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Il tesoro nel campo

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Publié dans:immagini sacre |on 24 juillet, 2020 |Pas de commentaires »

XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (26/07/2020)

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Il tesoro del regno nel campo dell’uomo
don Luca Garbinetto

XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (26/07/2020)

L’evangelista Matteo si presenta: egli è uno “scriba divenuto discepolo del regno dei cieli” (v. 52). Non che “Levi, il figlio di Alfeo” (Mc 2,14), fosse un esperto della Legge per professione; sappiamo infatti che era un pubblicano, dunque ben attivo in un mestiere poco consono con le esigenze della Legge. Ma doveva essere certamente un trascinatore, vista la folla di gente che raggruppa in casa sua per il banchetto che celebra l’inizio dell’amicizia con Gesù (cfr. Mt 9, 10-13). E come buon giudeo, conosceva la Sacra Scrittura. In questo senso era uno scriba, appunto, famigliare con l’attesa del Messia. Non a caso il suo vangelo è intessuto di citazioni dell’Antico Testamento, a dimostrare che proprio questo Gesù porta a compimento le promesse dei profeti.
Matteo, però, è soprattutto divenuto discepolo, proprio di questo Gesù. Perché il regno dei cieli è Gesù. E dal tesoro dello scriba Matteo estrae propriamente la conferma di un passato di attese e lo stupore di un presente di novità. Perché Gesù è un Messia inedito, sorprendente. Matteo lo sa bene, egli che da pubblicano peccatore, escluso dal godimento del tesoro, è stato invece immerso nel cuore di tanta grazia proprio a partire dall’incontro con il Signore.
Le parabole del regno che Matteo racconta si comprendono meglio a partire da qui, dalla sua esperienza di uomo. Ed è la sua esperienza, forse così simile alla nostra, a sintonizzarci con la bellezza della Parola. Anche noi, infatti, come lui, possiamo riconoscerci in qualche modo avvezzi (o per lo meno famigliari) alle cose di religione, ai discorsi sulla Chiesa, alle pratiche e alle abitudini della Legge tramandate dai nostri nonni. Forse i più giovani ne hanno perduto il senso e magari pure qualche alfabetizzazione minima, giacché non è più così comune entrare in una chiesa per una liturgia o – meno ancora – dedicare qualche minuto a leggere la Parola di Dio ogni giorno. Ma un certo senso di sintonia con l’immagine del Dio creatore e provvidente la sentiamo quasi tutti, al punto da innervosirci se le cose del mondo a volte sembrano così malandate da sfuggire di mano persino al Dio che abbiamo in testa.
Noi però, oggi, ci troviamo davanti alla possibilità, come Matteo, di essere scaraventati oltre le nostre idee e le nostre attese su Dio. La condizione ‘sine qua non’ (cioè necessaria) è quella di riconoscere che, un po’ per caso mentre approfondiamo qualche aspetto della vita, un po’ come risposta alla nostra ricerca di felicità, una sorpresa irrompe nella nostra esistenza. È il tesoro sepolto nel campo, è la perla preziosa ricercata dal mercante (cfr. vv. 44-46). Gesù è il tesoro, la perla: il regno dei cieli, appunto. Non un’astrazione o un nuovo decalogo di comportamenti buoni da rispettare, ma una persona, una relazione. A Matteo capita di incontrare un volto; anzi, di essere cercato e incontrato dal volto di Gesù, dai suoi occhi e dalla sua voce che lo chiama per nome.
Anche noi possiamo vivere questa esperienza. “Seguimi” (Mt 9,9) è stato l’invito del Signore: per diventare discepoli, bisogna mettersi in cammino sulle tracce del Maestro. Matteo lo ha fatto, e possiamo credere che sia stato un cammino duro e impegnativo, ma affascinante, culminato con la Pasqua di morte e resurrezione, dove si è compiuta la selezione finale tra le motivazioni buone e i desideri insani di chi stava sulle tracce di Gesù. Una specie di giudizio finale, dove i pesci buoni e quelli cattivi si dividono (cfr. vv. 48-49) davanti al dramma che si fa mistero, davanti alla sconfitta che diventa novità, davanti alla morte su cui vince la vita risorta.
Ebbene, per entrare nella logica del regno, dopo l’incontro, che fa trasalire di gioia per la meraviglia inattesa di un valore incalcolabile, è necessario mettersi per strada, anche nel via vai ordinario della folla. È l’immagine del campo, dove è sepolto il tesoro, e che è doveroso acquistare per poter avere il tesoro. Lo sappiamo: nelle altre parabole i campi sono luogo della semina, sono terreno dove cade la Parola, sono insomma simbolo del mondo e soprattutto della persona e della propria vita da vivere. Ma prima di tutto donata. Succede proprio questo: per accogliere il tesoro e goderlo nella pienezza della gioia, è necessario vendere il superfluo e prendere l’essenziale, che è se stessi, la propria persona così com’è, il proprio campo.
Matteo lo fa, riconoscendo il proprio passato sbagliato, ma mettendo anche a servizio i propri talenti. Possiamo pure noi: la parabola ci dice che quanto vi è di più prezioso nel regno dei cieli lo si trova accogliendo con gratitudine ciò che lo contiene, il campo, appunto, cioè la nostra esistenza, che è già di suo (proprio come scrigno del tesoro) un dono inestimabile. Prendiamo tutto, anche quanto potrebbe sembrare solo cattivo, come i pesci nella rete, oppure (lo ricordiamo) la zizzania in mezzo al grano. L’importante è non limitarsi a trattenere quello che siamo, a presumere di possederci, restando al guscio dell’ostrica: la perla sta dentro! Il tesoro sta sotto! Il terreno, insomma, va ancora scavato, aperto, per estrarre fra le cose antiche la preziosità della presenza del Signore.
Non cerchiamo altrove, allora, l’incontro con Gesù. Sta dentro di noi, in una cura paziente e coraggiosa della nostra interiorità. Ma non cerchiamolo nemmeno in maniera intimistica, come per richiuderlo nei meandri delle nostre rimuginazioni. L’incontro con Gesù apre all’altro, al dono, perché Egli è un seme che, morendo, dà vita e porta molto frutto. E dei frutti dovranno godere gli altri, che stanno presi nella stessa rete di amore. Non importa se siano pesci buoni o pesci cattivi: la distinzione spetta, a tempo dovuto, agli angeli. Che sono servi e messaggeri di un Dio di misericordia.

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il grano e la zizzania

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 18 juillet, 2020 |Pas de commentaires »

XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (19/07/2020)

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XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (19/07/2020)

Il buon grano è minacciato
don Mario Simula

Dio ha un modo originale per rivelarsi all’uomo. Manifesta tutta la sua forza e la sua potenza, diventando indulgente con tutti. Non ha paura del male. Sa di poterlo sempre sconfiggere ed esercita su di noi un giudizio mite, ci guarda con uno sguardo misericordioso.
Se sbagliamo, Dio semina nel nostro cuore la grazia del pentimento e del dolore per i nostri sbagli, riconducendoci sempre al suo amore.
Dio è “la pazienza”. Questa la sua forza.
Noi siamo abituati a pensarlo vendicativo e intollerante. Forse perché gli attribuiamo il nostro modo di essere. Dio invece è paziente e misericordioso, lento all’ira e grande nell’amore. E’ il Signore delle nostre esistenze e ci dona beni squisiti, affidandoli alla nostra debolezza.
A Dio non fa paura la nostra debolezza. Quando la incontra si esalta tutta la sua potenza.
Ci fa comprendere che il limite non deve spaventarci.
Il nostro limite conduce Dio accanto a noi, ce lo rende vicino. Lui ci insegna ad accogliere il limite con umiltà. Mentre noi siamo deboli, Dio fa trionfare la sua potenza, fa scendere la Luce confortante del suo amore “senza limiti”.
Dobbiamo imparare a parlare con Dio della nostra vulnerabilità.
Spesso la nostra preghiera è impacciata, fragile, insicura, impura. Parla di tutto fuorché di quello che veramente siamo:
creature povere. Lo Spirito ci viene in aiuto e prega in noi con gemiti inesprimibili e ci aiuta a pregare secondo i suoi desideri.
Oggi gli domandiamo di aiutarci a comprendere chi siamo veramente, entrando dentro il linguaggio di Gesù in parabole.
Questo stile di comunicazione del Maestro è commovente, se pensiamo che la parabola confonde i dotti ed è parola chiara per gli umili e i poveri. Dovremmo desiderare fortemente di essere queste creature semplici che davanti alle narrazioni di Gesù, si incantano perché comprendono il suo insegnamento profondo.
Anche oggi Gesù ci parla in parabole. Sediamoci ai suoi piedi e ascoltiamo col cuore docile.
Cosa scopriremo oggi nel racconto del buon grano e della zizzania? Scopriremo proprio il Dio paziente. Dio che non reagisce d’impulso davanti al male.
Dio che sa attendere. Dio conosce i tempi per discernere il bene e il male.
Era bella la semente gettata a piene mani nel campo arato con cura. Avrebbe fruttato una quantità generosissima di grano.
Ma il nemico, credendosi intelligente e forte, cerca di inquinarlo con la zizzania.
Noi siamo come gli operai di quel padrone i quali, davanti a un disastro così grande, corrono da lui per manifestare il loro sdegno e il loro zelo: “Strappiamo la zizzania e così bonifichiamo il campo”. Non è difficile comprendere che queste parole manifestano la nostra fretta, l’impulsività delle nostre reazioni immediate, la nostra mentalità punitiva.
Il padrone del campo rimane sereno. Conosce la sua forza. Conosce la bontà della semente che ha seminato, non si turba, rimane signore degli avvenimenti anche quando sono negativi.
Dice alle nostre comunità: “Aspettate il tempo giusto. Non condannate con frettolosità. Non ricorrete a metodi violenti. Non fate prevalere il vostro istinto. Imparate ad attendere il tempo del raccolto. Allora sarà facile distinguere il buon grano dalla zizzania”.
Il Dio dall’amore incontenibile, ci dà una lezione di umiltà, ci insegna la preziosità dell’attesa, ci invita a non anticipare il tempo del raccolto.
Piuttosto ci raccomanda: “Quando andrete a cogliere il grano e a preparare i covoni, fate attenzione a distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo”.
Il nemico fa tante vittime nelle nostre grandi e piccole comunità. Mette in noi l’erbaccia dell’intervento immediato, dell’attivismo inconcludente. Caschiamo nella trappola della frenesia di “convertire o di punire”.
Abbiamo proprio bisogno di domandare con gemiti inesprimibili allo Spirito, il dono della pazienza per vivere il tempo come grazia, anche davanti al male che vediamo nei racconti di una persona che viene a parlare con noi. Non possiamo essere tassativi, giudici inflessibili. Dobbiamo attendere prima di sentenziare. In quel cuore, insieme agli sbagli, c’è anche tanto buon grano.
Non possiamo fare un unico raccolto condannando senza misericordia. Le comunità che appartengono a Cristo sono di frequente luoghi della condanna, del giudizio e del chiacchiericcio distruttivo. Non danno spazio alla pazienza e alla misericordia fondata sulla verità.
Soltanto un’autentica fiducia nella persona che entra in dialogo con noi può aiutarci a non essere farisei ipocriti, come direbbe Gesù.
Una comunità di credenti sa vigilare su se stessa. Non è sufficiente l’intraprendenza che mette in mostra, per dire che sia sveglia. Se la comunità non vigila sui gesti, sulle scelte e sulle parole è una comunità dormiente. Una comunità a rischio, una comunità che il maligno ha anestetizzato.
Gesù ci mette davanti al suo stile di vita e ci chiede di saper attendere l’ora della grazia che noi stessi abbiamo sperimentato tante volte.
Quest’ora si affaccia nel momento imprevisto. Anche per chiunque viene a trovare in noi luce e consolazione.
C’è da rimanere stupiti del nostro Dio. Della grandezza e della bellezza del suo cuore. Nemmeno il male lo turba. Anche per il male sa trovare la strada della guarigione.
La strada è Gesù donato a noi per il perdono dei peccati.
Non possiamo mai dimenticare che l’unico atteggiamento che sfugge al potere di Dio è l’atteggiamento di chi ha il cuore indurito. Ha le orecchie ma non sente. Ha gli occhi ma non vede. Presta attenzione alle parabole di Gesù, ma le usa contro di Lui e non per trovare i sentieri della conversione del cuore.
Ogni comunità è sotto lo sguardo di Dio che la rincuora con la sua inesauribile pazienza. Però deve lasciarsi riempire i pensieri e i sentimenti dalla Sua dolce accoglienza.
Dobbiamo attendere il tempo del raccolto. L’attesa e la grazia permettono alle nostre comunità di essere alberi di senape cresciuti lentamente fino a diventare alberi per l’accoglienza. L’attesa e la grazia ci permettono di essere buon lievito che fermenta nel segreto tutta la pasta. Chiediamoci se siamo col nostro meraviglioso Iddio, oppure con le nostre facili presunzioni che vedono il male sempre e solo negli altri e non in se stessi.
Mi piace una comunità che sa fermarsi a riflettere sulle parole di Gesù. Le comprende. Se non le comprende se le fa spiegare da Gesù per arrivare a viverle.
Gesù, noi sentiamo che il seme gettato da te dentro le nostre zolle è un seme pronto a morire per far spuntare lo stelo e la spiga matura. E’ come il grembo di una donna che mano mano sente il piccolo germoglio seminato in lei svilupparsi, prendere forma, fiorire, per poi contemplare il sole.
Gesù, capita che nelle nostre comunità si insinui un seme infetto capace di compromettere il raccolto. Tu ci inviti a vigilare.
Ci inviti anche a non avere paura.
Se fosse anche presente la nostra infedeltà, tu, Gesù, ci prometti che al momento del raccolto il tuo buon seme avrà prodotto la spiga matura e sarà salvato.
Il male improduttivo verrà distrutto.
Gesù, attenua le nostre impazienze.
Donaci un cuore mite e umile come il tuo.
Distruggi le intolleranze perché ogni nostra comunità sia casa accogliente, rifugio anche per chi sbaglia, ospedale da campo per chi rimane ferito.
Gesù, rendici protagonisti, assieme a te, dell’avventura del piccolo seme che si fa strada e diventa grande come l’albero di senape, efficace come il buon lievito.
Abbiamo bisogno di te, Gesù. Se tu dovessi restare ai margini delle nostre comunità, il freddo, l’infecondità ci inonderebbero. Ma tu sei con noi. Oggi come ieri. Oggi più di ieri.
Tu sai bene, Gesù, che le insidie che ci circondano sono subdole. Abbiamo bisogno di te. Tu ci sei. Non possiamo avere paura anche quando dobbiamo attendere con pazienza che il nostro cuore di pietra diventi un cuore di carne.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 18 juillet, 2020 |Pas de commentaires »

IL seminatore usci a seminare

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 10 juillet, 2020 |Pas de commentaires »

XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (12/07/2020)

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XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (12/07/2020)

Seme fecondo, raccolto traboccante
don Luca Garbinetto

Ormai è risaputo: Gesù non parla in parabole per rendere le cose più semplici. Certamente, lo comprendono i semplici, che però non sono quelli che si accontentano di poco, bensì coloro che osano le alte cime e rischiano le quote da vertigine. A loro si aprono le orecchie, dopo che sono rimaste tappate nella fatica della salita, per la pressione dell’aria o della folla, e per loro si spalancano orizzonti impensabili, che fanno dilatare gli occhi di stupore e di commozione. Per loro sono le parabole, meravigliosa alchimia di simbolo e realtà, toccante immersione nei “misteri del regno dei cieli” (v. 11), che invece rimangono oscuri a chi si accontenta dei calcoli e delle misure ovvie della vita.
Perché di questo, in fondo, si tratta: di misure… smisurate! A partire dalla parabola del seminatore, anzi, del seme sparso per ogni dove. Si tratta infatti di una delle rare parabole che Gesù stesso spiega ai suoi discepoli – perché tutti odono le parole di Gesù, ma non tutti ascoltano. I discepoli sono coloro che ascoltano, cioè comprendono e provano a mettere in pratica. La parabola spiegata si trasforma quasi in una analogia, un parallelismo tra l’agire di Dio, che semina la Parola nei cuori degli uomini, vari e differenti come i diversi terreni raggiunti dall’agricoltore, e l’operato del contadino. E tuttavia, ci si chiede giustamente: ma se Gesù spiega la parabola, che cosa rimane ancora da capire, da intendere, da scoprire? Dove sta lo stupore?
Sta proprio in fondo. Nell’ultimo versetto, ripetuto praticamente identico due volte: “dà frutto, il cento, il sessanta, il trenta per uno” (v. 8 e v. 23). Espressione che Gesù applica al campo e all’uomo, ma che non spiega. Perché è inspiegabile. È un dato smisurato, è un accumulo di cifre senza misura. Pur in scalare, vi è una sovrabbondanza da restare esterrefatti.
Un buon terreno agricolo, infatti, nel sistema produttivo palestinese dell’epoca di Gesù, quando andava alla grande poteva produrre fino a sei volte tanto quello che era stato seminato. Era un raccolto da far tornare a casa tra i canti di gioia, con i covoni sulle spalle a ricordare antichi salmi di liberazione dall’esilio. Una mietitura abbondante era sempre festa che non si limitava a garanzia di cibo, ma richiamava la fedeltà del Dio liberatore e provvidente. Come una manna nel deserto, insomma.
Ma qui siamo all’eccesso! Gesù parla di un frutto, quando va male, trenta volte maggiore del seminato. E se va tutto per il meglio, arriviamo perfino a cento. Che poi, lo sappiamo, il centuplo non è nemmeno tutto di quanto Egli ha promesso a coloro che si lasciano arare e preparare per la semina della Parola. Insomma, il terreno buono produce a dismisura, in maniera traboccante. È questa l’esuberanza del dono, la meraviglia del regno che si compie, incontenibile. C’è un di più, perfino esagerato, c’è un avanzo che rende inutili nuovi granai, incapaci di contenere lo straripare della grazia. Esce dal tempio e dalla casa, supera le barriere dei cuori. Un cuore buono, come un terreno fecondo, irrompe nella vita di altri cuori, a condividere e a spandere nuovamente ciò che è rimasto, come ceste di pane buono, senza trattenere nulla per sé.
È la logica dell’amore: chi più ne ha, più ne dona, e in questo modo si moltiplica. La ricchezza contenuta nel seme dell’Alleanza antica, fatto di premura e pazienza da parte del Dio della storia verso il proprio popolo, si moltiplica nel nuovo Patto, perché si trasforma in relazione intima, personale, penetrante. La Legge che metteva misure di passi lungo le strade, o limitava il raccolto risparmiando qualcosa per le spigolatrici povere, diventa ora solco scavato nell’interiorità di ciascuno dei discepoli che si lasciano trafiggere dalla lancia della passione. È Lui, infatti, il seme sparso, il Verbo innestato nella terra, e così pure nella ferita della nostra solitudine. Gesù entra dentro le piaghe toccando la profondità della nostra debolezza, e mette radici impossibili da sradicare. È il mistero della Nuova Alleanza, promessa dai profeti, intuita e desiderata dai giusti (cfr. v. 17; cfr. Ger 31,31-33) e finalmente compiuta in noi.
Eccoci, allora, colmi di stupore. Alla fine, l’ultima Parola illumina le restanti. Possiamo restare a lungo a verificare quali siano le magagne dei nostri terreni incolti o duri da lavorare; possiamo spendere tempi infiniti a lamentarci per le nostre miserie e l’incapacità di accogliere fedelmente il dono. Chissà, però, che così facendo non rendiamo ancor più arida la nostra anima, perché troppo preoccupati di sminuzzare da soli erbe buone e zizzania, dimenticandoci del seme gravido di vita che ci è stato riversato gratuitamente nel grembo.
Varrebbe la pena, probabilmente, partire dall’esuberanza del frutto. Che è promessa, che si compie in noi, per opera Sua, per la potenza insita nel seme stesso, per l’efficacia della Parola. Ma, sia chiaro, solo per la nostra coraggiosa ed attiva disponibilità a farci arare continuamente e ad accogliere la semina. Così il nostro terreno, misto e variegato, viene raggiunto nell’immancabile zolla di humus fertile e si trasforma irrimediabilmente in feconda e sovrabbondante produzione di amore.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 10 juillet, 2020 |Pas de commentaires »

Venite a me…

la mia Gesu venite a me

Publié dans:immagini sacre |on 3 juillet, 2020 |Pas de commentaires »
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