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PAOLO VI – CELEBRAZIONI DEL 750° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI SAN FRANCESCO – 1976

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PAOLO VI PER LE CELEBRAZIONI DEL 750° ANNIVERSARIO

DELLA MORTE DI SAN FRANCESCO

Mercoledì, 29 settembre 1976

Pace a voi, in Gesù Cristo nostro Signore!

A voi Figli e Figlie di San Francesco, convenuti in Assisi per celebrare insieme presso la tomba del vostro serafico Padre il settecentocinquantesimo anniversario della beata sua morte, e per risvegliare in voi lo spirito della beata sua vita.
Noi abbiamo ricevuto con commossa riconoscenza l’invito a noi rivolto di partecipare a cotesto esaltante e fatidico incontro; ma impediti di corrispondervi con la nostra personale presenza, vogliamo tanto più essere tra voi col nostro spirito mediante questa nostra Benedizione Apostolica.
Sì, Fratelli Ministri Generali e Provinciali delle quattro Famiglie Francescane del primo Ordine, e voi tutte rappresentanti del secondo Ordine, Figlie di Santa Chiara, e voi esponenti del terzo Ordine Francescano, e quanti nel nome di San Francesco siete riuniti per riviverne lo spirito, studiarne la storia, seguirne gli esempi, invocarne la protezione; tutti, sì, siate benedetti!
Benedetti per cotesto raduno commemorativo, che professa un’esemplare fedeltà di memoria e di amore all’incomparabile Santo, che proietta su di voi il suo nome e qualifica la vostra religiosa professione! Benedetti per la fraterna armonia, che codesta convocazione dimostra e conferma fra le vostre diverse ramificazioni dell’unica radice francescana! Benedetti per l’esemplare concordia e per la mutua collaborazione con cui le vostre differenti denominazioni francescane intendono vittoriosamente testimoniare ormai ai vostri rispettivi aderenti, alla santa Chiesa, al mondo la medesima palpitante carità francescana. E benedetti ancora per le sapienti intenzioni spirituali, penitenziali, apostoliche, che hanno mosso i vostri passi a recarvi ad Assisi per aprire insieme le celebrazioni commemorative del vostro antico e sempre ispirante Fondatore.

Gloria, sì, a S. Francesco!
E benedetti voi che ne celebrate la memoria e ne perpetuate l’ardua e gioconda scuola evangelica. Ancora il paradosso della cristiana Povertà, Egli il Poverello, seguace del Signore d’ogni ricchezza che per noi si è fatto povero, ancora, ancora oggi lo presenta e lo attualizza, raddrizzando l’asse della nostra umana mentalità, curva sul primato dei beni temporali, e lo rivolge al regno dei cieli, alla economia della carità, alla dovizia dello spirito (Cfr. 2 Cor. 8, 9). Poi Francesco, libero come uccello che ritrova lo spazio del cielo, veda dall’alto la bellezza innocente delle creature, che non più insidiano, ma sostengono il suo slancio celeste; e tutte egli saluta cantando con amica poesia, grande come il cosmo fratello, umile come ogni cosa terrena sorella. E pellegrino se ne va, e cammina, e sale . . .
E benedetti voi, seguaci della sua ascensione, che arrivate al monte della visione, dove Cristo crocifisso stampa le sue stimmate dolorose e gloriose nel privilegiato contemplante discepolo, ormai emblema della vostra eroica scuola di penitente dolore e di infiammato amore.
Benedetti voi, Figli di così singolare famiglia, che da secoli accompagna appassionatamente la storia sempre più turbinosa e mutevole, e ne tiene il rapido passo, senza stancarsi, senza fermarsi.
«Comprendete la vostra vocazione»! (1 Cor. 1, 26) vivendola ed annunciandola! Voi non rappresentate un ascetismo anacronistico in questo mondo moderno, che aspira come a sommità dello sforzo civilizzatore di convertire le pietre della terra in cibo per l’umana esistenza; ma voi siete gli alunni del Vangelo eterno, affrancati nello spirito per la primaria e da voi preferita ricerca del regno di Dio, da cui ogni necessario e giusto alimento temporale può derivare nell’abbondanza della giustizia e della carità.
Voi benedetti, Figli e Figlie di San Francesco, nell’abbigliamento regale della vostra umiltà e nell’aureola popolare della vostra letizia, ancor oggi saprete discendere in mezzo alle folle del mondo del lavoro e ancora oserete farvi amici i Poveri, i sofferenti, i diseredati, gli orfani, i carcerati, i dispersi nei vicoli marginali degli splendidi ed infelici viali della ricchezza e del piacere. Voi benedetti, evangelisti della Parola di Cristo, voi maestri della sapienza cristiana, voi modelli delle virtù di preghiera e di sacrificio, che fanno santa la Chiesa, difendete il silenzio e l’isolamento dei vostri rifugi conventuali; e poi uscite ancora a salutare e a convertire il mondo annunciando ancora e sempre il vostro «Pace e bene», portando con voi l’immortale San Francesco, con Ia nostra Apostolica Benedizione.

DISCORSO DEL SANTO PADRE PAOLO VI PER L’INAUGURAZIONE DI UNA MOSTRA SU SAN PAOLO

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DISCORSO DEL SANTO PADRE PAOLO VI PER L’INAUGURAZIONE DI UNA MOSTRA SU SAN PAOLO

Sabato, 8 ottobre 1977

Prima ancora di fermare lo sguardo sulla Mostra artistica, che abbiamo davanti, noi dobbiamo rivolgere la nostra attenzione agli Artisti, che ne sono gli autori, e che meritano il nostro riverente, riconoscente e cordiale saluto, anche perché questa è ottima occasione di conoscerli di persona, e la persona primeggia sempre nella scala dei nostri interessi.
A voi, Artisti, autori delle opere che sono qui esposte, il nostro grato e riverente «benvenuto», come si offre a persone, che per la loro qualificante professione, sono nella nostra stima e nella nostra simpatia. Alcuni di voi ci sono già noti per precedenti incontri, o per la rinomanza che circonda l’opera vostra; e noi siamo lieti ed onorati che ci si offra una felice occasione per assicurarvi che l’antica e tradizionale simpatia umanistica, di cui gli Artisti hanno goduto in questa casa di San Pietro, dove l’Ineffabile ha domicilio (Cfr. 1 Petr. 1. 1-5), non è spenta, anzi è rianimata da nostalgico amore e da rinascente amicizia. Anche oggi ve ne è dato argomento; qui voi non siete del tutto forestieri, ma attesi, accolti, compresi anche (non sempre facile cosa!), e sempre con nostra segreta speranza che una nuova epifania di imprevista bellezza abbia una sua rivelatrice aurora.
Dunque, Signori, a voi il nostro omaggio, pieno di riconoscenza e di ammirazione.
Poi il nostro occhio, com’è naturale in un’esposizione d’opere d’arte, si rivolge ai vostri lavori, e ne subisce l’incanto, commosso da un duplice sentimento, di riconoscenza e di ammirazione. Non rinunceremo ad un altro sentimento, quello di critica, istintivo anche in noi che pur non abbiamo pretese di consumata competenza, e che noi rimandiamo al momento più tardo dopo la visione e dopo la riflessione.
Per comprendere questa singolare manifestazione artistica dobbiamo rifarci all’idea che le ha dato origine; idea il cui merito spetta ad un gruppo di amici, molto bravi ed appassionati circa i problemi artistici-spirituali, i quali, a nostra insaputa, si sono proposti d’onorare gli ottanta anni, che abbiamo testé compiuti, invitando appunto ottanta Artisti a concorrere, ciascuno con una propria opera, alla composizione d’una raccolta di lavori, tutti e ciascuno aventi per soggetto San Paolo, con l’intenzione di fare cosa grata alla nostra ottantenne persona, offrendole in venerazione una collezione d’immagini raffiguranti l’Apostolo, del quale, come indegnissimi, ma fedeli cultori, noi, pur senza abdicare in privato il nome battesimale del Precursore Giovanni Battista, sempre da noi veneratissimo, abbiamo assunto il nome per ottenerne la protezione, senza alcuna presunzione di saperne seguire a dovere gli insuperabili esempi; così che dobbiamo noi stessi essere lieti di questa preziosa e originale apoteosi, che voi Artisti, assecondando l’ardita proposta a voi fatta, avete reso all’Apostolo, dottore delle genti (1 Tim. 2, 7), seguace ed emulo e nel martirio, come poi nel culto, socio dell’Apostolo Pietro (Cfr. Gal. 1, 18; 2, 2. 8-9. 14; PRAT, St. Paul, pp. 56 ss.). Sappiamo che l’idea primitiva ha avuto un complemento nel voler illustrare un tema centrale della teologia Paolina quale quello di Cristo Crocifisso e Risorto con opere di altri artisti, di cui alcuni non più viventi.
Anche ai generosi donatori di queste opere vada il nostro più commosso e sincero ringraziamento.
Ed eccoci alla figura di San Paolo, la quale, com’essa doveva, non solo ha ispirato il vostro genio artistico, ma l’ha certamente tormentato. Vero che San Paolo stesso confessa la sua estetica umiltà, e forse il cambiamento stesso del suo nome ebraico, Saul, dalle risonanze maestose, in quello di Paulus, che richiama un concetto di piccolezza; cambiamento che Sant’Agostino pensa si possa attribuire ad un proposito di umiltà di San Paolo stesso: «Non ob aliud hoc nomen elegit, nisi ut se ostenderet parvum, tamquam minimus apostolorum» (S. AUGUSTINI De Spiritu et littera, VII, 12: PL 4, 207). Forse la sua presenza suggeriva questa autodefinizione, ricordando le parole di Paolo relative alla sua persona: «praesentia autem corporis infirma et sermo contemptibilis» (2 Cor. 10. 10).
Si vede che d’intorno a Paolo ferve una polemica che tende a discreditarlo ma che offre a lui l’occasione, per noi fortunata, di fare una propria apologia che ci lascia intravedere una grandezza incomparabile. È una pagina celebre della seconda lettera ai Corinti; essa dovrebbe essere letta e fissata in una precisa ricostruzione storica, di cui gli «Atti degli Apostoli» ci conservano solo fugaci frammenti; basti ora a noi rievocarne qualche frase per comprendere quale sia la statura del «piccolo» Paolo; scoppia la parola sotto la sua penna: «In quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io lo sono. Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una follia: io lo sono più di loro! Molto più nelle fatiche, molto più nelle prigionie, oltre misura di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso giorno e notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli sui fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte dei falsi fratelli, fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese. Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani. Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo .:. fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare . . . Per la grandezza delle rivelazioni mi è stata messa una spina nella carne . . . A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza si manifesta infatti nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, affinché dimori in me la potenza di Cristo» (2 Cor. 12).
Questa rievocazione drammatica e mistica insieme che San Paolo fa della sua biografia ci fa pensare al messaggio dottrinale che egli lasciò alla Chiesa ed ai secoli sopra Cristo e che diede conclusione all’economia religiosa dell’Antico Testamento e che portò contributo straordinario e decisivo alla formazione del Nuovo Testamento, cioè del rapporto ora vigente e duraturo fino alla fine del mondo presente fra Dio e l’umanità. Paolo, sebbene favorito da una rivelazione personale (Gal. 1, 12 Gal. 1, 12), è perfettamente nell’alveo del Vangelo apostolico, con Pietro e con gli altri apostoli e la prima comunità cristiana; ma egli più di tutti presenta alcuni aspetti essenziali della religione scaturita dalla tradizione ebraica, come l’assoluta ed esclusiva preminenza di Gesù Cristo, Salvatore e Mediatore, unico e necessario, del Quale egli si sa e si dichiara «praedicator et apostolus et magister gentium» (2 Tim. 1, 11); egli rompe più degli altri apostoli gli argini che contenevano Israele chiuso etnicamente in se stesso, e comincia risolutamente a diffondere la religione universale di Cristo per tutta l’umanità; è il primo missionario volontario e cosciente della Chiesa Cattolica (Cfr. Rom. 1, 14).
Accogliamo perciò con appassionata attenzione anche la testimonianza artistica di questa Mostra; essa ci avverte che non mai è esaurita la nostra ammirazione su questa apostolica figura e ringraziamo tutti quanti Artisti, donatori, promotori, e a tutti auguriamo che il motto di S. Paolo «in Cristo» sia luce e salvezza. Con la nostra Benedizione.

«LA GRAZIA DI DIO SALVATORE: LIBERA, BASTEVOLE, PER NOI NECESSARIA» – GIOVANNI BATTISTA MONTINI,

http://www.30giorni.it/articoli_id_21298_l1.htm

«LA GRAZIA DI DIO SALVATORE: LIBERA, BASTEVOLE, PER NOI NECESSARIA» – GIOVANNI BATTISTA MONTINI,

Con queste parole Giovanni Battista Montini, negli appunti scritti da giovane sacerdote sulle Lettere di san Paolo, indica l’esperienza e il messaggio dell’Apostolo

di don Giacomo Tantardini
Ringrazio chi mi ha invitato in questa bella città di Ortona dove, nella Cattedrale, è custodito il corpo dell’apostolo Tommaso. Ringrazio sua eccellenza monsignor Ghidelli per la sua presenza a questo incontro.
Io non ho competenza specifica per parlare di san Paolo. Quello che conosco di Paolo nasce semplicemente dalla lettura delle sue Lettere, in particolare da quella lettura che ne viene fatta nella santa messa e nella preghiera del breviario, e credo che questa sia la cosa più importante. Paolo VI in un discorso tenuto in un convegno di esegeti sulla risurrezione di Gesù, citando sant’Agostino, diceva che per comprendere la Scrittura «praecipue et maxime orent ut intelligant», la cosa «più importante e principale è pregare per capire».
Così nella preghiera può essere donato di intuire l’esperienza che ha fatto Paolo, l’esperienza di essere amato da Gesù. Iniziando l’Anno paolino, papa Benedetto XVI ha detto che Paolo è un nulla amato da Gesù Cristo. «Io sono un nulla», dice Paolo stesso al termine della seconda Lettera ai Corinzi (2Cor 12, 11) e nella Lettera ai Galati: «Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20).
Così anche a noi, nella distanza infinita dall’apostolo, può accadere la stessa esperienza, la stessa comunione di grazia, perché è reale la comunione dei santi. Ed è questa identità di esperienza, l’esperienza di essere gratuitamente amati da Gesù Cristo, che fa rivivere le parole dell’apostolo, che può rendere Paolo così vicino, così prossimo, così amico, così familiare.
Vorrei iniziare leggendo alcune frasi pronunciate da papa Benedetto durante l’Angelus di domenica 25 gennaio. Quest’anno, la festa della conversione di san Paolo è caduta di domenica, e il Papa, spiegando l’incontro di Saulo con Gesù sulla via di Damasco (anche nella messa di oggi lo abbiamo letto dagli Atti degli apostoli), ha detto queste parole che mi hanno sorpreso e confortato, e che ho riletto tante volte: «In quel momento [quando ha incontrato Gesù: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9, 5)] Saulo comprese che la sua salvezza [possiamo anche dire la sua felicità, perché il riverbero umano della salvezza è la felicità, il riverbero umano della Sua grazia è il piacere della Sua grazia] non dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge [mi ha molto colpito l’aggettivo buone. Opere buone. Il Papa ha voluto sottolineare che la salvezza non dipende dalle opere buone, compiute secondo la legge, opere buone, come buona e santa è la legge (cfr. Rm 7, 12)], ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui, il persecutore [«Ha amato me e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20)], ed era, ed è, risorto». L’altra parola che mi ha colpito è stata quel verbo al presente: «Era, ed è, risorto».
Benedetto XVI, quest’anno, ha tenuto venti meditazioni su san Paolo durante le udienze del mercoledì. Una di queste meditazioni, forse la più bella, l’undicesima, tratta della fede di Paolo nella risurrezione del Signore. Commentando il capitolo 15 della prima Lettera ai Corinzi, il Papa ha sottolineato che Paolo trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto (cfr. 1Cor 15, 3), cioè «che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15, 3-5). La risurrezione di Gesù è un fatto accaduto in un momento preciso del tempo e Colui che è risuscitato, in quel preciso momento, è vivo ora, in questo momento. È risorto e quindi vivo nel presente.
La conversione di Paolo, secondo il Papa, sta in questo passaggio. Il passaggio dal ritenere che la salvezza dipendeva dalle sue opere buone, compiute secondo la legge (la legge è la legge di Dio, la legge sono i dieci comandamenti di Dio), al riconoscere semplicemente che la salvezza era ed è la presenza di un Altro. Era ed è la presenza di Gesù.
Sempre nell’Angelus di domenica 25 gennaio Benedetto XVI ha aggiunto (e la cosa mi ha colpito anche perché il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che stimo molto e che posso dire amico di 30Giorni, ha sottolineato questo accenno del Papa) che non si potrebbe propriamente parlare di conversione di Paolo, perché Paolo già credeva nel Dio unico e vero ed era «irreprensibile» per quanto riguarda la legge di Dio. Lo dice lui stesso nella Lettera ai Filippesi (3, 6).
La conversione di Paolo (e qui permettetemi di riprendere le parole che sant’Agostino usa per indicare la propria conversione) è semplicemente il passaggio dalla sua dedizione a Dio al riconoscimento di quello che Dio ha compiuto e compie in Gesù.
Agostino così descrive la propria conversione: «Quando ho letto l’apostolo Paolo [e subito dopo – perché non basta neppure leggere le Scritture – aggiunge:] e quando la Tua mano ha curato la tristezza del mio cuore, allora ho compreso la differenza inter praesumptionem et confessionem / tra la dedizione e il riconoscimento». Praesumptio non indica inizialmente una cosa cattiva. Alla lunga decade in presunzione cattiva; ma inizialmente indica il tentativo dell’uomo di voler raggiungere l’ideale buono intuìto. La conversione cristiana è il passaggio da questo tentativo dell’uomo di compiere il bene (le opere buone, diceva papa Benedetto) al semplice riconoscimento della presenza di Gesù. Dalla praesumptio, dedizione, alla confessio, riconoscimento. La confessio, riconoscimento, è come quando il bambino dice: «Mamma». Come quando la mamma viene incontro al bambino e lui le dice: «Mamma».
<I>La conversione di Paolo</I>, Caravaggio, Cappella Cerasi, chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma
La conversione di Paolo, Caravaggio, Cappella Cerasi, chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma
La conversione cristiana, per Agostino e per Paolo, è (permettetemi di usare questa immagine di don Giussani che, secondo me, non ha l’equivalente) il passaggio dall’entusiasmo della dedizione all’entusiasmo della bellezza; dall’entusiasmo della propria dedizione, che in sé è buono, all’entusiasmo destato da una presenza che attrae il cuore, una presenza che gratuitamente si fa incontro e gratuitamente si fa riconoscere. Paolo non ha fatto nulla per incontrarLo. Il Suo gratuito venire incontro attua il passaggio dalla nostra dedizione alla bellezza della Sua presenza che per attrattiva si fa riconoscere. E tra dedizione e riconoscimento non c’è contraddizione. Giussani dice semplicemente che «l’entusiasmo della dedizione è imparagonabile all’entusiasmo della bellezza». È lo stesso termine che usa sant’Agostino quando descrive il rapporto tra la virtù degli uomini e i primi piccoli passi di chi pone la speranza nella grazia e nella misericordia di Dio.
Potremmo anche dire che, quando accade di vivere per grazia l’esperienza stessa che Paolo ha vissuto, l’identica sua esperienza, nell’infinita distanza da lui, è come se tutte le parole cristiane, la parola fede, la parola salvezza, la parola chiesa, fossero trasparenti dell’iniziativa di Gesù Cristo. È Lui che desta la fede. La fede è opera Sua. È Lui che salva. È Sua iniziativa il donare la salvezza. È Lui che costruisce la Sua chiesa. «Aedificabo ecclesiam meam» (Mt 16, 18). Aedificabo è un futuro: «Edificherò la mia chiesa» sulla professione di fede di Pietro, sulla grazia della fede donata a Pietro (cfr. Mt 16, 18). È Lui che edifica personalmente, nel presente, la Sua chiesa su un Suo dono.
Come è bello dire le parole cristiane più semplici, la parola fede, la parola speranza, la parola carità, e accorgersi che queste parole indicano un’iniziativa Sua, fanno intravvedere un gesto Suo, il Suo agire. Come è accaduto a santa Teresina di Gesù Bambino: «Quando sono caritatevole, è solo Gesù che agisce in me».
Noi sacerdoti, la seconda settimana dopo Pasqua, abbiamo letto nel breviario, dall’Apocalisse, le lettere che Gesù invia alle sette chiese. In una di queste lettere Gesù dice: «Non hai rinnegato la mia fede» (Ap 2, 13). La mia fede. È la fede di Gesù.
«Gratia facit fidem». Come è semplice e bella questa espressione di san Tommaso d’Aquino! È la grazia che crea la fede. È Lui che si fa riconoscere. «Nessuno viene a me se non lo attira il Padre mio» (Gv 6, 44.65), dice Gesù. E sant’Agostino commenta: «Nemo venit nisi tractus / Nessuno viene [a Gesù], se non è attirato». È Sua iniziativa la fede. È Sua iniziativa la salvezza. È Sua iniziativa la Sua chiesa.
Permettetemi di raccontarvi uno dei miei primi incontri con don Giussani. L’occasione mi è stata data dal fatto che a Venegono, nel mio seminario, ho conosciuto Angelo Scola, l’attuale patriarca di Venezia. È stato lui a farmi incontrare don Giussani. Ricordo ancora quell’incontro a Milano. Giussani parlava a un gruppo di giovani. A un certo punto chiese: «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Che cosa, adesso, ci mette in rapporto con Gesù Cristo?». Alcuni risposero: «La chiesa», «la comunità», «la nostra amicizia», eccetera. Alla fine di tutti questi interventi, Giussani ripeté la domanda: «Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo?», e poi diede lui stesso la risposta: «Il fatto che è risorto». Questa cosa non la dimenticherò più! «Il fatto che è risorto». Perché se non fosse risorto, se non fosse vivo, la chiesa sarebbe un’istituzione meramente umana, come tante altre. Un peso in più. Tutte le cose meramente umane alla fine diventano un peso.
«Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo? Il fatto che è risorto». La chiesa è la visibilità di Lui vivo. «La chiesa non ha altra vita», dice il Credo del popolo di Dio di Paolo VI, «se non quella della Sua grazia». Non ha altro inizio, momento per momento, che l’attrattiva Sua, l’attrattiva della Sua grazia. La chiesa è il termine visibile del gesto di Gesù vivo che incontra il cuore e lo attrae.
Leggere san Paolo, vivendo per grazia quello che Paolo ha compreso (come dice il Papa) nella sua conversione, rende tutte le parole cristiane trasparenti di Lui, di Gesù Cristo, dona a tutte le parole cristiane questa leggerezza. Altrimenti diventano pesanti. Se la fede fosse un’iniziativa nostra, saremmo finiti. Siccome è un’iniziativa Sua, è possibile sempre il rinnovarsi del Suo dono. E quindi è possibile sempre ricominciare. È un’iniziativa Sua, in ogni istante. «Gratia facit fidem… quamdiu fides durat».
È stata una cosa molto bella che nel 1999 la Commissione teologica di studio tra la Chiesa cattolica e i luterani, valorizzando proprio questa frase di san Tommaso d’Aquino, ha riconosciuto che tra la teologia di Lutero sulla giustificazione per la fede e aspetti essenziali della dottrina dogmatica del Concilio di Trento nel decreto De iustificatione c’è una sorprendente identità.
San Tommaso d’Aquino dunque dice che «la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia, ma in ogni istante in cui dura». E aggiunge questa osservazione bellissima: ci vuole la stessa attrattiva di grazia, lo stesso tesoro di grazia, sia per far rimanere nella fede, adesso, noi che crediamo, sia per far passare una persona (se ci fosse qui uno che non crede) dalla non fede alla fede.
Ho detto questo solo per dire che la conversione di Paolo, come di ogni cristiano, si attua nel passaggio dall’iniziativa dell’uomo all’iniziativa di Gesù, allo stupore dell’iniziativa di Gesù, alla confessio supplex. Com’era bello, nella messa in latino, quando, prima del Sanctus, si diceva sempre: «Supplici confessione / Con riconoscimento che domanda». Perché non si può riconoscere una presenza che ti ama se non domandando che essa continui a volerti bene.
Ora, tre suggerimenti.

1. «… nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato…»
Leggiamo Galati 1, 15 in cui Paolo stesso descrive il passaggio dalla sua iniziativa all’iniziativa di Dio.
«Ma quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… [c’è un mistero da cui nasce la grazia della fede ed è la scelta di Dio, l’elezione di Dio. Non possiamo giudicare noi questo mistero: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16)] … quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia [com’è bello questo mi chiamò con la sua grazia! Non basta la voce, neppure la voce di Gesù, se l’attrattiva di Gesù non tocca il cuore. È la Sua grazia, è la Sua attrattiva che commuove il cuore] si compiacque di rivelare a me suo Figlio…». Si degnò di mostrarmi Suo Figlio. Questa è la conversione di Paolo. Colui che mi ha scelto e mi ha chiamato con la Sua grazia mi ha fatto riconoscere Suo Figlio.
Galati 2, 20: «Questa vita che vivo nella carne [nella condizione umana, segnata dal peccato originale, anche dopo il battesimo. Il battesimo toglie il peccato, ma lascia la fragilità che proviene dal peccato e che inclina al peccato], io la vivo nella fede del Figlio di Dio [nel riconoscimento del Figlio di Dio], che mi ha amato e ha dato sé stesso per me».
Vi leggo come papa Benedetto XVI ha commentato questa frase: «La sua fede [la fede di Paolo] è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale […] Cristo ha affrontato la morte […] per amore di lui – di Paolo – e, come Risorto, lo ama tuttora. […] La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore».
La fede nasce dall’impatto dell’amore di Gesù con il cuore di Paolo. La fede è l’iniziativa dell’amore di Gesù Cristo sul suo cuore.
Permettetemi di leggervi una frase che ho scoperto andando a Cascia a pregare santa Rita (santa Rita era sposata e aveva due figli. Il marito viene ucciso e lei perdona pubblicamente l’assassino e domanda che i suoi due figli non vendichino il padre. Poi entra nel monastero delle monache agostiniane di Cascia). La frase che vi leggo è di un beato monaco agostiniano il cui scritto sulla passione di Gesù era conosciuto da santa Rita: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità». Mi sembra che queste parole indichino da dove provenga la carità e che cosa sia la carità. L’amicizia è una virtù, è il vertice delle virtù. San Tommaso d’Aquino dice che la carità è amicizia. Ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità. Viene prima l’essere amati (cfr. 1Gv 4, 19). Per amare bisogna prima essere amati. Bisogna prima essere contenti di essere amati.
Sant’Agostino, in quel brano stupendo in cui, paragonando tra loro gli apostoli Pietro e Giovanni, si domanda chi sia più buono tra i due, risponde che più buono è Pietro, tanto è vero che a Gesù che gli domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?» (Gv 21, 15), Pietro risponde: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21, 15). Quindi Pietro è più buono di Giovanni. Confrontando la condizione di Pietro, che vuole bene di più a Gesù, con la condizione di Giovanni, che è più amato da Gesù, Agostino dice: «Facile responderem meliorem Petrum, feliciorem Ioannem / È facile per me rispondere che Pietro è più buono [perché vuole più bene a Gesù] ma Giovanni è più felice [perché è amato di più da Gesù]». L’essere felice dipende dall’essere amato. Non dipende neppure dal nostro povero amore. Pietro è più buono perché vuole più bene a Gesù, ma Giovanni è più felice perché è più amato da Gesù.
Il Papa dice che la fede di Paolo è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore e così questa stessa fede, proprio perché è l’impatto dell’amore di Gesù sul suo cuore, desta ed è anche il povero amore di Paolo a Gesù. Questa attrattiva amorosa di Gesù, rendendo lieto il cuore di Paolo, desta anche il povero amore di Paolo a Gesù, povero come quello di Pietro.
Papa Benedetto, in un’udienza del mercoledì, commentando la domanda di Gesù a Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?», ha insistito sulla differenza dei verbi greci che Gesù e Pietro usano. Gesù usa un verbo che indica un amore totalizzante («… mi ami tu?»). Pietro usa un verbo che esprime il povero amore umano («tu sai che ti voglio bene»). «Ti voglio bene così come è possibile a un povero uomo». Allora, la terza volta (è bellissimo come il Papa descrive questo!), Gesù si adegua al povero amore umano di Pietro e gli chiede semplicemente se gli vuole bene, così come un povero uomo può volere bene.
Leggo ora 1 Corinzi 15, 8 e seguenti. Anche qui Paolo descrive l’incontro con Gesù sulla via di Damasco: «In seguito, ultimo fra tutti…». Come è bello questo ultimo fra tutti! Nella liturgia ambrosiana il sacerdote che celebra la messa dice: «Nobis quoque minimis et peccatoribus». Nella liturgia romana dice solo: «Nobis quoque peccatoribus». Nella liturgia ambrosiana colui che celebra la santa messa, che sia il vescovo oppure l’ultimo prete, dice: «Anche a noi che siamo i più piccoli e peccatori». Così Paolo dice di essere l’ultimo, il più piccolo.
«In seguito ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io, infatti, sono l’ultimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me».

2. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù
Paolo è sempre sospeso all’iniziativa della grazia. E questa è una delle cose più impressionanti per chi legge le sue Lettere. Non solo l’inizio è grazia, non solo l’inizio è iniziativa di Gesù. Paolo è sempre sospeso all’iniziativa di Gesù, momento per momento. Come è nella realtà per ciascuno di noi. Ma l’esperienza di Paolo, da questo punto di vista, è di una drammaticità e di una bellezza uniche.
Vi leggo un brano, che già nel mio seminario mi confortava tanto, dalla seconda Lettera ai Corinzi, 12, 7 e seguenti. Allora mi colpivano le parole, ora il cammino della vita, per Sua grazia e Sua rinnovata misericordia, ha donato realtà a quelle parole.
La seconda Lettera ai Corinzi per me è la Lettera più bella perché è quella in cui Paolo – lo dice lui stesso – apre tutto il suo cuore (2Cor 6, 11). È la Lettera in cui Paolo di fronte alla «dolcezza e mitezza di Cristo» (2Cor 10, 1) descrive quello che lui è, l’inermità che lui è, la fragilità che lui è.
«Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia [comunque si legga questa “spina nella carne”, questa fragilità, questa tentazione, Paolo dice così]. A causa di questo [a causa di questa sofferenza] per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me [che allontanasse questa sofferenza, questa tentazione, questa fragilità]. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”». La Sua forza si manifesta pienamente nella debolezza.
Permettetemi di fare una piccola correzione a una frase che ho letto prima in un pannello della mostra su san Paolo. Non avrei scritto che Paolo è «orgoglioso della sua debolezza». Non si può essere orgogliosi della propria debolezza. Sant’Ireneo, commentando questo brano della seconda Lettera ai Corinzi, e avendo presente la gnosi (uno degli elementi essenziali dell’eresia gnostica è la non distinzione tra il bene e il male, fino a porre, ed Hegel lo teorizza, il male in Dio e da Dio), è attentissimo a distinguere la debolezza dalla grazia. La debolezza rende evidente la grazia. La debolezza, quando viene abbracciata, rende più evidente l’essere abbracciati. Ma il positivo è l’essere abbracciati, non la debolezza. Nella debolezza, che è la condizione umana, l’essere abbracciati gratuitamente da Gesù è più evidente. Quando un bambino è ammalato, la mamma e il papà è come se gli volessero più bene, ma non è un valore l’essere ammalato del bambino. È che quella debolezza rende più evidente l’essere amato. In un tempo in cui la gnosi culturalmente è egemone nella mentalità del mondo e tante volte anche nella Chiesa del Signore, come è importante questa distinzione! La debolezza non è in sé stessa un bene. La debolezza rende più evidente l’essere abbracciati quando si è abbracciati, l’essere amati quando si è amati. Rende più evidente la gratuità dell’essere amati. Il peccato è peccato e il peccato mortale merita l’inferno, come dice il Catechismo. Ma quando Gesù, dopo essere stato tradito, guardò Pietro (Lc 22, 61), quello sguardo rese più evidente l’amore di Gesù al povero Pietro.
«Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo». La debolezza è la condizione perché la Sua potenza si riveli con più evidenza a tutti.

3. Il Vangelo che Paolo trasmette
Due brevi cenni sull’annuncio di Paolo.
Che cosa annuncia Paolo? Innanzitutto quello che lui, a sua volta, ha ricevuto. Come è bello! Paolo non inventa nulla, annuncia quello che, a sua volta, ha ricevuto.
Vi leggo 1 Corinzi 15, 1 e seguenti. Questi versetti racchiudono tutto l’annuncio di Paolo. Tutto l’annuncio di Gesù Cristo.
«Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve lo ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Paolo annuncia la testimonianza di Gesù. «La testimonianza di Dio» (1Cor 2, 1). La testimonianza che Dio ha dato col risuscitare Gesù dai morti. La testimonianza che Gesù Cristo ha dato di essere risorto col mostrarsi ai discepoli. Fa parte dell’essenza dell’annuncio cristiano il rendersi visibile del Risorto ai testimoni che Lui sceglie. Se non si fosse reso visibile ai testimoni, se non avesse dato Lui stesso testimonianza di essere risorto, la testimonianza degli apostoli sarebbe stata una loro invenzione.
Heinrich Schlier, che, secondo me, è il più grande esegeta che la Chiesa abbia avuto nel secolo scorso, come insiste su questo fatto! È Gesù che, rendendosi visibile, dà testimonianza di Sé stesso. È Gesù che, rendendosi visibile agli apostoli, facendosi toccare e mangiando con loro, testimonia della realtà della Sua risurrezione: «Tommaso, guarda e metti la tua mano» (cfr. Gv 20, 27). «Visus est, tactus est et manducavit. Ipse certe erat / Fu visto, fu toccato, mangiò. Era proprio Lui», dice sant’Agostino in un discorso contro gli gnostici, commentando l’apparizione di Gesù risorto agli apostoli dal Vangelo di Luca (Lc 24, 36-49).
È Gesù che, rendendosi visibile, testimonia di essere risorto, di essere vivo. La testimonianza degli apostoli è un riflesso della Sua testimonianza. Com’è importante questo! La luce della Chiesa è solo una luce riflessa. «Lumen gentium cum sit Christus / È Cristo la luce delle genti». La Chiesa riflette questa Sua luce come in uno specchio. Una delle frasi più belle di Paolo, che mi è così cara, dice: «Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo, come in uno specchio, la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine [il riflesso di Gesù è efficace: cambia la vita], di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3, 18).
Paolo annuncia ciò che ha ricevuto, ciò che Gesù Cristo stesso ha testimoniato ai Suoi apostoli.
Un secondo cenno riguardo all’annuncio di Paolo. Anche questa cosa bellissima si legge nella prima Lettera ai Corinzi, 2, 1 e seguenti. L’annuncio di Gesù porta in sé la prova della sua verità. Non si tratta di dimostrare noi che Gesù è vivo. È Gesù stesso che mostrandosi, operando, dimostra di essere vivo. Altrimenti, aumentiamo il dubbio, nostro e degli altri. È Gesù che, agendo, e quindi mostrandosi, dimostra di essere vivo. La dimostrazione della verità del cristianesimo è l’agire e il mostrarsi di Gesù nel presente.
Schlier dice questo con un’espressione bellissima: «Il kerygma e i doni, il kerygma e i miracoli formano un tutt’uno». E Paolo lo dice più semplicemente che non il grande esegeta: «Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio [la testimonianza che Dio ha donato] con sublimità di parola e di sapienza. Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza [come è bello questo!] e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza [non voleva lui dimostrare che Gesù era reale], ma sulla manifestazione dello Spirito [cioè sul fatto che Gesù risorto si manifesta] e della sua potenza [sul Suo agire, sul Suo manifestarsi], perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2, 1-5).
La fede può essere fondata solo sulla potenza di Dio, cioè sull’agire di Gesù, sul manifestarsi di Gesù. Non si vince la paura della morte (cfr. Eb 2, 15) con gli argomenti di sapienza, con i nostri discorsi. La paura della morte è vinta quando Gesù, agendo nel presente, si fa riconoscere vivo. Gesù si dimostra reale, vivo, quando si mostra. Quando mostra la Sua azione, quando mostra la Sua potenza. «Con una prova totalmente Sua», scrive Schlier, che si sperimenta «come realtà tangibile».

Termino con le parole di Giovanni Battista Montini, nei suoi appunti sulle Lettere di san Paolo, scritti a Roma quando era giovane sacerdote, tra il 1929 e il 1933: «Nessuno più di lui [Paolo] ha sentito l’insufficienza umana e ha riconosciuto ed esaltato l’azione libera, da sé sola bastevole, necessaria per noi, della grazia di Dio Salvatore». È bellissimo! Libera: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15, 16). Da sé sola bastevole: «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12, 9). Necessaria per noi: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5).
E Montini aggiunge una frase, commovente se si pensa anche alle umiliazioni ricevute: «Egli [Paolo] ha sentito il fastidio della sua presenza “contemptibilis” [disprezzabile]».
«Praesentia corporis infirma [scrive nella seconda Lettera ai Corinzi, 10, 10] / La presenza fisica è debole / et sermo contemptibilis / e la parola è da disprezzare».
«Egli ha sentito il fastidio della sua presenza contemptibilis. Ha provato desolanti depressioni di spirito».
Un’espressione di questa umanità così debole di Paolo si trova nella seconda Lettera ai Corinzi, 2, 12: «Giunto pertanto a Troade per annunciare il Vangelo di Cristo, sebbene la porta mi fosse aperta nel Signore [quindi gli era possibile annunciare il Vangelo di Cristo], non ebbi pace nello spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedandomi da loro, partii per la Macedonia». Paolo non ha neanche la forza di annunciare il Vangelo, se non ha il conforto della grazia del Signore che brilla riflessa sul volto di una persona cara. Cara semplicemente per questo riflesso di grazia.
E poi continua (2Cor 7, 5 e seguenti): «Da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne [la nostra debole umanità] non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro».
Com’è vero! «La Chiesa vive», dice la Lumen gentium, «tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio». Sant’Agostino, nel brano del De civitate Dei da cui è tratta questa frase, scrive che le persecuzioni del mondo provengono innanzitutto dall’interno della Chiesa. Anche perché le persecuzioni del mondo sono innanzitutto i nostri poveri peccati che fanno soffrire il cuore di chi è amato da Gesù e vuole bene a Gesù.
Continua Paolo: «Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi». Paolo che a Troade non aveva avuto la forza di annunciare il Vangelo, quando arriva Tito è confortato anche perché Tito gli parla dell’affetto che le persone di Corinto hanno per lui.
«A questa nostra consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito» (2Cor 7, 13). Perché non basta ricordare l’affetto di persone lontane, se chi ne parla non è lui stesso lieto, contento nel presente.
Quando vado a pregare sulla tomba di Paolo nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma, in ginocchio, ripeto sempre un inno: «Pressi malorum pondere, te, Paule, adimus supplices / Oppressi dal peso di tante contrarietà [innanzitutto dei nostri poveri peccati] veniamo a te, Paolo, supplici / […] quos insecutor oderas defensor inde amplecteris / [...] quelli che tu quando eri persecutore hai odiato, adesso come difensore li abbracci». In questo abbraccio, in questo essere amati da Gesù, anche attraverso gli amici di Gesù, possiamo ripetere: «L’amicizia è una virtù, ma l’essere amati non è una virtù, è la felicità».
Grazie.

 

Publié dans:PAPA PAOLO VI |on 25 octobre, 2016 |Pas de commentaires »

OMELIA DI PAOLO VI SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO – GIOVEDÌ, 29 GIUGNO 1978

http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1978/documents/hf_p-vi_hom_19780629.html

XV ANNIVERSARIO DELL’INCORONAZIONE DEL PAPA

OMELIA DI PAOLO VI SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO – GIOVEDÌ, 29 GIUGNO 1978

Venerati Fratelli e Figli carissimi,

Le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo occupano, oggi più che mai, il nostro spirito durante la celebrazione di questo rito. Non solo perché ci sono riportate, come di consueto, dal volgere dell’anno liturgico, ma anche per il particolare significato che riveste per noi questo xv anniversario della nostra elezione al Sommo Pontificato, quando, dopo il compimento dell’80° genetliaco, il corso naturale della nostra vita volge al tramonto.

Pietro e Paolo: «le grandi e giuste colonne» (S. CLEMENTE ROMANI, I, 5, 2) della Chiesa romana e della Chiesa universale! I testi della Liturgia della parola, or ora ascoltati, ce li presentano sotto un aspetto che suscita in noi profonda impressione : ecco Pietro, che rinnova nei secoli la grande confessione di Cesarea di Filippo; ecco Paolo, che dalla cattività romana lascia a Timoteo il testamento più alto della sua missione. Guardando a loro, noi gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa; e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. 16, 16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tim. 4, 7).

I. TUTELA DELLA FEDE

Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli (Cfr. Luc. 22, 32): è l’ufficio di servire la verità della fede, e questa verità offrire a quanti la cercano, secondo una stupenda espressione di San Pier Crisologo: «Beatus Petrus, qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem» (S. PETRI CEIRYSOLOGI Ep. ad Etrtichen, inter Ep. S. Leonis Magni XXV, 2: PL 54, 743-744). Infatti la fede è «più preziosa dell’oro» (1 Tim. 6, 13), dice San Pietro; non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà («per ignem probatur» -1 Petr. 1, 7 ). Della fede gli Apostoli sono stati predicatori anche nella persecuzione, sigillando la loro testimonianza con la morte, a imitazione del loro Maestro e Signore che, secondo la bella formula di San Paolo «testimonium reddidit sub Pontio Pilato bonam confessionem» (Ibid.). Ora, la fede non è il risultato dell’umana speculazione (Cfr. 2 Petr. 1, 16), ma il «deposito» ricevuto dagli Apostoli, i quali lo hanno accolto da Cristo che essi hanno «visto, contemplato e ascoltato» (1 Io. 1, l-3). Questa è la fede della Chiesa, la fede apostolica. L’insegnamento ricevuto da Cristo si mantiene intatto nella Chiesa per la presenza in essa dello Spirito Santo e per la speciale missione affidata a Pietro, per il quale Cristo ha pregato : «Ego rogavi pro te ut non deficiat fides tua» (Luc. 22, 32) e al Collegio degli Apostoli in comunione con lui: «qui vos audit me audit» (Ibid. 10, 16). La funzione di Pietro si perpetua nei suoi successori, tanto che i Vescovi del Concilio di Calcedonia poterono dire dopo aver ascoltato la lettera loro mandata da Papa Leone: «Pietro ha parlato per bocca di Leone» (Cfr. H. GRISAR, Roma alla fine del tempo antico, I, 359). E il nucleo di questa fede è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, confessato così da Pietro: «Tu es Christus, Filius Dei vivi» (Matth. 16, 16).

Ecco, Fratelli e Figli, l’intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. «Fidem servavi»! possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito «il santo vero» (A. MANZONI). Ci sia consentito ricordare, a conferma di questa convinzione, e a conforto del nostro spirito che continuamente si prepara all’incontro col giusto Giudice (2 Tim. 4, 8), alcuni documenti salienti del pontificato, che hanno voluto segnare le tappe di questo nostro sofferto ministero di amore e di servizio alla fede e alla disciplina: tra le encicliche e le esortazioni pontificie, la «Ecclesiam Suam» (9 augusti 1964: AAS 56 (1964) 609.659), che, all’alba del pontificato, tracciava le linee di azione della Chiesa in se stessa e nel suo dialogo col mondo dei fratelli cristiani separati, dei non-cristiani, dei non-credenti; la «Mysterium Fidei» sulla dottrina eucaristica (3 septembris 1965: AAS 57 (1965) 753.774); la «Sacerdotalis Caelibatus» (24 iunii 1967: AAS 59 (1967) 657.697) sul dono totale di sé che distingue il carisma e l’ufficio presbiterale; la «Evangelica Testificatio» (29 iunii 1971: AAS 63 (1971) 497-526) sulla testimonianza che oggi la vita religiosa, in perfetta sequela di Cristo, è chiamata a dare davanti al mondo; la «Paterna cum Benevolentia» (8 decembris 1974: AAS 67 (1975) 5-23), alla vigilia dell’Anno Santo, sulla riconciliazione all’interno della Chiesa; la «Gaudente in Domino» (9 maii 1975: AAS 67 (1975) 289-322) sulla ricchezza zampillante e trasformatrice della gioia cristiana; e, infine la «Evangelii Nuntiandi» (8 decembris 1975: AAS 68 (1976) 5-76), che ha voluto tracciare il panorama esaltante e molteplice dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, oggi.

Ma soprattutto non vogliamo dimenticare quella nostra «Professione di fede» che, proprio dieci anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e a impegno di tutta la Chiesa come «Credo del Popolo di Dio» (PAOLO PP. VI, Credo del Popolo di Dio: AAS 60 (1968) 436-445), per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti Concili Ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti. Grazie al Signore, molti pericoli si sono attenuati; ma davanti alle difficoltà che ancor oggi la Chiesa deve affrontare sul piano sia dottrinale che disciplinare, noi ci richiamiamo ancora energicamente a quella sommaria professione di fede, che consideriamo un atto importante del nostro magistero pontificale, perché solo nella fedeltà all’insegnamento di Cristo e della Chiesa, trasmessoci dai Padri, possiamo avere quella forza di conquista e quella luce di intelligenza e d’anima che proviene dal possesso maturo e consapevole della divina verità. E vogliamo altresì rivolgere un appello, accorato ma fermo, a quanti impegnano se stessi e trascinano gli altri, con la parola, con gli scritti, con il comportamento, sulle vie delle opinioni personali e poi su quelle dell’eresia e dello scisma, disorientando le coscienze dei singoli, e la comunità intera, la quale dev’essere anzitutto koinonia nell’adesione alla verità della Parola di Dio, per verificare e garantire la koinonia nell’unico Pane e nell’unico Calice. Li avvertiamo paternamente: si guardino dal turbare ulteriormente la Chiesa; è giunto il momento della verità, e occorre che ciascuno conosca le proprie responsabilità di fronte a decisioni che debbono salvaguardare la fede, tesoro comune che il Cristo, il quale è Petra, è Roccia, ha affidato a Pietro, Vicarius Petrae, Vicario della Roccia, come lo chiama San Bonaventura (S. BONAVENTURAE Quaest. disp. de per/. evang., q. 4, a. 3; ed. Quaracchi, V, 1891, p. 195).

II. DIFESA DELLA VITA UMANA

In questo impegno offerto e sofferto di magistero a servizio e a difesa della verità, noi consideriamo imprescindibile la difesa della vita umana. Il Concilio Vaticano secondo ha ricordato con parole gravissime che «Dio padrone della Vita, ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita»! (Gaudium et Spes, 51) E noi, che riteniamo nostra precisa consegna l’assoluta fedeltà agli insegnamenti del Concilio medesimo, abbiamo fatto programma del nostro pontificato la difesa della vita, in tutte le forme in cui essa può esser minacciata, turbata o addirittura soppressa.

Rammentiamo anche qui i punti più significativi che attestano questo nostro intento.

a) Abbiamo anzitutto sottolineato il dovere di favorire la promozione tecnico-materiale dei popoli in via di sviluppo, con la enciclica «Populorum Progressio» (26 martii 1967: AAS 59 (1967) 257-299)

b) Ma la difesa della vita deve cominciare dalle sorgenti stesse della umana esistenza. È stato questo un grave e chiaro insegnamento del Concilio, il quale, nella Costituzione pastorale «Gaudium et Spes», ammoniva che «la vita, una volta concepita, dev’essere protetta con la massima cura; e l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (Gaudium et Spes, 51). Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando, dieci anni fa, promanammo l’Enciclica «Humanae Vitae» (25 iulii 1968: AAS 60 (1968) 481-503): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e alla maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno.

c) Di qui le ripetute affermazioni della dottrina della Chiesa cattolica sulla dolorosa realtà e sui penosissimi effetti del divorzio e dell’aborto, contenute nel nostro magistero ordinario come in particolari atti della competente Congregazione. Noi le abbiamo espresse, mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e di pastore universale, e per il bene del genere umano!

d) Ma siamo stati indotti altresì dall’amore alla gioventù che sale, fidente in un più sereno avvenire, gioiosamente protesa verso la propria auto-realizzazione, ma non di rado delusa e scoraggiata dalla mancanza di un’adeguata risposta da parte della società degli adulti. La gioventù è la prima a soffrire degli sconvolgimenti della famiglia e della vita morale. Essa è il patrimonio più ricco da difendere e avvalorare. Perciò noi guardiamo ai giovani: sono essi il domani della comunità civile, il domani della Chiesa.

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Vi abbiamo aperto il nostro cuore, in un panorama sia pur rapido dei punti salienti del nostro Magistero pontificale in ordine alla vita umana, perché un grido profondo salga dai nostri cuori verso il Redentore; davanti ai pericoli che abbiamo delineato, come di fronte a dolorose defezioni di carattere ecclesiale o sociale, noi, come Pietro, ci sentiamo spinti ad andare a Lui, come a unica salvezza, e a gridargli: «Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes» (Io. 6, 68). Solo Lui è la verità, solo Lui è la nostra forza, solo Lui la nostra salvezza. Da lui confortati, proseguiremo insieme il nostro cammino. Ma oggi, in questo anniversario, noi vi chiediamo anche di ringraziarlo con noi, per l’aiuto onnipotente con cui ci ha finora fortificati, sicché possiamo dire, come Pietro, «nunc scio vere quia misit Deus angelum suum»( Act. 12, 11) Sì, il Signore ci ha assistiti: noi lo ringraziamo e lodiamo; e chiediamo a voi di lodarlo con noi e per noi, per l’intercessione dei Patroni di questa «Roma nobilis» e di tutta la Chiesa, su di essi fondata. O Santi Pietro e Paolo, che avete portato nel mondo il nome di Cristo, e a Lui avete dato l’estrema testimonianza dell’amore e del sangue, proteggete ancora e sempre questa Chiesa, per la quale avete vissuto e sofferto; conservatela nella verità e nella pace; accrescete in tutti i suoi figli la fedeltà inconcussa alla Parola di Dio, la santità della vita eucaristica e sacramentale, l’unità serena nella fede, la concordia nella carità vicendevole, la costruttiva obbedienza ai Pastori; che essa, la santa Chiesa, continui a essere nel mondo il segno vivo, gioioso e operante del disegno redentivo di Dio e della sua alleanza con gli uomini. Così essa vi prega con la trepida voce dell’umile attuale Vicario di Cristo, che a voi, o Santi Pietro e Paolo, ha guardato come a modelli e ispiratori; e così custoditela, questa Chiesa benedetta, con la vostra intercessione, ora e sempre, fino all’incontro definitivo e beatificante col Signore che viene.

Amen, amen.

LA PENITENZA NEL NUOVO TESTAMENTO – Paolo VI

 http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_d.htm

LA PENITENZA NEL NUOVO TESTAMENTO

 Paolo VI *

Cristo, che nella sua vita fece sempre ciò che insegnò, prima di dare inizio al suo ministero, trascorse quaranta giorni e quaranta notti nella preghiera e nel digiuno. Inaugurò poi la sua missione pubblica con un messaggio colmo di gioia: Il regno di Dio è vicino; ma aggiunse subito il comando: Fate penitenza e credete al Vangelo (Mc. 1,15). Si può dire che queste parole sono come il compendio di tutta la vita cristiana. Non si può accedere al regno di Cristo se non per mezzo della metànoia, cioè attraverso quell’intimo e totale cambiamento e rinnovamento dell’uomo, dei suoi pensieri, giudizi, modi di vivere. Questo rinnovamento si attua nell’uomo alla luce della santità ‘e dell’amore di Dio, che negli ultimi tempi si sono manifestate e comunicate a noi in pienezza nel Figlio. L’invito del Figlio di Dio alla metànoia ci stimola in modo più incalzante, in quanto egli non solo ce la predica, ma ce ne offre l’esempio in se stesso. Cristo infatti è modello supremo per coloro che fanno penitenza, lui che volle portare la pena non per il suo peccato, ma per quello degli altri. Dinanzi a Cristo, l’uomo viene illuminato da una luce nuova e, riconoscendo la santità di Dio, prende coscienza della gravità del peccato. La parola di Cristo gli trasmette il messaggio che invita a ritornare a Dio, e gli concede il perdono dei peccati. L’uomo riceve in pienezza questi doni nel battesimo, che lo configura alla passione, alla morte e alla risurrezione del Signore. Tutta la vita del battezzato si pone così sotto il sigillo di questo mistero. Dunque ogni cristiano, seguendo il Maestro, deve rinnegare se stesso, prendere la sua croce e partecipare alle sofferenze di Cristo. Trasformato così ad immagine della sua morte, è reso capace di meritare la gloria della risurrezione. Sempre al seguito del Maestro, deve vivere non più per sé, ma per Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui; deve vivere anche per ,i suoi fratelli «per completare nella sua carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa» (Cfr. Col. I, 24). Inoltre, poiché la Chiesa è legata a Cristo con un vincolo strettissimo, la penitenza del singolo cristiano ha un suo intimo rapporto con tutta la comunità ecclesiale. Infatti non solo per mezzo del battesimo egli riceve nella Chiesa il dono fondamentale della metànoia, ma sempre nella Chiesa, questo dono viene rinnovato e rafforzato, per mezzo del sacramento della penitenza, in quelle membra del corpo di Cristo che sono cadute in peccato. «Coloro che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono dell’offesa che gli hanno fatto e, nello stesso tempo, si riconciliano con la Chiesa che è stata ferita dal loro peccato e che coopera alla loro conversione con l’amore, l’esempio e la preghiera» (Cfr. Lumen Gentium, n. 11). E’ nella Chiesa infine che la piccola opera penitenziale, imposta ad ognuno nel sacramento, viene resa partecipe in modo speciale dell’infinita espiazione di Cristo. Il penitente poi, per una disposizione generale della Chiesa, può intimamente unire alla soddisfazione sacramentale tutto ciò che fa, soffre e sopporta. Così, il dovere di portare sempre la morte del Signore nel corpo e nell’anima, investe in ogni momento e in ogni aspetto tutta la vita del cristiano.

* Constitutio Apostolica « Paenitemini» – A.A.S. LVIII, 1966 pp. 179-180.

GAUDETE IN DOMINO – ESORTAZIONE APOSTOLICA DI SUA SANTITÀ PAOLO VI

http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/apost_exhortations/documents/hf_p-vi_exh_19750509_gaudete-in-domino.html

GAUDETE IN DOMINO – ESORTAZIONE APOSTOLICA DI SUA SANTITÀ PAOLO VI

Venerabili Fratelli e diletti Figli, salute e Apostolica Benedizione

Rallegratevi nel Signore, perché egli è vicino a quanti lo invocano con cuore sincero (1).

Nel corso di questo Anno Santo già molte volte noi abbiamo esortato il Popolo di Dio a corrispondere con gioiosa prontezza alla grazia del Giubileo. Il nostro invito chiama essenzialmente, voi lo sapete, al rinnovamento interiore e alla riconciliazione nel Cristo. Ne va la salvezza degli uomini, ne va la loro felicità completa. Nel momento in cui, in tutto il mondo, i credenti si preparano a celebrare la venuta dello Spirito Santo, noi vi invitiamo ad implorare da Lui il dono della gioia. Certo, per noi stessi il ministero della riconciliazione si esercita tra numerose contraddizioni e difficoltà (2), ma esso è suscitato ed accompagnato in noi dalla gioia dello Spirito Santo. Così, in tutta verità noi possiamo riprendere per conto nostro, riguardo alla Chiesa universale, la confidenza dell’Apostolo Paolo alla sua comunità di Corinto: «Voi siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. Sono molto franco con voi . . . Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione»(3). Sì, è per noi ugualmente una esigenza di amore l’invitarvi a condividere questa gioia sovrabbondante che è un dono dello Spirito Santo? (4) Noi abbiamo dunque sentito come la felice necessità interiore di indirizzarvi, nel corso di questo Anno di grazia, e molto opportunamente in occasione della Pentecoste, una Esortazione Apostolica il cui tema è, precisamente, la gioia cristiana, la gioia nello Spirito Santo. È come una specie di inno alla gioia divina, che noi vorremmo intonare per suscitare un’eco nel mondo intero e anzitutto nella Chiesa: che la gioia sia diffusa nei cuori con l’amore di cui essa è il frutto, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (5). Auspichiamo anche che la vostra gioia si unisca alla nostra, per la consolazione spirituale della Chiesa di Dio, e di tutti quegli uomini, che vorranno rendersi cordialmente attenti a questa celebrazione.

I. IL BISOGNO DI GIOIA NEL CUORE DI TUTTI GLI UOMINI Non si esalterebbe come si conviene la gioia cristiana rimanendo insensibili alla testimonianza esteriore ed interiore, che Dio creatore rende a se stesso in seno alla sua creazione: «E Dio vide che essa era cosa buona»(6). Facendo sorgere l’uomo entro un universo che è opera di potenza, di sapienza, di amore, Dio, prima ancora di manifestarsi personalmente mediante la rivelazione, dispone l’intelligenza e il cuore della sua creatura all’incontro con la gioia, nello stesso tempo che con la verità. Bisogna dunque essere attenti all’invocazione che sale dal cuore dell’uomo, dall’età dell’infanzia meravigliosa fino a quella della serena vecchiezza, come un presentimento del mistero divino. Affacciandosi al mondo, non prova l’uomo, col desiderio naturale di comprenderlo e di prenderne possesso, quello di trovarvi il suo completamento e la sua felicità? Come ognuno sa, vi sono diversi gradi in questa «felicità». La sua espressione più nobile è la gioia, o la «felicità» in senso stretto, quando l’uomo, a livello delle facoltà superiori, trova la sua soddisfazione nel possesso di un bene conosciuto e amato (7). Così l’uomo prova la gioia quando si trova in armonia con la natura, e soprattutto nell’incontro, nella partecipazione, nella comunione con gli altri. A maggior ragione egli conosce la gioia o la felicità spirituale quando la sua anima entra nel possesso di Dio, conosciuto e amato come il bene supremo e immutabile (8). Poeti, artisti, pensatori, ma anche uomini e donne semplicemente disponibili a una certa luce interiore, hanno potuto e possono ancora, sia nel tempo prima di Cristo, sia nel nostro tempo e fra di noi, sperimentare qualcosa della gioia di Dio. Ma come non vedere pure che la gioia è sempre imperfetta, fragile, minacciata? Per uno strano paradosso, la coscienza stessa di ciò che costituirebbe, al di là di tutti i piaceri transitori, la vera felicità, include anche la certezza che non esiste felicità perfetta. L’esperienza della finitudine, che ogni generazione ricomincia per proprio conto, obbliga a costatare e a scandagliare lo iato immenso che sempre sussiste tra la realtà e il desiderio di infinito. Questo paradosso, questa difficoltà di raggiungere la gioia ci sembrano particolarmente acuti oggi. È il motivo del nostro messaggio. La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale. Il denaro, le comodità, l’igiene, la sicurezza materiale spesso non mancano; e tuttavia la noia, la malinconia, la tristezza rimangono sfortunatamente la porzione di molti. Ciò giunge talvolta fino all’angoscia e alla disperazione, che l’apparente spensieratezza, la frenesia di felicità presente e i paradisi artificiali non riescono a far scomparire. Forse ci si sente impotenti a dominare il progresso industriale, a pianificare la società in maniera umana? Forse l’avvenire appare troppo incerto, la vita umana troppo minacciata? O non si tratta, soprattutto, di solitudine, di una sete d’amore e di presenza non soddisfatta, di un vuoto mal definito? Per contro, in molte regioni, e talvolta in mezzo a noi, la somma di sofferenze fisiche e morali si fa pesante: tanti affamati, tante vittime di sterili combattimenti, tanti emarginati! Queste miserie non sono forse più profonde di quelle del passato; ma esse assumono una dimensione planetaria; sono meglio conosciute, illustrate dai «mass media», non meno delle esperienze di felicità; opprimono la coscienza, senza che appaia molto spesso una soluzione umana alla loro dimensione. Questa situazione non può tuttavia impedirci di parlare della gioia, di sperare la gioia. È nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto. Noi abbiamo profonda compassione della pena di coloro sui quali la miseria e le sofferenze di ogni genere gettano un velo di tristezza. Noi pensiamo in particolare a quelli che si trovano senza risorse, senza soccorso, senza amicizia, che vedono annientate le loro speranze umane. Essi sono più che mai presenti alla nostra preghiera, al nostro affetto. Noi non vogliamo certo che nessuno si abbatta. Cerchiamo, al contrario, i rimedi capaci di portare la luce. Ai nostri occhi, essi sono di tre ordini. Gli uomini devono evidentemente unire i loro sforzi per procurare almeno il minimo di sollievo, di benessere, di sicurezza, di giustizia, necessari alla felicità, a numerose popolazioni che ne sono sprovviste. Una tale azione solidale è già opera di Dio; essa corrisponde al comandamento di Cristo. Essa procura già la pace, ridona la speranza, rinsalda la comunione, apre alla gioia, per colui che dona come per colui che riceve, perché vi è più gioia nel dare che nel ricevere (9). Quante volte noi vi incitammo, Fratelli e Figli carissimi a preparare con ardore una terra più abitabile e più fraterna, a realizzare senza indugio la giustizia e la carità per uno sviluppo integrale di tutti! La Costituzione conciliare Gaudium et Spes e numerosi Documenti pontifici hanno insistito su questo punto. Anche se non è questo direttamente il tema che noi qui affrontiamo, non ci si dimentichi di questo dovere primordiale dell’amore del, prossimo, senza il quale sarebbe sconveniente parlare di gioia. Ci sarebbe anche bisogno di un paziente sforzo di educazione per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle, completarle, sublimarle: non può disdegnarle. La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali. Molto spesso partendo da queste, il Cristo ha annunciato il Regno di Dio. Ma il tema della presente Esortazione va ancora oltre. Perché il problema ci appare soprattutto di ordine spirituale. È l’uomo, nella sua anima, che si trova sprovvisto nell’assumere le sofferenze e le miserie del nostro tempo. Esse lo opprimono quanto più gli sfugge il senso della vita; non è più sicuro di se stesso, della sua vocazione e del suo destino, che sono trascendenti. Egli ha desacralizzato l’universo ed ora l’umanità; ha talora tagliato il legame vitale che lo univa a Dio. Il valore degli esseri, la speranza non sono più sufficientemente assicurati. Dio gli sembra astratto, inutile: senza che lo sappia esprimere, il silenzio di Dio gli pesa. Sì, il freddo e le tenebre sono anzitutto nel, cuore dell’uomo che conosce la tristezza. Si può accennare qui alla tristezza dei noncredenti, allorché lo spirito umano, creato a immagine e a somiglianza di Dio, e perciò a Lui orientato come al proprio bene supremo, unico, resta senza conoscerlo chiaramente, senza amarlo, e di conseguenza senza provare la gioia, che arrecano la conoscenza benché imperfetta di Dio e la certezza di avere con Lui un vincolo che nemmeno la morte potrebbe infrangere. Chi non ricorda la parola di Sant’Agostino: «Tu ci hai creati per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (10)? Perciò, è col diventare maggiormente presente a Dio e con lo staccarsi dal peccato che l’uomo può veramente entrare nella gioia spirituale. Senza dubbio, «la carne e il sangue» ne sono incapaci (11). Ma la rivelazione può aprire questa prospettiva e la grazia operare questo rovesciamento. Il nostro proposito è precisamente quello di invitarvi alle sorgenti della gioia cristiana. Come lo potremmo, senza metterci tutti di fronte al piano di Dio, in ascolto della Buona Novella del suo amore?

II. ANNUNCIO DELLA GIOIA CRISTIANA NELL’ANTICO TESTAMENTO Per essenza, la gioia cristiana è partecipazione spirituale alla gioia insondabile, insieme divina e umana, che è nel cuore di Gesù Cristo glorificato. Non appena Dio Padre comincia a manifestare nella storia il disegno della sua benevolenza, che aveva prestabilito in Cristo, per darvi compimento nella pienezza dei tempi (12), questa gioia si annuncia misteriosamente in seno al Popolo di Dio, per quanto la sua identità non sia svelata. Così Abramo, nostro Padre, scelto in vista del compimento futuro della Promessa, e sperando contro ogni speranza, riceve, fin dalla nascita del figlio Isacco, le primizie profetiche di questa gioia (13). Essa si trova come trasfigurata attraverso una prova di morte, quando questo figlio unico gli è restituito vivo, prefigurazione della risurrezione di Colui che deve venire: il Figlio unico di Dio promesso al sacrificio redentore. Abramo esultò al pensiero di vedere il Giorno del Cristo, il Giorno della salvezza: egli «lo vide e se ne rallegrò» (14). La gioia della salvezza si dilata e si comunica poi lungo il corso della storia profetica dell’antico Israele. Essa si mantiene e rinasce indefettibilmente attraverso tragiche prove dovute alle infedeltà colpevoli del popolo eletto e alle persecuzioni esterne che vorrebbero staccarlo dal suo Dio. Questa gioia, sempre minacciata e risorgente, è propria del popolo nato da Abramo. Si tratta sempre di una esperienza esaltante di liberazione e di restaurazione – per lo meno annunziate – che ha per origine l’amore misericordioso di Dio verso il suo popolo prediletto, in favore del quale egli compie, per pura grazia e potenza miracolosa, le promesse dell’Alleanza. Tale è la gioia della Pasqua mosaica, che sopravvenne come figura della liberazione escatologica che sarebbe stata realizzata da Gesù Cristo nel contesto pasquale della nuova ed eterna Alleanza. Si tratta ancora della gioia veramente attuale, cantata in varie riprese dai salmi, quella di vivere con Dio e per Dio. Si tratta infine e sopratutto della gioia gloriosa e soprannaturale, profetizzata in favore della nuova Gerusalemme, liberata dall’esilio ed amata di un amore mistico da Dio stesso. Il senso ultimo di questo traboccare inaudito dell’amore redentore non potrà apparire che nell’ora della nuova Pasqua e del nuovo Esodo. Allora il Popolo di Dio sarà condotto, nella morte e nella risurrezione del Servo sofferente, da questo mondo al Padre, dalla Gerusalemme simbolica di quaggiù alla Gerusalemme di lassù: «Dopo essere stata derelitta, odiata, senza che alcuno passasse da te, io farò di te l’orgoglio dei secoli, la gioia di tutte le generazioni … Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (15).

III. LA GIOIA SECONDO IL NUOVO TESTAMENTO Queste mirabili promesse hanno sostenuto, per secoli, e in mezzo alle prove più terribili, la speranza mistica dell’antico Israele. Ed esso le ha trasmesse alla Chiesa di Gesù Cristo, in modo che noi gli siamo debitori di alcuni dei più puri accenti del nostro canto di gioia. Tuttavia, secondo la fede e l’esperienza cristiana dello Spirito, questa pace donata da Dio che si diffonde come un torrente traboccante, quando giunge il tempo della «consolazione» (16), è unita alla venuta e alla presenza del Cristo. Nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore. La grande gioia annunciata dall’Angelo, nella notte di Natale, è davvero per tutto il popolo (17), per quello d’Israele che attendeva allora ansiosamente un Salvatore, come per il popolo innumerevole di tutti coloro che, nella successione dei tempi, ne accoglieranno il messaggio e si sforzeranno di viverlo. Per prima, la Vergine Maria ne aveva ricevuto l’annunzio dall’angelo Gabriele e il suo Magnificat era già l’inno di esultanza di tutti gli umili. I misteri gaudiosi ci rimettono così, ogni volta che noi recitiamo il Rosario, dinanzi all’avvenimento ineffabile che è centro e culmine della storia: la venuta sulla terra dell’Emanuele, Dio con noi. Giovanni Battista, che ha la missione di additarlo all’attesa d’Israele, aveva anch’egli esultato di giubilo, alla sua presenza, nel grembo della madre (18). Quando Gesù inizia il suo ministero, Giovanni «esulta di gioia alla voce dello sposo (19). Soffermiamoci ora a contemplare la persona di Gesù, nel corso della sua vita terrena. Nella sua umanità, egli ha fatto l’esperienza delle nostre gioie. Egli ha manifestamente conosciuto, apprezzato, esaltato tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici e quotidiane, alla portata di tutti. La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità. Egli ammira gli uccelli del cielo e i gigli dei campi. Egli richiama tosto lo sguardo di Dio sulla creazione all’alba della storia. Egli esalta volentieri la gioia del seminatore e del mietitore, quella dell’uomo che scopre un tesoro nascosto, quella del pastore che ritrova la sua pecora o della donna che riscopre la dramma perduta, la gioia degli invitati al banchetto, la gioia delle nozze, quella del padre che accoglie il proprio figlio al ritorno da una vita di prodigo e quella della donna che ha appena dato alla luce il suo bambino. Queste gioie umane hanno tale consistenza per Gesù da essere per lui i segni delle gioie spirituali del Regno di Dio: gioia degli uomini che entrano in questo Regno, vi ritornano o vi lavorano, gioia del Padre che li accoglie. E per parte sua Gesù stesso manifesta la sua soddisfazione e la sua tenerezza quando incontra fanciulli che desiderano avvicinarlo, un giovane ricco, fedele e sollecito di fare di più, amici che gli aprono la loro casa come Marta, Maria, Lazzaro. La sua felicità è soprattutto di vedere la Parola accolta, gli indemoniati liberati, una peccatrice o un pubblicano come Zaccheo convertirsi, una vedova sottrarre alla sua povertà per donare. Egli esulta anche quando costata che i piccoli hanno la rivelazione del Regno, che rimane nascosto ai dotti e ai sapienti (20). Sì, perché il Cristo «ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana» (21) ha accolto e provato le gioie affettive e spirituali, come un dono di Dio. E senza sosta egli «ai poveri annunziò il vangelo di salvezza, agli afflitti la gioia» (22). Il Vangelo di san Luca offre una particolare testimonianza di questa seminagione di allegrezza. I miracoli di Gesù, le parole di perdono sono altrettanti segni della bontà divina: la folla intera esulta per tutte le meraviglie da lui compiute (23) e rende gloria a Dio. Per il cristiano, come per Gesù, si tratta di vivere, nel rendimento di grazie al Padre, le gioie umane che il Creatore gli dona. Ma qui è importante cogliere bene il segreto della gioia inscrutabile che dimora in Gesù, e che gli è propria. È specialmente il Vangelo di san Giovanni che ne solleva il velo, affidandoci le parole intime del Figlio di Dio fatto uomo. Se Gesù irradia una tale pace, una tale sicurezza, una tale allegrezza, una tale disponibilità, è a causa dell’amore ineffabile di cui egli sa di essere amato dal Padre. Fin dal suo battesimo sulle rive del Giordano, questo amore, presente fin dal primo istante della sua Incarnazione, è manifestato: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (24). Questa certezza è inseparabile dalla coscienza di Gesù. È una Presenza che non lascia mai solo (25). È una conoscenza intima che lo colma: «Il Padre conosce me e io conosco il Padre» (26). È uno scambio incessante e totale: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (27). Il Padre ha rimesso al Figlio il potere di giudicare, quello di disporre della vita. È una reciproca inabitazione: «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (28). A sua volta, il Figlio rende al Padre un amore senza misura: «Io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (29). Egli fa sempre ciò che piace al Padre: è il suo «cibo» (30). La sua disponibilità giunge sino al dono della sua vita d’uomo, la sua fiducia sino alla certezza di riprenderla: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo» (31). In questo senso, egli si rallegra di andare al Padre. Non si tratta per Gesù di una effimera presa di coscienza: è l’eco, nella sua coscienza umana, dell’amore che egli conosce da sempre come Dio nel seno del Padre: «Tu mi hai amato prima della creazione del mondo» (32). Vi è qui una relazione incomunicabile d’amore, che si ‘identifica con la sua esistenza di Figlio, ed è il segreto della vita trinitaria: il Padre vi appare come colui che si dona al Figlio, senza riserva e senza intermissione, in un impeto di generosità gioiosa, e il Figlio come colui che si dona nello stesso modo al Padre, con uno slancio di gratitudine gioiosa, nello Spirito Santo. Ed ecco che i discepoli, e tutti coloro che credono nel Cristo, sono chiamati a partecipare a questa gioia. Gesù vuole che essi abbiano in se stessi la pienezza della sua gioia (33): «E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore col quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (34). Questa gioia di dimorare nell’amore di Dio incomincia fin da quaggiù. È quella del Regno di Dio. Ma essa è accordata su di una via scoscesa che richiede una totale fiducia nel Padre e nel Figlio, e una preferenza data al Regno. Il messaggio di Gesù promette innanzi tutto la gioia, questa gioia esigente; non si apre essa attraverso le beatitudini? «Beati, voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete» (35). Misteriosamente, il Cristo stesso, per sradicare dal cuore dell’uomo il peccato di presunzione e manifestare al Padre, un’obbedienza integra e filiale, accetta di morire per mano di empi (36), di morire su di una croce. Ma il Padre non ha permesso che la morte lo ritenesse in suo potere. La risurrezione di Gesù è il sigillo posto dal Padre sul valore del sacrificio del suo Figlio; è la prova della fedeltà del Padre, secondo il voto formulato da Gesù prima di entrare nella sua passione: «Padre, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te» (37). D’ora innanzi, Gesù è per sempre vivente nella gloria del Padre, ed è per questo che i discepoli furono stabiliti in una gioia inestinguibile nel vedere il Signore, la sera di Pasqua. Ne deriva che, quaggiù, la gioia del Regno portato a compimento non può scaturire che dalla celebrazione congiunta della morte e della risurrezione del Signore. È il paradosso della condizione cristiana, che illumina singolarmente quello della condizione umana: né la prova né la sofferenza sono eliminate da questo mondo, ma esse acquistano un significato nuovo nella certezza di partecipare alla redenzione operata dal Signore, e di condividere la sua gloria. Per questo il cristiano, sottoposto alle difficoltà dell’esistenza comune, non è tuttavia ridotto a cercare la sua strada come a tastoni, né a vedere nella morte la fine delle proprie speranze. Come lo annunciava il profeta: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia» (38). L’Exultet pasquale canta un mistero realizzato al di là delle speranze profetiche: nell’annuncio gioioso della risurrezione, la pena stessa dell’uomo si trova trasfigurata, mentre la pienezza della gioia sgorga dalla vittoria del Crocifisso, dal suo Cuore trafitto, dal suo Corpo glorificato, e rischiara le tenebre delle anime: Et nox illuminatio mea in deliciis meis (39). La gioia pasquale non è solamente quella di una trasfigurazione possibile: essa è quella della nuova Presenza del Cristo Risorto, che largisce ai suoi lo Spirito Santo, affinché esso rimanga con loro. In tal modo lo Spirito Paraclito è donato alla Chiesa come principio inesauribile della sua gioia di sposa del Cristo glorificato. Egli richiama alla sua memoria, mediante il ministero di grazia e di verità esercitato dai successori degli Apostoli, l’insegnamento stesso del Signore. Egli suscita in essa la vita divina e l’apostolato, E il cristiano sa che questo Spirito non sarà mai spento nel corso della storia. La sorgente di speranza manifestata nella Pentecoste non si esaurirà. Lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio, dei quali egli è il reciproco amore vivente, è dunque comunicato d’ora innanzi al Popolo della nuova Alleanza, e ad ogni anima disponibile alla sua azione intima. Egli fa di noi la sua abitazione: dulcis hospes animae (40). Insieme con lui, il cuore dell’uomo è abitato dal Padre e dal Figlio (41). Lo Spirito Santo suscita in esso una preghiera filiale, che sgorga dal più profondo dell’anima e si esprime nella lode, nel ringraziamento, nella riparazione e nella supplica, Allora noi possiamo gustare la gioia propriamente spirituale, che è un frutto dello Spirito Santo (42): essa consiste nel fatto che lo spirito umano trova riposo e un’intima soddisfazione nel possesso di Dio Trinità, conosciuto mediante la fede e amato con la carità che viene da lui. Una tale gioia caratterizza, a partire di qui, tutte le virtù cristiane. Le umili gioie umane, che sono nella nostra vita come i semi di una realtà più alta, vengono trasfigurate. Questa gioia, quaggiù, includerà sempre in qualche misura la dolorosa prova della donna nel parto, e un certo abbandono apparente, simile a quello dell’orfano: pianti e lamenti, mentre il mondo ostenterà una soddisfazione maligna. Ma la tristezza dei discepoli, che è secondo Dio e non secondo il mondo, sarà prontamente mutata in una gioia spirituale, che nessuno potrà loro togliere (43). Tale è la legge fondamentale dell’esistenza cristiana, e massimamente della vita apostolica. Questa, poiché è animata da un amore urgente del Signore e dei fratelli, si manifesta necessariamente sotto il segno del sacrificio pasquale, e per amore va incontro alla morte, e attraverso la morte alla vita e all’amore. Donde la condizione del cristiano, e in primo luogo dell’apostolo, che deve diventare il «modello del gregge» (44) e associarsi liberamente alla passione del Redentore. Essa corrisponde così a ciò che è stato definito nel Vangelo come la legge della beatitudine cristiana, in continuità con la sorte dei profeti: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (45). Non ci mancano purtroppo occasioni di verificare, nel nostro secolo così minacciato dall’illusione di false felicità, l’incapacità dell’uomo «naturale» a comprendere «le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito» (46). Il mondo – quello che è inetto a ricevere lo Spirito di Verità, ch’esso non vede né conosce – non scorge che un aspetto delle cose. Esso considera soltanto l’afflizione e la povertà del discepolo, quando questi dimora sempre nel più profondo di se stesso nella gioia, perché egli è in comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.

IV. LA GIOIA NEL CUORE DEI SANTI Questa, Fratelli e Figli amatissimi, è la gioiosa speranza, attinta alle sorgenti stesse della Parola di Dio. Dopo venti secoli, questa sorgente di gioia non ha cessato di zampillare nella Chiesa, e specialmente nel cuore dei santi. È necessario che noi, ora, facciamo sentire qualche eco di tale esperienza spirituale, che, secondo la diversità dei carismi delle vocazioni particolari, illumina il mistero della gioia cristiana. Al primo posto ecco la Vergine Maria, piena di grazia, la Madre del Salvatore. Disponibile all’annuncio venuto dall’alto, essa, la serva del Signore, la sposa dello Spirito Santo, la Madre dell’eterno Figlio, fa esplodere la sua gioia dinanzi alla cugina Elisabetta, che ne esalta la fede: «L’anima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore . . . D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata» (47). Essa, meglio di ogni altra creatura, ha compreso che Dio compie azioni meravigliose: santo è il suo Nome, egli mostra la sua misericordia, egli innalza gli umili, egli è fedele alle sue promesse. Non che l’apparente corso della vita di Maria esca dalla trama ordinaria: ma essa riflette sui più piccoli segni di Dio, meditandoli nel suo cuore. Non che le sofferenze le siano state risparmiate: essa sta in piedi accanto alla croce, associata in modo eminente al sacrificio del Servo innocente, Lei ch’è madre dei dolori. Ma essa è anche aperta senza alcun limite alla gioia della Risurrezione; ed essa è anche elevata, corpo e anima, alla gloria del Cielo. Prima creatura redenta, Immacolata fin dalla concezione, dimora incomparabile dello Spirito, abitacolo purissimo del Redentore degli uomini, essa è al tempo stesso la Figlia prediletta di Dio e, nel Cristo, la Madre universale. Essa è il tipo perfetto della Chiesa terrena e glorificata. Quale mirabile risonanza acquistano, nella sua esistenza singolare di Vergine d’Israele, le parole profetiche rivolte alla nuova Gerusalemme: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto col manto della giustizia, come uno sposo che si cinge di diadema e come una sposa che si adorna di gioielli» (48).Vicina al Cristo, essa ricapitola in sé tutte le gioie, essa vive la gioia perfetta promessa alla Chiesa: Mater piena sanctae laetitiae; e giustamente i suoi figli qui in terra, volgendosi verso colei che è madre della speranza e madre della grazia, la invocano come la causa della loro gioia: Causa nostrae laetitiae. Dopo Maria, noi incontriamo l’espressione della gioia più pura, più ardente, là dove la Croce di Gesù viene abbracciata con l’amore più fedele: presso i martiri, ai quali lo Spirito Santo ispira, al culmine stesso della prova, un’attesa appassionata della venuta dello Sposo. Santo Stefano, che muore vedendo il cielo aperto, non è che il primo di questi testimoni innumerevoli del Cristo. Quanti ve ne sono, ancora ai nostri giorni e in vari Paesi, che, rischiando tutto per il Cristo, potrebbero affermare come il martire Sant’Ignazio di Antiochia: «Vi scrivo mentre sono ancora vivo, ma desidero di morire. Il mio desiderio terreno è stato crocifisso, e in me non c’è più fuoco alcuno per amare la materia, ma in me c’è un’acqua viva che mormora e dice nel mio intimo: « Vieni al Padre » » (49). In realtà, la forza della Chiesa, la certezza della sua vittoria, la sua allegrezza quando si celebra il combattimento dei martiri, provengono dal fatto ch’essa contempla in loro la fecondità gloriosa della Croce. Per questo motivo il nostro Predecessore san Leone Magno, esaltando da questa cattedra romana il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo, esclama: «È preziosa davanti allo sguardo di Dio la morte dei suoi santi, e nessuna specie di efferatezza può distruggere una religione fondata sul mistero della Croce di Cristo. La Chiesa non diminuisce, bensì cresce con le persecuzioni; e il campo del Signore si riveste incessantemente d’una messe più ricca quando i grani di frumento, caduti singolarmente, rinascono moltiplicati» (50). Nella casa del Padre, peraltro, vi sono molte dimore, e, per coloro cui lo Spirito Santo consuma il cuore, vi sono diverse maniere di morire a se stessi e di accedere alla gioia santa della risurrezione. L’effusione del sangue non è l’unica via. Ma la lotta per il Regno include necessariamente il passaggio attraverso una passione d’amore; i maestri di spirito ne hanno parlato egregiamente. E, qui, le loro esperienze interiori s’incontrano, pur nella diversità delle tradizioni mistiche, in Oriente come in Occidente. Queste attestano un medesimo itinerario dell’anima, per crucem ad lucem, e da questo mondo al Padre, nel soffio vivificante dello Spirito. Ciascuno di questi maestri di spirito ci ha lasciato un messaggio sulla gioia. I Padri orientali abbondano di testimonianze su questa gioia nello Spirito Santo. Origene, ad esempio, ha descritto spesso la gioia di colui che entra nella conoscenza intima di Gesù: l’anima è allora inondata di allegrezza come quella del vecchio Simeone. Nel tempio che è la Chiesa, egli stringe Gesù fra le braccia. Egli gode pienamente della salvezza tenendo fra le mani colui nel quale Dio riconcilia a sé il mondo (51). Nel Medioevo, fra molti altri, un maestro spirituale d’Oriente, Nicola Cabasilas, Vuol dimostrare come l’amore di Dio per lui procuri il massimo della gjoia (52). In Occidente, basti citare qualche nome fra quelli che hanno fatto scuola sul cammino della santità e della gioia: sant’Agostino, san Bernardo, san Domenico, Sant’Ignazio di Loyola, san Giovanni della Croce, santa Teresa d’Avila, san Francesco di Sales, san Giovanni Bosco. Ma noi vogliamo ricordare in modo più marcato tre figure, che ancora oggi attirano moltissimo l’insieme del popolo cristiano. E anzitutto il Poverello d’Assisi, sulle cui tracce si sforzano di mettersi numerosi pellegrini dell’Anno Santo. Avendo abbandonato tutto per il Signore, egli, grazie a madonna povertà, ricupera qualcosa, si può dire, della beatitudine primordiale, quando il mondo uscì, intatto, dalle mani del Creatore. Nella spogliazione estrema, ormai quasi cieco, egli poté cantare l’indimenticabile Cantico delle creature, la lode di frate sole, della natura intera, divenuta per lui come trasparente, specchio immacolato della gloria divina, e perfino la gioia davanti alla venuta di «sora nostra morte corporale»: «Beati quilli ke se trovarà ne le tue sanctissime voluntati». In tempi più vicini a noi, santa Teresa di Lisieux ci mostra la via coraggiosa dell’abbandono nelle mani di Dio, al quale essa affida la propria piccolezza. Ma non per questo essa ignora il sentimento dell’assenza di Dio, cosa di cui il nostro secolo, a suo modo, fa la dura esperienza: «Talvolta all’uccellino (a cui essa si paragona) sembra di credere che non esista altra cosa all’infuori delle nuvole che l’avvolgono . . . È quello il momento della gioia perfetta per il povero debole esserino . . . Che gioia per lui restarsene là malgrado tutto, fissare la luce invisibile che si nasconde alla sua fede» (53). Infine come non ricordare, immagine luminosa per la nostra generazione, l’esempio del beato Massimiliano Kolbe, genuino discepolo di san Francesco? Durante le prove più tragiche, che insanguinarono la nostra epoca, egli si offrì spontaneamente alla morte per salvare un fratello sconosciuto; e i testimoni ci riferiscono che il luogo di sofferenze, ch’era di solito come un’immagine dell’inferno, fu in qualche modo cambiato, per i suoi infelici compagni come per lui stesso, nell’anticamera della vita eterna dalla sua pace interiore, dalla sua serenità e dalla sua gioia. Nella vita dei figli della Chiesa, questa partecipazione alla gioia del Signore non si può dissociare dalla celebrazione del mistero eucaristico, ov’essi sono nutriti e dissetati dal suo Corpo e dal suo Sangue. Di fatto, in tal modo sostenuti, come dei viandanti sulla strada dell’eternità, essi già ricevono sacramentalmente le primizie della gioia escatologica. Collocata in una prospettiva simile, la gioia ampia e profonda, che fin da quaggiù si diffonde nel cuore dei veri fedeli, non può che apparire «diffusiva di sé», proprio come la vita e l’amore, di cui essa è un sintomo felice. Essa risulta da una comunione umano-divina, e aspira a una comunione sempre più universale. In nessun modo potrebbe indurre colui che la gusta ad una qualche attitudine di ripiegamento su di sé, Essa dà al cuore un’apertura cattolica sul mondo degli uomini, mentre gli fa sentire, come una ferita, la nostalgia dei beni eterni. Nei fervorosi, essa approfondisce la consapevolezza della loro condizione di esiliati, ma li salva altresì dalla tentazione di disertare il proprio posto di combattimento per l’avvento del Regno. Essa fa loro attivamente affrettare il passo verso la consumazione celeste delle Nozze dell’Agnello. Essa è in serena tensione tra l’istante della fatica terrena e la pace della Dimora eterna, conforme alla legge di gravità propria dello Spirito: «Se dunque, già fin d’ora, noi gridiamo « Abba, Padre! » perché abbiamo ricevuto questi pegni (dello Spirito di figli), che cosa sarà mai, quando, risuscitati, noi lo vedremo a faccia a faccia? Quando tutte le membra, a ondate riversantisi, faranno sgorgare un inno di esultanza, glorificando Colui che le avrà risuscitate dai morti e gratificate dell’eterna vita? Di fatto, se semplici pegni, avvolgono in se stessi l’uomo da tutte le parti, Io fanno esclamare: « Abba, Padre! », che cosa non farà mai la grazia completa dello Spirito, quando sarà data definitivamente da Dio agli uomini? Essa ci renderà simili a lui e compirà la volontà del Padre, perché renderà l’uomo a immagine e somiglianza di Dio» (54). Fin da quaggiù, i santi ci danno un pregustamento di questa somiglianza.

V. UNA GIOIA PER TUTTO IL POPOLO Ascoltando questa voce molteplice e unisona dei santi, avremmo forse dimenticato la presente condizione della società umana, in apparenza tanto poco interessata ai beni soprannaturali? Avremmo forse sopravvalutato le aspirazioni spirituali dei cristiani del nostro tempo? Avremmo forse riservato la nostra esortazione unicamente ad un piccolo numero di dotti e di sapienti? Non possiamo ignorare che il Vangelo è stato annunziato prima di tutto ai poveri e agli umili, nello splendore della sua semplicità e nella pienezza del suo contenuto. Nel rievocare questo luminoso orizzonte della gioia cristiana, non abbiamo dunque certamente pensato che esso potesse scoraggiare qualcuno di voi, Fratelli e Figli amatissimi, che sentite il vostro cuore combattuto quando la chiamata di Dio vi raggiunge. Al contrario, noi sentiamo che la nostra gioia, al pari della vostra, sarà completa solo se ci rivolgeremo insieme, con piena fiducia, verso «Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità da parte dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo» (55). L’invito rivolto da Dio Padre a partecipare pienamente alla gioia di Abramo, alla festa eterna delle Nozze dell’Agnello, è una convocazione universale. Ogni uomo, purché si renda attento e disponibile, può percepirla nell’intimo del proprio cuore, in modo del tutto particolare in questo Anno Santo, in cui la Chiesa apre a tutti più largamente i tesori della misericordia di Dio. «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (56). Noi non potremmo pensare al Popolo di Dio in maniera astratta. Il nostro sguardo si rivolge innanzitutto al mondo dei bambini. Finché trovano nell’amore di chi è loro vicino la sicurezza di cui hanno bisogno, essi hanno anche la capacità di assimilazione, di stupore, di fiducia, di spontaneità nel donarsi. Essi sono idonei alla gioia evangelica. Chi vuole entrare nel Regno, ci dice Gesù, deve innanzitutto guardare a loro (57). E ancora, noi raggiungiamo col pensiero tutti coloro che ricoprono piena responsabilità familiare, professionale, sociale. Il peso dei loro compiti, in un mondo estremamente instabile, toglie loro troppo spesso la possibilità di gustare le gioie quotidiane. Ma ciononostante esse esistono, e lo Spirito Santo vuole aiutarli a riscoprirle, a purificarle, a condividerle. Noi pensiamo al mondo dei sofferenti, a tutti coloro che stanno volgendo al termine della vita. La gioia di Dio bussa alla porta delle loro sofferenze fisiche e morali, non certamente per deriderli, ma per compiervi la sua paradossale opera di trasfigurazione. Il nostro spirito e il nostro cuore si rivolgono anche verso coloro che vivono al di là della sfera visibile del Popolo di Dio. Conformando la loro vita ai richiami più profondi della propria coscienza, che è l’eco della voce di Dio, anch’essi sono sulla via della gioia. Ma il Popolo di Dio non può avanzare senza guide. Sono i pastori, i teologi, i maestri di spirito, i sacerdoti e quanti con essi collaborano all’animazione delle comunità cristiane. La loro missione è di aiutare i fratelli ad incamminarsi sui sentieri della gioia evangelica, in mezzo alle realtà di cui è costituita la loro vita e dalle quali non potrebbero evadere. Sì, l’immenso amore di Dio chiama coloro che provengono dai diversi punti dell’orizzonte a confluire verso la Città celeste, sia che si trovino – in questo Anno Santo – vicini o ancora lontani. E dato che tutti questi convocati – cioè tutti noi – restiamo in qualche misura peccatori, occorre che cessiamo di indurire il nostro cuore, per ascoltare la voce del Signore e accogliere la proposta del grande perdono, così come l’annunciava il profeta Geremia: «Li purificherò da tutta l’iniquità con cui hanno peccato contro di me e perdonerò tutte le iniquità che hanno commesso verso di me e per cui si sono ribellati contro di me. Ciò sarà per me titolo di gioia, di lode e di gloria tra tutti i popoli della terra» (58). E poiché questa promessa di perdono, e tante altre, ricevono il loro significato definitivo nel sacrificio redentore di Gesù, Servo sofferente, soltanto Lui può dirci, in questo momento cruciale della vita dell’umanità: «Convertitevi e credete al Vangelo» (59). Il Signore vuol soprattutto farci comprendere che la conversione richiesta non è assolutamente un passo indietro, come avviene invece col peccato. Viceversa, la conversione è mettersi sulla giusta strada, progredire nella vera libertà e nella gioia. È risposta ad un invito che proviene da lui, amoroso, rispettoso e pressante nello stesso tempo: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (60). Infatti, vi è forse un peso più opprimente del peccato? Un’angoscia più desolata di quella del prodigo, descritta dall’evangelista san Luca? Al contrario, quale incontro più sconvolgente di quello tra il Padre, paziente e misericordioso, e il figlio tornato sui suoi passi? «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (61). Ma chi è senza peccato, al di fuori di Cristo e della sua Madre Immacolata? Perciò l’Anno Santo – promessa di giubilo per tutto il Popolo – col suo invito a tornare al Padre nel pentimento è anche un richiamo a riscoprire il significato e la pratica del sacramento della Riconciliazione. Sulla scia della migliore tradizione spirituale, noi ricordiamo ai fedeli e ai loro pastori che l’accusa delle colpe gravi è necessaria, e che la confessione frequente resta una sorgente privilegiata di santità, di pace e di gioia.

VI. LA GIOIA E LA SPERANZA NEL CUORE DEI GIOVANI Senza nulla togliere al calore con cui il nostro messaggio si indirizza a tutto il Popolo di Dio, vogliamo soffermarci qualche tempo per rivolgerci più ampiamente, e con una particolare speranza, al mondo dei giovani. Se infatti la Chiesa, rigenerata dallo Spirito Santo, è in un certo senso la vera giovinezza del mondo – in quanto resta fedele alla propria realtà e alla propria missione – potrebbe forse non riconoscersi spontaneamente, di preferenza, in quanti si sentono portatori di vita e di speranza, e impegnati ad assicurare il domani della storia presente? E, reciprocamente, coloro che in ogni periodo di questa storia percepiscono in se stessi più intensamente lo slancio della vita, l’attesa dell’avvenire, l’esigenza degli autentici rinnovamenti, potrebbero forse non essere intimamente in armonia con una Chiesa animata dallo Spirito di Cristo? Come potrebbero non aspettarsi da essa la trasmissione del suo segreto di permanente giovinezza, e quindi la gioia della loro propria giovinezza? Noi riteniamo che una tale corrispondenza esista di diritto e di fatto; non sempre visibilmente, ma certo in profondità, nonostante i molti ostacoli contingenti. Perciò, in questa Esortazione sulla gioia cristiana, la ragione e il cuore ci invitano a rivolgerci decisamente ai giovani del nostro tempo. Lo facciamo nel nome di Cristo e della sua Chiesa, che egli stesso vuole, malgrado le umane debolezze, «tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (62). Nel fare questo, non cediamo ad un ossequio sentimentale. Considerata dal solo punto di vista dell’età, la giovinezza è un fatto effimero. L’esaltazione che se ne fa diventa presto nostalgica o derisoria. Ma non è la stessa cosa per quanto riguarda il senso spirituale di questo momento di grazia, che è la giovinezza vissuta autenticamente. Ciò che attira la nostra attenzione è essenzialmente la corrispondenza – transitoria e minacciata, certamente, ma tuttavia significativa e ricca di generose promesse – tra lo slancio di un essere che naturalmente si apre ai richiami e alle esigenze del suo alto destino umano, e il dinamismo dello Spirito Santo, dal quale la Chiesa riceve inesauribilmente la propria giovinezza, il dono della sostanziale fedeltà a se stessa e, in questa fedeltà, la propria vitale creatività. Dall’incontro fra l’essere umano che possiede – per alcuni anni decisivi – la disponibilità della giovinezza, e la Chiesa nella sua permanente giovinezza spirituale, sgorga necessariamente, da una parte e dall’altra, un’intensissima gioia e una promessa di fecondità. La Chiesa, come Popolo di Dio pellegrinante verso il regno futuro, deve potersi perpetuare, e quindi rinnovare attraverso le generazioni umane: è una condizione di fecondità, e semplicemente di vita. È dunque importante che, in ogni momento della sua storia, la generazione che sorge appaghi, in qualche modo, la speranza delle generazioni precedenti, la speranza stessa della Chiesa, che è quella di trasmettere senza fine il dono di Dio, Verità e Vita. Per questo, in ogni generazione, i giovani cristiani devono ratificare, in piena coscienza e incondizionatamente, la alleanza da essi stipulata nel sacramento del Battesimo e consolidata nel sacramento della Confermazione. A questo proposito, la nostra epoca di profonde trasformazioni non è priva di gravi difficoltà per la Chiesa. Ne abbiamo una consapevolezza molto chiara, noi che portiamo, con tutto il Collegio episcopale, «la preoccupazione per tutte le Chiese» (63), e la sollecitudine per il loro futuro avvenire. Ma, nello stesso tempo, noi rileviamo nella fede e nella speranza che non delude (64), che la grazia non mancherà al Popolo cristiano. E noi auguriamo che questo non manchi alla grazia e non rinunci – come alcuni oggi sono tentati di fare – all’eredità di verità e di santità, pervenuta fino a questo momento decisivo della sua storia secolare. Noi riteniamo di possedere tutte le ragioni di confidare – poiché proprio di questo si tratta – nella gioventù cristiana: essa non verrà meno alla Chiesa se, nella Chiesa, vi saranno abbastanza persone mature, capaci di comprenderla, di amarla, di guidarla e di aprirle un avvenire, trasmettendole in tutta fedeltà la Verità che rimane. Allora nuovi operai, risoluti e ferventi, entreranno a loro volta per il lavoro spirituale e apostolico, nei campi che già biondeggiano per la mietitura. Allora chi semina e chi miete condivideranno la medesima gioia del Regno (65). Ci sembra infatti che la presente crisi del mondo, caratterizzata per molti giovani da una grande confusione, denunci da una parte l’aspetto senile – del tutto anacronistico – di una civiltà commerciale, edonistica, materialistica, che tenta ancora di spacciarsi come portatrice d’avvenire. Contro questa illusione, la reazione istintiva di numerosi giovani, pur nei suoi eccessi, esprime un valore reale. Questa generazione è in attesa di qualche altra cosa. Privata repentinamente di tradizioni protettive, e poi amaramente disillusa dalla vanità e dal vuoto spirituale delle false novità, delle ideologie atee, di certi misticismi deleteri, non sta forse per scoprire o per ritrovare la novità sicura e inalterabile del mistero divino rivelato in Gesù Cristo? Non ha forse egli – secondo la bella espressione di Sant’Ireneo – «disvelato ogni novità venendo nella sua persona»? (66) Per questo motivo ci piace dedicare in modo più esplicito a voi, giovani cristiani del nostro tempo, promessa della Chiesa di domani, questa celebrazione della gioia spirituale. Vi invitiamo cordialmente a rendervi attenti ai richiami interiori che vi pervengono. Vi stimoliamo ad elevare il vostro sguardo, il vostro cuore, le vostre fresche energie verso le altezze, ad affrontare lo sforzo delle ascensioni dello spirito. E vogliamo darvi questa certezza: nella misura in cui può essere deprimente il pregiudizio – oggi dappertutto diffuso – che lo spirito umano sarebbe incapace di attingere la Verità permanente e vivificante, altrettanto profonda e liberatrice è la gioia della Verità divina riconosciuta nella Chiesa: gaudium de Veritate (67). Questa è la gioia che vi offriamo. Essa si dona a chi l’ama tanto da cercarla tenacemente. Disponendovi ad accoglierla e a comunicarla, voi garantirete nello stesso tempo il vostro personale perfezionamento secondo il Cristo, e la prossima tappa storica del Popolo di Dio.

VII. LA GIOIA DEL PELLEGRINO IN QUESTO ANNO SANTO In questo cammino di tutto il Popolo di Dio si inscrive naturalmente l’Anno Santo, col suo pellegrinaggio. La grazia del Giubileo si ottiene, in effetti, mettendosi in cammino e avanzando verso Dio nella fede, nella speranza e nella carità. Diversificando i mezzi e i momenti di questo Giubileo, abbiamo voluto facilitare a ciascuno quanto è possibile. L’essenziale resta la decisione interiore di rispondere alla chiamata dello Spirito, in maniera personale, come discepoli di Gesù, come figli della Chiesa cattolica e apostolica e secondo l’intenzione di questa Chiesa. Il resto è nell’ordine dei segni e dei mezzi. Sì, l’auspicato pellegrinaggio è, per il Popolo di Dio, nel suo insieme e per ciascuna persona entro questo Popolo, un movimento, una Pasqua, cioè un passaggio verso il luogo interiore dove il Padre, il Figlio e lo Spirito l’accolgono nella loro intimità e unità divina: «Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio In amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (68). La scoperta di questa presenza suppone sempre un approfondimento della vera coscienza di sé, come creatura e figlio di Dio. Non è forse un rinnovamento interiore di tal genere quello voluto, in fondo, dal recente Concilio? (69) Senza dubbio, v’è ivi un’opera dello Spirito, un dono della Pentecoste. Parimenti bisogna riconoscere una intuizione profetica nel nostro Predecessore Giovanni XXIII, il quale previde come frutto del Concilio una specie di nuova Pentecoste (70). Anche noi abbiamo voluto metterci nella stessa prospettiva e nella medesima attesa. Non che la Pentecoste abbia mai cessato di essere attuale lungo il corso della storia della Chiesa, ma così grandi sono i bisogni e i pericoli di questo secolo, così vasti gli orizzonti di una umanità rivolta alla coesistenza mondiale ma impotente a realizzarla, che per essa non c’è salvezza, se non in una nuova effusione del dono di Dio. Venga dunque lo Spirito Creatore a rinnovare la faccia della terra! In questo Anno Santo noi vi abbiamo invitato a compiere, materialmente o in spirito e in intenzione, un pellegrinaggio a Roma, cioè al centro della Chiesa cattolica. Ma, è troppo evidente, Roma non costituisce il termine del nostro pellegrinaggio nel tempo. Nessuna città santa, quaggiù, può costituire questo termine. Esso è nascosto al di là di questo mondo, nel cuore del mistero di Dio, per noi ancora invisibile: noi, infatti, camminiamo nella fede, non nella chiara visione, e ciò che noi saremo non è stato ancora manifestato. La nuova Gerusalemme, di cui noi siamo fin d’ora cittadini e figli (71), discende dall’alto, da presso Dio. Di questa sola Città definitiva non abbiamo ancora contemplato lo splendore, se non come in uno specchio, in maniera confusa, tenendo ferma la parola dei profeti. Ma fin d’ora ne siamo i cittadini o siamo invitati a divenirlo; ogni pellegrinaggio spirituale trae il suo senso interiore da questa destinazione ultima. Così era della Gerusalemme celebrata dai salmisti. Gesù medesimo e Maria sua madre hanno cantato in terra, salendo a Gerusalemme, i cantici di Sion: «Bellezza perfetta, gioia di tutta la terra» (72). Ma è dal Cristo ormai che la Gerusalemme di lassù riceve la sua attrattiva, è verso di Lui che noi siamo indirizzati con un cammino interiore. Cosi è di Roma, dove i santi Apostoli Pietro e Paolo resero col sangue la loro ultima testimonianza. La vocazione di Roma è di provenienza apostolica, e il ministero che ci spetta di esercitarvi è un servizio a beneficio della Chiesa intera e dell’umanità. Ma esso è un servizio insostituibile, perché piacque alla sapienza di Dio porre la Roma di Pietro e Paolo, sulla strada, diciamo, che conduce alla Città eterna, per il fatto che essa ha scelto di affidare a Pietro – che unifica in sé il Collegio episcopale – le chiavi del Regno dei Cieli. Ciò che sta qui, non per effetto di volontà d’uomo, ma per libera e misericordiosa benevolenza del Padre, del Figlio e dello Spirito, è la soliditas Petri, come ebbe a celebrarla il nostro Predecessore san Leone Magno con questi termini indimenticabili: «San Pietro non cessa di presiedere alla sua sede e conserva una società senza fine col Sommo Sacerdote. La stabilità che egli ricevette dalla Pietra che è il Cristo, egli, divenuto anche lui Pietra, la trasmette ugualmente ai suoi successori; e dovunque appare qualche stabilità si manifesta indubbiamente la forza del Pastore . . . Ecco, è talmente in vigore e vita, nel Principe degli Apostoli, questo amore di Dio e degli uomini, che non lo hanno atterrito né la reclusione del carcere, né le catene, né le pressioni della folla, né le minacce dei re; e così è anche della sua fede invincibile, la quale non ha indietreggiato nel combattimento e non si è intiepidita nella vittoria» (73). Noi auguriamo in ogni tempo, ma soprattutto in questa celebrazione cattolica dell’Anno Santo, che, sia a Roma, sia in tutta la Chiesa, consapevole di doversi accordare con l’autentica tradizione conservata a Roma (74) voi possiate provare con noi «quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme» (75). È una gioia comune, veramente soprannaturale, un dono dello Spirito di unità e d’amore, che non è davvero possibile se non là dove la predicazione della fede è accolta integralmente, secondo la norma apostolica. E allora la Chiesa cattolica, «benché diffusa in tutto il mondo, conserva accuratamente questa fede come se essa abitasse in una sola casa, e vi crede unanimemente, come se non avesse che una sola anima e un solo cuore; e la predica, l’insegna e la trasmette in perfetto accordo, come se non avesse che una sola bocca» (76). Questa «sola casa», questo «cuore» e questa «anima» unici, questa «sola bocca», ecco quanto è indispensabile alla Chiesa e all’umanità nel suo insieme, affinché quaggiù possa elevarsi continuamente, in consonanza con la Gerusalemme di lassù, il cantico nuovo, l’inno della gioia divina. È la ragione per la quale anche noi dobbiamo rendere testimonianza umilmente, pazientemente, ostinatamente, fosse pure in mezzo all’incomprensione di molti, all’incarico ricevuto dal Signore di guidare il gregge e di confermare i nostri fratelli (77). Ma in quanti modi ci capita di essere, a nostra volta, confortati dai nostri fratelli, anche solo a pensare a voi tutti nel compiere la nostra missione apostolica a servizio della Chiesa universale, a gloria di Dio Padre.

CONCLUSIONE

Nel mezzo di quest’Anno Santo, noi abbiamo pensato di essere fedeli alle ispirazioni dello Spirito Santo, chiedendo ai cristiani di ritornare così alle sorgenti della gioia. Fratelli e Figli carissimi, non è forse normale che la gioia abiti in noi allorché i nostri cuori ne contemplano o ne riscoprono, nella fede, i motivi fondamentali? Essi sono semplici: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito; mediante il suo Spirito, la sua Presenza non cessa di avvolgerci con la sua tenerezza e di penetrarci con la sua Vita; e noi camminiamo verso la beata trasfigurazione della nostra esistenza nel solco della risurrezione di Gesù. Sì, sarebbe molto strano se questa Buona Novella, che suscita l’alleluia della Chiesa, non ci desse un aspetto di salvati. La gioia di essere cristiano, strettamente unito alla Chiesa, «nel Cristo», in stato di grazia con Dio, è davvero capace di riempire il cuore dell’uomo. Non è forse questa esultanza profonda che dà un accento sconvolgente al Mémorial di Pascal: «Gioia, gioia, gioia, pianti di gioia»? E vicinissimi a noi, quanti scrittori sanno esprimere in una forma nuova pensiamo per esempio a Georges Bernanos – questa gioia evangelica degli umili, che traspare dappertutto in un mondo che parla del silenzio di Dio! La gioia nasce sempre da un certo sguardo sull’uomo e su Dio: «Se il tuo occhio è sano, anche il tuo corpo è tutto nella luce» (78). Noi tocchiamo qui la dimensione originale e inalienabile della persona umana: la sua vocazione al bene passa per i sentieri della conoscenza e dell’amore, della contemplazione e dell’azione. Possiate voi cogliere quanto c’è di meglio nell’anima dei fratelli e questa Presenza divina tanto vicina al cuore umano. Che i nostri figli inquieti di certi gruppi respingano dunque gli eccessi della critica sistematica e disgregatrice! Senza allontanarsi da una visione realistica, le comunità cristiane diventino luoghi di ottimismo, dove tutti i componenti s’impegnano risolutamente a discernere l’aspetto positivo delle persone e degli avvenimenti. «La carità non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (79). L’educazione a un tale sguardo non è solamente compito della psicologia. Essa è anche un frutto dello Spirito Santo. Questo Spirito, che abita in pienezza nella persona di Gesù, lo ha reso, durante la sua vita terrena, così attento alle gioie della vita quotidiana, così delicato e così persuasivo per rimettere i peccatori sul cammino di una nuova giovinezza di cuore e di spirito! È questo medesimo Spirito che ha animato la Vergine Maria e ciascuno dei santi. È questo medesimo Spirito che dona ancor oggi a tanti cristiani la gioia di vivere ogni giorno la loro vocazione particolare nella pace e nella speranza, che sorpassano le delusioni e le sofferenze. È lo Spirito di Pentecoste che porta oggi moltissimi discepoli di Cristo sulle vie della preghiera, nell’allegrezza di una lode filiale, e verso il servizio umile e gioioso dei diseredati e degli emarginati dalla società. Poiché la gioia non può dissociarsi dalla partecipazione. In Dio stesso tutto è gioia poiché tutto è dono. Questo sguardo positivo sulle persone e sulle cose, frutto d’uno spirito umano illuminato e dello Spirito Santo, trova presso i cristiani un luogo privilegiato di arricchimento: la celebrazione del mistero pasquale di Gesù. Nella sua passione, morte e risurrezione il Cristo ricapitola la storia di ogni uomo e di tutti gli uomini, col loro peso di sofferenze e di peccati, con le loro possibilità di superamento e di santità. Perciò la nostra ultima parola in questa Esortazione è un appello pressante a tutti i responsabili e animatori delle comunità cristiane: non temano di insistere, a tempo e fuori tempo, sulla fedeltà dei battezzati a celebrare nella gioia l’Eucaristia domenicale. Come potrebbero essi trascurare questo incontro, questo banchetto che Cristo ci prepara nel suo amore? Che la partecipazione ad esso sia insieme degnissima e gioiosa! È il Cristo, crocifisso e glorificato, che passa in mezzo ai suoi discepoli, per trascinarli insieme nel rinnovamento della sua risurrezione. È il culmine, quaggiù, dell’Alleanza d’amore tra Dio e il suo popolo: segno e sorgente di gioia cristiana, tappa per la Festa eterna. Là il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vi guidino! Noi di gran cuore vi benediciamo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 9 maggio dell’anno 1975, dodicesimo del Nostro Pontificato.

PAOLO PP. VI

Publié dans:ESORTAZIONI APOSTOLICHE, PAPA PAOLO VI |on 11 décembre, 2015 |Pas de commentaires »

PAOLO VI – «CONOSCERE GESÙ CRISTO» L’ISPIRATA DECISIONE DI S. FRANCESCO D’ASSISI

https://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/audiences/1966/documents/hf_p-vi_aud_19661228.html

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 28 dicembre 1966

«CONOSCERE GESÙ CRISTO» L’ISPIRATA DECISIONE DI S. FRANCESCO D’ASSISI

Diletti Figli e Figlie!

Il primo biografo di S. Francesco d’Assisi, fra Tommaso da Celano, in Abruzzo, narra, al capitolo XXX della prima vita da lui scritta del Santo (1228), per ordine di Papa Gregorio IX, l’origine del Presepio, cioè della rappresentazione scenica della nascita di nostro Signore Gesù Cristo, secondo il Vangelo di San Luca, con l’aggiunta convenzionale del bue e dell’asinello (Isaia, 1, 3, vi ha dato occasione, e S. Ambrogio, con altri, la ricorda nella sua Expositio Evang. Luc. 2, 42; PL. 15, 1568). Scrive fra Tommaso che il supremo proposito di S. Francesco era quello di osservare in tutto e sempre il santo Vangelo. «Specialmente, egli scrive, l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione gli erano presenti alla memoria, così che raramente voleva pensare ad altro. Va ricordato a questo proposito e celebrato con riverenza quanto egli fece, tre anni prima di morire, presso il paese che si chiama Greccio, per il giorno di Natale del Signor nostro Gesù Cristo (cioè nel 1223). Viveva da quelle parti un certo Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, che il beato Francesco amava particolarmente, poiché, essendo quegli nobile e assai stimato trascurava la nobiltà del sangue e ambiva solo la nobiltà dello spirito. Il beato Francesco, come faceva spesso, circa quindici giorni prima del Natale lo fece chiamare e gli disse: Se hai piacere che celebriamo a Greccio questa festa del Signore, precedimi e prepara quanto ti dico. Voglio infatti celebrare la memoria di quel Bambino, che nacque a Betlem, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si trovava per la mancanza di quanto occorre ad un neonato; come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno, vicino al buone e all’asinello. Ciò udito, quell’uomo buono e pio se ne andò in fretta e preparò nel luogo indicato tutto ciò che il Santo aveva detto» (Vita prima, c. 30, Analecta Franciscana, X, p. 63).

Questa è l’origine del nostro presepio. «ANDIAMO A VEDERE». Ed ora che questa popolare rappresentazione della storia evangelica è nella mente di tutti, viene spontaneo riflettere come il Signore volle farsi conoscere e come il primo dovere che noi uomini abbiamo verso questo misterioso Fratello venuto in mezzo a noi è di conoscerlo. La prima conoscenza è quella sensibile, quella che San Francesco volle concedere a sé e agli altri con la composizione del presepio, quella di contemplare in qualche modo con gli occhi del corpo, «utcumque corporis oculis pervidere». Ed è una forma naturalissima di conoscenza, che Cristo volle concedere a quei fortunati, i quali poterono avvicinarlo durante la sua vita temporale, «in illo tempore», in quel tempo, come ci istruisce la lettura evangelica della santa Messa; ed è una forma desideratissima, che tutti vorremmo godere, ed i Santi più di tutti. Ricordate che cosa dicono i pastori, dopo l’annuncio dell’Angelo: «Andiamo a vedere»? (Luc. 2, 15) e il desiderio dei Gentili, presenti all’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme: «Vogliamo vedere Gesù»? (Io. 12, 21). E la testimonianza degli Apostoli: «. . . quello che abbiamo veduto con gli occhi nostri, quello che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato . . .»? (1 Io. 1, 1). Era il desiderio dell’Apostolo Tommaso: «Se non vedo . . . . se non tocco . . . . io non credo» (Io. 20, 25). Ma questa conoscenza sensibile ha avuto la sua funzione iniziale, parziale e passeggera per dare certezza concreta, positiva, storica a coloro che avrebbero poi avuto la missione di predicare la testimonianza circa la realtà umana e prodigiosa di Gesù, e di suscitare quella nuova forma di conoscenza, sulla quale è fondato tutto l’edificio religioso stabilito da Cristo: la fede. Fu Lui ad ammonirci: «Beati coloro che avranno creduto, senza avere veduto» (Io. 20, 29). «Per fede, scrive S. Paolo, noi camminiamo non per visione» (2 Cor. 5, 7). Ma sta il fatto che la venuta di Cristo nel mondo genera per noi il problema e di dovere di conoscerlo. Come conoscerlo? Ecco la domanda che ciascuno deve porre a se stesso: conosco io Gesù Cristo? Lo conosco davvero? Lo conosco abbastanza? Come posso conoscerlo meglio? Nessuno è in grado di rispondere in modo soddisfacente a questi interrogativi, non solo perché la conoscenza di Cristo pone tali problemi e nasconde tali profondità, che solo l’ignoranza, non l’intelligenza, può dirsi paga d’una qualsiasi nozione su Cristo; ma anche perché ogni nuovo grado di conoscenza che di Lui acquistiamo, invece di calmare il desiderio della conoscenza di Cristo, vieppiù lo risveglia: l’esperienza degli studiosi, e ancor più quella dei Santi, lo dice.

LA DOVEROSA COSTANTE RICERCA DI GESÙ Allora, Figli carissimi, bisogna che ci mettiamo alla ricerca di Gesù, cioè allo studio di quanto possiamo sapere su di Lui; ed ecco che ritorna a noi l’immagine del presepio, cioè il ricordo del racconto evangelico. La prima conoscenza, che dovremo avere di Cristo, è quella documentata dai Vangeli. Se non abbiamo avuto la fortuna della conoscenza diretta e sensibile del Signore, dobbiamo cercar di avere una conoscenza storica, una memoria sicura di Lui, dando la dovuta importanza alla forma umana, con cui il Verbo di Dio si è rivelato. E qui, subito, grandi discussioni, grandi difficoltà, grandi incantesimi di studi e di interpretazioni, che tentano diminuire il valore storico dei Vangeli stessi, specialmente quelli che si riferiscono alla nascita di Gesù e alla sua infanzia. Accenniamo appena a questa svalutazione del contenuto storico delle mirabili pagine evangeliche, affinché sappiate difendere, con lo studio e con la fede, la consolante sicurezza che quelle pagine non sono invenzione della fantasia popolare, ma dicono la verità. «Gli apostoli – scrive chi se ne intende, il Card. Bea – hanno un autentico interesse storico. Non si tratta evidentemente di un interesse storico nel senso della storiografia greco-latina, cioè della storia ragionata e cronologicamente ordinata, che sia fine a se stessa, bensì di un interesse agli avvenimenti passati come tali e dell’intenzione di riferire e tramandare fedelmente fatti e detti passati.

NUTRIRE LA FEDE CON LA LETTURA DEL VANGELO Ne è una riprova il concetto stesso di «testimone», «testimonianza», «testimoniare», che nelle sue varie forme ricorre nel Nuovo Testamento più di 150 volte (La storicità dei Vang. sin., in Civ. Catt., 1964; II, 417-436 e 526-545). Né altrimenti l’autorità del Concilio si è pronunciata: «Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce, o anche in iscritto, alcune altre sintetizzando, altre spiegando con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità» (Dei Verbum, 19). Rassicurati così, i fedeli devono dedicarsi innanzi tutto con devota passione alla lettura e allo studio delle fonti scritturali, che ci parlano di Gesù. La fede dev’essere nutrita di questa sacra dottrina. Se abbiamo bene celebrato il Natale, se ci siamo soffermati anche noi, con sapiente semplicità, davanti al presepio, dobbiamo noi pure desiderare quella «eminente scienza di Gesù Cristo» (Phil. 3, 8), che San Paolo anteponeva ad ogni altra cosa.

Conoscere Gesù Cristo: questa è oggi la Nostra esortazione, Figli carissimi, con la Nostra Apostolica Benedizione.

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