergere a rischio di tragici deragliamenti. Pur differenziato e parziale il consenso guadagnato è irrevocabile.
Le chiese coinvolte nel dialogo si sono sentite chiamate dalla Dichiarazione congiunta a trovare un nuovo linguaggio, capace di rendere comprensibile agli uomini e alle donne del nostro tempo l’essenziale verità della giustificazione. A questo proposito l’articolo di AndreaToniolo cerca di approfondire il ruolo e le conseguenze della dottrina della giustificazione nella società postmoderna. Egli mette in rilievo il «buon annuncio» della giustificazione per grazia, che libera l’uomo dall’impossibile compito moralistico di salvarsi da solo, e afferma invece il primato della persona al di sopra di ogni conquista o insuccesso individuale.
Affinché le chiese possano però confessare insieme la verità da comunicare al mondo assetato di salvezza, è necessario che esse arrivino prima a un consenso più ampio e a una comune espressione delle verità fondamentali. Si apre a questo punto il vasto problema del linguaggio, vera chiave di volta del dialogo ecumenico. Ciò comporta una paziente ermeneutica delle affermazioni del partner di dialogo, per giungere non a sopprimere ogni differenza linguistica, di sottolineature o di formulazione teologica, ma piuttosto a cogliere, nell’espressione dell’altro, i riflessi di una «diversità riconciliata». A questo livello si situa il contributo di BasilioPetrà, che sintetizza i risultati del dialogo tra ortodossi e luterani sul tema della giustificazione. Tale colloquio ha prodotto un’intesa che precede quella cattolico-luterana e ne apre la via, componendo il dissidio sui reciproci malintesi della giustizia imputata e della divinizzazione. Ortodossi e luterani riconoscono adesso che le differenze che permangono nelle loro teologie sono date dalle peculiarità dei loro rispettivi linguaggi, entrambi comunque biblicamente fondati.
Anche LucianoBordignon, partendo da una analisi dei limiti dell’espressione scolastica della giustificazione, si sofferma sulle categorie linguistiche che descrivono l’offerta divina della giustizia. L’articolo propone un interessante studio delle metafore di salvezza contenute nei testi biblici. Quindi, rilevata una certa «estraneità» della mentalità cristiana attuale, sia cattolica che luterana, riguardo al tema della giustificazione, afferma l’urgenza di trovare una metafora-chiave che permetta di rimettere in contatto i cristiani di oggi con questo tema centrale per la vita di fede. L’immagine del dono, con i suoi corollari della gratuità e della gratitudine, viene colta come una possibile via per ridare senso esistenziale alla sopita coscienza della giustificazione.
Se davvero il cammino dell’ecumenismo teologico, come mostra in modo paradigmatico la vicenda della Dichiarazione congiunta, è avviato verso un sempre più ampio consenso nella fede che rispetti la pluralità dei modi di esprimerla, è anche indispensabile approfondire le basi comuni su cui poggia il consenso. In particolare, il recupero della dimensione biblica della giustificazione. AntonioPitta, riflette sulla radice della giustificazione rappresentata dall’offerta gratuita dell’alleanza veterotestamentaria. Essa fiorisce nel Nuovo Testamento nella letteratura paolina, tanto valorizzata dai fratelli luterani;  questo però non deve condurre a trascurare la prospettiva complementare che sottolinea la lettera di Giacomo. Solo così si arriva a una visione completa del rapporto fede e opere in ordine al nostro tema.
Il percorso compiuto nel chiarire la questione della giustificazione mostra, tuttavia, che si è solo agli inizi. Certo, si è riusciti ad accordarsi su un articolo di fede assolutamente centrale, ma sono comunque rimaste aperte varie domande e soprattutto non è stato adeguatamente sciolto il nodo che riguarda la posizione di questo articolo di fede nell’ambito delle teologie cattolica e protestante. Se infatti per i luterani esso è il criterio unico attraverso il quale si può giudicare tutto il complesso dottrinale cristiano, per i cattolici, pur rimanendo centrale, deve essere armonicamente collegato alle altre verità gerarchicamente ordinate. Ci espone questi problemi l’articolo di AngeloMaffeis, che in modo equilibrato sottolinea i risultati raggiunti, senza timore di puntualizzare i motivi che non rendono ancora possibile la piena unità visibile. In particolare si riconosce che non è ancora stata raggiunta un’intesa circa le implicazioni ecclesiali della giustificazione.
GiampieroBof ci fa riflettere sul contributo che può fornire oggi la teologia nell’aiutare le chiese a farsi promotrici di giustizia a ogni livello.
L’articolo di congedo è affidato a Giann iColzani che rilegge il tema della giustificazione seguendo il pensiero di Karl Barth. La sua proposta, pur confessionalmente qualificata, è un tentativo sinceramente cristiano di porre con forza la centralità di Gesù Cristo. La giustizia di Cristo, che diviene nostra in virtù della fede, ha per Barth una vera azione trasformatrice dell’uomo, è una ri-creazione. Nel cogliere gli aspetti positivi della teologia barthiana, Colzani ne rileva anche le fragilità. In particolare la debolezza antropologica: il sola fide, sempre fortemente ribadito, mette l’uomo in una condizione di quasi-estraneità all’opera che Dio compie in lui:  è solo spettatore, mai collaboratore attivo. Un grande merito del dibattito tra autori cattolici e protestanti, a partire dalle posizioni di Barth, è stato quello di chiarire definitivamente il rapporto «motivazione-effetto» tra fede e opere, su cui non sussiste più alcuna disputa.
Nella documentazione non abbiamo voluto far mancare almeno la parte centrale della Dichiarazione (il capitolo 4). L’invito alla lettura, curato da AldoModa,  fa il punto bibliografico sui commenti alla Dichiarazione e aiuta il lettore ad orientarsi nell’approfondimento delle questioni trattate.

IL FRUTTO DELLO SPIRITO SANTO – molto da Paolo

http://www.unionecatechisti.it/Catechesi/Corsi/C02_03/R030601/R030601.htm

IL FRUTTO DELLO SPIRITO SANTO

1-6-2003

Don Mauro Agreste

INDICE

1) Convincere qualcuno a lasciarsi guidare da Dio
2) Comunicare il nostro incontro personale con Gesù
3) La dottrina ed il cuore: ci vogliono entrambi
4) Galati 5: i frutti della carne, il frutto dello Spirito
5) Si sta manifestando in me il frutto dello Spirito? Amore, pace …
6) La pazienza
7) Benevolenza ( Rm 12,14 )
8) Bontà
9) Mitezza
10) Carità e umiltà
11) La tua lingua usa la parola di Dio? ( Gc 3 )
12) Deserto: tempo con Dio, da soli.

1) CONVINCERE QUALCUNO A LASCIARSI GUIDARE DA DIO
Tu non sei colui che riceve, ma colui che porta, devi fare in modo che chi riceve sia invogliato a ricevere ciò che tu dai.
Però tu non puoi mangiare il cibo al posto di un altro, è vero?
Vi immaginate la scena di un cameriere che viene a portarvi la roba nel piatto e poi ve la mangia? No!
Però il cameriere ti convince: assaggia questa roba è veramente speciale, perché ti convince?
Perché prima l’ha assaggiata lui, perché ha fatto l’esperienza.
Come fai tu a convincere una persona che è bello lasciarsi guidare da Dio?
Fatevi venire in mente nella vostra giornata una persona che conoscete e che secondo voi veramente dovrebbe lasciarsi guidare da Dio, ma non lo conosce.
Come fate a convincerlo? Dipende dalla nostra convinzione, dipende dalla nostra esperienza.
Se noi abbiamo fatto un’esperienza della struttura religiosa non convinceremo nessuno, se noi abbiamo incontrato Cristo sì, perché non siamo noi a convincerla, è la nostra gioia: « Sono venuto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » ( Gv 15,11 ).
Questo vuol dire che tutto quello che fa parte della tua vita, puoi essere tribolato in molti modi, ma se tu hai incontrato Cristo, tutte le tua tribolazioni non sono capaci di toglierti la gioia.
Bene adesso restate immobili come siete e a due a due guardatevi, ma senza cambiare espressione.
Eh!, avete cambiato espressione!
Lo sapete che certe volte evangelizza di più uno sguardo che non cento discorsi, come pure scandalizza di più uno sguardo che non cento discorsi.

2) COMUNICARE IL NOSTRO INCONTRO PERSONALE CON GESÙ
Gesù lo ha detto, l’occhio è la lanterna dell’anima, se il tuo occhio sarà limpido tutta la tua anima sarà nella luce.
Questo ci fa capire che tutto di te è comunicazione di un incontro di una intimità che c’è, oppure che non c’è.
Ve l’ho già detto: certe volte vedo delle persone che vengono a fare la comunione che io dico: anima mia, se ti fa così paura io non te la do; non ti sto facendo un dispetto a darti la comunione.
Perché si vede quando una persona è innamorata di Gesù, si vede persino come viene a fare la comunione, si vede, voi non ci credereste, ma vorrei che certe volte poteste fare quest’esperienza.
Arriva la persona disinteressata, oppure scrupolosa, oppure la persona timorosa, oppure la persona innamorata di Gesù.
Sì, tutti ti dicono amen, ma come sono diversi questi amen!
Allora tu potresti fare un discorso dottissimo, con tutte le tue capacità, con tutte le tue fantasie, con tutte le tue efficienze, cartelloni e pongo, tutto quello che vuoi e alla fine dell’anno i tuoi ragazzi non hanno ancora incontrato Gesù!
Oppure tu puoi parlare di Gesù, facendo una passeggiata con una persona.
E nessuno immagina che tu stia facendo catechismo in quel momento; e quella persona ti dice, a distanza di anni: quello che tu mi hai detto, mi è entrato nel cuore.
Allora capite che cosa è importante?
Che nel comunicare la verità devi essere come il vino genuino: un’autentica spremuta di uva.
E quindi quello che voi comunicate deve essere un’autentica spremuta d’amore, deve venire direttamente dal cuore.
Nell’esperienza di preghiera c’è un’esperienza molto famosa, che per fortuna in questi ultimi anni si sta rivalutando fortemente, che è l’esperienza dell’adorazione.
La stessa parola ad os che viene dal latino significa portare alla bocca ciò che c’è nel cuore; questo vuol dire che quando tu fai catechesi in teoria si potrebbe quasi dire che tu stai facendo adorazione, se porti alla bocca l’abbondanza del cuore.
La domanda è che cosa c’è nel mio cuore?

3) LA DOTTRINA ED IL CUORE: CI VOGLIONO ENTRAMBI
Al termine di questo anno o di questi anni la cosa fondamentale sarà di scoprire se dentro il nostro cuore c’è veramente un legame affettivo con il Signore o se c’è solo un legame dottrinale, che per carità è una cosa buonissima, meno male che c’è.
Qualche tempo fa si parlava nella sede di S. Barnaba, sulla questione della catechesi a memoria o non a memoria come si faceva un tempo, vi ricordate?
Qual era il valore di tutto questo? È come chi ha la dottrina, ma non ha il cuore, almeno hai la dottrina, poi verrà anche il cuore.
Però non può esserci solo l’una o solo l’altra, anche il tuo cuore non è sufficiente a coprire la dottrina e io posso essere innamoratissimo del Signore, ma non sapere niente di Lui, come i discepoli che erano stati battezzati però non sapevano che ci fosse uno Spirito Santo.
Ricevuto da Paolo e Barnaba il dono dello Spirito Santo tutta la loro vita è cambiata completamente.
Eppure erano affascinati dalla vicenda storica di Gesù e già si davano molto da fare per l’evangelizzazione.
Voi capite che le due cose non sono indipendenti l’una dall’altra, ma sono fortemente legate tra di loro.

4) GALATI 5: I FRUTTI DELLA CARNE, IL FRUTTO DELLO SPIRITO
L’ultima cosa che vorrei dirvi oggi, ci viene dalla lettera ai Galati 5.
Questo è un criterio di discernimento.
Prima si parla dal versetto 18 in poi dei frutti della carne e se ne parla in forma plurale; e dopo che si è fatto tutto l’elenco dei frutti della carne si parla del frutto dello spirito e c’è un lungo elenco.
Allora qualcuno potrebbe domandarsi come mai prima parla al plurale e dopo parla al singolare.
La ragione è un insegnamento che ci può giungere adesso.
I frutti della carne provocano dentro di noi divisione, ci dividono da Dio e ci dividono anche in noi stessi.
Operano dei tagli, come possiamo dire è una specie di schizofrenia; quindi è giusto che anche ortograficamente sia indicato con un plurale.
Il frutto dello spirito invece è un frutto che ha molti sapori, ma che conduce all’unità: unità con te stesso, unità con i Fratelli, unità con il mondo, unità con Dio.
Ecco perché il frutto dello spirito è uno solo, ti conduce all’unità, ma ha molte sfaccettature.
Come per esempio un brillante è sempre un solo diamante, ma ha molte sfaccettature e se non ha quelle sfaccettature non è un brillante, continua ad essere un diamante, ma non è un brillante!
Così il frutto dello spirito ti permette di essere veramente come devi essere: amore, gioia pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.
Questi sono i criteri fondamentali che ci servono per capire se lo spirito di Dio dentro di noi comincia ad agire oppure no.

5) SI STA MANIFESTANDO IN ME IL FRUTTO DELLO SPIRITO? AMORE, PACE …
Allora prendetevi questa citazione, il frutto dello spirito Gal 5,22 perché nel deserto voi dovrete leggervi questa parte, dovrete soffermarvi e domandarvi non per dare una risposta a me, ma per dare una risposta a voi stessi.
Nella mia vita si sta manifestando il frutto dello Spirito?
Do delle semplici definizioni.
Amore: volere e fare la felicità dell’altro.
Pace: realizzazione delle promesse di Dio.
La pace non è la quiete, la pace è attività.
Dio ha promesso certe cose, se io sono una persona di pace le realizzo.
Ditemi qualche promessa di Dio.
La verità vi farà liberi, dunque se io sono un uomo di pace sono un uomo di verità, è facile?
Questo è un esempio, quindi pensiamoci un po’ seriamente.
Cerchiamo le promesse di Dio, ne troveremo qualcuna nella Bibbia; nella Bibbia ci sono circa ottomila promesse di Dio, vi bastano?
Spero che la leggiamo la Bibbia, vero? Non possiamo portare Gesù agli altri se non lo conosciamo, vero? Quindi pensiamoci un po’ seriamente.
Lui è la verità che ti porta alla verità e se necessario va dal tuo direttore spirituale e fatti aiutare.
Su questo punto continuo a battere, non è possibile fare un cammino cristiano autentico senza direttore spirituale, siamo d’accordo? Il fai da te è molto pericoloso.

6) LA PAZIENZA
Pazienza non vuol dire rassegnazione.
Pazienza da patior, un verbo latino deponente che ha la forma passiva, ma il significato attivo, e che vuol dire: io condivido, sento la medesima cosa di …
La pazienza è la capacità di vivere la medesima cosa.
Dio è paziente perché si è fatto carne ed è venuto a condividere la nostra situazione e condizione umana.
Quindi la pazienza è ciò che troviamo nella lettera ai Romani di Paolo: gioite con chi è nella gioia, piangete con chi è nel pianto; quindi pazienza vuol dire proprio coloro che si fanno carico gli uni degli altri, si mettono nei panni di, non per giustificare ma per elevare.
Tu ti trovi con una persona che vuole abortire, ti metti nei panni di quella persona e dici è vero ha tante difficoltà, mi metto nei suoi panni, la capisco la giustifico, no!
Mi metto nei suoi panni, la capisco e l’aiuto.
Se non posso aiutarla in un altro modo, apro il borsellino e l’aiuto in quel modo, perché se la situazione è veramente una mancanza economica, allora tu che lo sai non puoi dire: io metto il mio gruzzolo in banca, perché tanto sono a posto.
Che male faccio? Lavoro, è giusto ecc. ecc.
Tu sai che sta per compiere un sacrilegio, oltre che un assassinio e stai tranquillo?
Sto facendo degli esempi paradossali.
A volte ci sono altre motivazioni che non sono quelle economiche e proprio per questo motivo tu ancora di più sei chiamato a vivere la pazienza, la pazienza nella condivisione per elevare non per giustificare!

7) BENEVOLENZA ( RM 12,14 )
Benevolenza, Rm 12,14 e seguenti: per quanto vi riguarda cercate di andare d’accordo con tutti, ma se non vi fosse possibile, rispondete al male che ricevete con il bene.
Benevolenza significa volere il bene, volere il bene di tutti, anche del nemico; volere il bene è faticoso, impegnativo ed esigente, perché volere il bene significa anche essere disposti a dire tanti no.
Ti rendi impopolare a dire no, però se tu vuoi il bene del prossimo devi anche essere capace di dire no.
Dire sì quando è si e no quando è no.
Quando negli anni ’60 alcuni pedagogisti hanno pensato che un’educazione in cui fossero presenti le privazioni, fossero presenti i no, fosse un’educazione di tipo deleterio, molte persone vi hanno creduto.
Il risultato è che in quegli anni andava di voga un certo tipo di educazione molto permessivista, non esisteva il no!
Quali sono i frutti che abbiamo raccolto? Persone traumatizzate; poiché la vita continua ad essere difficile per tutti, anche per quelli che si sono abituati fin da sempre ad avere dei sì.
Ad un certo momento la vita ti pone di fronte a delle situazioni in cui è no, anche se tu vorresti che fosse si e questo crea dei traumi, crea delle depressioni, crea delle persone incapaci di affrontare la realtà, crea persone immature.
E, a seconda dello stato che stanno vivendo, cadono nella depressione o cadono nella esasperazione.

8) BONTÀ
La bontà è quella caratteristica che ti fa amare il buono e vedere il buono e far riferimento al buono che trovi intorno a te, per farlo crescere.
Quindi come educatori, voi lo sapete, fa parte del metodo preventivo ideato da don Bosco, quello di trovare ciò che c’è di positivo in quella persona e fare riferimento a quello per farlo crescere; insieme alla capacità di correggere per eliminare ciò che non è positivo.
Quello che vi dico semplicemente per la vostra praticità nell’attività catechetica, però vedere il buono.
Incontri una persona, nella tua situazione, nella tua famiglia ecc. ecc.. occorre fare riferimento a ciò che è buono, cercare ciò che unisce, evitare ciò che divide.
Ecco non significa mistificare la verità, non ho detto compromesso.
Cercare ciò che è buono non vuol dire cercare il compromesso, vuol dire essere sempre servi della verità, ma dando particolare rilevanza a ciò che è buono.

9) MITEZZA
Mitezza: una persona mite non è una persona mansueta, non è una persona senza spina dorsale; una persona mite è una persona che sa usare bene delle proprie energie, che sono dono di Dio.
Quindi la decisione, la perseveranza, la temperanza, il dominio di sé: è una persona che è profondamente libera e che difende la propria libertà, che ha ricevuto in dono da Gesù Cristo e proprio a causa della Redenzione, Passione, morte e risurrezione.
La persona che è capace di dominare se stessa, è una persona che desidera essere libera, cioè una persona che non vuole farsi dominare da niente e da nessuno, solo da Gesù Cristo, perché essere dominati da Gesù Cristo significa vivere veramente nella pienezza dell’essere umano, non solo in qualche sua parte.
Su tutto poi deve troneggiare la carità.

10) CARITÀ E UMILTÀ
La carità è fatta proprio di un’intimità con il Signore, Dio mi ama, io lo amo per cui c’è questo frutto dello Spirito che si esercita in un modo imprescindibile che è quello dell’umiltà.
Senza la virtù dell’umiltà tutto quello che abbiamo detto fino adesso è assolutamente inutile.
L’umiltà non è il senso di inferiorità, ma la docilità assoluta allo Spirito di Dio.
La persona umile è la persona che è completamente disponibile, che ha il cuore aperto; la persona umile è la persona che riesce a trovare la via di Dio, anche quando le strade sono molto intricate.
Il discorso dell’umiltà esige più tempo e più discernimento, però tenete presente: sono umile?
Sono docile? Volete un piccolo sistema per scoprire se siamo abbastanza umili o no?
È molto banale, in certi casi è utile, non si può generalizzare però, c’è quello slogan che l’ho già detto tante volte: un cuore pieno di io non ha posto per Dio.
Esaminiamo il nostra modo di parlare.
Noi non siamo anglosassoni, noi non siamo inglesi, non siamo delle persone che devono continuamente usare il pronome personale io all’inizio di ogni frase, se lo usiamo alt!
C’è qualche ferita che non va, c’è qualche cosa che deve guarire e allora pensiamoci.

11) LA TUA LINGUA USA LA PAROLA DI DIO? ( GC 3 )
Il nostro modo di essere si esprime anche con la parola e vi lascio quest’ultima citazione.
La lettera di Gc 3 ci dice questo: chi domina la lingua domina tutto il resto del corpo.
Leggetevi questo capitolo e vedrete che è un gioiello, qualcosa di meraviglioso, è pieno di insegnamenti; e vi ricordo che i neurologi hanno confermato questa scrittura di S. Giacomo, perché hanno scoperto che quando noi parliamo usiamo del cervello la quantità maggiore che per fare qualsiasi altra cosa.
Una persona che corre, che fa delle attività particolari usa meno cervello di una persona che parla, perché per far muovere la lingua entrano in funzione moltissimi centri nervosi all’interno del cervello, quindi equivale a dire che la lingua ha un posto preponderante nella persona umana.
Perché? Perché la persona umana è una persona fatta di relazione e la lingua è il modo con cui noi entriamo in relazione con gli altri, la capacità di comunicare.
Allora, se la tua lingua usa le parole di Dio e il pensiero di Dio, se dalla tua bocca esce ciò che è dentro il tuo cuore e ciò che esce è amore per e in Dio allora vuol dire che stai camminando docilmente, seguendo il Signore con la potenza dello Spirito.

12) DESERTO: TEMPO CON DIO, DA SOLI
Ma in questo tempo di deserto abbiamo la possibilità di riflettere di pensare su tanti temi che oggi ho riassunti, ma sono cose che abbiamo toccato durante il corso dell’anno.
Il consiglio pratico è questo: siate un pochino gelosi di questo momento.
Appena abbiamo terminato sapete che avete mezz’ora tutta per voi, però questo per voi dev’essere assoluto, proprio silenzio monastico, siamo d’accordo?
Come se foste diventati tutti dei frati trappisti.
State distanti l’uno dall’altro, perché non vi venga la tentazione di parlare tra di voi.
Vi portate la vostra Bibbia, vi portate il vostro taccuino, vi scrivete le vostre impressioni, vi fate una meditazione scritta, vi sedete sulla collina, guardate il panorama, guardate i fiori, fate quello che volete, ma create dentro di voi questo spazio che dovete difendere gelosamente solo per voi stessi, mi correggo, non per voi stessi ma con Dio da soli, voi due, tu e Lui.
Fate la passeggiata, avete mezz’ora di tempo, riflettete sulle cose che ho richiamato, già trattate durante l’anno e poi dopo ci troveremo insieme per la condivisione, per dire se il Signore vi ha comunicato qualche cosa, se vi è ritornato alla mente qualcosa di importante trattato nel corso dell’anno, per sottolineare qualcosa di edificante e anche per fare qualche domanda, ma non solo per fare delle domande, perché oggi non è una giornata di lezione, va bene?
Vi auguro che questo tempo di silenzio sia vissuto davvero bene.
Di solito quando le persone lo fanno veramente, ritornano molto edificate dentro.
Vi consiglio di iniziare con una invocazione personale alla Madonna, cominciate facendovi un bel segno di Croce.
Se volete, potete passare nella cappellina, anche se andate tutti in gruppo, silenzio assoluto, fate cinque secondi di preghiera e partite.

Sia lodato Gesù Cristo.

LO SPIRITO E LA CHIESA (SECONDA PARTE)

http://www.zenit.org/article-33663?l=italian

LO SPIRITO E LA CHIESA (SECONDA PARTE)

Relazione di mons. Bruno Forte al recente Convegno promosso da RnS

(note sul sito)

ROMA, lunedì, 5 novembre 2012 (ZENIT.org).- Presentiamo la seconda parte della relazione tenuta giovedì 25 ottobre scorso da mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto (Abruzzo), al Convegno sullo Spirito Santo, svoltosi presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.
***
2. La missione come “splendore” dello Spirito: la cattolicità del soggetto missionario
Nella cattolicità della missione si manifesta la ricchezza dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa, lo “splendore” della Sua presenza. Questa consapevolezza si è espressa al nostro tempo in maniera altissima nel Concilio Vaticano II: “L’insegnamento di questo Concilio – afferma la Dominum et vivificantem – è essenzialmente ‘pneumatologico’, permeato della verità sullo Spirito Santo, come anima della Chiesa. Possiamo dire che nel suo ricco magistero il Concilio Vaticano II contiene propriamente tutto ciò che lo Spirito dice alle Chiese in ordine alla presente fase della storia della salvezza. Seguendo la guida dello Spirito di verità e rendendo testimonianza insieme con lui, il Concilio ha dato una speciale conferma della presenza dello Spirito Santo consolatore”[1]. Questa presenza è colta a vari livelli: il primo soggetto della missione è la Chiesa universale, la Catholica unita e vivificata dallo Spirito nella comunione dello spazio, espressa dalla comunione delle Chiese locali intorno alla Chiesa di Roma, che presiede nell’amore, “cum et sub Petro”, e nella comunione del tempo, manifestata dalla continuità ininterrotta della tradizione apostolica. La responsabilità di portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra e di impiantare dovunque la Chiesa è di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa.
Tutti hanno ricevuto lo Spirito, tutti devono donarlo: “Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere per parte sua la fede”[2]. In modo particolare, questa responsabilità missionaria investe il ministero della comunione: il Vescovo di Roma, anzitutto, in quanto ministro dell’unità della Chiesa universale, è caricato della “sollicitudo omnium ecclesiarum”, che si esprime particolarmente nell’ansia missionaria di far crescere ovunque la Catholica, sia nell’integralità della fede e della vita apostolica, che nella sua dilatazione presso tutte le genti. Nella solenne testimonianza della fede, attraverso il suo ministero profetico, liturgico e pastorale, nella promozione e nel sostegno della vitalità missionaria della Chiesa, ovunque diffusa, nell’esercizio del suo ministero universale di unità, il Papa si fa missionario del Vangelo per il mondo intero, come per la Chiesa e nella Chiesa, tutta in missione. Questa responsabilità universale il Vescovo di Roma la condivide con il collegio episcopale, cui spetta non di meno la sollecitudine per tutte le Chiese, e perciò l’impegno in vista dell’attività missionaria intrinseca alla Catholica, in esse presente[3]. Così, attraverso i loro vescovi in comunione col vescovo di Roma, tutte le Chiese partecipano alla sollecitudine dell’evangelizzazione e della missione universali, e sono chiamate a contribuire ad essa secondo i doni che lo Spirito ha dato a ciascuna, nella fecondità della cooperazione e dello scambio reciproco dei doni ricevuti.
Soggetto plenario dell’invio missionario è pure la Chiesa locale o particolare, in cui la Catholica si attua nella concretezza di uno spazio e di un tempo determinati: il popolo di Dio, radunato dalla Parola e dal Pane eucaristico, in cui nello Spirito Cristo si fa presente per la salvezza di tutti, è inviato ad estendere la potenza della riconciliazione pasquale a tutte le situazioni in cui vive ed opera. Tutta la Chiesa locale è inviata ad annunciare tutto il Vangelo a tutto l’uomo, ad ogni uomo: alla cattolicità, propria della Chiesa locale sul piano della “communio”, deve corrispondere la cattolicità sul piano della missione. Che tutta la Chiesa locale sia inviata, vuol dire che, in forza del dono dello Spirito ricevuto nel battesimo e nell’eucaristia, non c’è nessuno nella comunità ecclesiale che possa ritenersi esentato dal compito missionario. Al ministero di unità spetta discernere e coordinare i carismi in vista dell’azione missionaria, a ogni battezzato il compito di mettere i doni ricevuti al servizio della missione ecclesiale. A nessuno è lecito il disimpegno, come a nessuno è lecita la separazione dagli altri. Tutti, nella corresponsabilità e nella comunione, sono chiamati a partecipare attivamente alla missione della Chiesa: se ciò implica da una parte l’esigenza di riconoscere e valorizzare il carisma di ciascuno, esige dall’altra lo sforzo di crescere in comunione con tutti, in modo che la stessa comunione sia la prima forma della missione. La missione non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro, che è la Catholica in tutte le sue espressioni, in comunione di vita e di azione con tutti i battezzati, ciascuno secondo il dono ricevuto dallo Spirito. “Tutti i credenti in Cristo – afferma l’Enciclica Dominum et vivificantem – sull’esempio degli apostoli, dovranno mettere ogni impegno nel conformare pensiero e azione alla volontà dello Spirito Santo, principio di unità della Chiesa”[4], soggetto trascendente, vivo e presente della sua missione.
3. La missione, inseparabilmente “kenosi” e “splendore” dello Spirito: la cattolicità del messaggio e dei destinatari
La cattolicità della missione non investe solo il soggetto di essa, ma anche il suo oggetto e i suoi destinatari, nella forza dello Spirito di Cristo: “La pienezza della realtà salvifica, che è il Cristo nella storia, si diffonde in modo sacramentale nella potenza dello Spirito Paraclito. In questo modo lo Spirito Santo è l’altro consolatore, o nuovo consolatore, perché mediante la sua azione la Buona Novella prende corpo nelle coscienze e nei cuori umani e si espande nella storia. In tutto ciò è lo Spirito Santo che dà la vita”[5]. La cattolicità del messaggio, lo “splendore” della verità salvifica, esige che la Chiesa, tutta impegnata nell’annuncio, si faccia portatrice del Vangelo nella sua interezza: tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo! La buona novella da annunciare non è una semplice dottrina, ma una persona, il Cristo: è lui, vivente nello Spirito, l’oggetto della fede e il contenuto dell’annuncio, ed insieme è lui il soggetto che opera nello Spirito in chi evangelizza. Il Cristo evangelizzato è al tempo stesso il Cristo evangelizzante nei suoi testimoni. Ne consegue per la Chiesa l’esigenza di non appartenere che a lui, di essere la sua memoria vivente, lasciandosi sempre nuovamente evangelizzare da lui, per essere sempre di nuovo rigenerata dalla sua Parola (Ecclesia creatura Verbi!). La missione esige la testimonianza integrale del Cristo, che abbraccia la comunione della fede nel tempo e nello spazio ed è voce della comunione dello Spirito, che, attraverso la tradizione apostolica, rende la Chiesa identica a se stessa nel suo principio sempre presente, il Cristo.
La cattolicità del messaggio comporta anche inseparabilmente la cattolicità del destinatario della missione: la buona novella è risuonata per tutti ed esige di raggiungere tutti. “Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19s). Per mezzo del ministero ecclesiale, nella potenza dello Spirito, è Cristo che “predica la Parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede”[6]. Lo scopo della missione non è altro che portare all’incontro con Cristo: essa è diretta alla profonda verità di ogni essere umano, bisognoso di incontrare il Risorto e di farne sempre nuovamente esperienza. La frontiera dell’evangelizzazione non è la linea di demarcazione esteriormente riconoscibile fra spazio sacro e spazio profano, ma anzitutto il luogo della decisione salvifica, il cuore umano, lì dove la totalità di un’esistenza raggiunta dallo Spirito Santo si decide per Cristo. In questa decisione, possibile solo nell’incontro della libertà della persona con la Parola della fede e lo Spirito che dà vita, il tempo quantificato diventa tempo qualificato, ora di grazia, oggi di salvezza: da “krònos”, successione secondo il prima e il poi, si trasforma in “kairòs”, tempo della grazia e della vita nuova (cf. ad esempio Mt 8,29; 26,188; Mc 1,15; Lc 19,44; 21,8; Gv 7,6-8; At 1,7; 1 Ts 5,1ss.; Ef 5,16; Col 4,5; ecc.). La frontiera della missione passa dunque anzitutto nelle scelte fondamentali che qualificano la vita, e perciò anche all’interno della comunità ecclesiale, che, evangelizzando, ha sempre nuovamente bisogno di essere evangelizzata e di decidersi per il suo Signore nel vivo delle situazioni sempre nuove della storia. La Chiesa evangelizza, se continuamente si evangelizza, lasciandosi purificare e rinnovare dal giudizio della Parola di Dio e dal fuoco dello Spirito: così sta “sub Verbo Dei”, e può celebrare fiduciosamente i divini misteri per la salvezza del mondo.
La costante apertura alla cattolicità del messaggio non è tuttavia ancora pienamente realizzata, se non si attua la contemporanea apertura all’ampiezza dei bisogni umani e della destinazione dell’evangelo a tutte le genti: è qui che si pone l’esigenza imprescindibile per ogni battezzato, come per tutta la Chiesa, di impegnarsi affinché l’annuncio raggiunga veramente ogni persona umana. La Parola della salvezza esige la libertà e la generosità audace per essere gridata dai tetti, fino agli ultimi confini della terra. La “kènosi” della Parola e dello Spirito è rivolta a raggiungere ogni creatura in tutto il suo essere. Ciò esige l’impegno in un processo analogo al dinamismo dell’Incarnazione: “La Chiesa, per poter offrire a tutti il mistero della salvezza e la vita portata da Dio, deve inserirsi in tutti i diversi raggruppamenti umani con lo stesso movimento, con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò alle determinate condizioni sociali e culturali degli uomini, con cui visse”[7]. Cattolicità del soggetto, del messaggio e della destinazione della missione vengono così a saldarsi nell’unica cattolicità della Chiesa: se il Signore non chiederà conto ai suoi discepoli dei salvati, perché la salvezza è un mistero di grazia e di libertà di cui nessuno può disporre dall’esterno, chiederà loro conto degli evangelizzati. In tal senso, una Chiesa senza urgenza e passione missionaria tradisce la propria cattolicità, oppone resistenza allo Spirito che pour vuole animarla e si trasforma in un campo di morti, contraddicendo la sua natura di comunità dei risorti nel Risorto.
Conclusione
La Chiesa nella storia appare dunque come la “kènosi” e lo “splendore” dello Spirito Santo: “La Chiesa, radicata mediante il suo proprio mistero nell’economia trinitaria della salvezza, a buon diritto intende se stessa come sacramento dell’unità di tutto il genere umano. Essa sa di esserlo per la potenza dello Spirito Santo, della quale è segno e strumento nell’attuazione del piano salvifico di Dio. In questo modo si realizza la condiscendenza dell’infinito amore trinitario: l’avvicinarsi di Dio, Spirito invisibile, al mondo visibile. Dio uno e trino si comunica all’uomo nello Spirito Santo sin dall’inizio mediante la sua immagine e somiglianza. Sotto l’azione dello stesso Spirito l’uomo e, per suo mezzo, il mondo creato, redento da Cristo, si avvicinano ai loro definitivi destini in Dio”[8]. Ecco perché la vita secondo lo Spirito è inseparabile dalla comunione ecclesiale e questa da quella. Afferma Agostino: “Tanto si ha lo Spirito Santo, quanto si ama la Chiesa di Cristo”[9]. Il testimone sa, perciò, dove attingere lo Spirito di cui ha bisogno per vivere la propria missione, partecipazione alle missioni divine: “Non separarti dalla Chiesa! Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza, è la Chiesa. La tua salvezza, è la Chiesa. Il tuo rifugio, è la Chiesa. Essa è più alta del cielo e più grande della terra. Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna”[10].
È lo Spirito che agendo nella comunità ecclesiale la rende eternamente giovane e bella! Mossa da questa convinzione, l’Enciclica di Giovanni Paolo II sullo Spirito Santo si conclude così: “La via della Chiesa passa attraverso il cuore dell’uomo, perché è qui il luogo recondito dell’incontro salvifico con lo Spirito Santo, col Dio nascosto, e proprio qui lo Spirito Santo diventa ‘sorgente di acqua, che zampilla per la vita eterna’. Qui egli giunge come Spirito di verità e come Paraclito, quale è stato promesso da Cristo. Di qui egli agisce come consolatore, intercessore, avvocato… Lo Spirito Santo non cessa di essere il custode della speranza nel cuore dell’uomo: della speranza di tutte le creature umane e, specialmente, di quelle che possiedono le primizie dello Spirito e aspettano la redenzione del loro corpo. Lo Spirito Santo, nel suo misterioso legame di divina comunione col Redentore dell’uomo, è il realizzatore della continuità della sua opera: egli prende da Cristo e trasmette a tutti, entrando incessantemente nella storia del mondo attraverso il cuore dell’uomo”[11]. Così lo Spirito nel cuore della Chiesa e di ogni credente è la sorgente sempre viva della giovinezza e della speranza del mondo!
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LO SPIRITO E LA CHIESA (PRIMA PARTE)

http://www.zenit.org/article-33661?l=italian

LO SPIRITO E LA CHIESA (PRIMA PARTE)

Relazione di mons. Bruno Forte al recente Convegno promosso da RnS

(sono due parti la seconda domani, note sul sito)

ROMA, domenica, 4 novembre 2012 (ZENIT.org).- Presentiamo la prima parte della relazione tenuta giovedì 25 ottobre scorso da mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto (Abruzzo), al Convegno sullo Spirito Santo, svoltosi presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.
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1. La missione come “kenosi” dello Spirito: i modelli storici della missione – 2. La missione come “splendore” dello Spirito: la cattolicità del soggetto missionario – 3. La missione inseparabilmente “kenosi” e “splendore” dello Spirito: la cattolicità del messaggio e dei destinatari – Conclusione
L’invio dello Spirito Santo da parte del Risorto può essere considerato l’inizio stesso della Chiesa: “Il tempo della Chiesa – afferma Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dominum et vivificantem -ha avuto inizio con la ‘venuta’, cioè con la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti nel Cenacolo di Gerusalemme insieme con Maria, la Madre del Signore”[1]. Quest’origine dalla Trinità attraverso le missioni del Figlio e dello Spirito mostra come la Chiesa sia costitutivamente “kenosi” e “splendore”, nascondimento e irradiazione, dell’amore trinitario nella storia[2]. Come nella Trinità così – per una non debole analogia – nella Chiesa, la missione è l’espressione del dinamismo più profondo della comunione, l’irradiazione della sovrabbondanza dell’amore, che in essa è effuso dallo Spirito Santo. Questo dinamismo originario è stato variamente vissuto e pensato nello sviluppo storico del popolo di Dio: nella varietà dei modelli che si sono succeduti nel tempo si realizza, in un certo senso, la “kènosi” dell’azione dello Spirito nella storia; nell’unica pienezza della Catholica e del suo dono al mondo è lo “splendore” dell’essere ecclesiale che viene a esprimersi.
1. La Chiesa come “kenosi” dello Spirito: i modelli storici della sua missione
L’Ecclesia de Trinitate esiste nella storia anzitutto come “kènosi” della gloria divina: la Trinità mette le sue tende nel tempo mediante la Chiesa, con tutti i limiti che derivano dalla dimensione storica e mondana. Di questa “kènosi” artefice principale è lo Spirito: “Lo Spirito Santo – scrive il teologo ortodosso Vladimir Lossky – si comunica alle persone, segnando ogni membro della Chiesa con il suggello di un rapporto personale e unico con la Trinità, divenendo presente in ogni persona. Come? Qui permane un mistero: il mistero dell’esinanizione, della ‘kènosi’ dello Spirito Santo veniente nel mondo. Se nella ‘kènosi’ del Figlio la persona ci è apparsa mentre la divinità rimaneva nascosta sotto ‘le sembianze del servo’, lo Spirito Santo, nel suo avvento, manifesta la natura comune della Trinità, ma lascia che la sua persona sia dissimulata sotto la divinità. Rimane non rivelato, nascosto per così dire dal dono, affinché il dono ch’Egli comunica sia pienamente nostro, fatto proprio dalle nostre persone”[3]. Proprio così, lo Spirito è la dimensione storica del mistero ed è Lui che la dona alla Chiesa, perché sia il volto – storicamente determinato e soggetto a cambiamento – della vita divina che viene dall’alto per tutti.
Sotto l’azione dello Spirito la tensione missionaria costitutiva dell’essere ecclesiale ha assunto nel tempo forme diverse, sviluppatesi in rapporto alle diverse situazioni storiche del cristianesimo[4]: è possibile individuare – in maniera del tutto generale – alcuni modelli fondamentali di questa “kenosi” dello Spirito nella Sposa, la Chiesa. Il primo modello si afferma nel tempo della Chiesa dei martiri, segnato dalla forte tensione escatologica e dallo slancio teso a offrire al mondo la vita nuova in Cristo fino alla testimonianza suprema del martirio. L’urgenza dominante è quella di portare dovunque il Vangelo e l’attività missionaria della Chiesa è intesa soprattutto come missione in atto, come animazione, cioè, che si realizza dappertutto grazie alla forza espansiva della presenza dei cristiani vivificati dallo Spirito. Questo comportamento è ispirato al principio giovanneo dell’essere nel mondo ma non del mondo (cf. Gv 17,11. 14) ed è descritto con efficacia dalla Lettera a Diogneto (II sec.): “Ciò che è l’anima nel corpo, lo sono i cristiani nel mondo. L’anima è diffusa in tutte le membra del corpo, i cristiani lo sono nelle città della terra. L’anima, pur abitando nel corpo, non è del corpo; i cristiani, pur abitando nel mondo, non sono del mondo. L’anima invisibile è custodita nel corpo visibile; i cristiani sono noti al mondo, ma resta invisibile la loro adorazione di Dio…”[5]. La fecondità della missione scaturisce dunque dalla sovrabbondanza dell’esistenza trasformata dallo Spirito, vissuta nei luoghi e negli ambienti più diversi per una spontanea irradiazione del dono di Dio, che viene a pervadere la società in cui si è immersi.
Col delinearsi della situazione di cristianità, caratterizzata dall’osmosi fra la Chiesa e l’Impero, lo slancio missionario tende a indebolirsi e il modello della missione in atto cede sempre più il posto a quello della missione compiuta: la tensione si sposta dall’esterno all’interno della comunità, perché sembra che la buona novella abbia ormai raggiunto l’intero spazio del cosmo conosciuto e debba perciò essere proclamata e celebrata soprattutto a favore della vita spirituale e liturgica dei cristiani. In tal modo, la specifica operosità missionaria della comunità passa dal centro al margine dell’autocoscienza ecclesiale: “L’impegno dell’evangelizzazione… viene pensato come un impegno contingente, che dipende da peculiari condizioni storiche… A sua volta, la concezione della Chiesa non è per nulla determinata dal suo dinamismo missionario. La sua normale principale attività non è la missione né l’evangelizzazione, bensì quella che si chiama l’attività pastorale la quale, presupponendo la fede già predicata ed accolta, comporta impegni ed azioni tesi alla maturazione della fede dei credenti, alla loro santificazione attraverso i sacramenti, alla difesa della loro fedeltà ed alla promozione della loro coerenza con la fede professata”[6]. La “missio ad intra” diventa la forma ordinaria della vita ecclesiale, la “missio ad extra” quella straordinaria ed eccezionale. La stessa attenzione alla Terza Persona divina va affievolendosi a favore di una concezione della Chiesa legata quasi esclusivamente all’incarnazione del Figlio (“cristomonismo”).
Col tramonto del Medio Evo la scoperta di nuovi mondi totalmente da evangelizzare e il profilarsi del confronto dialettico fra la Chiesa e la modernità provocano una profonda modifica nei modelli, cui si ispira la missione: emergono due atteggiamenti opposti. Da una parte, si delinea la concezione della missione nascosta, che valorizza il protagonismo interiore della soggettività nel servizio alla causa della salvezza del mondo e corrisponde alla generale riscoperta del soggetto tipica dell’evo moderno. Dall’altra e soprattutto, è l’idea della missione “ad gentes” che va imponendosi: i nuovi mondi da evangelizzare costituiscono un richiamo troppo forte alla coscienza credente per poter essere eluso. Si va delineando la meravigliosa fioritura missionaria, che porterà la Chiesa non solo ad espandersi nelle terre del nuovo mondo, ma anche a conoscere in se stessa una vigorosa ripresa dell’anelito alla missione. Vissuta con una prodigiosa ricchezza di mobilitazione di uomini e mezzi e con una non meno straordinaria fecondità di frutti, nonostante tutti i limiti e le contaminazioni con l’opera colonizzatrice delle potenze imperialiste, la missione “ad gentes” implica una forte coscienza della necessità della Chiesa per la salvezza e, ancor più radicalmente, presuppone una precisa affermazione dell’assolutezza del cristianesimo, della singolarità, cioè, del tutto unica e irripetibile del Salvatore del mondo, Gesù Cristo, che nella Chiesa si rende presente e opera grazie al suo Spirito.
Il grande merito del modello della missione “ad gentes” è di esplicitare in tutta la sua ricchezza il valore dell’apostolicità della Chiesa: convocata dalla fede degli apostoli e in essa conservata, grazie alla comunione dello Spirito Santo nel tempo e nello spazio, la comunità cristiana si riconosce inviata a testimoniare questa fede fino agli estremi confini della terra ed a suscitare dappertutto presenze della Chiesa, che rendano possibile il ricorso ai mezzi di grazia e l’esperienza salvifica della vita nuova, donata in Gesù Cristo. La “plantatio Ecclesiae” riconosce così il suo modello originario e normativo nella stessa opera missionaria degli apostoli, che predicarono il Vangelo, fondando la Chiesa dovunque andavano e preoccupandosi di assicurarne la sopravvivenza in particolare con la costituzione del ministero apostolico. Proprio per questo, però, il modello vale fin tanto e fin dove ci sia la Chiesa da impiantare: in questo senso, la concezione che sta alla base della “missio ad gentes” non esclude del tutto il rischio di ricadere nell’ideologia della missione compiuta[7].
Si determina così la necessità di integrare il modello della “missio ad gentes” con un modello più consapevolmente pneumatologico, che fondi l’urgenza missionaria come elemento costitutivo dell’essere ecclesiale nella sua pienezza, a prescindere dalle condizioni contingenti che accentuino l’uno o l’altro aspetto dell’azione apostolica: questo modello è quello che potrebbe definirsi della cattolicità della missione. Esso salda la nota dell’apostolicità, ispiratrice della “missio ad gentes”, a quella della pienezza cattolica del popolo di Dio, secondo una mutua inabitazione delle proprietà essenziali della Chiesa: l’Una Sancta è anche ed inseparabilmente Catholica et Apostolica. Ciò significa che la raccolta escatologica, che il Signore Gesù viene a compiere, non solo raduna la comunione dei santi nell’unità a immagine della comunione trinitaria, ma esige anche che questa convocazione raggiunga nella forza dello Spirito tutti i tempi e tutti i luoghi mediante la continuità della tradizione apostolica e della successione del ministero in essa e il farsi presente del dono della riconciliazione in ogni tempo e in ogni luogo. La cattolicità della Chiesa è, in altre parole, inseparabilmente un dono e un compito: la Chiesa universale già esiste come Israele finale, popolo del raduno escatologico dei popoli, Catholica presente nella storia grazie alla missione del Figlio e dello Spirito; essa, tuttavia, richiede di attuarsi ancora in pienezza sia dove non esiste, sia dove, sebbene presente, la pienezza cattolica deve ancora esprimere tutta la ricchezza delle sue potenzialità, carismatiche e ministeriali. In questo senso, dovunque c’è la Catholica, c’è la missione, come realtà in atto o come esigenza imprescindibile: la missione si presenta come l’aspetto dinamico della cattolicità, il suo effettivo compiersi nella storia della salvezza, sotto l’azione dello Spirito Santo.
La sfida della concezione pneumatologica della Chiesa, ispirata all’insegnamento del Vaticano II e ripresa dall’Enciclica Dominum et vivificantem non è, allora, quella di sostituire un modello all’altro, fino a svuotare il senso della “missio ad gentes”, quanto piuttosto di mantenere anche in ecclesiologia il principio trinitario della “pericoresi”. La cattolicità non va separata dall’apostolicità, come testimonia la tradizione della Chiesa indivisa, per la quale l’una non può sussistere senza l’altra: la “plantatio Ecclesiae” continuerà ad essere urgenza apostolica ineliminabile dell’attività missionaria; allo stesso modo, l’azione missionaria “ad intra” sarà sempre necessaria al popolo di Dio, per rinnovarsi incessantemente nella fedeltà alla fede apostolica e nell’apertura alle sorprese dello Spirito. Questa rinnovata percezione dell’inseparabilità delle due urgenze della missione, “ad intra” e “ad extra”, corrisponde a quella che in modo particolare a partire da Giovanni Paolo II viene detta la “nuova evangelizzazione”. Anch’essa va compresa nella luce del primato dell’azione dello Spirito: l’aggettivo “nuova”, posto innanzi al termine “evangelizzazione” non sta a significare una semplice novità cronologica, quasi che quanto prima fosse sbagliato o parziale, ma vuole evidenziare il bisogno di una novità qualitativa.
Per ricorrere alla terminologia del greco neotestamentario, in gioco è la novità del “kainós”, non quella del “neós”, la novità qualitativa ed escatologica, non quella meramente cronologica del prima e del poi. Non a caso Gesù chiama “kainé” il suo comandamento nuovo (“entolé kainé”: 1 Gv 2,7s), per indicare che solo gli uomini nuovi, resi tali dallo Spirito del Figlio, possono vivere la novità dell’amore da Lui richiesto e darne testimonianza credibile. È lo Spirito Santo, insomma, l’agente principale della “nuova evangelizzazione”, cui aprirsi per realizzare la piena cattolicità della missione ecclesiale di fronte alle sfide dei tempi nuovi nel “villaggio globale”, che è ormai il pianeta. Nella luce di questo dinamismo reso possibile dallo Spirito, si dovrà parlare di una triplice cattolicità della missione: la cattolicità del soggetto missionario; quella legata al contenuto dell’annuncio, che è la fede custodita nella tradizione apostolica; e infine, non meno rilevante, quella del destinatario della missione, che è tutto l’uomo, in ogni uomo. L’approfondimento di questi tre aspetti consentirà di chiarire in che consista lo “splendore” del Paraclito attuato nella missione ecclesiale e come esso si coniughi alla kénosi, di cui si è detto finora.
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