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SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI (2012)

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SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI (2012)

Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì Santo, 5 aprile 2012

Cari fratelli e sorelle!

Il Giovedì Santo non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato. Cerchiamo in quest’ora di capire più profondamente qualcosa di questi eventi, perché in essi si svolge il mistero della nostra Redenzione.
Gesù esce nella notte. La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita. Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità.
Durante questo cammino, Egli ha cantato con i suoi Apostoli i Salmi della liberazione e della redenzione di Israele, che rievocavano la prima Pasqua in Egitto, la notte della liberazione. Ora Egli va, come è solito fare, per pregare da solo e per parlare come Figlio con il Padre. Ma, diversamente dal solito, vuole sapere di avere vicino a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i tre che avevano fatto esperienza della sua Trasfigurazione – il trasparire luminoso della gloria di Dio attraverso la sua figura umana – e che Lo avevano visto al centro tra la Legge e i Profeti, tra Mosè ed Elia. Avevano sentito come Egli parlava con entrambi del suo “esodo” a Gerusalemme. L’esodo di Gesù a Gerusalemme – quale parola misteriosa! L’esodo di Israele dall’Egitto era stato l’evento della fuga e della liberazione del popolo di Dio. Quale aspetto avrebbe avuto l’esodo di Gesù, in cui il senso di quel dramma storico avrebbe dovuto compiersi definitivamente? Ora i discepoli diventavano testimoni del primo tratto di tale esodo – dell’estrema umiliazione, che tuttavia era il passo essenziale dell’uscire verso la libertà e la vita nuova, a cui l’esodo mira. I discepoli, la cui vicinanza Gesù cercò in quell’ora di estremo travaglio come elemento di sostegno umano, si addormentarono presto. Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa – come essi aggiungono – “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui.
Se ci domandiamo in che cosa consista l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio, nessuno lo ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del Padre … lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo affidarci. L’evangelista Marco, che ha conservato i ricordi di san Pietro, ci racconta che Gesù, all’appellativo “Abbà”, ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (cfr 14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.
Prima di riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio. Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.
Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si tratta di qualcosa di più. Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me. Così questo momento dell’angoscia mortale di Gesù è un elemento essenziale nel processo della Redenzione. La Lettera agli Ebrei, pertanto, ha qualificato la lotta di Gesù sul Monte degli Ulivi come un evento sacerdotale. In questa preghiera di Gesù, pervasa da angoscia mortale, il Signore compie l’ufficio del sacerdote: prende su di sé il peccato dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre.
Infine, dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Gesù dice: “Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato. Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita. Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà. Preghiamo il Signore di introdurci in questo “sì” alla volontà di Dio, rendendoci così veramente liberi. Amen.

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 31 mars, 2021 |Pas de commentaires »

quaresima 2019

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Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 13 mars, 2019 |Pas de commentaires »

Madonna con il bambino

paolo la vierge et l'enfat

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 20 février, 2019 |Pas de commentaires »

Christ carries his cross, Popiashvili David

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Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 30 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

La famiglia di Gesù

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Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 10 octobre, 2018 |Pas de commentaires »

XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (05/11/2017)

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Libertà della fede

don Luciano Cantini

XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (05/11/2017)

Gli scribi e i farisei
Il termine farisei è una parola proveniente dall’ebraico parûsh che significa «separati», i farisei si consideravano separati rispetto agli altri Israeliti, ritenuti meno osservanti della Torà (la Legge) di Mosè.
Il movimento farisaico era formato da laici impegnati nell’osservanza meticolosa della Legge mosaica, fin nelle minuzie, desideravano costituire un gruppo di fedelissimi testimoni di Jaweh; ritenevano che il loro comportamento avrebbe accelerato la venuta del Messia. Giuseppe Flavio, storico ebraico del primo secolo dice di loro: «essi godono fama d’interpretare esattamente le leggi, costituiscono la setta più importante, e attribuiscono ogni cosa al destino e a Dio». Per questo godevano della stima della gente semplice che nella pratica quotidiana, presa dalla fatica e dal lavoro, si trovava impedita rispetto a quanto la Legge sembrava imporre. Avevano una grande influenza sul Tempio e i suoi riti, legati come erano alle tradizioni erano anche innovatori perché stimolati a indagare nella Scrittura ed escogitare nuove norme nella logica conseguenza di quanto già stabilito.
Gli scribi facevano parte della classe dirigente, scriba deriva dall’ebraico «sopèr» (dal verbo «sapàr – contare»), lo scriba è l’uomo del libro, il custode della Legge, colui che legge, scrive e conta, interpretava e dava responsi sul senso della legge e sulle questioni giuridiche.
Il brano del Vangelo è fortemente polemico ma non è una condanna degli Ebrei del tempo di Gesù, né dell’Ebraismo odierno che conosciamo solo per qualche manifestazione esteriore. Dovremmo leggere l’espressione di Gesù come una sparata, nello stile dei profeti, contro tutti i falsi credenti, a qualsiasi comunità religiosa appartengano. Compreso i Cristiani che, per star dietro alle tradizioni precedenti al cristianesimo o per contrastare altre tradizioni, sono scivolati in alcuni devozionismi, che non hanno senso in una visione spirituale del primo e del secondo Testamento.
Per essere ammirati
Il capitolo 23 del Vangelo secondo Matteo snocciola una serie di «guai a voi» agli Scribi e ai Farisei definendoli «ipocriti», il brano di oggi mette le premesse facendo emergere le motivazioni di fondo di certe scelte di tipo religioso. Non perché non apparteniamo al mondo ebraico e neppure a quel movimento siamo esenti da certe deviazioni; dovremmo domandarci – soprattutto in ambito ecclesiale – quanto certe strutture, edifici, abiti, tradizioni, riti, manifestazioni… sono davvero per la gloria di Dio o per la soddisfazione degli uomini. Dovremmo domandarci con sincerità quale posto Dio occupa nella nostra vita religiosa, se viviamo più di religione che di Fede.
Una vita eticamente ineccepibile e le celebrazioni rituali tipiche di una vita “religiosa” cadono facilmente nel formalismo senza la Fede, mentre la Fede si confonde con forme di spiritualismo intimistico se vissute senza manifestazioni di tipo religioso. La religiosità è una esigenza umana in cerca di una relazione con Dio (con il rischio di fermarsi davanti ad una immagine artificiale di Dio), mentre la fede nasce da Dio: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (1 Gv 4,10; Rm 5,8); nella fede si riconosce l’amore di Dio per l’uomo per poi rispondere conseguentemente nella vita.
La religione, così come è vissuta dai farisei, è basato troppo sullo sforzo dell’uomo per permettere l’accesso alla conoscenza di Dio; la pratica religiosa stringente è di ostacolo all’incontro della libertà dell’individuo con l’obbedienza che si deve a Dio che chiama.
Non fatevi chiamare
Gesù non condanna i titoli in sé (anche se certe forme di spagnolismo o di etichetta ecclesiastica finiscono per creare differenze e distanze), ma il vuoto e la perversione che c’è dietro di essi. La preoccupazione del titolo, della immagine porta alla vanità; quando si usa un abito per proteggersi, nascondersi piuttosto che rivelarsi, quando ci preoccupiamo di più di come si appare all’esterno piuttosto che curare l’interiorità, in tutti i campi dell’agire umano e tanto più nella Chiesa, svuotiamo di senso le relazioni umane e viviamo una religione senza Dio. Il mondo di oggi abbonda di maestri e insegnanti che vogliono dire la loro – basta ascoltare i commenti alle partite di calcio -, ognuno ha una idea originale da esprimere, un concetto innovativo, ma è povero di testimoni, uomini e donne coerenti che parlano con la loro vita. Paolo VI lo ha capito affermando: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (2 ottobre 1974).

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 3 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

UNA SPINA NELLA CARNE: DALLA DEBOLEZZA LA FORZA

http://www.gliscritti.it/approf/2009/papers/lonardo190709.htm

UNA SPINA NELLA CARNE: DALLA DEBOLEZZA LA FORZA

di Andrea Lonardo

Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito

Il Centro culturale Gli scritti (4/4/2009)

«Ho scoperto che si può essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino. Mi dicevo: “Per Te, Signore, non dico che lo detesto”. Il fatto di non aver sulla bocca queste parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di perdono».
Così Ingrid Betancourt ha raccontato della sua prigionia, durata ben sei anni nella giungla dove era stata condotta dopo il suo rapimento.
Paolo visse parte del suo periodo romano in una analoga situazione di carcere. Già la sua prima abitazione era stata una custodia militaris, cioè qualcosa di simile agli arresti domiciliari o ad una libertà vigilata. Quella condizione doveva poi essersi trasformata in una vera e propria detenzione
La tradizione conserva nei sotterranei della Chiesa di S. Maria in via Lata (l’antico nome dell’odierna via del Corso) una colonna alla quale Paolo sarebbe stato legato; su di essa venne poi posta l’iscrizione Verbum Domini non est alligatum, «la Parola di Dio non è incatenata» (2 Tim 2,9).

Più noto ancora è il Carcere Mamertino, il luogo di detenzione dei prigionieri che sfilavano al seguito dei cortei degli imperatori vincitori. Mentre gli Augusti salivano al Tempio della Triade Capitolina, ad offrire sacrifici agli dèi di Roma per la vittoria ottenuta, i prigionieri venivano lì custoditi, in attesa della loro esecuzione capitale. Vi passarono certamente le loro ultime ore di vita Giugurta, re della Numidia, Vercingetorige, capo dei Galli, Aristobulo II, che si era opposto a Pompeo quando questi conquistò la Siria e Gerusalemme, Simone di Ghiora, uno dei leader che guidarono e persero la I guerra giudaica contro Roma che si concluse con la distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Probabilmente san Paolo trascorse in quel luogo la sua ultima detenzione, così come avvenne per Pietro. La parte inferiore del carcere, detta Tullianum, conserva la memoria del battesimo che gli apostoli avrebbero impartito ai loro carcerieri che erano stati convertiti al Signore dalla testimonianza di fede e di amore dei loro due prigionieri.

Certo è che l’esperienza della prigionia fu per Paolo non solo dolorosa, ma anche feconda. Egli ben comprese che nella propria carne proseguiva l’opera di Cristo, dalla cui croce era nata la salvezza. Le catene non erano così semplicemente da affrontare o da fuggire, ma da trasformare in occasione di grazia.

Innanzitutto dal carcere Paolo scrisse le cosiddette “lettere dalla prigionia”, certamente Filippesi e Filemone che sono unanimemente riconosciute di mano paolina dagli esegeti. Ma anche Efesini e Colossesi, oltre alla seconda a Timoteo, conservano memoria del carcere di Paolo. Non è certo se tutti questi testi siano stati scritti nel corso della prigionia romana come afferma la tradizione o se si debba ipotizzare una prigionia efesina non esplicitamente attestata dagli Atti.

Nelle catene, comunque, egli continuava a vivere la responsabilità per tutte le chiese che lo aveva sempre animato e dalla detenzione confortava i suoi fratelli. Ma, ancor più, la sua testimonianza restava viva in prigione e diveniva annuncio di fede, come l’apostolo stesso racconta:

«Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio – e dovunque – si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno» (Fil 1,12-14). Era solo per amore di Cristo che egli veniva recluso.

Già a Filippi Paolo era stato miracolosamente liberato dal carcere ed il carceriere si era convertito ed era stato battezzato insieme a tutti i suoi (At 16). Dal sangue e dalle catene dei martiri, in continuità con la croce di Cristo, continuava ad erompere l’acqua del battesimo e della salvezza.

In un famosissimo passaggio della seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo parla di una “spina nella carne” (2 Cor 12,7) che Dio non aveva voluto togliergli, nonostante le ripetute preghiere in merito. Il grande esegeta gesuita Ugo Vanni, così commenta questo termine misterioso, rifiutando quelle interpretazioni che vi avevano voluto leggere un peccato della sensualità: la spina nella carne è la «situazione di conti che non tornano: Paolo si sentiva inviato da Dio a portare il Vangelo, era guidato dallo Spirito anche nei suoi piani apostolici, faceva dei progetti apostolici e a un certo punto le circostanze esterne e poi le circostanze sue personali – la sua salute – non gli permettevano di realizzarli».

Nella stessa lettera Paolo enumera, in maniera impressionante, tutte le vessazioni che ha dovuto subire: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11,24-28).

Era questa la “spina nella carne” che Paolo doveva accogliere; il Cristo lo invitava a non fuggire l’incomprensione, l’ostilità ed addirittura l’odio che incontrava, ma a trarne motivo ed occasione di annuncio e di testimonianza. Paolo dichiara così, nella stessa lettera, la fecondità del suo essere esposto alla morte in favore della vita di coloro che accoglievano la fede:

«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita» (2 Cor 4,7-12).

Da quelle catene, dalla morte di Paolo e Pietro, è giunta a noi la fede.

N.B. Questo il testo integrale della Betancourt da cui è presa la citazione che compare all’inizio dell’articolo:

(N.d.R. Il testo è stato raccolto per il settimanale francese «La Vie» da Elisabeth Marshall e pubblicato in italiano da Avvenire del 21 gennaio 2009, con il titolo Ingrid, la fede e il perdono. Ingrid Betancourt, candidata alle presidenziali in Colombia, viene rapita nel 2002 tre mesi prima delle lezioni, dalle Farc, sigla che designa le Forze Armate Rivoluzionarie. È stata liberata il 2 luglio 2008, dopo 6 anni di prigionia)

«Ho scoperto la fede in Dio durante la mia prigionia. Fino ad allora, la mia fede era basata sul ritualismo: come molti cattolici, andavo a messa, pregavo, ma la mia conoscenza di Dio era molto limitata. Quando mi sono ritrovata nella giungla, ho avuto molto tempo e per unica lettura la Bibbia. Ho avuto il piacere, in sei anni, di leggerla, di meditarla. Se avessi avuto altre cose da fare, avrei fatto altro, perché si è sempre pigri per riflettere sull’essenziale.

Forse era una prigionia necessaria. Essa mi ha permesso di capire chi è Dio, di stabilire una relazione con lui, con molta ammirazione, molto amore ma – soprattutto – comprendendo chi è, attraverso la sua parola. Per me non si tratta di parole vuote ma di una realtà: leggendo la Bibbia, ho compreso il carattere di Dio; non è solo una luce, un’energia o soltanto una forza, ma è una Parola, qualcuno che vuole comunicare con me. Non ho avuto illuminazioni, no! Ho semplicemente letto la Bibbia, razionalmente. Sono stata colpita da tutti i brani che mi hanno connesso emozionalmente e interiormente con la parola di Dio. Ho sentito la voce di Dio in un modo assai umano e molto concreto.

Leggevo e rileggevo alcuni passaggi dicendomi: «Questo è stato scritto per me!». Avevo sentito a lungo senza capire e, di colpo, è stato come se mi fossi collegata alla presa di corrente giusta. In un momento, la luce si accende e si capiscono tutte le cose che erano rimaste oscure. Ancora una volta, non si tratta di un’esperienza mistica ma razionale, che ha profondamente trasformato la mia vita.

Come sono cambiata! Oggi il mio tempo non è il tempo di prima. Avevo sempre voglia che le cose andassero in fretta. Oggi non mi preoccupo più: so che tutto capita al tempo giusto. La mia speranza dunque è più forte. Il passaggio attraverso la prigionia non ha ucciso la mia volontà, anzi ha cambiato la natura della mia speranza.

La sola risposta alla violenza è una risposta d’amore. Questa risposta d’amore, questo atteggiamento non violento, per me, ha avuto origine dalla fede cristiana. Ho scoperto che si può essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino.

Mi dicevo: «Per Te, Signore, non dico che lo detesto». Il fatto di non aver sulla bocca queste parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di perdono. Sono riuscita a perdonare, e non solo ai miei sequestratori. Ho perdonato anche quelli che erano prigionieri con me, con i quali talvolta ci sono stati momenti molto difficili.

Ho perdonato quei miei amici che non si sono ricordati di noi, quelle persone sulle quali si fa affidamento e che sono mancate; quelle persone che amavo e che hanno detto delle cose orribili, come, ad esempio, che la prigionia me l’ero cercata. Oggi credo più profondamente che possiamo cambiare il mondo perché io stessa sono stata trasformata. Ma, in questo mondo di dominio e di possesso, so come è nel cuore che si generano i cambiamenti essenziali. La pace, che sogniamo, sarà possibile il giorno in cui ci sarà un atteggiamento diverso nei cuori».

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 20 juin, 2017 |Pas de commentaires »
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