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I RE MAGI E LA STELLA DI BETLEMME

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I RE MAGI E LA STELLA DI BETLEMME

(è un PDF, ho trovato difficoltà a « districarlo », scusate e c’è qualche errore)

Vedremo in questo studio di spiegare come e quando si creò (o inventò) la leggenda dei “Re Magi”. Dopo tratteremo il tema della “Stella di Betlemme”, che li guidò al luogo dove stava Gesù. La leggenda dei Re Magi ÓL’evangelo di Matteo non dice che erano re, ne che fossero tre, ne come si chiamavano, né di che razza erano, né da quale paese venivano; solo afferma che erano “dei magi”, venuti dall’Oriente (Matteo 2:1-12), dove, con il nome di “mago”, si inglobava a uomini importanti che svolgevano diverse attività. Presso il popolo dei Medi, i « Magoi », erano una delle sei tribù ed appartenevano alla classe sacerdotale. In effetti, la parola impiegata da Matteo, in questo testo, é “magoi”, questa parola, in singolare é “mago”, e significa: “(…) mago, sacerdote, astrologo, saggio, interprete di sogni, ecc. , della Media, Persia, Caldea, ecc. // 2 incantatore”. (Dizionario Greco-Spagnolo di Miguel Balagué) Ö Vediamo che, nella Media, Persia e Caldea (Babilonia), la denominazione di “mago” si riferiva a certi uomini che svolgevano diverse funzioni; tra queste, quella del “saggio (o sapiente o dotto)”. A proposito di quello che succedeva tra i persiani, sopra questo tema, leggiamo: “I magi si dividevano in varie classi, ognuna delle quali aveva i suoi privilegi e i suoi doveri diversi. C’erano interpreti di sogni, incantatori propriamente detti, occupando questi savi gli incarichi principali” (Enciclopedia universale illustrata Europea Americana). ÖPrecisamente, quando i giudei stettero in cattività in Babilonia settanta anni nel VI° secolo a.C., il profeta Daniele e tre compagni suoi lavoravano nell’Amministrazione del regno di Babilonia, e li si considerava tra i “saggi” (Dan. 1:18-19; 2:12-16, 48-49). Daniele continuò nel suo posto fino a quando Babilonia fu conquistata dall’esercito del persiano Ciro nell’anno 539 a.C.; allora governò in Babilonia “Dario il Medo” (Dan. 5:30). Daniele tuttavia continuò nel suo incarico (Dan. 9:1-2). Dopo di questo Dario, governò in Babilonia “Ciro il Persiano”, e Daniele ancora stava lì (Dan. 6:29). ÖAl compimento dei settanta anni di cattività in Babilonia, il re Ciro dette libertà ai giudei, per ritornare alla loro terra (Esdra 1:11; 2:1-70; Geremia 25:11; 29:10). Ora, tutti i giudei residenti in Babilonia non ritornarono in questa occasione alla loro terra, dopo, in altre occasioni, ritornarono altri (Esdra 7:11-28; 8:1-36; Nemia 7:6-7”; ecc.). Anche in queste occasioni, non tutti i giudei ritornarono in Giuda e risiedettero ancora nella terra di Babilonia; dunque, sempre restò una numerosa colonia di giudei in Babilonia, dove composero “il Talmud di Babilonia” dopo dell’epoca di Cristo. Questi giudei di babilonia continuavano dando grandi quantità di offerte per il Tempio di Gerusalemme nell’epoca di Cristo. “(…). ‘ Quelli della dispersione’ consideravano il Tempio come il vincolo della loro vita nazionale e religiosa. Il patriottismo e la religione facevano aumentare i loro doni, che oltrepassavano di molto quello che era legalmente stabilito. Gradualmente giunsero a considerare il tributo del Tempio, letteralmente, come “riscatto delle loro anime” (Esodo 30:12). Tanto erano i donatori e tanto grandi i loro doni che sempre erano portati prima a certi punti centrali, da dove i più onorevoli tra loro li portavano come “ambasciatori” a Gerusalemme. Le contribuzioni più ricche venivano dai numerosi stabilimenti giudei in Mesopotamia e Babilonia, dove originalmente erano stati deportati “quelli della dispersione”. Qui si erano edificati tesori speciali per la loro ricezione nelle città di Nisibis e Nehardea, da dove un grande esercito accompagnava annualmente agli “ambasciatori” in Palestina (Il Tempio, il suo ministerio e servizi nei tempi di Cristo di Alfred Edersheim). Ö Abbiamo visto che ci furono giudei considerati “saggi” dai babilonesi, e che fino all’epoca di Cristo continuavano a rimanere in Babilonia, giudei importanti, che composero un Talmud. Pertanto, nel venire i “magi” dall’Oriente di Gerusalemme, é più probabile che si trattava di alcuni giudei “saggi” della colonia giudea di Babilonia, da dove portavano le offerte per il Tempio di Gerusalemme tutti gli anni, anche nell’epoca di Cristo. ÓNon solo i Babilonesi, i Medi e persiani, con il nome di “mago” designavano a certi uomini importanti, che consideravano “saggi”, tra i quali c’erano giudei come lo abbiamo già menzionato, ma gli stessi giudei chiamavano e continuano a chiamare ancora “saggi” ai loro antenati illustri. Così lo vediamo nella Misnà, dove, dopo aver presentato l’opinione di qualche rabbino, si apostrofa con la frase: “Però i saggi dicono…”, che si ripete incessantemente. (La Misnà) Ö Nel Medio Evo, i giudei anche consideravano “saggi” ai loro antenati che avevano redatto la Misnà e il Talmud; il giudeo Abraham ibn Daud (1110-1180) così dice: “Scriviamo questo trattato della tradizione per far conoscere ai discepoli che tutte le parole dei nostri maestri, di benedetta memoria, i saggi della Misnah e del Talmud, furono trasmesse a un saggio grande e giusto per altri, a un presidente dell’Accademia e il suo gruppo per altri, così anche i membri della Grande Assemblea che la ricevettero dai profeti, benedetta sia la memoria di tutti loro!” (libro della Tradizione). Nella nostra epoca, i giudei continuano a chiamarli “saggi” ai loro antenati illustri, come lo si può comprovare stando nelle loro riunioni nella sinagoga, e parlando con loro sopra questo tema. ÓPertanto, non é nulla di strano che, nel venire questi “saggi” giudei da un luogo dove sono chiamati “magi”, l’evangelista li chiamasse così, perché anche lui era giudeo e scriveva per i giudei, e tutti loro conoscevano bene tutti i dettagli di queste cose. ÓDi conseguenza, essendo questi “magi”, “saggi” giudei, speravano la venuta del Messia promesso nell’Antico Testamento (Isaia 7:14; 9:6 ecc.; Matteo 1:22-23), e Dio gli indicò che questa venuta si era prodotta, allo stesso modo come avvisò ai pastori che stavano nei pressi di Betlemme (Luca 2:8-12). Questo é il più verosimile che si può dedurre sopra il luogo d’origine e la razza di quei “magi”, secondo la storia dei giudei residenti in Babilonia dopo il secolo VI a.C.; però il loro numero, i loro nomi, e il loro carattere di re non ha alcuna base storica. D’altra parte, se consideriamo che detti “magi” erano giudei, osserviamo che Dio dette avviso della nascita del Messia, per mezzo di loro, ai giudei della Diaspora e ai dirigenti giudei di Gerusalemme, e, per mezzo dei pastori, al popolo intero; così, tutti i giudei furono avvisati; Per questo, l’evangelista Giovanni poté dire quello che leggiamo in Giov. 1:11-12. Ora, con questo semplice episodio dei magi, si é fatto un grande montaggio col passare dei secoli, che, come una palla di neve, sempre é andata aumentando fino a giungere a quello che é oggi; però vediamo come tutto si originò dopo l’epoca degli apostoli: Il numero dei Magi In antiche pitture nelle catacombe romane i Magi sono ora due, ora quattro ed anche sei mentre, in tradizioni Siriane ed Armene si giunge fino a dodici (ma lo Stewart cita un antico scritto che parlerebbe di 14 Magi!). Ó Per vari secoli, il numero dei re magi oscillò tra i 2 e 15, finché, alla fine, un Papa affermò che erano tre: “Il numero non viene constatato certamente, le tradizioni e monumenti antichi contano 2, 3, 4, 6, 8, 12, e fino a 15. Il numero tra tutti, il più costante e il più probabile e il numero 3 che ha prevalso. La prima testimonianza formale e quella di san Leone, papa, del V° secolo; (…) ». (Enciclopedia Universale illustrata Europeo Americana). È appunto in un altra « cronaca ancora più fantasiosa e sincretista che si parla di dodici Magi provenienti della terra di Syr (secondo lo studioso Monneret de Villard: l’odierno Iran) che apprendono dal « Libro dei misteri occulti », passato da Seth (il figlio di Adamo) ai suoi figli e conservato nella « Caverna dei tesori », della nascita del grande Re Messia e degli eventi che l’avrebbero annunciata. Anche costoro, guidati dalla stella, arrivano fino a Betleemme e adorano il bambino Gesù, che gli chiarisce il mistero della Sua crocifissione, dela Sua morte e risurrezione, affidando loro il compito di portare la Parola evangelica in Oriente. “Sopra il loro numero nulla ci dice l’Evangelo. La tradizione popolare, che appare già in Origene (m 253) e altri Padri e in alcuni monumenti antichi, suppongono che erano tre, e questo sembrano indicare i tre doni che offrirono al bambino”. (Professori della Compagnia se Gesù). Effettivamente, l’Evangelo di Matteo dice che i magi offrirono al bambino, oro, incenso e mirra (Mat. 2:11); però non dice che ogni mago offrisse un dono; di conseguenza, come é evidente, l’affermare che i magi erano tre appartiene alla tradizione, che per vari secoli oscillò tra i 2 e 15, finché, alla fine, il papa Leone (440-461) fissò il numero di tre. L’origine dei nomi Sopra l’origine di questi nomi si afferma: “Ancor meno risultano i nomi dei Magi. I nome volgari di Gaspare, Baldassarre e Melchiorre, ne sono i primi, ne gli unici che si applicano. Questi nomi si trovano, per la prima volta in un codice della Biblioteca Nazionale di Parigi, del secolo VII. Il venerabile Beda (672-735) descrive così ai tre magi: Melchiorre era un anziano, di barba lunga e folta; Gaspare, giovane sbarbato e biondo; Baldassarre, negro e barba spessa. Nonostante, Vigouroux fa notare che questa differenza di razze non concorda con le rappresentazioni archeologiche della scultura, numismatica e pittura dei primi secoli del cristianesimo, dove si rappresenta i magi come di una stessa razza, non apparendo le diversità fino a molti secoli prima. I tre nomi sono distinti in diverse lingue, e così: nella lingua siriaca, li si chiama: Kagpha, Badadilma e Badadakharida; nella greca: Appellicon, Amerin e Damascòn; nell’ebrea: Magalath, Galgalath e Serakin; nell’etiopica: Ator, Sater e Paratoras. Siccome gli armeni suppongono che furono 12 i magi, anche gli assegnano 12 nomi differenti ». Il titolo di re applicato ai Magi Si legge in un’altra opera del V° secolo che i Magi erano tre e erano « re figli di re » i cui nomi sarebbero stati: Hormidz di Makhodzi re di Persia, Jazdegerd re di Saba, e Peroz re di Seba. La leggenda continua dicendo che questi, oltre ad essere re erano anche sapienti i quali, attraverso la lettura dei testi sacri e l’interpretazione degli oracoli, da tempo aspettavano la nascita di un Messia. Nel cielo di Persia, due anni prima della nascita di Gesù, una stella era apparsa ed aveva, nel mezzo, l’immagine di una donna con in grembo un bambino. Così, continua la tradizione, i tre re lasciarono la loro reggia ed arrivarono alla Caverna dei tesori, sul monte Nud, dove Adamo ed Eva cacciati dall’Eden avevano riposto dei doni avuti da Dio. Fra questi doni i Magi avrebbero scelto quelli più adatti al nascituro: oro, incenso e mirra. Anche qui passò molto tempo finché qualcuno si rese conto che quei magi erano stati re, (dispiace) che i loro contemporanei non lo sapessero nemmeno! “Prima del VI° secolo, nessun autore afferma espressamente che fossero re. (…) Il primo che lo afferma é San Cesareo di Arlés (C. 470-543), in un sermone falsamente attribuito a San Agostino. L’arte li rappresenta come re dal secolo VIII°” Professori di Salamanca). Come si nota; tutto é una leggenda inventata dalla tradizione, che trasmette tutto: quello che era certo e quello che sono leggende; detto questo bisogna guardarla con uno spirito molto critico. La fine della leggenda dei Magi La Tradizione sa tutto (o quasi tutto) e lo spiega; per questo, il “manoscritto 2.037 della Biblioteca dell’Università di Salamanca che contiene una ‘storia dei re Magi’ di origine medievale”, dice quello che avvenne ai magi dopo aver adorato a Gesù in Betlemme: “Melchiorre continuò il suo compito come Re di Nubia e Arabia; Baldassarre regnò in Godolia e Saba, e Gaspare in Tarsis, Ynsula e Grisula (…)”. (La vera storia dei re magi di Lopez Schlichting, Cristina) “La tradizione pietistica aggiunge che i Magi che adorarono a Gesù, più tardi furono istruiti nella fede dall’apostolo san Tommaso. C’é chi suppone che furono consacrati vescovi e che morirono martiri nel I° secolo dell’era cristiana. Nel tempo di Costantino il Grande, si traslarono i loro resti, dalla Palestina a Costantinopoli, prima, e da qui a Milano, fino a quando l’Imperatore Federico Barbarossa li regalò nel 1164 al vescovo di Colonia, che edificò in onore degli stessi un tempio semplice, che si convertì più tardi (1248) nella preziosa cattedrale che é il monumento più apprezzato dell’architettura ogivale. Lucio Dexter, nella sua Chronica, suppone che il martirio dei Magi avvenne nell’anno 70 d.C.” (Enciclopedia Universale illustrata Europeo Americana). Insieme al testo della penultima citazione, c’é una foto a colori con questa leggenda: “Alla destra, reliquie della cattedrale di Colonia con i supposti resti dei Re Magi (…)”.(La vera storia dei re magi di Lopez Schlichting, Cristina). È evidente che la tradizione non ha limiti nell’inventare leggende; pertanto, possiamo solo appoggiarci su di essa quando le sue affermazioni si possono comprovare con i dati della Bibbia, la storia, l’archeologia, ecc.; perché la Tradizione lo stesso trasmette dottrine e fatti veri, come dottrine e fatti falsi, leggende e racconti. Nella Tradizione c’é un grande arsenale di fatti inesistenti e di dottrine religiose false, e, con frequenza, molte persone prendono questi fatti per certi, e credono che queste false dottrine come se fossero vere. Tutto sommato, però, tali tradizioni possono essere di qualche giovamento, poiché non esiste leggenda senza alcun fondo di verità, e se tanti Paesi e culture ricordano i Magi, significa che essi debbono avere radici storiche precise anche se il tempo, disgraziatamente, le ha cancellate. La stella che guidò ai magi ÓIl racconto sopra questa “stella” si trova nel Vangelo di Matteo 2:2- 10. Secondo questa narrazione, i “magi” videro la “stella” in Oriente; dopo si misero in cammino e giunsero a Gerusalemme; lì, Erode gli spiegò che dovevano andare in Betlemme; allora ritornarono a vedere la stella, perché non l’avevano vista durante tutto il cammino fino a quando giunsero a Gerusalemme; da qui, questa li guidò fino al luogo dove stava il bambino di Betlemme. ÓGià dai primi secoli della storia della chiesa, si é cercato di identificare questa stella con qualche cometa, congiunzione di pianeti, ecc.: Sopra la stella che videro i magi si sono lanciate molte ipotesi. Origene, a cui seguono alcuni moderni, crede che si tratti di una cometa. Celebre é l’ipotesi che si attribuisce a Keppler: si tratterà della congiunzione dei pianeti Saturno, Giove e Marte, che ebbe luogo nel 747 dalla fondazione di Roma”. (Professori della Compagnia se Gesù). Secondo questo parere, Kepler lanciò questa ipotesi nel 1603, e detta congiunzione ebbe luogo nel giorno 21 maggio dell’anno indicato, 747 di Roma, che é l’anno 7 a.C. (Bibbia commentata in sette libri – Professori di Salamanca). Di quanto abbiamo citato sopra “la vera storia dei re magi”, l’astronomo M.K., membro dell’istituto di Astrofisica delle Canarie”, dice: “iniziai ad interessarmi della stella di Betlemme verso i dodici anni (…) ” .(La vera storia dei re magi di Lopez Schlichting, Cristina). È possibile che esistano poche persone che abbiano studiato “la stella di Betlemme” per tanto tempo e con tanta conoscenza sopra le stelle, pianeti e comete, come lo ha fatto questo astronomo; il quale, oltre a disdire tutte le ipotesi sopra congiunzioni e comete, afferma: « La stella di Betlemme realmente fu la nova di marzo dell’anno 5 a.C. re magi di Lopez Schlichting, Cristina). Ora, con questa affermazione si identifica solo la “stella di Betlemme” con questa “nova”; però, realizzò detta “nova” tutti i fatti che l’evangelo attribuisce alla stella di Betlemme? Questo é quello che non spiega questo astronomo. “Il testo dell’Evangelo di Matteo 2:9 dice: “(…), e la stella, che avevano visto in oriente, andava davanti a loro finché, giunta al luogo dov’era il bambino”. Qui, il testo indica che la stella andava davanti ai magi da Gerusalemme fino a Betlemme, alla distanza di un tragitto di circa 8 Km in direzione Nord-Sud. Come possiamo spiegare che detta nova realizzerà questo spostamento? Il testo continua così: “(…) e (la stella) giunta al luogo dov’era il bambino, vi si fermò sopra”. Come possiamo spiegare che la nova sapesse in quale luogo stava il bambino, per fermarsi sopra? Apparentemente, la nova, dalla sua distanza, stava allo stesso tempo sopra tutte le case di giuda. Come, dunque, poté fermarsi sopra il luogo dove c’era il bambino? Possiamo affermare con certezza che né detta « nova », né qualsiasi congiunzione di pianeti, né alcuna cometa poté realizzare tutti i fatti effettuati dalla “stella” in questione, che sono raccontate nell’evangelo di Matteo. ÓPerché, allora, si identifica a detta “stella” con congiunzioni di pianeti, comete, stelle nove, ecc.? la risposta é molta semplice: perché prendono dall’Evangelo solo due dati: che apparve una stella ai magi quando nacque Gesù, che Erode mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme, che avevano un’età tra zero e i due anni (Matteo 2:1-16). A partire da questi due dati dell’Evangelo (siccome anche per mezzo della storia si sa che Erode morì nell’anno 4 a.C.), si cerca e ricerca, in tutti i registri astronomici antichi, qualsiasi fenomeno astronomico accaduto in un tempo anteriore alla morte di Erode, e uno trova che ebbe luogo, in tale data, l’apparizione di una cometa; un’altro, una congiunzione di pianeti in un’altra data, un’altro trova che nacque una nova in una data che gli sembra che quadra meglio con questi dati, ecc.; e tutti esclamano: eureka! dal greco “ho trovato”. E, come si tratta di deduzioni “scientifiche”, tutti affermano che hanno ragione; però tutti danno date diverse; perché abbiamo già visto che la congiunzione dei tre pianeti che disse Keppler, ebbe luogo il 21 maggio dell’anno 7 a.C.; l’astronomo M.K. (come abbiamo visto), con la “sua nova”, colloca la data in marzo dell’anno 5 a.C., ecc., e disdetta tutti gli altri fenomeni astronomici addotti da altri astronomi; questo per dire che, “la stella di Betlemme” non serve, in nessun modo, a fissare la data storica della nascita di Gesù. ÓDi conseguenza, se si accetta che la stella guidò ai magi a Betlemme, perché così dice l’Evangelo, anche bisognerà accettare e tener conto del modo in cui dice l’Evangelo di come li guidò.. Una delle due: o si accetta il racconto intero sopra la “stella” o non si accetta nulla di detto racconto; e, allora (se non si accetta nulla), niente si può (ne si deve) dire sopra questa stella, la stella non esistette. Allora, rivolgiamoci al racconto evangelico sopra la “stella di Betlemme”, per tener conto di tutti i dati sopra di essa. In primo luogo, già abbiamo visto che tutti i fatti che realizza la stella in questione, non li può realizzare nessuna stella. Pertanto, esaminiamo il testo greco dell’Evangelo di Matteo, per vedere cosa dicono esattamente i magi in Matteo 2:2: Qui troviamo il sostantivo “astéra” in accusativo; in nominativo, é “astér”, e significa: “stella, astro, luce, fiamma, meteora, ecc.” (Dizionario Greco-Spagnolo di Miguel Balagué) Perché, allora tanto impegno nel tradurre con la parola “stella”? Se, nel tradurre, scegliamo l’accezione “stella”, e risulta che una stella non può realizzare i fatti che il testo attribuisce ad “astér” che abbiamo tradotto, sarà evidente che stiamo traducendo erroneamente, é così, perché il contesto, sia prossimo come remoto, che avvolge ad “astér”, non é un contesto astronomico-scientifico, ma un contesto religioso soprannaturale. ÓIn effetti, si tratta di un testo dove si parla dell’annuncio della nascita del “re dei Giudei” (Matteo 2:1-2), che era Gesù, il Messia (Giov. 1:40-49). Nei momenti importanti della vita di Gesù il Messia (Gesù il Cristo = Gesù Cristo), sempre avviene un fatto soprannaturale, o appare un essere soprannaturale; vediamo questo in modo cronologico: a)Profeticamente si annuncia la sua nascita da una vergine in Isaia 7:14; b)Un angelo (un messaggero celeste) annuncia la concezione soprannaturale di Giovanni Battista, affinché fosse il precursore del Messia (Luca 1:5-19); c)Un angelo (lo stesso) annuncia la concezione soprannaturale di Gesù (Luca 1:26-3); d)Un angelo, avvolto da una luce, annuncia la nascita di Gesù ai pastori di Betlemme (Luca 2:4-12); e)Un “astér” annuncia la stessa nascita ai magi (o gli fa comprendere che era nato questo stesso personaggio), (Matteo 2:1-2); f)In modo soprannaturale si annuncia a questi magi che non ritornino a parlare con il re Erode (Matteo 2:10-12); g)Un angelo annuncia, a Giuseppe, che se ne vada con la sua famiglia in Egitto (Matteo 2:13-14); h)Un angelo avvisa a Giuseppe, di ritornare dall’Egitto (Matteo 2:19-21: i)In modo soprannaturale, Giovanni il Battista é avvisato per dare inizio al suo ministerio (Luca 3:1-6); j)Anche in modo soprannaturale, Gesù fu riconosciuto come Figlio di Dio nel momento del suo battesimo, per iniziare il suo ministerio sei mesi dopo Giovanni il Battista, che era la differenza di tempo che c’era tra l’età di ambedue (Luca 1:36; 3:21- 23); k) Degli angeli vennero a servire Gesù, dopo essere stato tentato dal diavolo (Matteo 4:11); l) Un angelo fece la stessa cosa nel giardino del Getsemani prima di essere preso Gesù (Luca 22:43); m)Più angeli potevano venire in aiuto di Gesù (Mt. 26:53); n)Un angelo tolse la pietra del sepolcro quando Gesù risuscitò (Matteo 28:1-3); o)Due angeli, nel momento dell’ascensione, annunciarono che Gesù ritornerà un’altra volta (Atti 1:9-11); p)Gli angeli raccoglieranno allora i salvati (Matteo 13:36-43; 24:30-31). Dinanzi a questo contesto di angeli e fatti soprannaturali che si muovono intorno a Gesù, e che attuano in momenti puntuali della sua vita, vediamo che é necessario escludere la traduzione di “astér” per “stella” e ogni applicazione scientifico- astronomica, perché abbiamo visto che l’astronomia non può dare alcuna spiegazione sopra l’attività del “astér” che guidò ai magi a Betlemme. Ó Pertanto traduciamo “astér” per “luce” “(…) Poiché noi abbiamo visto la sua luce in oriente (…)”. (Mat. 2:2). ÓIn altre occasioni, anche apparve una “luce” soprannaturale per dare un avviso ai giudei. In effetti, lo storico giudeo, Giuseppe Flavio; dice che apparirono segni che annunciavano la distruzione di Gerusalemme, che ebbe luogo nell’anno 70; tra questi segni, ci fu una “luce” in forma di “spada ardente”, che stette sopra la città tutto l’anno, e che lui interpreta come che era una cometa; un’altra “luce” apparve attorno all’altare e al tempio: “(…) si mostrarono molti segni e prodigi, i quali apertamente dichiaravano la distruzione presente (…); (…) come una spada ardente sopra la città, e durò la cometa tutto lo spazio di un anno intero; anche quando prima della guerra e della ribellione, il giorno della Pasqua, unendosi il popolo, secondo il loro costume,a otto giorni del mese di Aprile, alla nove della notte, si mostrò tanta luce attorno all’altare e attorno al tempio, che sembrava certamente essere un giorno molto chiaro, e durò questo per oltre mezz’ora (…).(Guerre giudaiche di Giuseppe Flavio) Lo storico romano, Cornelio Tacito, anche si riferisce ai segni avvenuti in questa occasione, tra le quali menziona questa illuminazione soprannaturale del tempio di Gerusalemme: “(…) il tempio si illuminava da un fuoco improvvisamente sorto dalle nubi”. (Storie, di Cornelio Tacito). È evidente che, nel popolo d’Israele, in certe occasioni una “luce” soprannaturale annunciò certi avvenimenti. ÓOra, in Matteo 2:2, non solo si tratta di una “luce” soprannaturale, ma che inoltre é una “luce” che agisce come un essere intelligente, un essere personale: 1.Prima appare dove stanno i magi in Oriente e, in qualche modo , gli fa comprendere che é nato Gesù. 2.Dopo scompare questa luce, e non la vedono più i magi. 3.Allora, questi marciano a Gerusalemme; però durante questo viaggio di vari mesi non vedono più questa luce. E’ evidente che questo sta tutto diretto provvidenzialmente, affinché i magi potessero domandare, in Gerusalemme, dove stava “il re dei Giudei” che era nato”; così si dette in modo indiretto, l’avviso della nascita di Gesù al re Erode ed ai dirigenti religiosi dei Giudei (Matteo 2:1-8); Perché se la finalità di questa luce sarebbe stata solo di condurre ai magi in Betlemme, perché non li portò lì direttamente senza che i magi dovessero fare questa domanda in Gerusalemme? 4.Però, dopo aver fatto questa domanda, quando i magi non conoscono il cammino per andare in Betlemme, appare un’altra volta la “luce” e li guide per la via. 5.Neanche sanno i magi che in quella casa si trova il bambino; però questa “luce” glielo indica (Matteo 2:9-10). Vediamo che questa “luce” agisce come un essere personale, visto che fa movimenti intelligenti; per questo, o é una luce soprannaturale diretta da una volontà personale, o é un essere celeste che appare avvolto da questa luce, mantenendosi a distanza dai magi, in modo che davanti ai loro occhi sembra di essere un “astér” per la sua luminosità. ÓNella Bibbia, si segnalano in altre occasioni in cui un essere personale appariva come una “luce” o una “fiamma” (cosa che anche significa “astér”) per dare un messaggio o guidare a qualcuno. In effetti, vediamo alcuni esempi: ÒIn un’occasione, Mosè vide la luce che avvolgeva un pruno, e che a lui gli sembrava una “fiamma di fuoco”; però, quando si avvicinò a vedere cos’era questo fenomeno, trovò che lì c’era un essere personale che gli dette un messaggio (Esodo 3:1-10); ÒDopo, lo stesso essere personale lo guidò per il cammino verso agli israeliti; il giorno, andava avvolto da una” colonna di nube” e di notte, in una “colonna di fuoco” (Esodo 13:17-22); Di conseguenza, la “luce” apparsa ai magi in Oriente e che, dopo li guidò da Gerusalemme fino a Betlemme, dove “si fermò sopra al luogo dove stava il bambino”, invece di muoversi e agire come una luce soprannaturale, non poteva stare avvolto in essa un essere personale? Non poteva trattarsi di un angelo, che annunciò la nascita di Gesù ai magi? Per caso non fu un angelo che fece lo stesso annuncio ai pastori di Betlemme avvolgendosi in una luce? Nel caso dei magi, l’angelo si mantenne a distanza, in modo che i magi vedevano solo la luce che l’avvolgeva. I pastori giunsero prima perché stavano lì; per questo trovarono il bambino “nella mangiatoia” I magi tardarono di più nel giungere, perché stavano molto lontani; per questo, essi dissero “vedemmo la sua luce”, dando ad intendere con l’«aoristo» (indefinito), che era già da molto tempo che avevano ricevuto l’avviso per mezzo di quella luce; per questo, trovarono al bambino vivendo già in una casa (Matteo 2:11); già non stava nella mangiatoia. Si nota che era passato del tempo tra la nascita del bambino e la venuta dei magi, possiamo dedurre che affrontarono un lungo viaggio (tra uno e due anni al massimo). perché erano avvenuti altri fatti dalla nascita di Gesù, come, la sua circoncisione e la sua presentazione al Tempio (Luca 2:21-24). Erode,che si era informato “esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita (2:7), più tardi “vedutosi beffato…mandò ad uccidere tutti i maschi che erano in Betleem e in tutto il suo territorio dall’età di due anni in giù” (2:16). I doni: L’oro, il più nobile dei metalli, sinonimo di ricchezza e gloria ma anche di incorruttibilità, ci parla della Regalità e della Santità di Gesù Cristo; l’incenso, bruciato davanti agli dei in segno di adorazione, della Sua divinità e della Sua vita di preghiera; la mirra, usata per imbalsamare i cadaveri, delle Sue sofferenze e della Sua morte. I Magi, trovano un bambino in una umile casa, tanto diversa da quella di Erode, non si lasciarono influenzare dalle apparenze e « prostratisi l’adorarono » Certamente non sarebbero arrivati a tanto se a spingerli fin lì fosse stata mera curiosità, il desiderio di vedere qualcosa di straordinario. Se fosse stato così, molto probabilmente, delusi di non aver trovato alcun neonato in casa di Erode (il luogo più naturale dove cercare il principe) se ne sarebbero tornati al loro paese. I primi adoratori: In questo atto, i Magi divennero i primi adoratori del Signore Gesù Cristo e poi, “divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode , per altra via tornarono al loro paese” I Pastori di Betleem lo avevano visitato, onorato ed avevano divulgato quello che era stato detto loro dagli angeli; Simeone lo aveva riconosciuto come il Salvatore promesso, Anna se ne era rallegrata ed aveva “testimoniato” di Lui, ma, come in seguito avrebbero fatto molti altri, i Magi Lo adorarono e ciò li rende dei veri antesignani nell’Evangelo.

Publié dans:EPIFANIA, PDF â—˜ |on 4 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

COMMENTO ALLA LETTURA QUOTIDIANA – LETTERA AGLI EBREI – SELEZIONE DI TESTI

http://www.parrocchiadibazzano.it/catechesi/letturaq/Lettera%20agli%20Ebrei.pdf

COMMENTO ALLA LETTURA QUOTIDIANA

LETTERA AGLI EBREI – SELEZIONE DI TESTI

Ebrei1,1-14
Il lettore/ascoltare di questa lunga e elaborata lettera/omelia deve volgere subito la sua attenzione su Gesù
Cristo “erede di tutte le cose, per mezzo del quale è stato fatto il mondo” (2). Un tempo Dio aveva parlato molte volte e in diversi modi (pensiamo agli interventi di Dio nella prima alleanza). Aveva parlato sempre “per mezzo dei profeti”: Abramo, Mosè, Davide, Geremia, ecc. “Alla fine dei tempi” ha parlato per mezzo di Gesù. A dire ormai che ogni parlare e manifestarsi di Dio va ricondotto a Gesù, sempre e definitivamente. Ma chi è Gesù? Qual è il suo “nome”, la sua dignità? Lo dice la Scrittura stessa. Gesù il “il figlio di Dio”, è della natura di Dio e quindi egli stesso Dio. Cosa ha fatto Gesù? Ha compiuto “la purificazione dei peccati” (ha dato la salvezza) e ora è “alla destra di Dio”. Egli è ben superiore ai profeti e agli angeli!
Ebrei 2,1-9
Si invita il lettore/ascoltatore ad applicarsi alle “cose udite”.
Le cose udite sono “la parola”, ovvero la predicazione di Gesù fatta al principio, e poi la predicazione dei
primi testimoni: predicazione confermata dalla presenza operante dello Spirito (1-4). Quale contenuto ha tale predicazione? Il “mondo futuro” (5), cioè il regno di Dio appartiene a Gesù e non agli angeli. Essi stessi sono sottomessi a Gesù! Per quale via è sorto il mondo futuro, ovvero il regno? Per la via della morte di Gesù, morte che egli “ha gustato a favore di tutti” (9).
Ebrei 2,10-18
Il modo col quale Dio dona la salvezza al mondo è “originale”. Ecco come può descriversi. Poiché Dio vuole portare la moltitudine dei figli alla gloria/salvezza ha unito il suo figlio Gesù alla vicenda umana, qui chiamata “carne e sangue” (14). Gli uomini hanno obbedito al diavolo e non a Dio. Per questo vivono “nel timore della morte”, cioè sono sotto il regime della morte: sono schiavi. La liberazione è avvenuta in modo “originale”. Proprio attraverso la sua incarnazione/morte Gesù ha ridotto all’impotenza la morte e il diavolo! Essendosi addossato la situazione di estrema schiavitù dell’uomo, cioè avendo accolto la morte, egli è in grado di “venire in aiuto” all’uomo, tirandolo fuori dalla morte. Con un termine appropriato l’autore della lettera dice che Gesù è diventato “sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio”. Cosa significa? Significa che Gesù ha veramente e definitivamente espiato i peccati del popolo, peccati che creavano lo stato di “morte” in rapporto a Dio. Così Gesù ha donato la salvezza piena al mondo: la sua morte è via di salvezza!
Ebrei 3,1-19
Lo sguardo dei “fratelli santi” deve essere fissato su Gesù “apostolo e sommo sacerdote della fede professata” (1). La fedeltà a Dio da parte di Gesù è la fedeltà del “figlio” e non del servitore, come fu per Mosè. A Gesù dunque occorre aderire pienamente! Infatti a lui appartiene “la casa”. E la casa siamo tutti noi, se rimaniamo nella fede professata. In altre parole, siamo “partecipi di Cristo” se siamo saldi in quello che abbiamo ricevuto al principio. Il rischio è di udire la voce del Figlio e poi di ribellarsi. Così successe ai nostri padri nel deserto, per questo “non entrarono nel suo riposo (Terra) a causa della loro incredulità”. Attenti, dunque!
Ebrei 4,1-13
Giosuè non ha introdotto Israele nel “riposo” vero e definitivo. Come dire che Israele non ha ottenuto perfetta salvezza. E perché? Perché non ha creduto alla parola, cioè non è stato perseverante nell’aderire a Dio in fedeltà. Per questo il Signore, nell’arco della sua relazione con Israele, ha rinnovato continuamente la promessa del “riposo”, dicendo: “Oggi, se ascoltate la sua voce!” (7). L’annuncio vale per noi “oggi”! L’esortazione suona così: “Affrettiamoci a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza” (11). Il Signore non parla per far passare il tempo e basta! La sua parola è “vivente ed energica” (12), proprio come lui! Attenti, perché è a Dio che bisogna rendere conto della nostra vita, vale a dire delle scelte più intime e profonde.
Ebrei 4,14-5,10
Il sommo sacerdote, quello “grande” (Gesù alla destra di Dio), sostiene la nostra adesione a lui ovvero la professione della fede. Gesù ha sofferto in tutto come noi, ma non è stato vinto dal peccato. E’ dunque il sacerdote che occorreva, degno di fede. Accostiamoci a lui per ricevere misericordia e trovare l’aiuto opportuno. Tutta la vita terrena di Gesù, in particolare la sua sofferenza/morte, è segno di “debolezza”: una debolezza che lo unisce perfettamente all’uomo debole. Gesù ha pregato e gridato d’essere salvato “dalla morte”, cioè da una vita lontana da Dio. La sua preghiera è stata esaudita. Infatti egli ha compiuto, proprio attraverso la sofferenza/morte, la volontà di Dio (ecco dove sta l’esaudimento: l’aver compiuto con amore la volontà di Dio). Ora egli, il figlio, è trasformato in sacerdote perfetto, ed è “causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (5,10). Comprendiamo allora l’ammonimento, spesso ripetuto: “Teniamo stretta l’adesione a lui” (4,14).
Ebrei 5,11-6,8
Gli ascoltatori sono diventati “lenti nell’ascolto”, vale a dire che faticano a crescere nell’affidamento al Signore: rimangono come delle persone incompiute, “ignare della parola di giustizia”, cioè del vangelo. Si attaccano certo alle profezie (Scrittura), ma non ne vedono il compimento in Cristo. Il discorso dunque si fa difficile per persone simili! L’autore, però, non vuole tornare indietro! E’ interessante notare il cammino che viene dato come già virtualmente attuato: la conversione dalle opere morte, la fede in Dio, la dottrina dei battesimi (il senso del battesimo cristiano), l’imposizione delle mani
(dono dello Spirito), la risurrezione dei morti e il giudizio eterno. Tutte cose che possono essere altrimenti descritte così: illuminazione e partecipazione dello Spirito Santo (dono celeste), gustazione della parola di Dio e del mondo nuovo inaugurato da Cristo. Ora se uno ha fatto questo cammino e “cade”, cioè rifiuta Cristo, è impossibile portarlo a conversione. Perché? Perché di fatto non crede più in Cristo, lo ha nuovamente crocifisso! Si arriva all’assurdo di una terra che ha ricevuto l’acqua e poi produce pruni e spine. Cosa sarà di questa terra? Non vale più nulla!
Ebrei 6,9-20
Il richiamo energico ai fratelli che non crescono nella vita cristiana non può dimenticare quanti invece “camminano verso la salvezza” (9). Essi si impegnano e amano il Nome di Gesù, cioè “servono tutti i santi/fratelli di fede” (10). Bisognerebbe che tutti fossero così. Il pericolo è quello di diventare pigri. Se così succedesse, non si diventerebbe eredi
delle promesse di Dio. Guardiamo Abramo. Egli è diventato erede “perseverando … attaccato alla speranza”. La speranza, poi, non è sogno o mito o evasione, ma è cosa sicura e salda (19). Salda come un’ancora fissata “oltre il velo del santuario”, in cielo: là dove c’è il vero santuario, là dove c’è Cristo diventato somme sacerdote al modo di Melchisedek. E “nel cielo” Gesù è precursore: dopo di lui e con lui arriveremo anche noi! Afferriamoci dunque a tale speranza.
Ebrei 7,1-14
Gesù è stato chiamato sommo sacerdote “alla maniera di Mechisedek”. Che significa questo? Intanto, chi è Mechisedek? E’ uno che non appartiene al popolo di Israele (Gen 14,18), non possiede “genealogia” (non ha titoli o legami alla storia). Nello stesso tempo ha benedetto Abramo e da lui ha ricevuto la decima di tutto. Non ha “principio di giorni né fine di vita”: di lui si attesta “che vive” (8). Quindi “è fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno”(3). C’era in Israele il sacerdozio levitico “alla maniera di Aronne”, sacerdozio regolato dalla legge secondo la quale occorreva essere discendenti di Levi per esercitare il compito. Gesù, però, non era della tribù di Levi, ma di Giuda. Il suo sacerdozio, dunque, non è alla maniera di Aronne, ma alla maniera di Mechisedek: sacerdozio nuovo e che dura per sempre. Così avevano annunziato le Scritture.
Ebrei 7,15-28
Gesù è diventato sacerdote non secondo le prescrizioni della legge mosaica, ma per la potenza della sua stessa vita, “gradita a Dio” perché conforme alla sua volontà. “Sacerdozio, legge e alleanza” fanno parte ormai di un tempo imperfetto, debole e quindi superato. Con Gesù, invece, c’è un sacerdozio nuovo e una “alleanza migliore” (22). Dio stesso l’ha detto e giurato nelle Scritture sante: “Il ha giurato e non cambierà: tu sei sacerdote per sempre”. E poi, il sacerdozio di Cristo non tramonta. Per questo può salvare tutti quelli che, in ogni tempo e luogo, si accostano a Dio. Gesù infatti “è sempre vivo per intercedere a loro favore” (25). In che consiste la novità del sacerdozio di Gesù? Nel fatto che egli è santo, innocente e senza macchia; che ha offerto non delle cose o degli animali, ma “se stesso”; non tante volte, ma “una volta per tutte” (27). La
sua offerta dunque è perfetta e eterna. “Il Figlio è stato reso perfetto in eterno” (28).
Ebrei 8,1-13
L’autore dice di essere arrivato “al capo”. E il punto capitale è questo: “Noi abbiamo un sacerdote tale che si è assiso alla destra di Dio, ministro del santuario e della vera tenda che il Signore, e non un uomo, ha costruito” (1-2). Abbiamo cioè il vero e definitivo sacerdote (Gesù), e il vero e definitivo santuario (le realtà celesti o il regno). Il servizio dei sacerdoti secondo l’ordine di Aronne era soltanto una copia o imperfetta anticipazione delle realtà celesti o del regno. Ad un sacerdozio nuovo, segue un’alleanza nuova di cui Gesù è mediatore. Alleanza già promessa da Dio attraverso i profeti. Punto di partenza di questa nuova alleanza è il perdono di Dio. Punto di arrivo è la comunione di Dio col suo popolo ovvero la piena e beata conoscenza di Dio.
a prima alleanza è “sparisce ed è superata”, nel senso che ha trovato il suo compimento (13). Ebrei 9,1-14
L’alleanza “prima” (e il sacerdozio collegato) è superata e sparisce, ma con le sue norme segna una direzione e apre alla speranza. Nel Santo dei Santi entra “soltanto” il sommo sacerdote e “una volta all’anno”, portandovi del sangue per la remissione dei peccati involontari. Stando così le cose, è evidente che la via dell’incontro con Dio non è ancora aperta, soprattutto non è aperta al mondo intero. E’ una via da riformare. Il “primo” culto infatti è soltanto una figura o parabola. In Cristo Gesù la figura viene realizzata e la speranza per il mondo è compiuta. La scansione definitiva deve essere così descritta. Cristo è il sommo sacerdote. Il Santuario non è più il tempio, ma il suo corpo dato alla morte. Il sangue da introdurre nel Santo dei Santi non è più quello degli
animali, ma il suo sangue a significare la sua morte. L’offerta non è più fatta “tante volte”, ma “una volta sola”. Conclusione: per noi la redenzione è vera ed eterna (12). L’offerta che Cristo ha fatto purifica, non più il corpo, ma la coscienza; e dà di servire veramente il Dio vivente in un culto “nuovo” (14).
Ebrei 9,15-28
Cristo, dunque, è il sommo sacerdote che, avendo offerto la sua vita/morte, ha purificato la nostra coscienza (tutto il nostro essere) per servire il Dio vivente. Per questo egli è “mediatore di una nuova alleanza”, cioè di un nuovo rapporto con Dio e tra di noi, rapporto per il quale riceviamo “l’eredità che è stata promessa” (15). Tutto, dunque, acquista valore dalla morte di Gesù! Un testamento non ha forse valore soltanto dopo la morte del testatore? Anche la prima alleanza fu inaugurata dal sangue, cioè dalla morte. Morte, però, di un animale! Cristo invece, mediante la sua morte (intesa come vero “sacrificio”), ha annullato il peccato “una volta per tutte” (26). Questa è la pienezza dei tempi! La prima apparizione di Cristo nella carne umana ha voluto essere un “sacrificio”, un’offerta per togliere i peccati degli uomini. La seconda e definitiva apparizione di Cristo sarà nella sua gloria e darà salvezza piena (salute) a chi lo aspetta nell’amore.
Ebrei 10,1-18
La legge o l’economia della prima alleanza erano soltanto una “ombra” delle realtà di salvezza; non erano la “icona”, cioè la realtà stessa di salvezza. L’economia antica, non potendo dare salvezza piena coi sacrifici di animali, rimandava anno dopo anno a qualcosa o a “qualcuno”. Questo qualcuno è il Cristo. Cristo è venuto in mezzo a noi, facendosi uomo. Ha offerto “volontariamente” il suo corpo/umanità. E’ per questa offerta “volontaria” che noi siamo salvati pienamente. Tale offerta ha tolto valore, o meglio, ha portato a compimento l’antica economia o legge. Conclusione. Cristo ha offerto un unico sacrificio per i peccati: il sacrificio è la sua stessa vita donata. Tale sacrificio lo ha compiuto una volta per sempre. In questo modo ha reso perfetti o ha dato salvezza piena a quelli che si lasciano incontrare da lui (santificati). E’ giunto finalmente “il perdono”: grande, vero e definitivo. Stando così le cose (essendo stato perdonato definitivamente il peccato), non c’è più bisogno di “offerta per il peccato”. La legge antica è superata. C’è la nuova, scritta nella mente e nel cuore.
Ebrei 10,19-39
Le esortazioni che ascolteremo di seguito sono legate e discendono da due eventi collegati e precedentemente narrati: la vita (carne) e la morte (sangue) di Gesù hanno aperto una “via nuova” che permette a tutti gli uomini di entrare nel Santuario, cioè incontrare Dio; Gesù è “sacerdote grande sopra la casa di Dio (noi)”. Accostiamoci, dunque, a Dio “con cuore sincero nella pienezza della fede, e teniamo ferma/sicura la speranza. Da parte sua, Dio è fedele! Soprattutto cerchiamo di “stimolarci a vicenda nell’amore che è fatto di opere buone”. Non disertiamo le nostre riunioni, separandoci dalla chiesa. Sarebbe terribile peccare volontariamente, dopo essere stati salvati gratuitamente. Chi calpesta il Figlio di Dio, chi deride la sua morte e disprezza lo Spirito della grazia, cosa può aspettarsi se non un tremendo giudizio? Dobbiamo essere “uomini di fede” che, dopo essere stati illuminati, sono pronti ad accettare la lotta che viene dalla persecuzione. Abbiamo solo bisogno “di costanza, perché dopo avere fatto la volontà di Dio raggiungiamo la promessa” (39).
Ebrei 11,1-16
La fede ci dà di conoscere (fondamento) e gustare in anticipo (speranza) le cose di Dio, quelle che non si vedono. L’approvazione di Dio è su tutti coloro che hanno questo tipo di fede. Innanzitutto i padri. Abele che offrì a Dio il vero sacrificio. Enoch che fu gradito a Dio e non vide la morte. Noè, giusto secondo la fede. E poi il padre Abramo, il pellegrino che aspettava la città dalle salde fondamenta. Sara che diventò madre a motivo della fede. Tutti costoro sono vissuti nella fede attendendo la promessa di Dio. Sono vissuti come pellegrini sulla terra.
Eb 11,17-40
La fede condusse Abramo a consegnare Isacco a Dio, capace di risuscitare dai morti. La fede guidò Mosè che abbracciò le sofferenze di Cristo. La fede salva noi che abbiamo ricevuto la pienezza della promessa: Cristo. Eb 12,1-13 Gesù è accanto a noi. Egli genera e sostiene il cammino della fede. Ma il peccato ci seduce! Bisogna scaricare il peccato guardando a Gesù che ha lottato fino a morire per noi. Nella lotta Dio come Padre Buono educa e corregge e ci rende suoi veri figli.
Eb 12,14-29
Cercate la pace e la santificazione. Nessuno abbandoni la grazia, cioè la via della fede, profanando l’opera di Dio, come fece Esaù. Infatti vi siete accostati a Cristo mediatore della nuova alleanza e alla città del Dio vivente. Dio ha parlato dal cielo attraverso Cristo: non rifiutiamo colui che parla. Restiamo nella grazia che ci è stata data e rendiamo a Dio un culto gradito con riverenza e timore, perché il nostro Dio è un fuoco divoratore.
Eb 13,1-16
Le ultime esortazioni partono dal chiedere di “perseverare nell’amore fraterno”, per discendere alla ospitalità e finire nel ricordo dei carcerati. Il matrimonio sia rispettato da tutti. Attenti poi a non amare il denaro. Attacchiamoci a chi ci ha annunciato la parola di Dio. Il cuore di questa parola è l’averci detto che Gesù ha inaugurato un sacerdozio nuovo. Usciamo dunque anche noi dallo schema antico e offriamo a Dio il sacrificio della vita. In altre parole, cerchiamo sempre di fare il bene. E’ questo il sacrificio che piace a Dio.
Eb 13,17-24
La lettera si conclude con l’ammonizione ad obbedire a coloro che ci guidano, nello stesso tempo a pregare per loro. Il Signore che ha fatto uscire dallo stato di morte il pastore grande Gesù vi renda perfetti. La perfezione consiste nel compiere la volontà di Dio. Tutta la lettera è presentata come “parola di esortazione”: esortazione a perseverare nella novità di vita inaugurata dal sacerdote grande, Cristo Gesù Signore nostro.

Publié dans:Lettera agli Ebrei, PDF â—˜ |on 16 août, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XV (5 ottobre 1920) PROCLAMA SANT’EFREM IL SIRO,DOTTORE DELLA CHIESA UNIVERSALE

 http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xv/encyclicals/documents/hf_ben-xv_enc_05101920_principi-apostolorum-petro_it.html 

LETTERA ENCICLICA  PRINCIPI APOSTOLORUM PETRO DEL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XV
AI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA
CHE PROCLAMA SANT’EFREM IL SIRO,DOTTORE DELLA CHIESA UNIVERSALE
(m.f. il 9 giugno)

Venerabili Fratelli,
salute e Apostolica Benedizione.

Il divino Fondatore della Chiesa ha affidato a Pietro, Principe degli Apostoli, unito a Dio da una fede immune da ogni errore [1] come « capo del coro Apostolico » [2] e maestro e guida di tutti gli uomini [3], la missione di pascere il gregge di Colui che ha fondato [4] la sua Chiesa sull’autorità del magistero [5] visibile, perpetuo e sicuro dello stesso Pietro e dei suoi successori. Su questa mistica roccia, cioè sul fondamento di tutto l’ edificio della Chiesa [6], come su un cardine e un centro, deve poggiare la comunione della fede cattolica e della carità cristiana.
Che l’ufficio singolare del Primato conferito a Pietro sia quello di diffondere ovunque, e di difendere in tutti gli uomini il tesoro della carità e della fede, è attestato molto bene da Ignazio Teoforo, vissuto poco tempo dopo la generazione degli Apostoli. Nella mirabile lettera che durante il viaggio mandò alla Chiesa di Roma, e nella quale annunciava il suo arrivo nell’Urbe per subirvi il martirio nel nome di Cristo, diede una bellissima testimonianza del primato di quella Chiesa su tutte le altre, definendola « colei che presiede l’assemblea universale della carità » [7]. Con ciò intendeva dire che la Chiesa universale va guardata non solo come immagine della carità divina, ma anche che il beatissimo Pietro, unitamente al suo primato, ha lasciato in eredità alla Sede di Roma il suo amore verso Cristo, affermato con una triplice confessione, per poter infiammare dello stesso fuoco le anime di tutti i fedeli.
Profondamente convinti di questa doppia caratteristica propria dell’autorità pontificia, i primi Padri, specialmente quelli che occupavano le cattedre più celebri dell’Oriente, ogni qual volta erano travagliati da ondate di eresie o da discordie intestine erano soliti ricorrere a questa Sede Apostolica, la sola capace di assicurare la salvezza in situazioni estremamente critiche. È noto che così hanno agito Basilio Magno [8] e il grande difensore della fede di Nicea, Atanasio [9], e così pure Giovanni Crisostomo [10]. Questi Padri, messaggeri della fede ortodossa, dai concìli dei Vescovi si appellavano al supremo giudizio dei Romani Pontefici, secondo le prescrizioni degli antichi canoni [11]. Chi potrebbe dire che questi Pontefici abbiano mancato in qualche punto al mandato ricevuto da Cristo di confermare i fratelli? Anzi, per non mancare a questo loro dovere, alcuni sono partiti senza paura per l’esilio, come Liberio, Silverio e Martino; altri hanno coraggiosamente difeso la fede ortodossa ed i suoi sostenitori, che si erano appellati al Pontefice per rivendicare la memoria di coloro che erano morti. Sia di esempio Innocenzo I [12], il quale ordinò ai Vescovi d’Oriente d’inserire nuovamente il nome di Crisostomo nei dittici liturgici, e di citarlo insieme ai Padri ortodossi durante il santo sacrificio.
Noi, che abbracciamo i popoli Orientali con non minore sollecitudine e affetto dei Nostri Predecessori, Ci rallegriamo che non pochi di essi, dopo una guerra spaventosa, abbiano recuperato la libertà e sottratto la religione al potere dei laici. Mentre questi popoli cercano di riorganizzare la loro vita politica, ciascuno secondo le proprie caratteristiche nazionali e secondo le istituzioni tradizionali, Noi siamo del parere che compiremmo un gesto molto adatto al momento ed alla loro situazione se proponessimo alla loro attenta imitazione e al loro fervente culto uno splendido esempio di santità, di dottrina e di amor patrio. Intendiamo parlare di Sant’Efrem il Siro, che Gregorio Nisseno paragona opportunamente al fiume Eufrate perché, « irrigata dalle sue acque, la moltitudine dei cristiani ha prodotto centuplicato il frutto della fede » [13]. Parliamo di quell’Efrem, che i messaggeri di Dio e i Padri e i Dottori ortodossi, da Basilio, Crisostomo e Girolamo a Francesco di Sales e Alfonso de’ Liguori sono unanimi nell’esaltare. Ci è gradito aggiungere la Nostra voce a quella dei citati annunciatori della verità, i quali, benché diversi fra loro per carattere e distanti per tempi e luoghi, formano tuttavia un coro armonioso di cui potresti facilmente riconoscere come direttore « l’unico e il medesimo Spirito ».
Venerabili Fratelli, se la presente Enciclica segue a breve distanza l’altra che vi abbiamo indirizzata in occasione del XV centenario della nascita di San Girolamo, la ragione è che i due grandi geni concordano in più punti. Infatti, Girolamo ed Efrem furono quasi contemporanei, entrambi monaci, entrambi abitanti della Siria, entrambi insigni per la conoscenza e l’amore dei Libri Sacri. A buon diritto potresti definirli « due luminosi candelabri » [14], propriamente destinati da Dio ad illuminare l’uno i paesi occidentali, l’altro quelli orientali. Il contenuto dei loro scritti è intriso della stessa soavità e dello stesso spirito; di conseguenza, come in loro brilla la stessa e immutabile dottrina dei Padri latini e orientali, così i loro meriti e la loro gloria s’intrecciano e si fondono in un’unica corona.
Non è ben certo quale delle due città, un tempo famosissime, Nisibi ed Edessa, abbia dato i natali al beato Efrem. Con certezza egli, congiunto nel sangue ai martiri dell’ultima persecuzione [15], ha ricevuto un’educazione cristiana dai suoi genitori. I quali, se non avevano avuto le comodità di una vita agiata, avevano però un titolo di gloria più nobile e magnifico, perché « avevano confessato Cristo in tribunale » [16]. Da adolescente, Efrem — come si rammarica egli stesso nell’opuscolo delle sue Confessioni — resistette piuttosto debolmente e in modo troppo fiacco alle passioni che tormentano di solito quell’età; era di carattere focoso, facile all’ira, amante di litigi, piuttosto sbrigliato di mente e di lingua. Ma, essendo stato messo in carcere per un crimine non commesso, cominciò a disprezzare i beni e le vane attrattive del mondo. Così, appena si fu discolpato davanti al giudice, subito vestì l’abito del monaco e si diede tutto agli esercizi di pietà e allo studio delle Sacre Scritture. Essendosi guadagnato la simpatia di Giacomo, Vescovo di Nisibi (uno dei 318 Padri del Concilio di Nicea), il quale aveva fondato nella sua diocesi una scuola molto celebre di esegesi, Efrem non solo realizzò, ma superò le speranze del suo protettore nell’assiduo e penetrante commento della Bibbia, e in breve tempo divenne il più esperto di tutti gli esegeti di quella scuola, meritandosi il nome e la fama di «Dottore dei Siri ». Poco dopo, costretto ad interrompere gli studi delle Sacre Scritture a causa della minaccia sulla città da parte delle truppe persiane, esortò con tutte le sue forze i concittadini alla resistenza. Il pericolo, scongiurato una prima volta per le preghiere del Vescovo Giacomo, si ripresentò più grave dopo la sua morte. Assediata nuovamente, la città cadde in mano ai Persiani nel 363. Efrem, preferendo l’esilio al giogo degli infedeli, emigrò ad Edessa, dove si consacrò con grande zelo e quasi esclusivamente al compito di dottore della Chiesa.
La casa dove abitava, posta su un colle alla periferia della città, fiorì presto, a guisa di una celebre accademia, per la grande celebrità di studiosi avidi di conoscere i Libri Sacri. Da lì uscirono quei sapienti interpreti delle Scritture, i quali formarono i loro discepoli nella stessa disciplina: Zenobio, Maraba, Sant’Isacco di Amida, che meritarono, per la profondità e il numero dei loro scritti, l’appellativo di «Grandi » [17].
Da quel ritiro si diffuse la fama della dottrina e della santità di Efrem, tanto che quando egli si recò a Cesarea per conoscere di persona Basilio Magno, questi, appresa la notizia del suo arrivo per ispirazione divina, lo accolse con grandi segni di riverenza, ed ebbe con lui dolcissimi colloqui su cose divine [18]. Si dice che in quell’occasione Basilio l’abbia ordinato diacono con l’imposizione delle mani [19].
Dal ritiro di Edessa Efrem non usciva mai, se non nei giorni stabiliti per rivolgere al popolo quei forti discorsi con cui difendeva i dogmi della fede contro le eresie di quel tempo. Per umiltà non osò aspirare al sacerdozio, ma preferì imitare alla perfezione Stefano nel grado inferiore del diaconato. Insegnava instancabilmente le Scritture e si dedicava alla predicazione della parola di Dio; educava nella salmodia le vergini consacrate a Dio; ogni giorno scriveva commentari per la spiegazione della Bibbia e per celebrare la fede ortodossa; aiutava i suoi compatrioti, soprattutto i poveri e i miserabili; metteva per primo in pratica, meglio che gli era possibile, ciò che doveva insegnare agli altri, per offrire in se stesso quel modello di santità che Ignazio Teoforo propone ai leviti quando li chiama soltanto Diaconi, cioè « comando di Cristo » [20], dicendo che essi esprimono « il mistero della fede in una coscienza pura » [21].
Quanto grande e quanto attiva carità mostrò ai fratelli durante la grave carestia, benché fosse carico di anni e spossato dalle fatiche! Abbandonò la casa dove per tanti anni aveva vissuto una vita più celeste che umana e corse ad Edessa. Con parole severissime — che a Gregorio Nisseno sembrarono « come una chiave abilmente forgiata in modo divino » [22] per aprire i cuori e gli scrigni dei ricchi — rimprovera coloro che avevano nascosto il frumento e li prega insistentemente di andare incontro almeno col superfluo al bisogno dei fratelli. Più che dalla necessità dei concittadini, i ricchi furono scossi dalla sua autorità. Col denaro raccolto Efrem preparava i letti per chi era distrutto dalla fame, allestendoli sotto i portici di Edessa; rifocillava coloro che erano sfiniti; soccorreva i pellegrini che arrivavano da ogni parte in città, in cerca di pane [23]. Davvero si sarebbe detto che la Provvidenza l’avesse messo a difesa della patria! Non ritornò alla sua solitudine che l’anno seguente, quando il raccolto della nuova messe aveva assicurato l’abbondanza di viveri.
Assolutamente degno di menzione è il testamento da lui lasciato ai suoi concittadini, nel quale chiaramente risultano la sua fede, la sua umiltà e il suo singolare amore verso la patria. « Io, Efrem, sto per morire. Con timore e rispetto vi scongiuro, o abitanti della città di Edessa, di non permettere che io sia sepolto nella casa di Dio o sotto l’altare. Non è conveniente che un verme, che cola purulenza, sia sepolto nel tempio e nel santuario di Dio. Avvolgetemi nella mia tunica e nel mantello che ho sempre portato. Accompagnatemi con i salmi e con le vostre preghiere, e degnatevi di fare spesso delle offerte per la mia piccolezza. Efrem non ha mai avuto né borsa, né bastone, né bisaccia, né argento od oro, né mai ha acquistato o posseduto beni sulla terra. Come miei discepoli, mettete in pratica i miei precetti e il mio insegnamento, perché non veniate meno alla fede cattolica. Siate saldi specialmente nei riguardi della fede; guardatevi dagli avversari, cioè dagli operatori di iniquità, dagli spacciatori di vuote parole, e dai seduttori. E sia benedetta la città in cui abitate. Edessa, infatti, è città e madre di saggi ». Così Efrem cessò di vivere; ma non si spense il suo ricordo, che rimase sempre in benedizione in tutta la Chiesa universale. Perciò, da quando Efrem cominciò ad essere ricordato nella sacra liturgia, Gregorio Nisseno poté affermare: « Lo splendore della sua vita e della sua dottrina si irradiò sul mondo intero: infatti egli è conosciuto in quasi tutte le regioni dove splende il sole ».
Non è il caso di esporre qui in dettaglio tutto ciò che un uomo così grande ha scritto: « Si dice, d’altra parte, che abbia scritto 300 miriadi di versi, se si vogliono contare tutti » [24]. I suoi scritti abbracciano pressoché tutta la dottrina della Chiesa; di lui ci restano i commentari sulla Sacra Scrittura e sui misteri della fede; le omelie sui doveri e sulla vita interiore; riflessioni sulla sacra liturgia; inni per le feste del Signore, della Beata Vergine e dei Santi, per le solennità dei giorni di preghiera e di penitenza, e per le cerimonie funebri.
Tutti questi scritti testimoniano la sua candida anima, che giustamente si può definire lampada evangelica « che arde e splende » [25], perché, illuminando la verità, ce la fa amare e professare. Anzi, Girolamo attesta che ai suoi tempi si usava leggere in pubblico, nelle assemblee liturgiche, gli scritti di Sant’Efrem non diversamente che le opere dei Santi Padri e dei Dottori ortodossi; e afferma ancora, parlando della traduzione delle opere del Santo dall’originale siriaco in greco, che « la stessa traduzione gli ha permesso di scoprire l’acutezza di un genio eccezionale » [26].
In verità, se va ad onore del santo Diacono di Edessa l’aver voluto che la predicazione della parola di Dio e la formazione dei discepoli poggiassero sulla Sacra Scrittura, interpretata secondo lo spirito della Chiesa, non minore gloria egli si è acquistata nella musica e nella poesia sacra; infatti era così esperto in queste arti, da essere chiamato « cetra dello Spirito Santo ». Da lui, Venerabili Fratelli, si può imparare con quali arti vada promossa nel popolo la conoscenza delle cose sante. Efrem infatti viveva in mezzo a popolazioni dal temperamento ardente, particolarmente sensibili alla dolcezza della musica e della poesia, tanto che fin dal secondo secolo dopo Cristo gli eretici si erano molto abilmente serviti di questi richiami per seminare i loro errori. Perciò, come il giovane David aveva ucciso il gigante Golia con la sua spada, Efrem oppone l’arte all’arte, veste la dottrina cattolica di versi e di musica, e così la insegna alle fanciulle e ai fanciulli, perché a poco a poco diventi familiare a tutto il popolo. Così egli non solo perfeziona la formazione dei fedeli nella dottrina cristiana e favorisce e nutre la loro pietà secondo lo spirito della sacra liturgia, ma contrasta anche con grande successo le eresie che andavano serpeggiando.
Quanta dignità abbia conferito alle sacre cerimonie il fascino di queste arti nobilissime, lo apprendiamo da Teodoreto [27], e ne troviamo conferma nell’ampia diffusione, sia tra i greci, sia tra i latini, della metrica propagata dal nostro Santo. Infatti, a quale altro autore potrebbe essere attribuita l’antifonia liturgica, con i suoi canti e con le sue solennità, importata da Crisostomo a Costantinopoli [28], da Ambrogio a Milano [29], e che poi si è diffusa in tutta Italia? E se questo « uso orientale», che nella capitale lombarda ha commosso così vivamente Agostino ancora catecumeno, e che, ritoccato da Gregorio Magno, è arrivato, perfezionato, fino a noi, non lo si deve in un certo qual modo, secondo il giudizio di critici competenti, al beatissimo Efrem, in quanto proviene dall’antifonia siriaca da lui diffusa?
Non c’é quindi da meravigliarsi se i Padri della Chiesa tengono in gran conto l’autorità di Sant’Efrem. Il Nisseno così scrive delle sue opere: « Scorrendo tutta la Scrittura, il vecchio e il nuovo Testamento, e scrutandone come nessun altro il senso profondo, l’ha interpretata con estrema acutezza parola per parola; dalla creazione del mondo fino all’ultimo libro della grazia, egli, illuminato dallo Spirito, nei suoi commentari ha chiarito i punti oscuri e difficili » [30]. Il Crisostomo, aggiunge: « Il grande Efrem ha svegliato le anime intorpidite, consolato gli afflitti, formato, diretto ed esortato i giovani; specchio dei monaci, guida dei penitenti, spada e freccia contro gli eretici, scrigno delle virtù, tempio e luogo di riposo dello Spirito Santo » [31]. In verità non è possibile lodare di più un uomo, che si riteneva così insignificante da chiamarsi l’ultimo di tutti e il più miserabile dei peccatori.
Dio, che « ha esaltato gli umili », onora con gloria eccelsa il beato Efrem e lo propone al nostro secolo come dottore di sapienza divina e modello delle più elette virtù. Ed oggi è il momento più opportuno per presentare questo modello, in quanto, finita la terribile guerra, pare stia per nascere un nuovo ordine di cose per le nazioni e particolarmente per i popoli dell’Oriente. Davvero un compito immenso, Venerabili Fratelli, e pieno di difficoltà s’impone a Noi, a ciascuno di voi e a tutti gli uomini di buona volontà, quello di restaurare in Cristo quanto rimane della civiltà umana e sociale, e di ricondurre a Dio e alla Chiesa santa di Dio l’umanità deviata: alla Chiesa cattolica, vogliamo dire, che, mentre si sfasciano le istituzioni del passato e regna una confusione generale in seguito a sconvolgimenti politici, è la sola a non vacillare e a guardare con fiducia all’avvenire: la sola nata immortale, fondata sulla parola di Colui che disse al beatissimo Pietro: « Su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa » [32].
Possano camminare sulle orme di Sant’Efrem tutti coloro che nella Chiesa hanno il compito d’insegnare agli altri; possano imparare da lui con quale instancabile zelo essi devono impegnarsi nella predicazione della dottrina di Cristo; la pietà dei fedeli non può infatti portare nessun frutto duraturo, se non è profondamente ancorata nei misteri e nei precetti della fede. Coloro, poi, che hanno l’incarico ufficiale di insegnare le scienze sacre, imparino dall’esempio del Dottore di Edessa a non distorcere, secondo l’arbitrio delle loro personali idee, le Sacre Scritture, e a non allontanarsi di un’unghia nei loro commentari dal senso tradizionale della Chiesa, perché « nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio » [33]. E lo Spirito che ha parlato agli uomini per mezzo dei profeti è lo stesso che agli Apostoli « aprì la mente all’intelligenza delle Scritture » [34], e costituì la Chiesa messaggera, interprete e custode della rivelazione, perché fosse « colonna e sostegno della verità » [35].
Coloro poi sui quali maggiormente si riflette la gloria di Efrem, portino, come si conviene, il peso di tale onore. Vogliamo parlare dell’illustre Famiglia dei monaci, la quale, nata in Oriente con Antonio e Basilio, si è estesa poi per molteplici rami nei paesi dell’Occidente e per tanti titoli è molto benemerita della società cristiana. I seguaci della perfezione evangelica non cessino mai di fissare il loro sguardo sull’anacoreta di Edessa e di imitarlo. Il monaco infatti tanto più sarà utile alla Chiesa, quanto più, davanti a Dio e agli uomini, mostrerà in se stesso ciò che il suo abito significa, cioè se, come hanno detto gli antichi Padri d’Oriente, sarà « il figlio della promessa » e se sarà, come bene lo definisce il beato San Nilo il Giovane, « l’Angelo, le cui opere sono la misericordia, la pace e il sacrificio di lode » [36].
Infine tutti coloro ai quali voi, Venerabili Fratelli, siete preposti, sia del clero sia dei fedeli, devono imparare dal beato Efrem che l’amore verso la patria terrena — i cui doveri si fondano sulla pratica della dottrina cristiana — non deve essere disgiunto dall’amore verso la patria celeste, e tanto meno anteposto: di quella patria, diciamo, che altro non è che il dominio intimo di Dio nelle anime dei giusti: dominio che qui inizia e che sarà perfetto nel cielo. Di tale patria la Chiesa cattolica è veramente l’immagine mistica, perché, senza distinzione di nazioni e di lingue, accoglie tutti i figli di Dio in una sola famiglia sotto un solo Padre e Pastore.
Inoltre questo santissimo uomo insegna a cercare le sorgenti della vita interiore là dove Cristo le ha poste, cioè nei Sacramenti, nell’osservanza dei precetti evangelici e nel molteplice esercizio della pietà che la stessa liturgia presenta e l’autorità della Chiesa propone. A questo proposito, Noi vogliamo, Venerabili Fratelli, offrire alla vostra meditazione alcuni pensieri del nostro Efrem sul Sacrificio dell’Altare: « Il sacerdote pone con le sue mani Cristo sull’altare perché diventi cibo. Poi si rivolge al Padre come a un servo dicendo: Dammi il tuo Spirito, perché discenda sull’altare e santifichi il pane che vi è deposto perché diventi il Corpo del tuo Figlio unigenito. Il sacerdote gli racconta la passione e la morte di Cristo e gli mette sotto gli occhi le percosse; e Dio non si vergogna delle percosse del suo Figlio primogenito. Il sacerdote dice al Padre invisibile: Ecco, colui che è appeso alla Croce, è tuo Figlio, e le sue vesti sono cosparse di sangue, e il suo fianco è trafitto dalla lancia. Il sacerdote gli ricorda la passione e morte del suo Figlio diletto, come se se ne fosse dimenticato, e il Padre ascolta ed esaudisce le sue preghiere » [37]. Di ciò che Efrem scrive sulla condizione dei giusti dopo la morte, niente si armonizza meglio con la dottrina costante della Chiesa, definita più tardi dal Concilio di Firenze: « Il defunto è condotto dal Signore ed è già introdotto nel regno dei cieli. L’anima del defunto è accolta in cielo ed è inserita come una perla nella corona di Cristo. E ora già dimora presso Dio e i suoi Santi » [38].
Ma chi potrebbe mettere in risalto la devozione di Efrem verso la Vergine Madre di Dio? «Tu, Signore, e tua Madre », esclama in un inno di Nisibi, « siete i soli che avete una bellezza perfetta sotto ogni riguardo: in Te, mio Signore, non c’é macchia, nella tua Madre non c’é alcun peccato » [39]. Mai questa « cetra dello Spirito Santo » dà suoni più delicati che quando si propone di cantare le lodi di Maria, o la sua immacolata verginità o la sua divina maternità o il suo patrocinio sugli uomini pieno di misericordia.
Da non minore entusiasmo si lascia trasportare quando, dalla lontana Edessa, si volta a guardare verso Roma per esaltare con lodi il primato di Pietro: « Vi saluto, o santi re, o Apostoli di Cristo », così saluta il coro degli Apostoli, « Salute a voi, luce del mondo… La lampada è Cristo, il candelabro è Pietro, l’olio è il dono dello Spirito Santo. Salve, o Pietro, porta dei peccatori, lingua dei discepoli, voce dei predicatori, occhio degli Apostoli, custode del cielo, il primo di coloro che portano le chiavi » [40]. E altrove: «Tu sei beato, Pietro, capo e lingua del corpo dei tuoi fratelli, di quel corpo, dico, che è composto di discepoli, i cui occhi sono figli di Zebedeo. Beati sono anche loro, perché contemplano quel trono del Maestro, che hanno chiesto per sé. Si sente la vera voce del Padre in favore di Pietro, che diventa una pietra irremovibile » [41]. In un altro inno così fa parlare il Signore Gesù al suo primo Vicario in terra: « Simone, mio discepolo, Io ti ho costituito fondamento della santa Chiesa, ti ho chiamato in anticipo pietra perché tu sostenga tutto il mio edificio. Tu sei il sorvegliante di coloro che mi edificano la Chiesa sulla terra. Se volessero edificare qualcosa contro le regole, tu, che sei stato posto da me come fondamento, riprendili. Tu sei la sorgente di quella fontana a cui si attinge la mia dottrina; tu sei il capo dei miei discepoli; per mezzo tuo disseterò tutte le genti. È tua quella dolcezza vivificante, che io elargisco. Ti ho scelto perché tu fossi, nei miei disegni, come il primogenito e l’erede dei miei tesori. Ti ho dato la chiave del mio regno, ed ecco ti faccio signore di tutti i miei tesori » [42].
Mentre ripensavamo nel Nostro intimo tutte queste cose, pregavamo con lacrime Iddio infinitamente buono affinché riconduca al seno e all’abbraccio della Chiesa Romana gli Orientali che una separazione ormai troppo lunga, contro la dottrina dei loro stessi antichi Padri che abbiamo ricordati, tiene miseramente lontani da questa Sede del beato Pietro. Con questa Sede, come testimonia Ireneo che dal suo maestro Policarpo aveva appreso le dottrine tramandate dall’Apostolo Giovanni, « è indispensabile che in virtù della sua supremazia ogni Chiesa sia in comunione, e così pure i fedeli di tutto il mondo » [43].
Intanto Ci è giunta una lettera con la quale i Venerabili Fratelli Ignazio Efrem II Rahmani, Patriarca Antiocheno dei Siri, Elia Pietro Huayek, Patriarca Antiocheno dei Maroniti, e Giuseppe Emanuele Thomas, Patriarca Babilonese dei Caldei, adducendo ragioni di grande rilievo, Ci chiedono con insistenza di voler accordare e confermare con la Nostra autorità Apostolica a Sant’Efrem il Siro, Diacono di Edessa, il titolo e gli onori di Dottore della Chiesa universale. A questa supplica si sono aggiunte anche lettere postulatorie di alcuni Cardinali della Santa Romana Chiesa, di Vescovi, di Abati e di Superiori di Istituti religiosi di rito greco e latino. Trovammo che la richiesta, in linea anche con i Nostri desideri, meritava di essere presa prontamente in considerazione. Sapevamo infatti che i Padri Orientali, che abbiamo citato, hanno sempre ritenuto il beato Efrem maestro di verità, messaggero di Dio e Dottore della Chiesa cattolica. Sapevamo anche che la sua autorità, fin dall’inizio, aveva avuto grandissimo peso non solo presso i Siri, ma anche presso i popoli vicini: Caldei, Armeni, Maroniti e Greci. Tutti questi hanno tradotto, ciascuno nella propria lingua, le opere del Diacono di Edessa e sono soliti a leggerle nelle loro assemblee liturgiche e a rileggerle volentieri privatamente in casa, così che capita di trovare ancor oggi i suoi inni presso gli Slavi, i Copti, gli Etiopi e perfino presso i Giacobiti e i Nestoriani. Abbiamo pure considerato che quest’uomo prima d’ora è stato tenuto in grande onore dalla Chiesa Romana. Infatti, fin dai tempi antichi essa commemora il beato Efrem nel martirologio il 1° di febbraio, elogiando in particolare la sua santità e la sua dottrina; ma a Roma stessa, verso la fine del secolo XVI fu eretta sul Viminale una Chiesa in onore della Beatissima Vergine e di Sant’Efrem. D’altra parte, è un fatto noto e incontestabile che i Nostri Predecessori Gregorio XIII e Benedetto XIV, verso i quali gli Orientali hanno più di un motivo per essere riconoscenti, si sono adoperati affinché, prima il Voss e poi l’Assemani, raccogliessero con la maggior diligenza possibile le opere di Sant’Efrem e le pubblicassero e le divulgassero per illustrare la fede cattolica ed alimentare la pietà dei fedeli. Passando poi a fatti più recenti, il Nostro Predecessore Pio X, di santa memoria, nel 1909 approvò la Messa e l’Ufficio proprio in onore del Santo Diacono di Edessa scegliendo in gran parte dalla liturgia siriaca, e ne fece la concessione ai monaci Benedettini del Priorato Gerosolimitano dei Santi Benedetto ed Efrem. Considerate attentamente tutte queste cose, per supplire a ciò che ancora sembrava mancare alla gloria del grande anacoreta e nello stesso tempo per dare ai popoli dell’Oriente cristiano una testimonianza della carità apostolica con la quale pensiamo al loro interesse e al loro onore, Noi, con un recente atto ufficiale abbiamo affidato alla Congregazione dei Riti il compito di espletare secondo le prescrizioni dei sacri canoni e della disciplina attuale la richiesta esposta nella lettera citata. La proposta ebbe un così felice esito, che i Cardinali preposti a quella sacra Congregazione dichiararono per mezzo del loro Prefetto, il Nostro Venerabile Fratello Antonio Vico, Cardinale della Santa Romana Chiesa, Vescovo di Porto e di Santa Rufina, che anche loro desideravano ciò e umilmente Ci chiedevano la stessa cosa che gli altri avevano domandato con le lettere supplicatorie presentate.
Perciò, dopo aver invocato lo Spirito Paraclito, Noi, con la Nostra suprema autorità, conferiamo e confermiamo a Sant’Efrem il Siro, Diacono di Edessa, il titolo e gli onori di Dottore della Chiesa Universale, e stabiliamo che la sua festa, fissata il 18 giugno, sia celebrata dovunque allo stesso titolo con il quale viene celebrato il giorno della nascita degli altri Dottori della Chiesa Universale.
Pertanto, Venerabili Fratelli, mentre Ci rallegriamo di aver conferito questo aumento di gloria e di onore al Santo Dottore, confidiamo nello stesso tempo che in questi momenti così difficili la famiglia universale dei fedeli cristiani trovi in lui un intercessore e protettore attivissimo e appassionato presso la divina clemenza. I cattolici orientali avranno in questa decisione una nuova testimonianza della sollecitudine e dell’interessamento tutto particolare che i Romani Pontefici hanno verso le Chiese separate, e Noi, come i Nostri Predecessori, vogliamo che le loro legittime usanze liturgiche e le regole canoniche rimangano per sempre integre e intoccabili. Possano, con l’aiuto di Dio e la protezione di Sant’Efrem, cadere finalmente quelle barriere che con dolore vediamo tener divisa una notevole parte del gregge cristiano dalla mistica pietra, sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa. Spunti, quanto prima, quel giorno beato in cui nei cuori di tutti siano « come pungoli e come chiodi piantati profondamente » le parole della verità evangelica, « che mediante la schiera dei maestri ci sono state date da un unico pastore » [44].
Intanto, come auspicio dei favori celesti e come testimonianza del Nostro amore paterno, impartiamo con affetto a voi, Venerabili Fratelli, a tutto il clero e al popolo a voi affidato l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 5 ottobre 1920, nel settimo anno del Nostro Pontificato.

 BENEDICTUS PP. XV

NOTE SUL SITO

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È L’UOMO PEFETTO CHE REALIZZA IL SOGNO DEL CREATORE (Papa Paolo VI) (1Cor 2,1-6)

http://www2.azionecattolica.it/sites/default/files/convpres12.pdf

È L’UOMO PEFETTO CHE REALIZZA IL SOGNO DEL CREATORE

(Papa Paolo VI)

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2,1-16)

Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.Tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma, come sta scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito. L’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo.
Dalla lettera enciclica Populorum progressio di papa Paolo VI
Ormai le iniziative locali e individuali non bastano più. La situazione attuale del mondo esige un’azione d’insieme sulla base di una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali. Esperta in umanità, la chiesa, lungi dal pretendere minimamente d’intromettersi nella politica degli stati, «non ha di mira che un unico scopo: continuare, sotto l’impulso dello Spirito consolatore, la stessa opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità (cf. Gv 18,37), per salvare, non per condannare, per servire, non per essere servito (cf. Gv 3,17; Mt 20,28; Mc 10,45)». Fondata per porre fin da quaggiù le basi del regno dei cieli e non per conquistare un potere terreno, essa afferma chiaramente che i due domìni sono distinti, così come sono sovrani i due poteri, ecclesiastico e civile, ciascuno nel suo ordine. Ma, vivente com’è nella storia, essa deve «scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce dell’evangelo». In comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle insoddisfatte, essa desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura, e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità. Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: «noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera».Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo dell’educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato d’intelligenza e di libertà, egli è responsabile della sua crescita, così come della sua salvezza. Aiutato, e talvolta impedito, da coloro che lo educano e lo circondano, ciascuno rimane, quali che siano le influenze che si esercitano su di lui, l’artefice della sua riuscita o del suo fallimento: col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più.
Breve esortazione.2
Crescere in umanità
Crescere in umanità potrebbe essere l’imperativo che ci poniamo all’inizio di questa solenne convocazione. Ci siamo accorti anche concretamente in questi tempi di crisi che la nostra risorsa più grande, che il creatore ci ha messo a disposizione e che spesso è ignorata, è la nostra stessa umanità, con il suo insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare. Questa umanità è stata fatta definitiva da Gesù Cristo, Lui è l’uomo perfetto che realizza il sogno del Creatore, Lui nel continuo rapporto con il Padre è la nostra pienezza, la nostra realizzazione piena, il nostro autentico presente e il desiderato futuro. Essere esperti in umanità non significa certo adattarsi allo spirito del mondo. Dio non fonda il Vangelo sulla sapienza di questo mondo, né sceglie le persone che si considerano meritevoli (la condizione di peccato in cui ci troviamo squalifica ogni presunto merito). Allo stesso modo il successo del Vangelo nel convertire e nel salvare, non può essere spiegato dalla sociologia e dalla psicologia, né dall’uso di tecniche di persuasione, di condizionamento, di propaganda e di manipolazione delle quali alcuni sono esperti (“l’eccellenza di parola o di sapienza”). Il Vangelo risulta potentemente efficace, nonostante il mezzo “debole” della predicazione e nonostante l’oggettiva debolezza ed inadeguatezza dei suoi portatori, perché attraverso di esso Dio è all’opera, lo stesso Dio che fa risorgere dai morti Gesù, “debole e sconfitto” dalle potenze di questo mondo. L’opera di salvezza che Dio porta avanti in questo mondo, dunque, non è e non può essere il risultato di nulla che in questo mondo ci si arrabatta a inventare, non è il risultato di movimenti politici o religiosi, non è e non può essere frutto dell’ingegnosità umana ad un qualsiasi livello, ma dipende in tutto e per tutto ed in esclusiva dall’opera indipendente di Dio. Ci ha avvertito San Paolo:”l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle”. Paolo si era proposto di “non sapere altro” che “Gesù Cristo e lui crocifisso” (2). Questo non vuol dire che il cristiano non si debba occupare d’altro che “di Bibbia”, ma che la fede cristiana non è un “supplemento” o “un valore aggiunto” dei “curriculum” di questo mondo, ma è “altro”, spesso in palese contraddizione di quanto questo mondo insegna e pratica. Cristo è il centro e san Paolo ha imparato a tenerlo in altissima stima e considerazione nonostante l’ignominia della croce (cosa che il mondo considera squalificante), anzi, siamo fieri della croce perché in essa si manifesta l’amore incondizionato e la grazia di Dio nei nostri confronti. Possiamo essere considerati semplicisti e rozzi, molto inferiori alla raffinata complessità di ciò che si insegna nelle accademie, ma il Toniolo ci ha ben insegnato e dimostrato con coraggio nella sua professionalità eccellente che il pensiero cristiano raggiunge grandi profondità, ben al di là della capacità di comprendere persino degli intellettuali di questo mondo. Ricevere e comprendere questa sapienza è frutto di maturità spirituale. Occorre allora per essere esperti in umanità una rinascita spirituale che è opera dello Spirito Santo, è quella rinascita che Gesù ha chiesto a Nicodemo.“Non ti meravigliare se ti ho detto: ‘Bisogna che nasciate di nuovo’” (Giovanni 3:7). La 3 persona che nasce in questo modo alla fede, in quella stessa fede deve crescere per giungere alla maturità spirituale. Alla maturità il credente giunge nel tempo attraverso esperienza, studio e prove. In tutto questo deve impegnarsi diligentemente. Questa maturità spirituale non è il risultato della ricerca scientifica dei laboratori, delle accademie e delle scuole di questo mondo, non è soprattutto frutto di competenze umane, ma è una “sapienza celeste”, la sapienza rivelata di Dio. È la sapienza che Dio ha destinata al Suo popolo, e che costituisce il “deposito” della sua fede. “O Timoteo, custodisci il deposito; evita i discorsi vuoti e profani e le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza; alcuni di quelli che la professano si sono allontanati dalla fede” (1 Timoteo 6:20-21). C’è sempre qualcuno che offre alla fede cristiana una versione “riveduta e corretta” che si adatti alle ideologie al politicamente corretto, alla mentalità di moda. La nostra fede è continuamente affidarsi a Gesù, è lasciarsi affascinare da domande vere su di Lui. Chi è Gesù? Come ha vissuto? Che cosa ha insegnato? Che cosa ha compiuto? Perché la Sua vita, la Sua opera, la Sua morte e la Sua risurrezione è rilevante, anzi determinante per il nostro destino temporale ed eterno? San Paolo risponde a queste domande con chiarezza, per i cristiani di Corinto ed anche per noi oggi. Paolo, così, annuncia che Gesù è l’eterno Figlio di Dio, da sempre nel cuore stesso di Dio, che è venuto, umiliandosi, per condividere la nostra umanità ed a morire sulla croce per pagare Lui il prezzo della nostra salvezza. Chi ci dà questa maturità spirituale? Lo Spirito di Dio, il dono assolutamente necessario per la nostra crescita spirituale, per la nostra maturità spirituale e per crescere in umanità.

Pietro ha superato il sole e Paolo la luna (O.R. 29 giugno 2011)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/148q01.pdf

(OSSERVATORE ROMANO, 29 GIUGNO 2011)

Pietro ha superato il sole e Paolo la luna

«Santi Pietro e Paolo», icona del XVIII secolo (Siria)

vedere l’immagine sul PDF:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/148q01.pdf

di MANUEL NIN

La festa degli apostoli Pietro e Paolo il 29 giugno è celebrata in tutte le Chiese cristiane di oriente e occidente, e in alcune tradizioni orientali è preceduta da un periodo di digiuno (quaresima) dalla durata variabile. Nelle tradizioni liturgiche orientali il giorno successivo sono poi celebrati i dodici apostoli, discepoli del Signore, testimoni della sua risurrezione e predicatori del suo Vangelo nel mondo intero. La tradizione patristica e liturgica siro-occidentale molto spesso congiunge i due apostoli. Così Efrem il Siro, benché nutra una particolare stima per Pietro, li contempla quasi sempre in modo unico. In uno dei suoi inni sulla crocifissione di Cristo infatti egli afferma: «Che l’oriente offra a Cristo una corona con i suoi fiori: Noè, Sem, l’illustre Abramo, i magi benedetti e la stella. L’o ccidente offra due corone sfavillanti, il cui profumo si è diffuso ovunque. L’occidente nel quale tramontò la coppia di astri, i due apostoli sepolti che vi fanno sfavillare raggi mai tramontati. Ecco Simone ha superato il sole e l’Apostolo ha eclissato la luna».Nell’ufficiatura vespertina sirooccidentale troviamo un sedro — composizione liturgica anonima in prosa poetica sulla festa — che costituisce una lode a Pietro e Paolo.

Sin dall’inizio, dà a Pietro il titolo di «capo degli apostoli» e a Paolo quello di «vaso di elezione» (Atti degli apostoli, 9, 15); quindi li paragona a «colonne forti» su cui la Chiesa viene edificata: «A te la lode, Cristo Dio nostro, il cui regno si espande nel cielo e nella terra, che hai innalzato nella tua Chiesa due colonne forti e magnifiche, Pietro il capo degli apostoli e Paolo vaso di elezione, e hai dato loro il tuo aiuto affinché ti imitino nel dare la propria vita per le loro pecore spirituali». Il testo sottolinea come la scelta degli apostoli da parte di Cristo è per loro un dono di sapienza, un passaggio, quasi una conversione, dall’ignoranza alla conoscenza. Il sedro descrive poi la santità di Pietro, primo nella confessione della fede, esempio di pentimento dopo il tradimento: «Tra i tuoi discepoli tu hai collocato un fondamento e un capo: Pietro, sublime nella perfezione. A lui tu hai rivelato per primo i divini insegnamenti e i misteri, e lo hai costituito modello ed esempio dei peccatori che si pentono. Essendo il capo e primo dei suoi fratelli l’hai mandato a Roma, la grande capitale». Viene poi la descrizione del persecutore diventato

apostolo: «Poi ti sei apparso a Paolo che perseguitava i discepoli, l’hai illuminato nel cammino e ne hai fatto un vaso di elezione, riempiendolo di rivelazioni sublimi ed elevate, e hai insegnato a lui i tuoi divini misteri. Ha percorso tutte le strade della terra volando come aquila del volo rapido, e ha riempito il mondo con l’annuncio di vita: ha ammonito re e principi, incoraggiato i deboli e alla fine ha chinato la testa al taglio della spada e ricevuto la corona del martirio assieme a Pietro, capo degli apostoli». Seguono dodici invocazioni che iniziano tutte con la stessa formula: «Pace a voi apostoli Pietro e Paolo, coltivatori e agricoltori zelanti che avete sradicato dalla terra le erbe delle dottrine sbagliate e le spine dell’errore. Pace a voi, Pietro e Paolo, pescatori abili, perché nelle reti del Vangelo avete salvato le anime degli uomini». Cinque altre invocazioni contemplano Pietro e Paolo nel loro ruolo di apostoli, garanti della professione di fede, predicatori della verità della croce di Cristo, annunciatori della fede da Gerusalemme sino ai confini del mondo: «Pace a voi, illustri apo-eserciti del re celeste e garanti dei tesori della sua divinità. Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli scelti, capi che avete fatto ammutolire l’empietà dei re pagani con la testimonianza della verità e dell’autenticità della croce. Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli benedetti, vero oro puro, perché i raggi del vostro insegnamento risplendono per tutta la terra e la illuminano. Pace a voi, Pietro e Paolo, grandi apostoli, predicatori della vera fede che da Gerusalemme avete portato la buona novella a tutto il mondo». Una delle invocazioni ancora li paragona a un grappolo d’uva pressato, con un riferimento al martirio, e il cui vino è annuncio del Vangelo: «Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli virtuosi, grappoli mistici, pressati dagli empi ma il cui vino ha annunciato per tutta la terra il vero Dio, e tutti gli uomini lo hanno adorato». L’ultima invocazione riprende l’immagine di Pietro e Paolo come colonne della Chiesa edificata su di loro: «Pace a voi, Pietro e Paolo, colonne e fondamento della santa Chiesa, perché contro di essa non può niente la forza dell’inferno». 

Il Vangelo Paolino fra tradizione giudaica e apertura ai gentili (R. Penna) PDF

Prof. Romano Penna

Il Vangelo Paolino fra tradizione giudaica e apertura ai gentili

International Seminar on Saint Paul
http://www.paulus.net/sisp/doc/interventi/ISSP_Penna.pdf

COMMENTO AL SALMO 121 – (il salmo di domenica 28 novembre 2010 (PDF)

COMMENTO AL SALMO 121

(28 NOVEMBRE 2010 – 1 DOMENICA DI AVVENTO ANNO A)

http://dedalo.azionecattolica.it/documents/Ferrari.pdf

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