Archive pour août, 2012

Marco, 1ss – I farisei e Gesù

Marco, 1ss - I farisei e Gesù dans immagini sacre Jesus-and-the-Pharisees

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Publié dans:immagini sacre |on 31 août, 2012 |Pas de commentaires »

Omelia (sostanzialmente sulla chiave della prima lettura)

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Omelia (sostanzialmente sulla chiave della prima lettura)

Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Mosé parlò al popolo e disse: « Ascolta, Israele, le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi ».

Come vivere questa Parola?
« Leggi e norme »: questa espressione si riferisce alla torah come orientamento di vita e non semplicemente come osservanza di precetti. In quanto tale, per Israele, essa abbraccia sia l’ambito cultuale che la vita quotidiana, fondata com’è sulla rivelazione di Dio e animata dalla consapevolezza dell’Alleanza che Egli ha stabilito con il suo popolo, nel vincolo di una fedeltà perenne. Ecco perché Gesù precisa di non essere venuto ad abolire la Legge e i Profeti, « ma per dare compimento », ossia per realizzare le profezie e portare la legge antica alla sua perfezione, rivelandone il senso ultimo e più autentico.
Ciò dicendo, Egli smaschera la nostra ipocrisia farisaica, che s’annida nel cuore quando trascuriamo l’essenziale, lo spirito dei comandamenti, e ce ne stiamo barricati in un osservanza letterale e scrupolosa di aspetti secondari della legge esponendo in bella vista comodi alibi per non compiere la volontà di Dio. Non solo: per questa ostentata apparente irreprensibilità, pretendiamo incenso e reclamiamo consensi. Stolti: non ci accorgiamo che ci stiamo addirittura servendo della Legge di Dio per attizzare il fuoco dell’ego che si consuma avido nella superbia della vita?
Lasciamoci dunque interpellare da Gesù che ci addita una giustizia sovrabbondante, ossia quel vivere autentico secondo il vangelo, totalmente disarmato e consegnato all’Amore. Senza finzioni né compromessi, affinché la nostra vita sia limpido e pacato tralucere di gioiosa schiettezza evangelica.
Oggi, nella mia pausa contemplativa, non esiterò dunque a smascherare quegli atteggiamenti inautentici che rischiano di farmi assopire in una sorta di comodo e borioso perbenismo, impedendomi di aderire fedelmente alla volontà di Dio. Questa la mia preghiera:
Aiutaci a capire, Signore, quanto stolto sia quel « sentirsi a posto » che ci rende tronfi e antipatici. Smaschera in noi quanto di insincero e ‘costruito’ ostentiamo per attirare l’attenzione e il consenso degli uomini e facci percepire l’intima gioia di essere limpidi e puri dinanzi a Te.

La voce di un grande mistico
Il cristiano deve rallegrarsi non unicamente perché compie le opere buone e segue retti costumi, ma solo perché le compie per amore del Signore, senza altro riguardo.
San Giovanni della Croce

Omelia per la XII domenica del T.O – Religio vera: la ragione

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Omelia per la XII domenica del T.O.

don Daniele Muraro

Religio vera: la ragione

Il libro del Deuteronomio è una raccolta di tre grandi catechesi che Mosè fa al suo popolo in procinto di entrare nella Terra Promessa. Nella prima lettura abbiamo ascoltato alcune esortazioni estratte dal primo discorso.
Dopo avere rievocato il viaggio nel deserto e tutte le prove superate nei quarant’anni che era durato, Mosè si rivolge all’assemblea e ammonisce tutti a prendere sul serio leggi e norme che egli trasmette a nome di Dio. « Quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli ».
Poco prima aveva interrogato: « Dal giorno in cui Dio creò l?uomo sulla terra e da un?estremità all?altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco?? O ha mai tentato un Dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un?altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? ». E concludeva: « Tu sei stato fatto spettatore di queste cose, perché tu sappia che il Signore è Dio e che non ve n?è altri fuori di lui. »
Dunque Mosè ha viva coscienza che esiste un solo Dio: per lui le religioni non sono tutte eguali, ma solo quella rivelata da Dio è la religione vera e ragionevole. Pur inserita nella storia essa non può andare soggetta ai mutamenti della volubilità umana. Infatti Mosè prescrive: « Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla. »
La Parola di Dio si può cercare di interpretarla, se ne possono proporre sempre nuove applicazioni, ma non la si può stravolgere. Soprattutto non la si può eliminare, verrebbe meno il fondamento di ogni atto buono e religioso.
Questo vuol dire che la fede ebraica e poi quella cristiana si basano sulla conoscenza e non sulla poesia o sulla politica; per quanto strano sembri queste due erano le grandi fonti delle religioni antiche.
I Romani e in particolare i Greci si dilettavano a sentire raccontare i loro miti: su di essi fondavano le loro convinzioni. I Greci e in particolare i Romani ritenevano che solo onorando con riti adeguati i loro dèi lo Stato avrebbe ottenuto vittorie sui nemici e goduto di prosperità materiale.
Indagare sulla coerenza dei vari miti, spesso in contrasto fra loro, oppure interrogarsi sul significato dei riti tradizionali, sarebbe stato avvertito in quelle società come una pretesa di empietà. Infatti Socrate, il filosofo, fu condannato a morte anche perché attraverso il suo interrogare ostinato aveva rivelato l’inconsistenza di tanta parte della religiosità praticata ad Atene.
Nel discorso preparato per la visita all’Università della Sapienza a Roma nel 2007 papa Benedetto cita proprio le parole Socrate nella sua disputa con un tale Eutifrone, un indovino custode di un tempio.
A lui Socrate rivolge la domanda: « Tu credi che fra gli dèi esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti? Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero? » Si tratta di una domanda apparentemente poco devota, dice papa Benedetto, che però dimostra la ricerca di un Dio veramente degno di questo nome e quindi di una religiosità più profonda e più pura.
I cristiani dei primi secoli accolsero l’annuncio degli Apostoli non come una credenza fra le altre o come la maniera per assicurarsi prima e meglio i favori divini, ma come la vera religione. Tramite la fede cristiana si dissolsero per loro le nebbie del mito e si affermò la scoperta di un Dio che non si sottrae alla ricerca della mente umana.
Per questo motivo l’attività della ragione che si interroga su Dio e sulla dignità dell’essere umano non è per i cristiani una prova di mancata religiosità. Anzi la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale consiste proprio nella sintesi da essa operata tra fede, vita e ragione.
Occorre essere intelligenti anche quando si crede, riconoscere la gerarchia della verità della propria fede, non disperdersi nei dettagli trascurando l’essenziale.
I Greci abbiamo detto si dilettavano ad intrecciare in maniera poetica le vicende dei loro dèi. Gli Ebrei beneficiari di una professione di fede storica non caddero nel tranello del mito, ma ad un certo punto cominciarono a soffrire del difetto opposto, ossia tradizionalismo e vuota ripetitività.
Gesù nel Vangelo insegna che occorre preoccuparsi più della purezza delle proprie intenzioni che non di compiere meticolosamente certi pratiche o astenersi scrupolosamente da certe altre. Dio guarda il cuore. Sembra un po’ ridicolo detto così, ma Gesù doveva confrontarsi con una mentalità secondo cui la cura dell’igiene, lavature e abluzioni, esauriva ogni esigenza dell’amor di Dio.
Di tutt’altro tenore sono le considerazioni di san Giacomo al termine della seconda lettura; « Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo. »
Si vede che l’apostolo ha assorbito l’insegnamento del Signore. Chi crede e frequenta il rito cristiano non ha bisogno di tante istruzioni su come mettere pratica gli insegnamenti ricevuti: il più delle volte è solo questione di coerenza logica. Anche sotto questo aspetto si dimostra che ragionare non è estraneo alla fede, anzi rende la nostra religione più autentica e più concreta.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 31 août, 2012 |Pas de commentaires »

L’Amore misericordioso nell’Antico Testamento (la parola ebraica nell’immagine io la leggo: lodare, celebrare, ma non sono sicura)

 L'Amore misericordioso nell'Antico Testamento (la parola ebraica nell'immagine io la leggo: lodare, celebrare, ma non sono sicura) dans immagini sacre 1016008580

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Publié dans:immagini sacre |on 30 août, 2012 |Pas de commentaires »

GERUSALEMME COME MADREPATRIA UNIVERSALE (del Card. Ravasi)

http://www.oessg-lgimt.it/OESSG/terrasanta/GerusalemmemadrepatriauniversaleGianfrancoRavasi.htm

GERUSALEMME COME MADREPATRIA UNIVERSALE

di S.Em. Rev.ma il Signor Cardinale Gianfranco Ravasi

Conferenza tenuta a Roma – Casa di Dante – 1 dicembre 2010

O.E.S.S.G. – Luogotenenza Italia Centrale – Sezione Roma

Mi è stato assegnato un tema ben preciso, dal quale vorrei far sbocciare una mia riflessione su Gerusalemme, la città santa, il centro, punto di riferimento, luogo imprescindibile in sede religiosa e letteraria. Il testo che prendiamo qui in esame rappresenta un brano innico brevissimo, facente parte di quella celebre raccolta di componimenti nota col nome di Salterio, i 150 canti o salmi di Israele.
Si tratta del Salmo 87 (86 della liturgia), uno dei cosiddetti “Inni di Sion o a Sion”. Proprio partendo da quei pochi versi, desidererei costruire una mappa ideale della Città Santa di Gerusalemme; ovviamente non una mappa topografica, bensì teologico-spirituale, in un certo senso, anche culturale.

Le tre pietre di Sion
Trattandosi di una mappa, quattro sono i punti cardinali prescelti. Inizierò subito dal primo, desumendolo proprio dall’incipit di questo canto. Sui monti santi – così inizia il Salmo – Egli, Adonai, l’ha fondata; il Signore ama le porte di Sion. Quindi, all’inizio, vediamo la rappresentazione dei monti santi, fondamento della stabilità. I monti, la roccia, la rupe sono simboli che ininterrottamente vengono applicati a Dio partendo appunto da Gerusalemme, una città situata a ottocento metri d’altezza su un colle arido, tant’è vero che una delle decifrazioni filologiche molto ipotetiche della parola ebraica Sijjon è quella di luogo pietroso, quindi secco e arido. Ebbene, proprio la pietra è fondamentale come primo punto cardinale di Gerusalemme, perché le tre grandi religioni e culture che in questa città si incrociano, si intrecciano e perfino si scontrano, sono tutte fondate su una pietra.
Partiamo, perciò, dalla pietra fondante dell’ebraismo, la pietra chiamata dagli ebrei kótel, ossia la parete per eccellenza, quella che tradizionalmente si definisce “Muro del pianto”. Dobbiamo far presente, tuttavia, che tale pietra è, in verità, il punto terminale di un itinerario di pietre che sono lì sottese. Infatti, gli archeologi hanno tentato di ricostruirle genealogicamente: si vede chiaramente che quei massi squadrati sono in stile erodiano, perché facevano parte del tempio che Erode aveva sontuosamente costruito, lo stesso tempio che Gesù frequenterà. Quelle pietre sono riconoscibili per il fatto che, di solito, i massi erodiani presentano una sorta di battitura o fascia che frontalmente accompagna il rettangolo del masso. Lì, dunque, si può dire che abbia sede il tempio di Sion, cioè il cuore dell’ebraismo, un cuore sempre amato, continuamente esaltato, perennemente celebrato e considerato come la stella polare, non solo della spiritualità, ma anche della stessa esistenza giudaica. Si potrebbe quasi affermare che da qui inizia un canto che varca i secoli, partendo proprio dai Salmi biblici che parlano di quella pietra particolare che è il Tempio.
A questo punto, vorrei citarvi un’espressione che mi sembra molto emblematica: l’attingo al Salmo 102, versetto 15, Poiché ai tuoi servi sono care le sue pietre, che nell’originale ebraico si presenta in una veste molto più significativa che le traduzioni, come spesso accade, di solito fanno perdere. Infatti, aveva ragione Cervantes quando diceva che ogni traduzione è come il rovescio di un arazzo, o Mounin nel suo saggio sulla traduzione, La Belle Infidèle, “La bella infedele”. Il testo ebraico dice Ki ratsû ‘abdeka ’et-’abaneha. L’elemento fondamentale risiede in quel ratsû, cioè “sono care” ai tuoi servi le pietre di Sion, le sue pietre. Ratsû, però, in ebraico deriva dal verbo ratsah, che indica un piacere quasi fisico, una comunione passionale, pertanto quella pietra che è fredda, tu la baci come se fosse la tua sposa. Si tratta, quindi, di un verbo che indica piacere – quasi erotico –, un verbo che contiene un nesso istintivo, primordiale.
La seconda pietra, come ben sanno i Cavalieri del Santo Sepolcro e tutti i pellegrini, è quella del Santo Sepolcro, che come anima e cuore ha la pietra ribaltata del sepolcro di Cristo, segno di morte ma al tempo stesso di vittoria sulla morte. Nel Libro dei Proverbi si dice che lo sheol – termine ebraico per designare gli inferi – è come una bocca sempre aperta che inghiotte continuamente i morti. Ebbene, il cristianesimo afferma che questo ciclo inesorabile è interrotto, poiché la pietra tombale viene rovesciata per celebrare la vita. E tale celebrazione pasquale è affidata a quella grande basilica di Gerusalemme che, come è noto, presenta una planimetria particolarmente tormentata. Infatti, come sempre, attorno alle pietre si muovono anche dei corpi che, quindi, trasformano in pietre vive l’edificio materiale. Iniziando dall’imperatrice Elena per poi, via via, proseguire fino ai crociati, alla fine la Basilica del Santo Sepolcro riassume in sé tante dimensioni diverse. Per questa ragione, essa è significativamente chiamata dagli ortodossi non “Basilica del Santo Sepolcro” – che sarebbe evocazione di una pietra morta, almeno apparentemente – , bensì “Basilica della Anástasis”, cioè della Risurrezione, che in arabo suona Qiyama, che vuol dire “ergersi, salire, ascendere” verso l’alto e l’infinito di Dio.
Si arriva, così, alla terza pietra sulla quale si fonda la terza religione e, al tempo stesso, la terza cultura che ha in Gerusalemme la sua patria: si tratta della cosiddetta Qubbet as-Sakhra’, cioè la “Cupola della Roccia”, comunemente detta Moschea di Omar. Una definizione, questa, erronea perché non è una moschea e non fu neppure Omar a definirla tale. Almeno, come si presenta oggi, vediamo che al centro ha una rupe – appunto la Cupola della Roccia – e su questa roccia la spiritualità dell’Islam ha una sua radice. Si racconta, infatti, che da qui il profeta Mohammed sia asceso al cielo sulla sua giumenta alata, entrando, quindi, nella comunione con Dio. Perciò, anche in questo luogo è facile rinvenire una dimensione di eternità e di infinito che trae origine e ha come seme proprio una pietra.
Ecco il primo punto cardinale che volevo ricordare, partendo dai versetti: Sui monti santi è fondata Gerusalemme, sulla pietra l’anima di Gerusalemme si ritrova, su tre pietre che sono meta ininterrotta di moltitudini di pellegrini e visitatori. Esse rappresentano i grandi nodi che tengono insieme la diversità delle professioni di fede e la molteplicità delle persone che accedono a Sion.

«La città di Dio»
Il secondo elemento e secondo punto cardinale presente all’interno di questi due versetti (vv. 2-3) del Salmo è il seguente: il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe, ossia tutte le case, tutte le città della Terra Santa. Inoltre: Di Te si dicono cose gloriose, ‘ir ’elohîm, “città di Dio”, che potrebbe tradursi come città divina. Tra l’altro, si parla delle porte di Sion, e qui il termine porte è ovviamente una metonimia per rappresentare la totalità, ossia le porte e tutto ciò che sta all’interno della porta stessa. Quando Cristo dice: Io sono la porta delle pecore, in un certo senso fa riferimento alla porta del Tempio, quasi dicesse Io sono il nuovo Tempio. Tra l’altro, ricordiamo che la parola Babilonia – Babilu in accadico – ha assunto un significato generico in base a un’etimologia di taglio popolare, ossia luogo della confusione, giocando sull’assonanza col verbo ebraico balal che vuol dire “confondere”. In verità, in lingua accadica si tratta dell’espressione bab ilu, dove bab sta per porta, come in arabo e ilu, il, el, ’elohîm è Dio. Quindi, il suo vero significato è “porta di Dio”, di qui “la città di Dio”, ‘ir ’elohîm.
Con tale termine di solito si esalta una città gloriosa e santa. Ed ecco allora il secondo punto: la città. Non soltanto il tempio in quanto tale, ma tutta la città che nel suo grembo accoglie appunto il tempio. E si va anche oltre, dicendo che l’Altissimo la tiene salda e la rende compatta. Qui abbiamo un’altra componente che vorrei ricordare. Si tratta della teologia legata alla città di Sion, una teologia che paradossalmente è stata in seguito studiata in maniera molto più sofisticata dall’antropologia culturale, ma già presente, ad esempio, nel Salmo 46. Perciò, era già stata idealmente intuita e concepita da Israele. Una delle tesi fondamentali del famoso studioso di storia delle religioni, Mircea Eliade, è quella secondo cui l’organizzazione dello spazio viene fatta dall’uomo primitivo attraverso la costituzione di un centro, ossia il perno attorno al quale ruota tutto l’essere. Ebbene, l’umanità delle origini antiche pone al centro – anche con lo sviluppo della cultura – l’area templare e l’area palatina, quindi il tempio e il palazzo del re. Si tratta del cuore che tiene insieme non soltanto la città, ma il mondo intero che, altrimenti, si sfalderebbe. Infatti, il Salmo 46 rappresenta il mondo che si sta sgretolando in una sorta di “de-creazione”. L’unica a rimanere salda è, invece, Gerusalemme, fondata sulla roccia, come appunto si diceva prima. E tutto questo grazie a due presenze: quella di Dio all’interno del tempio e, quindi, nello spazio e la presenza della divinità nel tempo e, quindi, nella storia attraverso il palazzo reale, dimora della dinastia di Davide. Essa costituisce la sequenza verticale, diacronica lungo i secoli e rappresenterà poi anche la dimensione messianica. Pertanto, Gerusalemme diviene il grembo di questa duplice presenza divina su cui torneremo.
A questo punto, vorrei ricordare un bellissimo aforisma rabbinico che descrive tale universo organizzato in un centro, e lo fa con originalità poetica ispirandosi alla struttura dell’occhio. Il mondo, dice, è come l’occhio: il mare è il bianco dell’occhio, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla, mentre l’immagine in essa riflessa è il Tempio.

La mappa universale di Sion
Affrontando il terzo punto cardinale della nostra riflessione, entriamo proprio nel tema fondamentale che, però, era necessario preparare prima illustrando altri punti fondamentali. Parliamo dell’universalismo. Se è vero che Sion, la città che ha al suo interno il Tempio, quindi una presenza spaziale e storica, è il cuore, il centro del mondo, allora è chiaro che tutti i popoli, ossia l’intera mappa geopolitica, vi devono convergere. Ed ecco allora le parole del poeta ebreo che fa poesia ricorrendo a una sorta di toponomastica dal significato particolare, anche se per il lettore occidentale, probabilmente, dice poco o nulla. Attenzione ai nomi adesso, perché si tratta di una sequenza: Iscriverò Rahab e Babilonia fra quelli che mi riconoscono, dice il Signore. Ecco Filistea, Tiro ed Etiopia, là costui è nato (v. 4). Che significa tutto ciò? Per ora lasciamo l’ultima frase che riprenderemo più tardi e guardiamo questa mappa. Prima di tutto Rahab, che era diventato un mostro acquatico nell’ambito della tradizione mitologica biblica, ma che era anche il termine con cui si definiva l’Egitto, ossia la superpotenza dell’Occidente di allora. Ecco, subito dopo, il termine Babel, Babilonia, che invece era la superpotenza orientale. Perciò, da una parte l’Ovest, dall’altra l’Est. Si passa poi al centro, dove è il poeta, che chiama quest’area Filistea, Pelishtim, cioè la Palestina, un vocabolo, quest’ultimo, che nasce dalla trascrizione del termine “filisteo”. Quindi prosegue citando Sur, la città di Tiro che è in Fenicia e che rappresenta il Nord. Infine, Cush, cioè l’Etiopia, che è il Sud.
Sono stati scelti cinque toponimi per costruire la mappa planetaria di quel tempo quasi per dire che tutti, in fondo, sono nati a Gerusalemme e in questa città hanno la loro sorgente. Detto in altri termini, il poeta ebreo ricorda che queste grandi potenze che incutevano rispetto e timore – l’occidentale e l’orientale, la commerciale di Tiro e, infine, quella che forniva materie prime, cioè l’Etiopia – insomma tutti questi importanti paesi, tutti questi popoli forti e potenti convergono verso Sion, anzi sono retti da un cuore che è la Città Santa, la città di Dio, Gerusalemme.
Questo tema andrebbe commentato con un cantico stupendo, opera del profeta considerato una specie di Dante della letteratura ebraica, cioè Isaia. E proprio nel capitolo 2 del suo libro, questo grande profeta immagina che su tutta la terra si stenda una sorta di coltre oscura, un sudario di tenebra. Solo un monte è illuminato, quasi fosse una sorta di grande asse. Ed ecco che tutti i popoli della Terra cominciano a muoversi verso quel punto cardinale. Da quella città, che è Sion, esce la Parola di Dio personificata. Essa va incontro ai popoli che vengono da ogni luogo e, una volta giunti a Gerusalemme – è, questa, la grande intuizione dello shalom, della pace messianica – lasciano cadere dalle loro mani spade e lance che verranno trasformate in aratri e falci per lavorare la terra e produrre frutti. Così, la guerra finirà per sempre e la pace regnerà come strumento di benessere tra i popoli i quali ormai si stringono la mano. E come suggello, Isaia lancia un appello finale alla casa di Giacobbe perché non resti indietro in questa grande processione dei popoli.
Una stupenda visione, senz’altro, ma, nell’avviarmi verso il quarto e ultimo punto cardinale, vorrei ricordare che in questa rappresentazione, comprendente al suo interno non solo Gerusalemme con il Tempio, ma anche l’intero cosmo, si ha un’altra possibilità di epifania divina, di teofania. Dio, infatti, non si presenta soltanto in Gerusalemme ove, come si legge in I Re 8, nella preghiera di consacrazione del Tempio, shemî sham, ossia “là è il mio nome”, là è la mia presenza. C’è qualcosa di più: tutto l’universo diventa Tempio, un’intuizione, questa, che viene modulata sul fatto che Gerusalemme santifica tutto lo spazio e lo consacra. Il Salmo 148 è particolarmente significativo nel presentare un corale Alleluia, voce verbale ebraica dell’imperativo, ’hallelû-Jah, che vuol dire “lodate il Signore”. Un alleluia corale che è intonato da ventidue o ventitré creature. Ci si aspetterebbe ventuno, cioè tre per sette, dato che il sette è il numero della pienezza. Perché, invece, ventidue (o ventitré, a causa di una ripetizione). E qui la risposta è, per certi versi, addirittura folgorante: ventidue o ventitré sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Quindi, tutte le realtà che vengono denominate con l’alfabeto costituiscono idealmente una lode a Dio. E l’uomo è grande all’interno della creazione. Un Salmo bellissimo, il 148, con il semplice ricorso all’elencazione la quale diventa un modo per esaltare il Tempio cosmico universale. I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia il firmamento, come canta il Salmo 19, il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Anche qui c’è una sorta di rivelazione cosmica, che si associa alla rivelazione che risuona in Sion attraverso la Torah.
La tradizione cabalistica medievale, dal canto suo, ha portato avanti la riflessione, cercando di risolvere la famosa antinomia tra infinito e spazio. Dio è infinito per definizione, ma il cosmo, che noi consideriamo infinito, non partecipa pienamente dell’infinito di Dio, perché Dio è oltre il cosmo stesso. Esiste un canto cabalistico medievale, di cui vorrei leggere la strofa principale, che va oltre Sion, oltre il Tempio cosmico universale, e tenta di interrogarsi su questo mistero lasciandolo in sospeso mediante un gioco di parole ebraiche. Maqom in ebraico vuol dire “luogo”, e di solito è il luogo per eccellenza, il luogo santo, quindi il Tempio. Il canto medievale dice: wehû hammaqôm shel maqôm we’en lammaqôm meqomô, che vuol dire: “Egli è il luogo” (wehû hammaqôm). Dio è il luogo che assorbe tutti i luoghi. Subito dopo si aggiunge shel maqôm, il luogo “di ogni luogo”, e we’en lammaqôm meqomô, che significa “questo luogo non ha luoghi”. L’intuizione sta nel concepire Dio come il “luogo” per eccellenza, che comprende e consacra tutti i luoghi ma, essendo infinito, Dio non è “luogo”.

«Sono in te tutte le mie sorgenti!»
Ed eccoci ora all’ultimo punto cardinale che è poi la conclusione di tutto il nostro discorso. Come si può osservare, ci siamo mossi continuamente attorno a una serie di elementi annodati tra loro: il Tempio, la città, l’universo, come un tutto compatto. Noi sappiamo, però, che Sion è, sì, un tempio, quindi uno spazio, espresso attraverso un’architettura, una città globale, ma è anche una presenza viva, che non è solo quella di Dio. Sono presenza viva anche gli uomini e le donne, per questo il Salmo si interroga sull’umanità, ossia sui “cittadini del mondo”, per indicare un autentico universalismo. Infatti, se è vero che Gerusalemme è il cuore, il centro che tiene insieme tutto, essere cittadini di Gerusalemme vuol dire anche essere cittadini del mondo.
Ecco, allora, le parole del poeta che enumera Rahab, Babilonia, Filistea, Tiro, Etiopia. Là costui è nato. Si dirà di Sion: «L’uno e l’altro in essa sono nati». E ancora: Il Signore registrerà nel libro dei popoli: «Là costui è nato». Come si vede, è una marcata ripetizione, che in ebraico suona così: jullad sham / jullad bah, “Là e in essa siamo nati tutti”. Ed è veramente suggestiva quell’immagine di Dio visto quasi come il “sindaco” della città universale di Gerusalemme, che sembra avere davanti a sé l’anagrafe, il libro nel quale registra tutti i popoli della terra, non soltanto gli ebrei, ma il popolo di Cush, cioè gli etiopi, perfino il nemico Babel, perché tutti sono nati lì in Sion. Là ha sede la loro terra. Ed è questa, direi, l’ultima coordinata della straordinaria lettura di Gerusalemme che viene fatta dal Salmo 87.
Pertanto, Gerusalemme, – anche se ciò ha poche probabilità politiche di riuscita – dovrebbe tornare a essere una città internazionale, non appartenente esclusivamente a un solo popolo, perché questo è, in un certo senso, fondamentale nella stessa teologia di Sion. Essa è la città di cui tutti si devono sentire cittadini, in cui tutti devono ritrovare la propria residenza; in Sion tutti hanno una sorta di cittadinanza nativa, anche se poi ciascuno ha la propria cultura. Non si deve dimenticare che, per molti versi, Gerusalemme nella storia è stata a lungo un punto di riferimento e di accoglienza dove convergevano le popolazioni più varie che, però, ritrovavano idealmente lì la loro identità. A Gerusalemme, tenendo conto delle diverse liturgie che vi hanno luogo e delle varie componenti culturali che la città abbraccia, si registrano e si usano almeno dodici alfabeti differenti. Di conseguenza, Gerusalemme, anche in questo caso, rappresenterebbe proprio il convergere vitale di tutti i popoli che ritrovano nella spiritualità di questa città la loro matrice.
Come suggello al percorso che ho proposto, vorrei concludere con una riflessione sul fatto che il cristianesimo tende progressivamente a relativizzare lo spazio di Gerusalemme, soprattutto quell’area fondamentale che è il Tempio. Il cristianesimo, infatti, comincia a far capire che, se si vuole scoprire la vera anima di Gerusalemme, non la si deve più ridurre a un puro e semplice spazio e al possesso di una particella di terra, come purtroppo avviene ancora ai nostri giorni. E qui è spontaneo pensare alla suddivisione del Santo Sepolcro in particelle di spazio, dovuta a ragioni di presenza di ciascuna confessione cristiana. Ma ciò che è più importante è riuscire a rendere vivo tale spazio, a farne la presenza vitale di una realtà trascendente, come la stessa figura di Cristo dimostra senza alcuna astrazione. Come è noto dai Vangeli, Cristo ama e frequenta il tempio di Erode. Tuttavia, nel celebre prologo di Giovanni – ed è, questo, un elemento non immediatamente decifrabile all’interno del testo greco – si dice che il Verbo, ossia il Logos eterno e infinito, pose la sua tenda in mezzo a noi (1,14). E si tratta della tenda della carne, cioè il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi. E la tenda è per eccellenza il Tempio che, però, nella visione cristiana, è fatto di carne, cioè è una persona che reca in sé la presenza suprema del divino, ossia Gesù Cristo. Il Tempio, in un certo modo, viene relativizzato: Cristo stesso dichiara che se sarà distrutto, in soli tre giorni egli lo farà risorgere. Giovanni nota, ovviamente, che Gesù intendeva parlare del suo corpo che risorge vincendo la morte. Ebbene, nel testo greco di Giovanni 1,14 si usa il verbo skenoún e il termine skené indica la tenda, perciò eskénosen strettamente parlando vuol dire “ha piantato la sua tenda” in mezzo a noi. Si potrebbe addirittura cogliere una certa assonanza con la parola fondamentale con la quale gli ebrei definivano la presenza di Dio nel tempio: la shekinà, ove si ha la radicale s-k-n corrispondente alle lettere greche ?, sigma, ?, kappa e ?, ni di skené, “tenda”. In ebraico, invece: shin, kaf, nun. Le stesse consonanti, la stessa radicale per assonanza, pur essendo diverse semanticamente tra loro: una vuol dire “presenza”, l’altra “tenda”. Il prologo di Giovanni afferma, così, che ormai il Tempio è divenuto la persona di Cristo. E Gesù stesso dirà alla samaritana: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre… Ma viene l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Giovanni, 4, 21-23).
Ecco, ancora una volta appare il bisogno di trasferire e trasformare quelle pietre da cui siamo partiti, ossia quella città concreta, in un simbolo, in un segno che rappresenta Dio stesso in mezzo a noi, cioè l’Incarnazione. Vorrei qui ricordare l’impressionante e grandiosa scena finale del libro dell’Apocalisse. L’apostolo Giovanni s’affaccia su una nuova e perfetta Gerusalemme, divenuta ormai città celeste. Egli la guarda e scopre una realtà sorprendente: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22). Ma al di là di questa suggestiva immagine simbolica di Sion, Gerusalemme deve tornare a essere un segno concreto da custodire, deve essere soprattutto un segno dell’umanità che avverte in sé la presenza di Dio. Quindi, Gerusalemme è la nostra patria, non già come terra in cui siamo nati, ma come luogo delle nostre profonde origini spirituali, come dice il Salmo 87: «Sono in te tutte le mie sorgenti».
Una volta, da giovane, prendendo parte a lavori di scavo archeologico nel Vicino Oriente, ebbi occasione di ascoltare un archeologo scozzese, che aveva scavato il cosiddetto Colle dell’Ophel, dove sorgeva la città di Davide. Quel lavoro di scavo mirava a scoprire qualche traccia del tempio di Salomone. L’archeologo mi raccontava un fatto curioso: i suoi genitori erano contadini e non erano mai stati neppure a Londra, se non forse quando si erano sposati. La domenica, però, quando entravano nel tempio presbiteriano per cantare inni, quando intonavano i Salmi di Sion, lo facevano con tanta gioia e amore come se la città di Sion la conoscessero bene, quasi fosse la loro patria, proprio perché avevano capito che quella Gerusalemme non era puramente geografica, era ormai diventata un simbolo. E qui, secondo questa forte simbologia, Gerusalemme rimane un grande segno della storia dell’umanità, nelle sue gioie e nei suoi dolori, per questo essa è, sì, gloriosa, ma anche striata di sangue.
Desidero, allora, concludere attingendo di nuovo alla tradizione ebraica, sulla base di un testo rabbinico. Dio sta creando il mondo, gli angeli gli si avvicinano. Su un vassoio il primo angelo regge dieci porzioni di bellezza, ossia la bellezza dell’universo. Dio prende nove porzioni di bellezza e li assegna a Gerusalemme, mentre una sola porzione di bellezza viene destinata al resto del mondo. Il secondo angelo porta un vassoio con dieci porzioni di sapienza e di conoscenza. Dio prende nove porzioni di sapienza e le assegna a Gerusalemme, che è per eccellenza la terra della voce dei profeti, mentre una sola al resto del mondo. E così via. Finché arriva l’ultimo angelo che è cupo, vestito di scuro, anch’egli con un vassoio sul quale, però, ci sono dieci porzioni di dolore, di sofferenza, di pianto, di lacrime. E in questo caso ci si aspetterebbe un ribaltamento dell’equazione nove a uno. E, invece, il testo rabbinico dice che Dio dette nove porzioni di dolore a Gerusalemme e una sola al resto del mondo, proprio perché Gerusalemme deve rappresentare, in ogni situazione, il respiro pieno dell’umanità.

LE SFIDE DELLA VITA RELIGIOSA NELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE (Superiore Generale della Società San Paolo)

http://www.zenit.org/article-32285?l=italian

LE SFIDE DELLA VITA RELIGIOSA NELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

Intervista al superiore generale della Società San Paolo, padre Silvio Sassi

di José Antonio Varela Vidal

ROMA, mercoledì, 29 agosto 2012 (ZENIT.org) – In vista dell’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione, in programma dal 7 al 28 ottobre prossimi, ZENIT ha intervistato padre Silvio Sassi, superiore generale della Società San Paolo, più nota come i “Paolini”.
Fondati dal Beato Giacomo Alberione quasi un secolo fa, i Paolini vengono considerati dei veri e propri “pionieri” nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa, con lo scopo di umanizzare e di evangelizzare gli uomini e le donne di oggi.
Come la vostra congregazione ha accolto la chiamata del Papa alla Nuova Evangelizzazione?
Padre Sassi: Certamente, per la Società San Paolo il tema della nuova evangelizzazione non è qualcosa di sorprendente. Infatti già alla nascita della congregazione nel 1914, il beato Giacomo Alberione, nostro fondatore, volle fare qualcosa di nuovo nella Chiesa per l’evangelizzazione. Tenendo presente che all’inizio del XX secolo le masse si allontanavano progressivamente dalla Chiesa, la sua preoccupazione fu quella di portare il Vangelo, non rimanendo in chiesa ad aspettare la gente, ma andando direttamente dove la gente viveva. Non ci stupisce che in un suo scritto del 1926, il fondatore parla della necessità di una “nuova, lunga e profonda evangelizzazione”. Di conseguenza, “nuova evangelizzazione” non è un vocabolo sconosciuto per noi Paolini, perché è la ragione della nascita del nostro carisma.
Avete anche idea di come vada trasmesso il messaggio agli uomini di oggi?
Padre Sassi: Nel documento di Puebla (1979) l’episcopato latino-americano afferma che: “L’evangelizzazione, annuncio del Regno, è comunicazione”. Oggi, per approfondire questa certezza bisogna tenere conto di tutti gli elementi di una comunicazione, non soltanto del messaggio, che è solo una parte di questo processo. A volte si ha l’impressione che quando si afferma che il messaggio – Cristo ieri, oggi e sempre – è sempre lo stesso: si vuole giustamente riaffermare qualcosa di immutabile nei contenuti della fede. Tuttavia bisogna preoccuparsi anche delle persone alle quali si propongono questi contenuti che cambiano nel tempo. Credo che, come Chiesa, dovremmo preoccuparci dei significati che le persone che vogliamo raggiungere, soprattutto i cosiddetti “lontani”, attribuiscono al messaggio in quanto tale.
Come si può farlo, specialmente in Europa?
Padre Sassi: Nell’Europa occidentale è cambiato lo stile di vita, che in qualche modo era anche il sostegno dello stile dell’evangelizzazione. Era facile dare per scontato che i valori cristiani fossero anche valori umani della società civile. Da tempo ci troviamo in un processo di autonomia delle persone e delle società nei confronti, dei valori cristiani. Credo che uno degli scopi di una nuova evangelizzazione sia un’intesa comune sulle parole della proposta di fede. San Paolo nella sua predicazione sa essere “progressivo”, senza voler dire tutto e subito: “Non vi ho detto tutto, vi parlo ancora come si fa a dei bambini”.
Quindi?
Padre Sassi: Non possiamo immaginare l’evangelizzazione subito nel momento pieno del suo annunzio quando è completa ed esplicita: dogma-morale-culto. Vi è un processo di preparazione o pre-evangelizzazione, che forse necessita un incontro preliminare di significati, per mettersi d’accordo su valori umani che possono sfociare nella fede. Il beato Giacomo Alberione ha sintetizzato la strategia di una pre-evangelizzazione con la comunicazione mediale, ispirandosi a San Paolo, affermando: “Non è necessario parlare solo di fede, ma di tutto cristianamente”.
Quali sono le caratteristiche dei religiosi, di cui ha bisogno oggi la nuova evangelizzazione?
Padre Sassi: Mi limito a parlare dei religiosi che si servono a tempo pieno dei mezzi di comunicazione per evangelizzare. Anche per la testimonianza della fede con la comunicazione occorre la coerenza: non si può essere “attori” nell’evangelizzazione. Le persone che entrano in contatto con i nostri “prodotti di comunicazione” si accorgono di che cosa stiamo parlando e come stiamo parlando loro. Il pubblico si rende subito conto se un prodotto di comunicazione è frutto di attori mercenari o di testimoni che stanno attingendo alla loro esperienza ciò che propongono agli altri. Credo che la migliore definizione del testimone cristiano nella comunicazione sia quella che ci ha dato il beato Alberione, quando, dando origine ad una Congregazione per l’editoria, spiegava la derivazione latina dell’opera di “editare”: trarre fuori da sé per dare agli altri. Non commercio né di idee né di cose sacre, ma “racconto” di ciò che si vive.
Stiamo per celebrare il 50° del Vaticano II. Come ha vissuto la vostra congregazione gli anni “dopo-Concilio”?
Padre Sassi: Il nostro fondatore ha partecipato al Concilio Vaticano II. Quando alla fine del 1963 viene approvato il decreto conciliare sui mezzi di comunicazione sociale (Inter mirifica), don Alberione scrive un commento commosso perché vede l’approvazione conciliare di una forma di evangelizzazione che egli, guidato dallo Spirito e con l’esplicita approvazione della Chiesa, aveva iniziato nel 1914. La gioia del fondatore, dopo tanti anni, è spiegabile anche per il fatto che per riuscire a far accettare l’idea che una Congregazione clericale non assumesse il ministero parrocchiale, ma esercitasse il suo sacerdozio “con la comunicazione”, non incontrava solo sostenitori. La Provvidenza ha voluto che le esitazioni fossero superate grazie all’intervento diretto dei Papi.
Allora?
Padre Sassi: Per noi, raccogliendo l’eredità del fondatore, da una parte ci è di sostegno il fatto che attualmente è mentalità comune nella Chiesa che si debba porre anche la comunicazione al servizio dell’evangelizzazione, dall’altra siamo stimolati dall’esempio del beato Alberione per restare “pionieri” in questa missione, sapendo che la comunicazione è in continua evoluzione, soprattutto con lo stimolo della comunicazione digitale.
Come va lo sviluppo della sua congregazione?
Padre Sassi: Parlando dei membri della Congregazione, attualmente siamo 970, di cui 546 sacerdoti e 230 fratelli perpetui ai quali si devono aggiungere i professi temporanei. A livello numerico, costatiamo alcuni fenomeni che sono uguali, quasi, per tutte le Congregazioni. La Congregazione non vive in una situazione di panico dicendo siamo pochi o siamo tanti. Siamo quelli che il Signore vorrà per la sua missione. Operiamo in 34 nazioni e vi è l’impegno di nuove presenze: Bolivia, Uruguay, Paraguay, Angola, Cuba, Nuova Zelanda, nazioni di lingua inglese in Africa, eccetera. La missione mantiene giovane il carisma!
Davanti alla sfida della nuova evangelizzazione, quale è il suo messaggio per i lettori di ZENIT?
Padre Sassi: Poiché il futuro della comunicazione è la ‘rete’, dobbiamo sentire rivolto a tutta la Chiesa lo stesso invito che il macedone fa in sogno a Paolo: “Passa da noi in Macedonia”. Se non è la ‘rete’ che formula questa supplica, dovrebbe essere la creatività della fede missionaria della Chiesa ad immaginarla.

Martirio di San Giovanni Battista

Martirio di San Giovanni Battista dans immagini sacre the_martyrdom_of_st_john_the_b

http://www.copia-di-arte.com/a/spinello-or-spinelli-aret/themartyrdomofstjohntheba.html

 

 

Publié dans:immagini sacre |on 29 août, 2012 |Pas de commentaires »
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