Archive pour avril, 2008

PAOLO AD ATENE: RIFLESSIONE – ATTUALIZZAZIONE SULLA PREDICAZIONE DI PAOLO

PAOLO AD ATENE: RIFLESSIONE – ATTUALIZZAZIONE SULLA PREDICAZIONE DI PAOLO

stralcio dal libro: Bianchi F., Atti degli Apostoli, Città Nuova Editrice, Roma 2003

pag 203.

 

titolo del docente su questa parte: « Attualizzazione », si trova a conclusione di tutto il commento sulla predicazione di Paolo ad Atene, ho proposto una lettura, uno stralcio da questa parte del libro sotto il titolo: « Paolo ad Atene (Atti 17,15-22; propongo separatamente questo breve e conclusivo commento separatamente perché – come ho scritto alla fine dell’altro post – questa riflessione del docente collima con il mio pensiero, nel sento che, la mia preparazione è, sì, veramente molto limitata tuttavia qualche volta mi sembra di intuire comprendere San Paolo come persona, per quello che voleva fare, dire, predicare, ossia la predicazione ad Atene a me non sembra fallimentare come dicono molti, forse, anzi, Paolo è riuscito, in un certo senso, a « scavalcare » i secoli per inoltrarsi in un mondo nel quale una predicazione di questo tipo può essere incisiva e valida, ma, certo meglio di me, il docente:

 

« A prima vista il soggiorno di Paolo ad Atene si conclude con un fallimento: il suo tentativo di inculturare il Vangelo nella tradizione religiosa e filosofica di quella città è stato accolto soltanto da poche persone. Pure, ciò che agli occhi dell’uomo potrebbe apparire come un fallimento rivela invece tuta la forza di Paolo, disposto per il Vangelo a farsi (1Cor 9,22). Nella storia della Chiesa l’esempio data da Paolo si è ripetuto tante volte ed anche oggi il messaggio cristiano di salvezza è annunciato laddove non avremmo mai pensato che fosse possibile. Abbiamo imparato a conoscere questi nuovi evangelizzatori soprattutto dai mass media ed abbiamo constatato come il loro sforzo di evangelizzazione percorra strade nuovo ed ambienti apparentemente chiusi, mettendo alla prova la fantasia dell’annuncio e della carità e gettando il seme della parola a piene mani nei terreni più disparati o pericolosi, nella speranza che Dio lo faccia fruttificare. È perciò sorprendente che questo tentativo susciti, talvolta, fastidio o scandalo proprio tra gli stessi cristiani, dimentichi della propria natura di peccatori perdonati, assai poco disposti a portare i pesi del fratello ed orgogliosi della propria autosufficienza. Le parole di Paolo ci insegnano, invece, la necessità di diffondere il Vangelo anche in ambienti lontani, smascherandone gli idoli e proclamando che soltanto Gesù è il Signore. »

PAOLO AD ATENE (ATTI 17, 15-22)

PAOLO AD ATENE (ATTI 17, 15-22)

(stiamo leggendo questa parte degli Atti nella settimana VI di Pasqua)

stralcio dal libro: Bianchi F., Atti degli Apostoli, Città Nuova Editrice, Roma 2003

pagg. 196-198

15 Quelli che scortavano Paolo lo accompagnarono fino ad Atene e se ne ripartirono con l’ordine per Sila e Timòteo di raggiungerlo al più presto.
16 Mentre Paolo li attendeva ad Atene, fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli. 17 Discuteva frattanto nella sinagoga con i Giudei e i pagani credenti in Dio e ogni giorno sulla piazza principale con quelli che incontrava. 18 Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui e alcuni dicevano: «Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?». E altri: «Sembra essere un annunziatore di divinità straniere»; poiché annunziava Gesù e la risurrezione. 19 Presolo con sé, lo condussero sull’Areòpago e dissero: «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata da te? 20 Cose strane per vero ci metti negli orecchi; desideriamo dunque conoscere di che cosa si tratta». 21 Tutti gli Ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare.

(questo è il testo della traduzione CEI, c’è qualche differenza di traduzione nel testo riportato dal professore, le più importanti sono:

v. 17: pagani credenti in Dio, il prof. scrive – più rigorosamente – « Timorati di Dio » che sono, i pagani credenti nella fede di Israele, non i cristiani;

v. 18: ciarlatano, nel testo « seminatore di chiacchiere »;)

testo:

« 15. Intorno al 50 d.C. Atene viveva oramai da tempo una lunga e grand tour della Grecia per conoscere meglio la filosofia e la cultura greca.

16-17. Nel suo racconto Luca entra subito in media res descrivendo lo sdegno che infiamma Paolo davanti ai tanti simulacri di divinità pagane che erano valsi agli ateniesi la fama di popolo assai religioso: questo sdegno era probabilmente alimentato dal pensiero del primo comandamento che vietata, com’è noto, di farsi immagine alcuna di Dio. I primi destinatari dell’evangelizzazione sono, come sempre, i giudei e i timorati di Dio, anch’essi presenti ad Atene, e poi gli ateniesi che frequentavano l‘agorà ossia la piazza dove si svolgeva il mercato cittadino: quest’ultima annotazione ha suscitato un certo scetticismo, poiché ricorderebbe troppo da vicino il modus operandi di Socrate, ma essendo l’agorà il centro della vita cittadina, è logico pensare che proprio da qui dovesse cominciare il suo generoso tentativo.

18. Su questo sfondo, così ricco di
Paolo incontra alcuni filosofi stoici ed epicurei, rappresentanti di due scuole filosofiche gloriose, ma agli antipodi per credenze e stile di vita. Lo stoicismo prende il nome dalla Stoa poikile – cioè dal portico dipinto, dove il cipriota Zenone di Cizico (340 a:c: – 265 a.C.) teneva all’inizio del III sec. a.C. le sue lezioni: dominato da una visione panteistica del mondo, lo stoicismo considerava l’uomo una scintilla del fuoco universale, al quale era destinato a ricongiungersi dopo la morte. Al tempo di Paolo, lo stoicismo aveva accentuato l’aspetto morale, sostenendo l’uguaglianza di tutti gli uomini e la necessità per il saggio di vivere secondo natura fino a scegliere il suicidio, se fosse minacciata la propria libertà.

Gli epicurei, discepoli di Epicuro (320 a.C. – 270 a.C.), invece, sostenevano che il fine dell’uomo fosse l’atarassia, cioè l’assenza di passioni e il conseguimento del piacere. Quanto agli dèi, essi vivevano negli intermundia senza influenzare la vita umana. Queste affermazioni erano valse agli epicurei le accuse di empietà e immoralità. Dialogando con questi filosofi, Paolo si guadagna l’epiteto di spermologos) che indica gli raccoglieva qua e là frammenti di diverse teorie per farne una dottrina coerente e accettabile. L’allusione a Gesù e alla risurrezione fa sì che Paolo venga scambiato per un banditore dei culti orientali. Il nome Gesù poteva essere facilmente frainteso con la parola iasis <guarigione> o con Iaso, la figlia di Asclepio e la risurrezione, anastasis con una guarigione totale: così si potrebbe spiegare l’accusa, peraltro già mossa in passato a Socrate e a Protagora, di voler importare in Atene delle divinità straniere.

19-21. Per chiarire la questione, Paolo è condotto all’Areopago che significa
. Il nome designava il consiglio cittadino, che fungeva anche da tribunale, ma che si riuniva oramai nel Portico Reale presso il mercato cittadino, e la stessa collina dove si poteva discutere in maniera più articolata. Paolo si rivolge a coloro che rappresentano, quasi in maniera ideale, la città più colta del mondo pagano e, come avevano già notato Tucidite e Demostene la più assetata di novità e al più affascinata dalle parole. Questa è forse la caratteristica più sorprendente per il lettore moderno: siamo in un villaggio globale ante litteram, che vuole sapere, conoscere e essere informato, ma che è altrettanto pronto a dimenticare quanto ha appena ascoltato in favore dell’ultimissima notizia. Di fronte a tale uditorio, che Luca considera in ultima analisi incapace di un ascolto reale, Paolo incultura il messaggio cristiano secondo le tradizioni culturali e religiose del luogo. »

(naturalmente il testo del docente analizza tutti gli Atti e, quindi, l’esegesi è preceduta e seguita da altre nella successione del testo, mi sembrava particolarmente interessante questa lettura sulla città di Atene e di come si presentava agli occhi di Paolo; c’è, alla fine dello studio sul soggiorno di Paolo ad Atene c’è una: « Attualizzazion »e che mi sembra particolarmente interessante e collima – sempre nei limiti della mia imperfetta-imperfettissima preparazione – comunque con il mio pensiero, con quanto intuisco, sulla predicazione di Paolo ad Atene e la propongo separatamente con il titolo:

PAOLO AD ATENE: RIFLESSIONE – ATTUALIZZAZIONE SULLA PREDICAZIONE DI PAOLO

PROF. ALFIO MARCELLO BUSCEMI: LA FEDE IN S. PAOLO

PROF. ALFIO MARCELLO BUSCEMI: 

LA FEDE IN S. PAOLO

DAL: CORSO BIBLICO- TEOLOGICO DEDICATO A SAN PAOLO – SBF DI  GERUSALEMME – 25-28 MARZO 2008 – PROGRAMMA, TRE GIORNI DI STUDIO ED UN’ESCURSIONE BIBLICA – PRIMO GIORNO 

http://www.custodia.org/spip.php?article2300&lang=it

1) PREMESSE 

Nell’affrontare un tema paolino così importante, in vista di un approfondimento della nostra fede cristiana, ritengo che una premessa sia necessaria. Essa si articola su tre punti fondamentali: 

1º) nel trattare della fede in S. Paolo bisogna assolutamente liberarsi da alcuni presupposti di tipo polemico, che spesso hanno contrapposto i cristiani ai giudei, i cattolici ai protestanti: intendiamo pertanto trattare della fede in S. Paolo seguendo un’interpretazione esegetica piana, il più possibile aderente ai testi, in modo da favorire l’approfondimento spirituale. 

2º) In base a ciò credo che il tema della fede non sia una questione teorico-astratta, di cui si possa farne a meno o a cui possiamo dare o non dare la nostra adesione, ma un messaggio esistenziale-religioso che investe la vita di ogni uomo, non un messaggio di altri tempi elaborato da Paolo, ma la testimonianza di un messaggio sempre vivo, sempre attuale che ci tocca personalmente, ci interpella, ci sollecita, ci coinvolge per una decisione essenziale per la nostra vita di credenti e per la vita delle nostre comunità ecclesiali a cui apparteniamo. 

3°) Infine, bisogna sottolineare che la fede, nonostante la grande importanza che riveste nel pensiero di Paolo, non è il “cuore”, il “centro” portante della sua teologia e della sua spiritualità; il “centro” è e rimane sempre Cristo: la fede è orientata a lui e fondata su lui, e l’espressione della fede trova la sua completezza e la sua perfezione “nel Cristo Gesù”. Raramente Paolo parla di “fede in Dio” (1Tes 1,8), di “credere in Dio” (Rm 4,8.17: riferiti ad Abramo; 4,24; Gal 3,6: riferito ad Abramo; Col 2,12), di “fede nell’evangelo” (Fil 1,27; 1Tes 2,4), “fede nella verità” (2Tes 2,12-13). Anche queste espressioni hanno senso pieno solo alla luce di Cristo. Paolo pensa tutto, compresa la fede, solo e sempre nella luce di Gesù Cristo, perché “lui Dio ha posto quale espiazione mediante la fede nel suo sangue” (Rom 3,25). La fede cristiana, pertanto, è fede nell’opera salvifica di Dio compiuta “nel Cristo Gesù” e quindi solo chi crede in lui è salvo. 

2) “CREDERE IN CRISTO” 

Tale espressione paolina è densa di significato e ci induce ad una serie di riflessioni  stimolanti per la nostra vita cristiana: 

a) Il dinamismo della fede 

Il vocabolario paolino della fede, come del resto anche quello neotestamentario, è estremamen-te dinamico. Ciò è già evidente nel termine “credere”, dato che il verbo in se stesso indica l’azione di una persona che presta fede ad un altro, gli dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui. La stessa cosa avviene per il termine greco “pistis”, che noi traduciamo con “fede”. Esso è nella lingua greca un sostantivo astratto di azione e quindi non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci ha interpellato, una relazione vitale con qualcuno. Una fede statica è inconcepibile per Paolo, un controsenso. Per lui la fede è movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, vita; un “correre per afferrare Cristo, che prima l’ha afferrato” (Fil 3,12), un “correre verso la meta, per conseguire il premio di quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3, 14), “un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), un cominciare per mezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (Gal 3,3; Ef 4,13). In breve: per Paolo la fede è vita, e “la mia vita è Cristo” (Fil 1,21). 

b) Il rapporto personale di fede 

La formula “in Cristo Gesù”, unita a “credere” e a “fede”, è stata interpretata spesso dagli esegeti come esprimente “l’oggetto della nostra fede”. Tale interpretazione è ambigua, dato che si parla di una persona, del Cristo Gesù, fondamento unico, realtà intima, vita stessa della nostra fede, nostra vita. D’altra parte, anche se possono sembrare quisquilie e ricercatezze da esegeta, non sta scritto “io credo Cristo”, che al massimo indicherebbe il riconoscimento della sua esistenza, e neppure: “io credo a Cristo” (comunque cfr. 2Tm 1,12) che indica il ritenere per vero ciò che egli dice e il fidarsi di lui, ma sta scritto: “io credo in Cristo”, in cui la preposizione greca eis indica sempre un movimento verso qualcuno o qualcosa, cioè un entrare in rapporto vitale e personale con il Cristo. “Credere in Cristo Gesù” significa considerare lui come il testimone verace della fede, il fondamento della fede e in conseguenza il seguire lui e le sue vie, l’essere partecipi di lui e del suo cammino verso Dio, e infine essere partecipi della sua vita divina: “Voi conoscete bene la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, il quale si fece povero per voi, pur essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà” (2Cor 8,9). Di più: “credere in Cristo” significa che lo riconosco talmente esistente da entrare in rapporto di intimità e di amicizia con lui, da lasciare che lui operi in me pienamente con la sua potenza salvifica, che “Cristo viva in me e io in lui” (Gal. 2, 20). Agostino l’ha detto con la solita incisività: “Che significa dunque «credere in lui». Credendo amarlo e diventare suoi amici, credendo entrare nella sua intimità e incorporarsi nelle sue membra” (Comm. a Giov., 29,6). 

c) La professione del Kerygma di fede 

Tale incontro personale con il Cristo, tale “credere in Cristo Gesù” non è, però, da intendere in senso psicologico o intimistico, ma in senso storico-teologico, precisamente come accettazione di ciò che Gesù è e rappresenta per la fede cristiana, per me che ho creduto in lui e credendo sono entrato in comunione con lui. È accettazione del mistero della sua persona divino-umana: “io credo nel Figlio di Dio, nato da donna, nato sotto la legge (Gal. 4,4), che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 1,4; 2,20), “che annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini, e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di Croce” (Fil 2, 6-11). È accettazione della sua missione di “Cristo” con cui Dio ha riconciliato a sé il mondo (2Cor 5,19) e ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà (Ef 1,9). È accettazione soprattutto della sua morte e resurrezione, con cui egli è divenuto Signore dei morti e dei vivi (Rom 14,9; Fil 2,11): “noi crediamo che Gesù è morto e risuscitato” (1Tes 4,14). La fede diviene professione del Kerygma fondamentale dell’esistenza cristiana: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rom 10,9), sarai unito al mistero di Cristo: “Se dunque siamo morti con Cristo, noi crediamo che vivremo pure con lui …Pensate che siete morti al peccato e che dovete vivere per Dio in Gesù Cristo” (Rom 6,8-11). La morte e la resurrezione di Gesù sono il mistero centrale della fede: sono il nostro incontro con Cristo morto e risorto per noi, l’incontro determinante e decisivo della nostra esistenza (1Cor 15,14-17). Proprio per questo, esso va proclamato con la  bocca e con il cuore (Rom. 10,9), anzi urlato con coraggio dinanzi a tutti: “io credo in Gesù Cristo morto e risorto per me”. 

d) Aprirsi al futuro di Dio 

Nella visione dinamica della fede che Paolo ci propone, tale confessione del “Cristo morto e risorto per me” investe e determina tutta l’esistenza del cristiano: il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. La fede investe la totalità del nostro essere personale: Cristo ha salvato tutto l’uomo e tutte le dimensioni spazio-temporali della sua esistenza. Per questo, quando il cristiano professa: “io credo in Gesù Cristo”, egli esprime in primo luogo una convinzione di fede sul suo passato di schiavitù al peccato, alla carne, al mondo, alla morte. Egli grida a tutti: io credo in Cristo che mi ha liberato dal peccato, da questa potenza oscura (Col 1,13), perversa e demoniaca, che afferra le profondità dell’animo umano, rendendolo schiavo dell’egoismo, della cattiveria, dell’impurità, dell’empietà (Rom 7,7-8,4; Gal 5,19-20); dalla carne e dai suoi desideri contrari agli impulsi dello Spirito (Rom 8,3-17; Gal 5,16-26); dalla legge intesa come potenza (1Cor. 15,56) che attualizza e fa regnare il peccato nella carne (Rom 7,7-8; 8,2-3), commina la maledizione (Gal 3, 13), conduce alla morte (Rom 8,2); dal “mondo che sovrasta malvagio” (Gal 1,4; 6,14); dalla morte, l’ultimo nemico (1Cor 15,26). Cristo ci ha liberato, “per vivere per Dio” (Gal 2,19) e perché “la vita regni nei nostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in noi” (Rom 8,2.9-11). In tal modo, il mio presente viene investito dalla fede, divenendo determinazione del mio agire (Col 3,17.23), del mio pensare (Fil 2,1-5; 4,2; Rom 12,16), del mio sentire (Fil 2,5), del mio soffrire (Fil 1,29; Col 1,24; 2Cor 12,10), del mio gioire (Rom 15,13; Gal 5, 22; Fil 3,1; 4,4-7; 1Tes 1,6), del mio gloriarmi (1Cor 1,30; 2Cor 12,5-10), in una parola del mio vivere ed esperimentare la storia e il mondo (1Cor 3,22-23). Nella fede il mio presente ha un senso e si apre ad un compimento più grande. L’essere umano si apre al futuro di Dio: la vita diviene possibilità (Fil 1,20b), impegno (2Cor 11,22-29), superamento incessante fino a che comparirà Cristo, vita nostra, per farci partecipi della sua gloria (Col 2,4) e “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28). 

3) FEDE E VANGELO

 Si può affermare, in base a quanto si è detto, che per Paolo le fede non è altro che l’incontrarsi con il Cristo risorto da morte e il testimoniarlo nella propria vita di ogni giorno. In una parola, la fede cristiana si manifesta come accettazione profonda ed esistenziale della resurrezione di Cristo, a tal punto che Paolo può scrivere: “Se Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione, vana anche la nostra fede. Noi risultiamo essere falsi testimoni di Dio, perché abbiamo testimoniato di Dio che egli ha risuscitato Cristo, che invece non è risuscitato, se realmente i morti non risuscitano. Infatti, se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato. Se Cristo non è risuscitato, non vale la vostra fede e così voi siete nei vostri peccati” (1Cor 15,14). Il testo è molto ricco di contenuti: Paolo sottolinea che, se cade la professione di fede “nel Cristo morto e risorto per noi”, non cade semplicemente un articolo qualsiasi della nostra fede, ma cade tutta la nostra fede, perché viene meno il fondamento su cui essa poggia; senza “Cristo morto e risorto per noi” la fede sarebbe priva di senso, perché la salvezza non sarebbe avvenuta, anzi sarebbe un’illusione, una immaginazione fuorviante, un equivoco, un mito tra tanti: “saremo i più miserabili di tutti gli uomini” (1Cor 15,19); non solo la fede cadrebbe, ma anche la predicazione, ad essa strettamente connessa, risulterebbe vana e menzognera, in quanto essa è fondamentalmente annuncio del Vangelo di salvezza: “Cristo è morto e risorto per i nostri peccati”. Tale realtà è molto importante nell’approfondimento spirituale della nostra fede, in quanto ci introduce in alcuni suoi aspetti essenziali: a) La fede nasce dall’ascolto È un’idea su cui Paolo ritorna continuamente nel suo epistolario ed essa ha la stessa risonanza teologica dell’espressione deuteronomistica: “Ascolta, Israele”, che introduce l’antica alleanza tra Dio e il suo popolo per la mediazione di Mosè e dei profeti. In 1Cor 15,11-12, parlando del Kerigma fondamentale della fede (1Cor 15,3-8), Paolo scrive: “È questo che, tanto io che quelli, predichiamo e che voi avete creduto. Se si predica che Cristo è risuscitato da morte, come mai alcuni di voi dicono che non esiste la resurrezione da morte?”. In Gal 3,2.5: “Questo vorrei sapere da voi: lo Spirito l’avete ricevuto in virtù delle opere della Legge o in virtù dell’ascolto di fede?” e ancor più chiaramente in Rom 10,14b: “E in che modo crederanno in Colui, del quale non hanno sentito parlare? E in che modo ne sentiranno parlare, se non c’è chi predica?’ Esiste, per Paolo, un legame stretto tra predicazione e fede, tra “tradizione” che comunica il Vangelo di Gesù Cristo e la fede che nell’ascolto accoglie tale Vangelo di salvezza. Di tale legame Paolo è convintissimo. Per lui, nella parola dell’Apostolo è il Signore stesso che parla, chiama, ammaestra, introduce nel mistero salvifico di Dio, opera la salvezza (cfr 2Cor 13,3; 1Tes 4,2): “non oserei parlare se non di quello che Cristo operò per mezzo mio, allo scopo di trarre i gentili all’obbedienza, sia con la parola che con le opere mediante la potenza dei miracoli e dei prodigi, in virtù dello Spirito di Dio” (Rom 15,18-19); e ai Tessalonicesi scrive: “Rendiamo continue grazie a Dio, perché avendo ricevuto da noi la Parola di Dio nella predicazione, l’accoglieste non come parola di uomini ma, come è veramente, quale Parola di Dio, che anche al presente opera in mezzo a voi che credete” (1Tess 2,13); e ai Galati, difendendo il suo apostolato: “Vi dichiaro apertamente, fratelli, che il Vangelo da me predicato non viene dall’uomo, perché io non l’ho affatto ricevuto né imparato da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,11). Soltanto la fede può percepire e percepisce di fatto la parola di Dio nella parola dell’uomo. La fede ode e comprende che la parola di salvezza annunciata non è dell’apostolo che la comunica, ma di Dio che la pronuncia per la salvezza di tutti mediante gli intermediari umani, gli ambasciatori del suo amore: “Per Cristo dunque noi fungiamo da ambasciatori, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Per Cristo vi supplichiamo: riconciliatevi con Dio” (2Cor 5,20). La parola dell’apostolo è, pertanto, la parola di Dio, la parola di Cristo, che chiama tutti gli uomini di tutti i tempi alla salvezza (cfr Ef 1,13-14). 

b) La fede è accoglienza del Vangelo di salvezza 

La conseguenza è chiara: chi accoglie la parola dell’apostolo, accoglie la parola di Dio, la parola di Cristo, il Vangelo di salvezza. E il Vangelo non è un insegnamento: è Gesù che parla e ammaestra l’uomo in vista del Regno di Dio, della comunione intima con il Padre. Il Vangelo non è un’etica: è Gesù che conduce l’uomo per mezzo del suo Spirito, che produce l’amore, coronamento di ogni altra virtù (Gal 5,22-23). Il Vangelo non è una salvezza misterica: è Gesù che libera, redime, salva l’uomo dalla schiavitù del peccato e in conseguenza da ogni altra schiavitù. Nel Vangelo si è manifestata e si manifesta ‘la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rom 1,16); si disvela la giustizia di Dio, cioè l’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo: “ora si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono” (Rom 3,21). La fede, pertanto, è orientata essenzialmente al Vangelo di salvezza; è accoglienza dell’opera salvatrice, liberatrice e giustificante di Dio compiuta in Gesù Cristo; è accettare Gesù salvatore e lasciarlo operare profondamente ed esistenzialmente in noi. Nella fede Dio chiama l’uomo, lo giustifica e per mezzo di Cristo gli concede la sua grazia e lo rende da peccatore giusto e da schiavo figlio di Dio (Gal 4,3-5): “Coloro che ha chiamati, questi ha pure giustificati, coloro poi che ha giustificati, questi pure ha glorificati” (Rom 8,30). 

c) La fede è obbedienza al vangelo 

Ma la fede non è un semplice ascolto o un’accoglienza qualsiasi, è soprattutto obbedienza (Rom 1,5; 1,8; 16,19.26; 2Cor 10,5-6 ecc.). In italiano non si può rendere il collegamento della lingua greca tra “fede che ascolta” (akoé) e “fede che obbedisce” (hupakoé), ma il senso è chiaro: la fede è un ascolto accentuato, deciso, che comporta una sottomissione (hupo), una decisione e un impegno per Dio. La fede è una vera conversione dalla disobbedienza alla obbedienza totale e radicale per Dio. In ciò avviene un’assimilazione perfetta a Cristo, una partecipazione non solo al suo essere Figlio, ma anche ai suoi sentimenti più profondi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo, il quale umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di Croce” (Fil 2,5.8). Nell’obbedienza, il cristiano si spoglia di ogni sua sicurezza e di ogni altro riferimento alle possibilità umane, e si affida totalmente a Dio. Il cristiano diviene imitatore perfetto di Gesù, seguace ben disposto ad accettare la follia della croce, “sapienza e potenza di Dio” per coloro che nella fede sono stati chiamati alla salvezza  (1Cor 1,17.24-25). Gesù è il suo fondamento, la croce di Gesù la sua gloria (1Cor 1,31; Gal 6,14), la sua imitazione un’accettazione convinta di Gesù e della sua radicale obbedienza amorosa: di fronte al Crocifisso, testimone verace della fede, l’affidarsi a Dio nell’obbedienza acquista un senso di totalità e di definitività. Nella fede, infatti, “portiamo nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nel nostro corpo. Sempre infatti noi che viviamo siamo esposti alla morte per Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale … Avendo lo stesso spirito di fede secondo che è scritto: «Ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, sapendo che Colui il quale risuscitò il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù… Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,11-18). 

4) LA FEDE, FONDAMENTO DELLA VITA CRISTIANA

 L’affermazione paolina: “l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno” è un’ulteriore sottolineatura del carattere dinamico della fede. Essa non è solo un atto istantaneo che introduce il credente nella vita cristiana, ma insieme l’inizio e lo sviluppo progressivo (cfr Fil 1,25), “di fede in fede” (Rom 1, 17), del vivere continuamente sotto l’azione efficace e salvifica di Dio che giustifica, del nostro “essere e vivere in Cristo”, del nostro “camminare nello Spirito” lasciandoci plasmare dalla sua azione di grazia, in modo da esistere in risposta e come risposta alla sua chiamata. La fede orienta e determina tutta l’esistenza del cristiano nel suo procedere storico, tanto che non c’è alcuna dimensione del suo essere che non sia informata dalla fede, cioè dall’obbedienza a Dio e dall’affidarsi totalmente alla sua grazia. La fede è così il fondamento e “la misura” (Rom 12,3) del vivere, nel continuo confronto con le varie situazioni concrete, in modo da realizzare in essa la nostra vera umanità e il nostro essere figli di Dio. 

a) Il coraggio della fede 

Pascal, riflettendo proprio sulla fede, l’ha definita “un salto nel buio”, una “scommessa” per Dio. Decidersi per qualcosa o per qualcuno richiede coraggio. Ma ciò può considerarsi valido per gli inizi della fede, quando l’uomo, superata una certa resistenza mentale ed esistenziale, decide di affrontare la meravigliosa avventura con Dio. Parlare, invece, di “coraggio della fede” per chi ha già scelto di “vivere » nell’obbedienza della fede” può sembrare fuori luogo. Eppure non è così: per vivere ogni giorno la propria fede in Dio, in Cristo ci vuole coraggio. Esso è richiesto dalla stessa struttura dinamica della fede, in quanto per il credente ogni momento della sua vita è una “decisione per Dio”. Una decisione dell’intelligenza, della volontà, del cuore, costantemente diretti e orientati verso Dio come l’ago della bussola verso il Nord. Per Paolo, tale orientamento è possibile, solo se il cristiano si lascia penetrare e guidare dallo Spirito, la forza meravigliosa e prodigiosa donata al credente (cfr Gal 3,2.5) come fonte della nuova vita e come norma costante e dinamica del suo camminare: “Quanti infatti si lasciano condurre dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rom 8,14). “Quelli che sono secondo lo Spirito, aspirano alle cose dello Spirito … e ciò a cui tende lo Spirito è vita e pace … è vita per la giustizia” (Rom 8,5-9). Lo Spirito Santo è pertanto il coraggio della decisione del credente, in quanto lo spinge all’intelligenza della fede nel suo vivere quotidiano: “Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha gratuitamente largite; e di queste parliamo, non con parole suggerite dalla sapienza umana, ma con quelle insegnate dallo Spirito, adattando a uomini spirituali dottrine spirituali” (1Cor 2,12-13); spinge la volontà del credente a camminare in maniera degna di Cristo: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e concupiscenze. Se viviamo per opera dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5, 24-25), per produrre “il frutto dello Spirito, l’amore” (Gal 5,22-23); spinge il suo cuore ad elevare il grido della sua figliolanza divina: “Ora, poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori per gridare: Abba! Padre!” (Gal 4,6). In tale visione, lo Spirito Santo non è soltanto un eccellente maestro di vita, ma anche un operatore e un donatore di vita: è il coraggio della nostra fede, la scintilla vitale e potente che fa scattare la nostra decisione per Dio e per Cristo. Grazie allo Spirito, il credente nasce, cresce e arriva all’uomo perfetto, alla misura della pienezza della maturità di Cristo” (Ef 4,13). 

b) Fede, sacramenti e comunità 

La nascita e la crescita del credente per Paolo avvengono nei sacramenti, in particolar modo nel battesimo e nella Eucaristia, sacramenti che presuppongono già “l’accoglienza della parola”, della fede (cfr 1Cor 10,1-4). Fede e sacramenti sono così intimamente legati: essi significano, annunciano e operano la piena affermazione della fede, cioè l’annuncio e l’accoglienza della morte e resurrezione di Cristo in vista del nostro “vivere per Dio”. Ciò è evidente nel battesimo, per mezzo del quale il credente entra con Cristo nella sua morte, per morire definitivamente al peccato, e partecipa alla vita del Risorto: “Forse ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, nella morte di lui siamo stati battezzati? Per mezzo del battesimo siamo stati dunque seppelliti con lui nella morte, affinché, come Cristo risuscitò dai morti per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita” (Rom 6,3-4; cfr anche Rom 6,5-11). Si noti, in questo ricchissimo testo, l’insistenza di Paolo sulla morte e resurrezione di Cristo, nucleo centrale della nostra fede, e alla luce di esso l’insistenza ancora sulla conseguenza, sempre connessa con la fede, del “morire e vivere con Cristo”, del “camminare in Cristo”, del “vivere per Dio in Cristo”. Nel battesimo, infatti, il credente “si riveste di Cristo” e diviene “uno in Cristo” (Gal 3,27-28) per vivere da “figlio di Dio” (cfr Gal 3,26-4,7). Una possibilità nuova nasce per il cristiano: muore all’esistenza schiava del peccato, vive nella fede la vita di libertà dei figli di Dio in Cristo e nello Spirito. E non basta: proprio perché ogni credente diviene “uno nel Cristo” in virtù dello Spirito Santo, egli è inserito nel “corpo di Cristo” che è la Chiesa (Col 1,18): “un solo Corpo e un solo Spirito, così come anche siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. Uno solo il Signore, una la fede, uno il battesimo” (Ef 4,4-6). Un cristiano che vive isolato nella propria fede è inconcepibile per Paolo, sarebbe la negazione dell’“essere e vivere in Cristo”: “In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo” (1Cor 12,13). Simile a quello descritto è il rapporto dell’Eucaristia, sacramento della crescita del credente, con la fede. In 1Cor 8 11,23-26, Paolo trasmette un “insegnamento del Signore”, che suscita e alimenta la fede, attraverso la parola dell’apostolo: “Io infatti ho ricevuto dal Signore ciò che vi ho trasmesso, cioè che il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e, avendo reso grazie, lo spezzò e disse: «questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me». Tutte le volte infatti che mangerete di questo pane e berrete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore fino a che egli ritorni” (1Cor 11,23-26). Tre osservazioni importanti per ciò che concerne il nostro tema: 1º) l’eucaristia è “annuncio della morte del Signore fino a che egli ritorni”, in altri termini del Kerygma fondamentale della nostra fede, cioè della morte, resurrezione, ritorno del Signore esaltato e glorioso; 2º) è partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo, cioè alla sua vita di Signore, morto, risorto ed esaltato per noi a gloria di Dio; 3º) è celebrato “in memoria di Gesù”, che non è una semplice evocazione del mistero della sua morte e resurrezione, ma una memoria creatrice e vivificante, che ci fa crescere in lui nell’esistenza quotidiana, in attesa della sua venuta, per renderci partecipi pienamente della sua vita divina. D’altra parte, in 1Cor 10,16-17, anche l’eucaristia non stabilisce solo un rapporto individuale tra il credente e Cristo, ma anche un rapporto tra i credenti fra loro quale membra dell’unico Corpo di Cristo: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse una comunione al sangue di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,1617). Così nella fede il Cristo, che si fa nostro cibo e nostra bevanda, ci assorbe in sé, rendendoci “uno in lui”, e ci associa ai fratelli, formando di noi un solo corpo, la Chiesa, comunione di credenti. 

c) Fede e morale 

Si è fatto spesso cenno al rapporto intimo che intercorre tra fede e agire credente. Se riprendiamo il discorso non è per ripetere quanto già si è detto, ma per sottolineare qualche nuovo aspetto che emerge da tale rapporto e che può essere utile per l’intelligenza spirituale della fede. In primo luogo, Paolo caratterizza il rapporto “fede-morale” come un “rimanere saldi nella fede, nel Signore” (cfr 1Cor 16,13; Gal 5,1; Fil 1,27; 4,1; 1Tes 3,8). Tale espressione paolina non deve indurci a pensare ad una concezione statica della fede. La fede, per Paolo, è e rimane una realtà decisamente dinamica. Proprio per questo, il “rimanere saldi nella fede” trova un’esemplificazione pratica e dottrinale nell’esempio di Abramo. Egli rimane fedele a Dio nel suo essere e nel suo operare e Dio glielo computa a giustizia (Rom 4,3; Gal 3,6). Egli “rimane saldo in Dio” nella concretezza della sua vita. In tal modo, il “rimanere saldo” non è una semplice attesa della “speranza della giustificazione” (Gal 5,5), anche se in virtù della fede, ma una concreta e attiva realizzazione di questa giustificazione accettando nella propria vita il piano salvifico della promessa di Dio in Cristo, in una fede agente per mezzo della carità (Gal 5,6), in un cammino di fede amorosa che produce gioia, pace, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22-23), in un progressivo e deciso morire alle esigenze della carne (Gal 5,17.24-25) per vivere per Dio nello Spirito. Pertanto, il “rimanere saldi nella fede” si può definire come un’esistenza fondata sulla fede in Cristo, vissuta nella speranza dell’adempimento della promessa di Dio per mezzo dello Spirito, attuata nell’amore secondo la radicalità di Dio espressa nella “legge di Cristo” (Gal 6,2).  Con tale espressione Paolo non vuole affatto ristabilire la legge o la giustificazione in virtù delle opere della legge. La giustificazione, la salvezza, la libertà vengono concesse da Dio solo in virtù della fede in Cristo Gesù, ma tale fede non è mai disincarnata dalla realtà. Essa opera (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) e spinge il credente ad operare nella carità, unica legge del cristiano. Questi non è individuo senza legge, un fuorilegge, ma uno che ha accettato e lascia operare in sé “la legge di Cristo”, meglio: la legge che è Cristo”. Non un principio esterno di moralità, ma una persona vivente che lo rende “conforme a sé” (cfr 1Cor 9,21) per mezzo della “legge dello Spirito di vita nel Cristo Gesù”. Non si tratta, pertanto, di rimpiazzare una legge con un’altra, né di compiere questa o quell’altra opera per avere la salvezza, ma di vivere con radicalità, dietro l’esempio di Cristo e sotto la guida dello Spirito, la legge dell’amore, “la legge di Cristo”, che per primo “ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (Gal 2,20). “L’opera della fede” (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) è l’amore che la anima. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 5,6: “ciò che conta è la fede operante/se opera per mezzo della carità”. Il principio essenziale della vita cristiana non cambia: è la fede. Ma non una fede qualsiasi o una fede astratta, ma la fede che qualifica se stessa operando per mezzo dell’amore. Così, fede e amore, anche se non si debbono confondere tra loro, non possono essere separate: la fede fonda la nostra esistenza in Cristo, l’amore la rende viva per la potenza dello Spirito santo, sotto la cui guida diveniamo fecondi di ogni opera buona e attendiamo la pienezza della giustificazione di Dio

LO SPIRITO VIENE IN AIUTO ALLA NOSTRA DEBOLEZZA» (RM 8,26-39). CHI SARÀ CONTRO DI NOI

dal sito: 

http://www.paroledivita.it/upload/2006/articolo5_50.asp

LO SPIRITO VIENE IN AIUTO ALLA NOSTRA DEBOLEZZA» (RM 8,26-39). CHI SARÀ CONTRO DI NOI 

di  Guido Benzi 

La Parola

26 Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché

 nemmeno  sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; 27 e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio. 28 Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29 Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30 quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. 31 Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32 Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? 33 Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. 34 Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?  35 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36 Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. 37 Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38 Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Il contesto

Paolo si avvia rapidamente a concludere il c. 8 sull’azione dello Spirito Santo e quindi il suo discorso sui doni di Dio concessi all’uomo giustificato. Paolo abbandona il piano dell’esposizione dottrinale e avvia un discorso molto caldo e affettuoso.

Il contenuto

Il «gemere» dello Spirito Santo è un gemere per noi, è un venire in soccorso della nostra debolezza, della nostra insufficienza e incapacità. Lo Spirito col suo gemito ci soccorre nella nostra preghiera, perché noi siamo troppo deboli. Dio che scruta i cuori, ode la voce dello Spirito che sale a lui dai cristiani. Dio sa quello che lo Spirito vuole: solo e sempre la volontà di Dio nei nostri riguardi. Dio sa quello che vuole lo Spirito in noi: la manifestazione della sua gloria in coloro che egli ha già reso santi nella fede.

Ma Dio non solo conosce l’invocazione senza parole dello Spirito per noi, ma anche la esaudisce. Infatti Dio soccorre in ogni modo i santi che egli ha chiamati e che lo amano. Per coloro che lo amano, Dio non fa accadere nulla che non serva alla loro salvezza. Dio è pensato come colui che agisce per il bene in tutte le cose, anche nella sofferenza. Coloro che amano Dio sono qualificati come chiamati secondo la volontà di Dio. Dio ha prevenuto coloro che lo amano. La sua chiamata ha dischiuso loro i favori di Dio. I santi che amano Dio lo amano in risposta all’eterna chiamata del suo amore in Gesù Cristo. Dio volgerà ogni cosa a profitto della loro salvezza.

La figliolanza per mezzo di Gesù Cristo è detta con l’espressione: per essere conformi all’immagine del Figlio. Dio ha associato a Cristo, il primogenito, noi come fratelli affinché egli fosse il primogenito tra molti. La destinazione originaria dell’esistenza umana è di partecipare, in Cristo e tramite Cristo, alla gloria ossia al modo di essere di questo fratello primogenito. Egli è tale sia in rapporto alla creazione (Col 1,15) sia in rapporto alla risurrezione dai morti (Col 1,18; Rm 8,11; 1Cor 15,22 ss.; Ap 1,5).

Questa gloria, che è la condizione futura dell’uomo stabilita dall’eternità, ci è già stata elargita: ci ha glorificati con Cristo (v. 30). Tramite la morte di Cristo i chiamati sono ammessi, per la fede e nel battesimo, alla giustizia di Dio e sono giustificati in modo tale da sperimentare in anticipo la futura giustificazione che dà la vita (Rm 5,18). La chiamata di Dio si manifesta come giustificazione della nostra esistenza da parte della giustizia di Dio. La glorificazione non è solo una speranza. Essa è anche un’anticipazione concessa da Dio per grazia, la quale non solo esprime la certezza del futuro, ma designa un avvenimento presente e attuale. Come la gloria del vangelo è brillata sul volto di Cristo (2Cor 4,4.6), così noi, rivolti al Signore e al suo Spirito e contemplando la sua gloria nello specchio del vangelo, già ora veniamo trasformati da gloria a gloria, nell’essenza gloriosa di Cristo (2Cor 3,16 ss).

Anche il cosmo con le sue «potenze» non può separarci dall’amore di Dio. Sono enumerate dieci potenze. Al primo posto sta la morte, che secondo 1Cor 15,26 è l’ultimo nemico e quindi la potenza peggiore. Qui però la morte è accoppiata a un’altra potenza: la vita. Anche la vita può allettarci con le sue lusinghe a volgere le spalle all’amore di Dio ed essere quindi un pericolo. Persino la vita calma e innocua, non meno della vita agiata e pericolosa, può diventare una realtà ostile, proprio perché separa dall’amore di Cristo. I cristiani non devono vivere per se stessi o per il mondo, ma devono vivere e morire per il Signore (Rm 14,7-9).

Conclusione

I cristiani, in virtù dello Spirito hanno acquisito nella fede la libertà di amare e di sperare. Nella loro preghiera «geme» lo Spirito stesso; geme per loro. Con il suo gemito impercettibile, senza parole, lo Spirito viene in soccorso di coloro che e pregano senza però comprendere per che cosa veramente si debba pregare. Così egli trasforma la preghiera dei deboli (i cristiani!) in una preghiera forte, cioè nella schietta preghiera per la gloria.

Per la riflessione ed il confronto

– Siamo oggi chiamati a confrontarci con la nostra preghiera. È un insieme di pratiche anche devote, o è un «ascolto» di Dio e del suo Spirito che prega in noi?

– Siamo convinti che non esiste «potenza» (neppure il nostro peccato se riconosciuto e confessato) o disgrazia che possa separarci dall’amore di Dio in Gesù? Dio non è mai così vicino come nella prova!

– Come educare alla preghiera nelle nostre famiglie? Cosa si può proporre?

Publié dans:Lettera ai Romani |on 30 avril, 2008 |Pas de commentaires »

LE DIVISIONI A CORINTO DERIVANO DALLA IGNORANZA DELLA CROCE DI CRISTO E DELLA IDENTITÀ DEI SUOI MINISTRI (1Cor 1-4) -LINK

LE DIVISIONI A CORINTO DERIVANO DALLA IGNORANZA DELLA
CROCE DI CRISTO E DELLA IDENTITÀ DEI SUOI MINISTRI (1Cor 1-4)
(non conosco l’autore, ma sarebbe strano che li conoscessi tutti)

LINK AL SITO:

http://www.teologiatrento.it/dispense/1COR.DOC

 

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 29 avril, 2008 |Pas de commentaires »

San Francesco – Fioretti: Come santo Francesco…pregò Iddio e santo Pietro e santo Paulo

SAN FRANCESCO –  FIORETTI

CAPITOLO XIII.

Come santo Francesco e frate Masseo il pane che aveano accattato puosono in su una pietra allato a una fonte, e santo Francesco lodò molto la povertà. Poi pregò Iddio e santo Pietro e santo Paulo che gli mettesse in amore la santa povertà, e come gli apparve santo Pietro e santo Paulo.

Il maraviglioso servo e seguitatore di Cristo, cioè messere santo Francesco, per conformarsi perfettamente a Cristo in ogni cosa, il quale, secondo che dice il Vangelo, mandò li suoi discepoli a due a due a tutte quelle città e luoghi dov’elli dovea andare; da poi che ad esempio di Cristo egli ebbe radunati dodici compagni, sì li mandò per lo mondo a predicare a due a due. E per dare loro esempio di vera obbidienza, egli in prima incominciò a fare, che ‘nsegnare. Onde avendo assegnato a’ compagni l’altre partì del mondo, egli prendendo frate Masseo per compagno prese il cammino verso la provincia di Francia. E pervenendo un dì a una villa assai affamati, andarono, secondo la Regola, mendicando del pane per l’amore di Dio; e santo Francesco andò per una contrada, e frate Masseo per un’altra. Ma imperò che santo Francesco era uomo troppo disprezzato e piccolo di corpo, e perciò era riputato un vile poverello da chi non lo conosceva, non accattò se non parecchi bocconi e pezzuoli di pane secco, ma frate Masseo, imperò che era uomo grande e bello del corpo, sì gli furono dati buoni pezzi e grandi e assai e del pane intero. Accattato ch’egli ebbono, si si raccolsono insieme fuori della villa in uno luogo per mangiare, dov’era una bella fonte, e allato avea una bella pietra larga, sopra la quale ciascuno puose tutte le limosme ch’avea accattate. E vedendo santo Francesco che li pezzi del pane di frate Masseo erano più e più belli e più grandi che li suoi fece grandissima allegrezza e disse così: « O frate Masseo, noi non siamo degni di così grande tesoro ». E ripetendo queste parole più volte, rispose frate Masseo: « Padre, come si può chiamare tesoro, dov’è tanta povertà e mancamento di quelle cose che bisognano? Qui non è tovaglia, né coltello, né taglieri, né scodelle, né casa, né mensa, né fante, né fancella ». Disse santo Francesco: « E questo è quello che io riputo grande tesoro, dove non è cosa veruna apparecchiata per industria umana; ma ciò che ci è, è apparecchiato dalla provvidenza divina, siccome si vede manifestamente nel pane accattato, nella mensa della pietra così bella, e nella fonte così chiara. E però io voglio che ‘l tesoro della santa povertà così nobile il quale ha per servidore Iddio, ci faccia amare con tutto il cuore ». E dette queste parole, e fatta orazione e presa la refezione corporale di questi pezzi del pane e di quella acqua, si levarono per camminare in Francia. E giungendo ad una chiesa, disse santo Francesco al compagno: « Entriamo in questa chiesa ad orare ». E vassene santo Francesco dietro all’altare, e puosesi in orazione, e in quella orazione ricevette dalla divina visitazione sì eccessivo fervore, il quale infiammò sì fattamente l’anima sua ad amore della santa povertà, che tra per lo colore della faccia e per lo nuovo isbadigliare della bocca parea che gittasse fiamme d’amore. E venendo così infocato al compagno gli disse: « A, A, A, frate Masseo, dammi te medesimo ». E così disse tre volte, e nella terza volta santo Francesco levò col fiato frate Masseo in aria, e gittollo dinanzi a sé per ispazio d’una grande asta di che esso frate Masseo ebbe grandissimo stupore. Recitò poi alli compagni che in quello levare e sospignere col fiato il quale gli fece santo Francesco, egli sentì tanta dolcezza d’animo e consolazione dello Spirito Santo, che mai in vita sua non ne sentì tanta. E fatto questo disse santo Francesco: « Compagno mio carissimo, andiamo a santo Pietro e a santo Paulo, e preghiamoli ch’eglino c’insegnino e aiutino a possedere il tesoro ismisurato della santissima povertà imperò ch’ella è tesoro sì degnissimo e sì divino, che noi non siamo degni di possederlo nelli nostri vasi vilissimi, con ciò sia cosa che questa sia quella virtù celestiale, per la quale tutte le cose terrene e transitorie si calcano, e per la quale ogni impaccio si toglie dinanzi all’anima, acciò ch’ella si possa liberamente congiungere con Dio eterno. Questa è quella virtù la quale fa l’anima, ancor posta in terra, conversare in cielo con gli Agnoli. Questa è quella ch’accompagnò Cristo in sulla croce; con Cristo fu soppellita, con Cristo resuscitò, con Cristo salì in cielo; la quale eziandio in questa vita concede all’anime, che di lei innamorano, agevolezza di volare in cielo; con ciò sia cosa ch’ella guardi l’armi della vera umiltà e carità. E però preghiamo li santissimi Apostoli di Cristo, li quali furono perfetti amatori di questa perla evangelica, che ci accattino questa grazia dal nostro Signore Gesù Cristo, che per la sua santissima misericordia ci conceda di meritare d’essere veri amatori, osservatori ed umili discepoli della preziosissima, amatissima ed evangelica povertà« .

E in questo parlare giunsono a Roma, ed entrarono nella chiesa di santo Pietro; e santo Francesco si puose in orazione in uno cantuccio della chiesa, e frate Masseo nell’altro. E stando lungamente in orazione con molte lagrime e divozione, apparvono a santo Francesco li santissimi apostoli Pietro e Paulo con grande splendore, e dissono: « Imperò che tu addimandi e disideri di osservare quello che Cristo e li santi Apostoli osservarono, il nostro Signore Gesù Cristo ci manda a te annunziarti che la tua orazione è esaudita, ed ètti conceduto da Dio a te e a’ tuoi seguaci perfettissimamente il tesoro della santissima povertà. E ancora da sua parte ti diciamo, che qualunque a tuo esempio seguiterà perfettamente questo disiderio, egli è sicuro della beatitudine di vita eterna; e tu e tutti i tuoi seguaci sarete da Dio benedetti ». E dette queste parole disparvono, lasciando santo Francesco pieno di consolazione. Il quale si levò dalla orazione e ritornò al suo compagno e domandollo se Iddio gli avea rivelato nulla, ed egli rispuose che no. Allora santo Francesco sì gli disse come li santi Apostoli gli erano appariti e quello che gli aveano rivelato. Di che ciascuno pieno di letizia diterminarono di tornare nella valle di Spulito, lasciando l’andare in Francia. A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.

Publié dans:SANTI |on 27 avril, 2008 |Pas de commentaires »

Dal «Commento sulla seconda lettera ai Corinzi» di san Cirillo di Alessandria, (2Cor)

DOMENICA VI DI PASQUA

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Commento sulla seconda lettera ai Corinzi» di san Cirillo di Alessandria, vescovo     (Cap. 5, 5 – 6; PG 74, 942-943)

Dio ci ha riconciliati per mezzo di Cristo 
e ci ha affidato il ministero della riconciliazione

Chi ha il pegno dello Spirito e possiede la speranza della risurrezione, tiene come già presente ciò che aspetta e quindi può dire con ragione di non conoscere alcuno secondo la carne, di sentirsi, cioè, fin d’ora partecipe della condizione del Cristo glorioso. Ciò vale per tutti noi che siamo spirituali ed estranei alla corruzione della carne. Infatti, brillando a noi l’Unigenito, siamo trasformati nel Verbo stesso che tutto vivifica. Quando regnava il peccato eravamo tutti vincolati dalle catene della morte. Ora che è subentrata al peccato la giustizia di Cristo, ci siamo liberati dall’antico stato di decadenza. 
Quando diciamo che nessuno è più nella carne intendiamo riferirci a quella condizione connaturale alla creatura umana che comprende, fra l’altro, la particolare caducità propria dei corpi. Vi fa cenno san Paolo quando dice: «Infatti anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5, 16). In altre parole: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14), e per la vita di noi tutti accettò la morte del corpo. La nostra fede prima ce lo fa conoscere morto, poi però non più morto, ma vivo; vivo con il corpo risuscitato al terzo giorno; vivo presso il Padre ormai in una condizione superiore a quella connaturale ai corpi che vivono sulla terra. Morto infatti una volta sola non muore più, la morte non ha più alcun potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio (cfr. Rm 6, 8-9).
Pertanto se si trova in questo stato colui che si fece per noi antesignano di vita, è assolutamente necessario che anche noi, calcando le sue orme, ci riteniamo vivi della sua stessa vita, superiore alla vita naturale della persona umana. Perciò molto giustamente san Paolo scrive: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ecco ne sono nate di nuove!» (2 Cor 5, 17). Fummo infatti giustificati in Cristo per mezzo della fede, e la forza della maledizione è venuta meno. Poiché egli è risuscitato per noi, dopo essersi messo sotto i piedi la potenza della morte, noi conosciamo il vero Dio nella sua stessa natura, e a lui rendiamo culto in spirito e verità, con la mediazione del Figlio, il quale dona al mondo, da parte del Padre, le benedizioni celesti.
Perciò molto a proposito san Paolo scrive: «Tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo» (2 Cor 5, 18). In realtà il mistero dell’incarnazione e il conseguente rinnovamento non avvengono al di fuori della volontà del Padre. Senza dubbio per mezzo di Cristo abbiamo acquistato l’accesso al Padre, dal momento che nessuno viene al Padre, come egli stesso dice, se non per mezzo di lui. Perciò «tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2 Cor 5, 18).

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