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Il tesoro del regno nel campo dell’uomo
don Luca Garbinetto
XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (26/07/2020)
L’evangelista Matteo si presenta: egli è uno “scriba divenuto discepolo del regno dei cieli” (v. 52). Non che “Levi, il figlio di Alfeo” (Mc 2,14), fosse un esperto della Legge per professione; sappiamo infatti che era un pubblicano, dunque ben attivo in un mestiere poco consono con le esigenze della Legge. Ma doveva essere certamente un trascinatore, vista la folla di gente che raggruppa in casa sua per il banchetto che celebra l’inizio dell’amicizia con Gesù (cfr. Mt 9, 10-13). E come buon giudeo, conosceva la Sacra Scrittura. In questo senso era uno scriba, appunto, famigliare con l’attesa del Messia. Non a caso il suo vangelo è intessuto di citazioni dell’Antico Testamento, a dimostrare che proprio questo Gesù porta a compimento le promesse dei profeti.
Matteo, però, è soprattutto divenuto discepolo, proprio di questo Gesù. Perché il regno dei cieli è Gesù. E dal tesoro dello scriba Matteo estrae propriamente la conferma di un passato di attese e lo stupore di un presente di novità. Perché Gesù è un Messia inedito, sorprendente. Matteo lo sa bene, egli che da pubblicano peccatore, escluso dal godimento del tesoro, è stato invece immerso nel cuore di tanta grazia proprio a partire dall’incontro con il Signore.
Le parabole del regno che Matteo racconta si comprendono meglio a partire da qui, dalla sua esperienza di uomo. Ed è la sua esperienza, forse così simile alla nostra, a sintonizzarci con la bellezza della Parola. Anche noi, infatti, come lui, possiamo riconoscerci in qualche modo avvezzi (o per lo meno famigliari) alle cose di religione, ai discorsi sulla Chiesa, alle pratiche e alle abitudini della Legge tramandate dai nostri nonni. Forse i più giovani ne hanno perduto il senso e magari pure qualche alfabetizzazione minima, giacché non è più così comune entrare in una chiesa per una liturgia o – meno ancora – dedicare qualche minuto a leggere la Parola di Dio ogni giorno. Ma un certo senso di sintonia con l’immagine del Dio creatore e provvidente la sentiamo quasi tutti, al punto da innervosirci se le cose del mondo a volte sembrano così malandate da sfuggire di mano persino al Dio che abbiamo in testa.
Noi però, oggi, ci troviamo davanti alla possibilità, come Matteo, di essere scaraventati oltre le nostre idee e le nostre attese su Dio. La condizione ‘sine qua non’ (cioè necessaria) è quella di riconoscere che, un po’ per caso mentre approfondiamo qualche aspetto della vita, un po’ come risposta alla nostra ricerca di felicità, una sorpresa irrompe nella nostra esistenza. È il tesoro sepolto nel campo, è la perla preziosa ricercata dal mercante (cfr. vv. 44-46). Gesù è il tesoro, la perla: il regno dei cieli, appunto. Non un’astrazione o un nuovo decalogo di comportamenti buoni da rispettare, ma una persona, una relazione. A Matteo capita di incontrare un volto; anzi, di essere cercato e incontrato dal volto di Gesù, dai suoi occhi e dalla sua voce che lo chiama per nome.
Anche noi possiamo vivere questa esperienza. “Seguimi” (Mt 9,9) è stato l’invito del Signore: per diventare discepoli, bisogna mettersi in cammino sulle tracce del Maestro. Matteo lo ha fatto, e possiamo credere che sia stato un cammino duro e impegnativo, ma affascinante, culminato con la Pasqua di morte e resurrezione, dove si è compiuta la selezione finale tra le motivazioni buone e i desideri insani di chi stava sulle tracce di Gesù. Una specie di giudizio finale, dove i pesci buoni e quelli cattivi si dividono (cfr. vv. 48-49) davanti al dramma che si fa mistero, davanti alla sconfitta che diventa novità, davanti alla morte su cui vince la vita risorta.
Ebbene, per entrare nella logica del regno, dopo l’incontro, che fa trasalire di gioia per la meraviglia inattesa di un valore incalcolabile, è necessario mettersi per strada, anche nel via vai ordinario della folla. È l’immagine del campo, dove è sepolto il tesoro, e che è doveroso acquistare per poter avere il tesoro. Lo sappiamo: nelle altre parabole i campi sono luogo della semina, sono terreno dove cade la Parola, sono insomma simbolo del mondo e soprattutto della persona e della propria vita da vivere. Ma prima di tutto donata. Succede proprio questo: per accogliere il tesoro e goderlo nella pienezza della gioia, è necessario vendere il superfluo e prendere l’essenziale, che è se stessi, la propria persona così com’è, il proprio campo.
Matteo lo fa, riconoscendo il proprio passato sbagliato, ma mettendo anche a servizio i propri talenti. Possiamo pure noi: la parabola ci dice che quanto vi è di più prezioso nel regno dei cieli lo si trova accogliendo con gratitudine ciò che lo contiene, il campo, appunto, cioè la nostra esistenza, che è già di suo (proprio come scrigno del tesoro) un dono inestimabile. Prendiamo tutto, anche quanto potrebbe sembrare solo cattivo, come i pesci nella rete, oppure (lo ricordiamo) la zizzania in mezzo al grano. L’importante è non limitarsi a trattenere quello che siamo, a presumere di possederci, restando al guscio dell’ostrica: la perla sta dentro! Il tesoro sta sotto! Il terreno, insomma, va ancora scavato, aperto, per estrarre fra le cose antiche la preziosità della presenza del Signore.
Non cerchiamo altrove, allora, l’incontro con Gesù. Sta dentro di noi, in una cura paziente e coraggiosa della nostra interiorità. Ma non cerchiamolo nemmeno in maniera intimistica, come per richiuderlo nei meandri delle nostre rimuginazioni. L’incontro con Gesù apre all’altro, al dono, perché Egli è un seme che, morendo, dà vita e porta molto frutto. E dei frutti dovranno godere gli altri, che stanno presi nella stessa rete di amore. Non importa se siano pesci buoni o pesci cattivi: la distinzione spetta, a tempo dovuto, agli angeli. Che sono servi e messaggeri di un Dio di misericordia.