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29 APRILE : SANTA CATERINA DA SIENA – BENEDETTO XVI
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
AULA PAOLO VI
MERCOLEDÌ, 24 NOVEMBRE 2010
SANTA CATERINA DA SIENA
Cari fratelli e sorelle,
quest’oggi vorrei parlarvi di una donna che ha avuto un ruolo eminente nella storia della Chiesa. Si tratta di santa Caterina da Siena. Il secolo in cui visse – il quattordicesimo – fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento. Caterina è una di queste e ancor oggi ella ci parla e ci sospinge a camminare con coraggio verso la santità per essere in modo sempre più pieno discepoli del Signore.
Nata a Siena, nel 1347, in una famiglia molto numerosa, morì a Roma, nel 1380. All’età di 16 anni, spinta da una visione di san Domenico, entrò nel Terz’Ordine Domenicano, nel ramo femminile detto delle Mantellate. Rimanendo in famiglia, confermò il voto di verginità fatto privatamente quando era ancora un’adolescente, si dedicò alla preghiera, alla penitenza, alle opere di carità, soprattutto a beneficio degli ammalati.
Quando la fama della sua santità si diffuse, fu protagonista di un’intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone consacrate, ecclesiastici, compreso il Papa Gregorio XI che in quel periodo risiedeva ad Avignone e che Caterina esortò energicamente ed efficacemente a fare ritorno a Roma. Viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati: anche per questo motivo il Venerabile Giovanni Paolo II la volle dichiarare Compatrona d’Europa: il Vecchio Continente non dimentichi mai le radici cristiane che sono alla base del suo cammino e continui ad attingere dal Vangelo i valori fondamentali che assicurano la giustizia e la concordia.
Caterina soffrì tanto, come molti Santi. Qualcuno pensò addirittura che si dovesse diffidare di lei al punto che, nel 1374, sei anni prima della morte, il capitolo generale dei Domenicani la convocò a Firenze per interrogarla. Le misero accanto un frate dotto ed umile, Raimondo da Capua, futuro Maestro Generale dell’Ordine. Divenuto suo confessore e anche suo “figlio spirituale”, scrisse una prima biografia completa della Santa. Fu canonizzata nel 1461.
La dottrina di Caterina, che apprese a leggere con fatica e imparò a scrivere quando era già adulta, è contenuta ne Il Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina, un capolavoro della letteratura spirituale, nel suo Epistolario e nella raccolta delle Preghiere. Il suo insegnamento è dotato di una ricchezza tale che il Servo di Dio Paolo VI, nel 1970, la dichiarò Dottore della Chiesa, titolo che si aggiungeva a quello di Compatrona della città di Roma, per volere del Beato Pio IX, e di Patrona d’Italia, secondo la decisione del Venerabile Pio XII.
In una visione che mai più si cancellò dal cuore e dalla mente di Caterina, la Madonna la presentò a Gesù che le donò uno splendido anello, dicendole: “Io, tuo Creatore e Salvatore, ti sposo nella fede, che conserverai sempre pura fino a quando celebrerai con me in cielo le tue nozze eterne” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 115, Siena 1998). Quell’anello rimase visibile solo a lei. In questo episodio straordinario cogliamo il centro vitale della religiosità di Caterina e di ogni autentica spiritualità: il cristocentrismo. Cristo è per lei come lo sposo, con cui vi è un rapporto di intimità, di comunione e di fedeltà; è il bene amato sopra ogni altro bene.
Questa unione profonda con il Signore è illustrata da un altro episodio della vita di questa insigne mistica: lo scambio del cuore. Secondo Raimondo da Capua, che trasmette le confidenze ricevute da Caterina, il Signore Gesù le apparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse e disse: “Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore che tu mi offrivi, ecco che ora ti do il mio, e d’ora innanzi starà al posto che occupava il tuo” (ibid.). Caterina ha vissuto veramente le parole di san Paolo, “… non vivo io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Come la santa senese, ogni credente sente il bisogno di uniformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo per amare Dio e il prossimo come Cristo stesso ama. E noi tutti possiamo lasciarci trasformare il cuore ed imparare ad amare come Cristo, in una familiarità con Lui nutrita dalla preghiera, dalla meditazione sulla Parola di Dio e dai Sacramenti, soprattutto ricevendo frequentemente e con devozione la santa Comunione. Anche Caterina appartiene a quella schiera di santi eucaristici con cui ho voluto concludere la mia Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis (cfr n. 94). Cari fratelli e sorelle, l’Eucaristia è uno straordinario dono di amore che Dio ci rinnova continuamente per nutrire il nostro cammino di fede, rinvigorire la nostra speranza, infiammare la nostra carità, per renderci sempre più simili a Lui.
Attorno ad una personalità così forte e autentica si andò costituendo una vera e propria famiglia spirituale. Si trattava di persone affascinate dall’autorevolezza morale di questa giovane donna di elevatissimo livello di vita, e talvolta impressionate anche dai fenomeni mistici cui assistevano, come le frequenti estasi. Molti si misero al suo servizio e soprattutto considerarono un privilegio essere guidati spiritualmente da Caterina. La chiamavano “mamma”, poiché come figli spirituali da lei attingevano il nutrimento dello spirito.
Anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate. “Figlio vi dico e vi chiamo – scrive Caterina rivolgendosi ad uno dei suoi figli spirituali, il certosino Giovanni Sabatini -, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio” (Epistolario, Lettera n. 141: A don Giovanni de’ Sabbatini). Al frate domenicano Bartolomeo de Dominici era solita indirizzarsi con queste parole: “Dilettissimo e carissimo fratello e figliolo in Cristo dolce Gesù”.
Un altro tratto della spiritualità di Caterina è legato al dono delle lacrime. Esse esprimono una sensibilità squisita e profonda, capacità di commozione e di tenerezza. Non pochi Santi hanno avuto il dono delle lacrime, rinnovando l’emozione di Gesù stesso, che non ha trattenuto e nascosto il suo pianto dinanzi al sepolcro dell’amico Lazzaro e al dolore di Maria e di Marta, e alla vista di Gerusalemme, nei suoi ultimi giorni terreni. Secondo Caterina, le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo (…). Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso” (Epistolario, Lettera n. 21: Ad uno il cui nome si tace).
Qui possiamo comprendere perché Caterina, pur consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi: essi dispensano, attraverso i Sacramenti e la Parola, la forza salvifica del Sangue di Cristo. La Santa senese ha invitato sempre i sacri ministri, anche il Papa, che chiamava “dolce Cristo in terra”, ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa. Prima di morire disse: “Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 363).
Da santa Caterina, dunque, noi apprendiamo la scienza più sublime: conoscere ed amare Gesù Cristo e la sua Chiesa. Nel Dialogo della Divina Provvidenza, ella, con un’immagine singolare, descrive Cristo come un ponte lanciato tra il cielo e la terra. Esso è formato da tre scaloni costituiti dai piedi, dal costato e dalla bocca di Gesù. Elevandosi attraverso questi scaloni, l’anima passa attraverso le tre tappe di ogni via di santificazione: il distacco dal peccato, la pratica della virtù e dell’amore, l’unione dolce e affettuosa con Dio.
Cari fratelli e sorelle, impariamo da santa Caterina ad amare con coraggio, in modo intenso e sincero, Cristo e la Chiesa. Facciamo nostre perciò le parole di santa Caterina che leggiamo nel Dialogo della Divina Provvidenza, a conclusione del capitolo che parla di Cristo-ponte: “Per misericordia ci hai lavati nel Sangue, per misericordia volesti conversare con le creature. O Pazzo d’amore! Non ti bastò incarnarti, ma volesti anche morire! (…) O misericordia! Il cuore mi si affoga nel pensare a te: ché dovunque io mi volga a pensare, non trovo che misericordia” (cap. 30, pp. 79-80). Grazie.
L’APOSTOLO DELL’UMANESIMO – (IN MARITAIN…IN FILIGRANA L’ISPIRAZIONE DEL PENSIERO PAOLINO)
http://www.stpauls.it/jesus/0904je/0904je92.htm
L’APOSTOLO DELL’UMANESIMO
(IN MARITAIN…IN FILIGRANA L’ISPIRAZIONE DEL PENSIERO PAOLINO)
DI PIERO VIOTTO
In tutte le maggiori opere del filosofo francese si intravvede, in filigrana, l’ispirazione del pensiero paolino. Umanesimo integrale, d’altronde, non è che la traduzione moderna dell’antropologia esistenziale di san Paolo.
Jacques Maritain nel 1944, al Congresso di filosofia a Port-au-Prince (Haiti), indicando la missione del filosofo, ebbe a dire: «Più questa causa è grande, più ci sentiamo piccoli e inadeguati ad essa. È la causa dell’intelligenza e della filosofia nella ricerca della verità e di quell’assoluto nel quale noi siamo, noi viviamo, noi ci moviamo, come diceva Bergson, recuperando un pensiero di san Paolo. È la causa di questo umanesimo integrale che ci attende come il segno e il simbolo di una nuova civiltà, nella quale l’ispirazione democratica e l’ispirazione evangelica saranno riconciliate». Con queste parole Maritain non solo riassume la sua filosofia ma indica anche gli inizi della sua avventura culturale, che prima ancora di incontrare san Tommaso è stata influenzata da Bergson e da san Paolo. Fatte le debite distinzioni concernenti i piani di ricerca, perché le tre saggezze, filosofica, teologica, mistica, si muovano a livelli diversi e complementari, Maritain cita nelle sue opere le Lettere lavorando su quei testi sacri, ma distingue con chiarezza l’approccio della ragione e l’approccio della fede e distingue tra il vocabolario del sapere pratico e il vocabolario del sapere teoretico, perché bisogna tenere presente la natura specifica delle Lettere di San Paolo, e degli Atti degli apostoli che riportano i discorsi e le vicende dell’Apostolo delle Genti. Gli Atti degli apostoli sono una narrazione storica e le Lettere di San Paolo sono lettere pastorali, anche se, implicitamente, veicolano definizioni dogmatiche. Ciò detto, Maritain in Della grazia e della umanità di Gesù (1967) scrive: «Per quanto cari e per quanto venerabili siano per noi i Padri della Chiesa e i Dottori, i più grandi tra di loro, un milione di sant’Agostino, un milione di san Tommaso, non faranno mai un san Luca o un san Paolo».
Rembrandt, San Paolo in meditazione, Museo nazionale di Norimberga
(foto Scala, Firenze).
Maritain interpreta e commenta i numerosi testi paolini, trovando le connessioni tra i diversi gradi del sapere, e prende proprio da un versetto di Paolo l’ispirazione per il suo programma di vita intellettuale. Paolo, presentando la sua missione, aveva scritto «Guai a me se non evangelizzo» (I Corinzi 9, 16); Maritain dichiara «Guai a me se non tomistizzo»; ma in filigrana, sotto le argomentazioni filosofiche, si può cogliere lo zampillare del pensiero di san Paolo. Journet, che in una lunga corrispondenza (quasi 2 mila lettere dal 1920 al 1973) segue il filosofo nelle sue riflessioni, discutendo con lui temi teologici, gli scrive: «Ovunque voi andiate, è un po’ della Chiesa che va con voi, è un po’ di san Paolo, che voi tanto amate e che vi accompagna nella testimonianza che voi date alla verità» (29 giugno 1949).
Maritain dedica un libro all’Apostolo delle Genti: Il pensiero di san Paolo (1941), col sottotitolo « Testi scelti e presentati dall’autore », ma che è una vera ristrutturazione per temi delle Lettere che presenta il pensiero paolino in un modo sistematico. È interessante il giudizio sulla formazione di Paolo: «Il padre di Saulo era fariseo, ed è facile pensare che l’educazione giovanile del futuro apostolo non sia stata ispirata che in piccola parte alla mentalità ellenistica. Il suo greco resterà sempre una lingua viva, immaginifica, popolaresca, mirabilmente espressiva e pratica, ma ben diversa dal linguaggio delle scuole. Ciononostante, egli acquisì, indubbiamente più attraverso la letteratura ellenistica o greco-giudaica che dai maestri greci di Tarso, la cultura ellenistica conveniente a un uomo di educazione umanistica, e di cui troveremo tracce nelle sue lettere».
Seguendo la cronologia degli avvenimenti, Maritain sottolinea come due pensieri abbiano orientato la sua riflessione teologica: la frase di Stefano, che sta per essere lapidato («Voi che avete accolto la legge e non l’avete osservata»); e quella di Gesù, che gli appare sulla via di Damasco («Io sono colui che tu perseguiti»). Il filosofo scorge in questi approcci le due tematiche fondamentali di Paolo: la legge è necessaria, va rispettata, ma non è sufficiente alla salvezza, e i cristiani costituiscono il corpo mistico di Cristo, di cui egli è il Capo.
Predica di San Paolo, opera di Luca di Tommè (1330-1389 ca)
conservata alla Pinacoteca Nazionale di Siena
(foto Ministero Beni e Attività Culturali/Scala, Firenze).
Maritain riscontra un parallelismo tra la passione di Paolo e la Passione di Gesù. Entrambi sono accusati di irreligiosità e di non rispettare le leggi mosaiche e consegnati ai Gentili, al tribunale civile. Entrambi vengono condannati alla flagellazione, ma Paolo riesce ad evitarla perché dichiara di essere cittadino romano. Entrambi sono giudicati dal tribunale religioso, ma Paolo viene liberato dai soldati romani, che lo portano via dal Sinedrio. Entrambi si trovarono di fronte al potere politico locale: Gesù fu trascinato davanti a Erode, Paolo durante la prigionia a Cesarea fu condotto davanti al re Erode Agrippa II. Ma in queste sequenze di avvenimenti si riscontra una diversità di comportamento, perché mentre Gesù rimane silenzioso e risponde brevemente agli interrogatori, immerso già nelle tenebre della morte imminente, Paolo, che dopo la morte di Gesù, vive nel tempo della Chiesa, continua la sua predicazione anche in tribunale.
Maritain individua le caratteristiche della vocazione di san Paolo chiamato a evangelizzare i Gentili, gli infedeli per gli ebrei, quelli che non avrebbero parte all’elezione divina. «Paolo ha ricevuto una consapevolezza straordinaria, chiara e profonda della sua missione, cosciente così della sua debolezza di creatura umana come della potenza della grazia; l’apostolo non è legato a nulla e a nessuno, fuorché a Dio». Maritain considera la natura specifica della saggezza paolina, che si muove tra la teologia e la mistica, più scienza pratica al servizio della pastorale, che una scienza teoretica, che mira a definizioni concettuali.
L’opera più nota di Maritain Umanesimo integrale (1936) non fa che tradurre in termini moderni l’antropologia esistenziale di san Paolo. Infatti, umanesimo integrale non è altro che il cristianesimo integrale, che distingue senza separare il piano dello spirituale dal piano del temporale, la grazia dalla libertà, la soprannatura dalla natura, la politica dalla religione. La conclusione dell’opera, che distingue tra agire da cristiano sul piano della cultura e della politica e agire in quanto cristiano sul piano della religione, è in sintonia col pensiero paolino, tanto che Maritain scrive: «Qualunque cosa facciate, dice san Paolo, fatela in nome di Cristo. Se la grazia ci rigenera, se fa di ciascuno di noi un uomo nuovo, non avviene perché noi mercanteggiamo con l’uomo vecchio… In realtà la giustizia evangelica e la vita di Cristo in noi vogliono tutto in noi, vogliono impadronirsi di tutto ciò che noi facciamo, nel sacro come nel profano».
Hans Süss von Kulmbach, Conversione di San Paolo, Galleria degli Uffizi,
Firenze (foto Ministero Beni e Attività Culturali/Scala, Firenze).
I testi di san Paolo riguardanti l’uomo carnale, che si contrappone all’uomo spirituale, non vanno letti in senso ontologico, come contrapposizione tra il corpo e l’anima, ma in senso morale, come contrapposizione tra una vita di peccato e una vita nella grazia. Maritain riporta questo testo: «L’uomo naturale non può comprendere le cose dello Spirito di Dio, esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello spirito; l’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno». (1Corinzi II, 14-15). Ha così assimilato questo testo paolino che, giudicando l’uomo borghese, che separa la morale dalla politica, la coscienza etica dagli affari economici, scrive: «Lo sforzo di Marx, come più tardi quello di Freud, sarà stato quello di denunciare la menzogna di questa falsa coscienza, che ricopre e dissimula profonde correnti incoscienti, non solo gli interessi economici, gli interessi di classe, ma tutto quel mondo della concupiscenza e dell’amore egoistico di sé, dell’irrazionale e del demoniaco, che si è voluto negare e che nessuno caratterizzerà mai meglio di come abbia fatto san Paolo».
Bisogna vivere in questo mondo con spirito di povertà e di sobrietà perché «coloro che vogliono diventare ricchi incappano nella tentazione, e in molte bramosie insensate e funeste… L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali» (1Timoteo VI, 9-10). Maritain commenta: «Quanto san Paolo dice intorno al denaro concerne indubbiamente, in via principale, i mali spirituali che esso genera, ma si riferisce anche ai disordini e ai mali di cui soffre la città terrena».
Per quanto riguarda il lavoro, san Paolo, che praticava il mestiere di tessitore di tende, raccomanda a tutti di lavorare per guadagnarsi da vivere e giunge ad affermare «chi non vuole lavorare non mangi» (II Tessalonicesi III, 10). Se rimanda lo schiavo Onesimo al suo padrone, nella lettera gli raccomanda di riceverlo «non più come schiavo, ma molto di più che schiavo, come un fratello carissimo» (Filemone I, 36).
Hans Süss von Kulmbach, Cattura dei SS. Pietro e Paolo, Galleria degli Uffizi,
Firenze (foto Ministero Beni e Attività Culturali/Scala, Firenze).
Non c’è in Paolo un disprezzo della natura, perché se la grazia può innalzare la natura, è perché la natura già in sé stessa è qualcosa di buono. Maritain considera anche il matrimonio e la questione femminile. San Paolo che proclama il matrimonio come simbolo dell’unione di Cristo e della Chiesa (Efesini V, 22-33), nella Prima lettera ai Corinzi, in cui sottolinea che lo stato verginale è oggettivamente superiore allo stato sponsale, sembra sconsigliare il matrimonio. Maritain osserva: «Cadrebbe in grave errore chi credesse che tutto il pensiero dell’apostolo a riguardo dell’intero problema si riduca alla visione del matrimonio come rimedio contro la concupiscenza». Anche a riguardo della subordinazione della donna all’uomo nel matrimonio non bisogna equivocare, perché non si tratta di una subordinazione a livello di valore e di dignità ma a livello di funzionalità legata alla natura della sessualità, perché i due sessi non sono intercambiabili. La parità nella reciprocità è da san Paolo esplicitamente dichiarata quando scrive «la moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito, allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma la moglie» (1Corinzi, VII, 4).
In due suoi libri – Il contadino della Garonna (1966) e La Chiesa del Cristo (1970), un dittico, l’uno essendo la pars destruens e l’altro la pars costruens della sua analisi ecclesiologica – Maritain riporta e commenta trenta testi dalle Lettere per sostenere la tesi secondo cui la Chiesa è una persona. La Chiesa non è un insieme anonimo, un collettivo di individui che si costituiscono in un ente politico o economico, ma è una persona, che prolunga nella storia l’Incarnazione: «San Paolo ci insegna che la Chiesa è una persona, non una moltitudine dotata, in senso analogico, di una personalità morale, ma veramente una persona, e questo è il suo privilegio, essenzialmente soprannaturale e unico». Maritain analizza la natura di questo organismo, precisando che ha un’anima, la grazia, e una vita, la carità, che sono una partecipazione della vita divina, e un corpo, il grande e complesso organismo visibile, che ha cominciato a prendere forma fin dall’epoca degli apostoli. «Da Colui che è la testa, il Cristo, il corpo intero riceve proporzionata consistenza e coesione, per mezzo delle varie articolazioni, che lo nutrono e lo muovono secondo la funzione di ciascuna parte, operando così la crescita e costruendo sé stesso nella carità» (Efesini IV, 15-16).
Così si costruisce l’uomo nuovo, e Maritain, continuando nel commento alla Lettera agli Efesini, precisa che Paolo ci dice proprio questo: «Il Cristo è la pienezza di tutto, che si riversa nella Chiesa, e la Chiesa è la pienezza di Cristo». E alla fine della storia, la Chiesa «farà ritorno alla pienezza di Dio» in una unità di natura, di grazia, di gloria. Per attuare questo disegno, che l’uomo peccatore ha guastato, Paolo dice che il Cristo si è fatto peccato per salvarci ed è morto crocefisso.
La Chiesa partecipa a questo mistero di redenzione, con una differenza sostanziale, perché essa è santa, ma è fatta di peccatori; e a questo proposito Maritain distingue la persona della Chiesa dal suo personale, chierici e laici compresi. «Il Corpo mistico è composto di giusti e di peccatori, ma il battezzato, che ha perso la grazia, non vive più la vita reale dell’anima del Corpo mistico, è un membro morto, è un morto vivente. Mentre chi non è battezzato, per una fede implicita in Cristo – come i giusti dell’antichità, di cui san Paolo tesse le lodi nella Lettera agli Ebrei, o i Gentili che seguono la retta coscienza di cui si parla nella Lettera ai Romani – appartengono invisibilmente a quel corpo visibile».
Hans Süss von Kulmbach, San Paolo rapito al cielo, Galleria degli Uffizi,
Firenze (foto Ministero Beni e Attività Culturali/Scala, Firenze).
Il Papa è un uomo, come gli altri membri della Chiesa: il suo carisma d’infallibilità non lo pone sopra la Chiesa, ma agisce come causa strumentale della persona della Chiesa per ammaestrare i suoi fratelli. Maritain si sofferma ad analizzare il ruolo di Pietro e di Paolo, «tutti e due mandano avanti il gregge di Gesù, ciascuno nel suo modo. Pietro, con i suoi fratelli nell’episcopato, costituendo il Magistero e l’organo che regge la vita del Corpo mistico sulla terra; Paolo, con quelli che lo seguono (senza essere investiti per questo di nessun’autorità di magistero, fossero pure dottori in teologia) nell’opera di sapienza, che va continuamente ampliata, essendo il fermento della ricerca intellettuale del progresso del Corpo mistico attraverso i tempi».
Maritain segue san Paolo nella distinzione tra i ministeri e i carismi, tra le funzioni del ministero ordinario e i doni straordinari, molto diffusi nella Chiesa primitiva, ma osserva: «Paolo insiste soprattutto su tali doni perché la debolezza umana rischiava di sviarli verso un disordinato individualismo, e inoltre perché essi richiedono che si distingua tra ciò che viene veramente dallo Spirito di Dio e ciò che è frutto di un’esaltazione meramente umana».
Paolo evidenzia con la sua predicazione l’universalità del messaggio cristiano e Maritain rileva come ci si salvi nel Cristo venturo e nel Cristo venuto, nel Cristo conosciuto e nel Cristo sconosciuto, perché «la chiesa del Cristo a venire, che sostanzialmente è la Chiesa del Cristo venuto, ha iniziato a esistere a partire da Adamo ed Eva, pentiti e rientrati in grazia. Essa è stata nei diversi stati culturali dell’umanità l’insieme invisibile di tutti coloro la cui anima viveva nella grazia e nella carità (penso all’altare « al Dio sconosciuto » di cui san Paolo parla nel suo Discorso agli ateniesi)». Così tutti gli uomini di buona volontà, per una fede implicita, si salvano e appartengono alla Chiesa visibile. La consapevolezza dell’universalità della salvezza non libera il cristiano dal dovere di testimoniare la sua fede e di evangelizzare il mondo, come dice Paolo a Timoteo, responsabile della comunità di Efeso: «Annuncia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2Timoteo IV, 2). Ma Paolo sa in speranza che tutti gli uomini di buona volontà saranno salvati.
Nel 1966 si organizza a Parigi un Incontro delle culture all’Unesco sotto il segno del Concilio Vaticano II a cui sono invitati a parlare un cattolico, un ortodosso, un luterano, un musulmano, un ebreo. Maritain rappresenta la posizione dei cattolici e parla su Le condizioni spirituali del progresso e della pace. Commentando la Gaudium et spes, cita san Paolo, per sostenere il primato dello spirituale per il progresso della civiltà umana: «L’amore, ecco la grande parola evangelica pronunciata, oggi, dalla Chiesa… Non vi sarà niente di fatto, anche attraverso il lavoro più ardente di rinnovamento sociale, anche attraverso gli sforzi più generosi di azione apostolica , non vi sarà assolutamente niente di fatto, senza la carità, senza questa agape, che ha più importanza delle tecniche della psicologia di gruppo e di altre metodologie sociali, dal giorno in cui san Paolo scrisse « quando parlassi le lingue degli angeli e degli uomini, se non ho la carità, non sono che un cembalo che risuona » (1Corinzi XIII, 1)».
Piero Viotto
Tra le mura dell’anima (Prima parte) [ Gesù nelle carceri]
http://www.zenit.org/it/articles/tra-le-mura-dell-anima-prima-parte
Tra le mura dell’anima (Prima parte)
Il racconto di chi ha pensato di portare Gesù nelle carceri, ed ha scoperto Cristo nel volto di detenuti e vittime
Rimini, 29 Aprile 2013 (Zenit.org) Antonio Gaspari
Perché si dovrebbero aiutare i detenuti? Perché una persona sana di mente dovrebbe spendere, tempo ed energie per aiutare gente che ha commesso atti malvagi? Chi può essere così folle da chiedere ad un padre di perdonare e aiutare chi gli ha ucciso il figlio? Con quale logica si può immaginare di redimere le tante vittime del male con atti di immensa e coraggiosa carità? Come fare ad amare chi ha compiuto atti che hanno fatto male a tante persone? E’ giusto provare a far lavorare insieme vittime e carnefici? Come è possibile far riconoscere le responsabilità ai colpevoli e lenire le ferite delle vittime?
Impossibile direbbero alcuni. Eppure esiste una associazione che si chiama Prison Fellowship International, presente in 132 paesi ed in tutti continenti, i cui affiliati entrano nelle carceri per promuovere quella che chiamano “giustizia ripartiva”, cercando di allievare la sofferenza delle vittime e recuperare l’umanità dei colpevoli.
La sezione italiana si chiama Prison Fellowship Italia Onlus ed è diretta da Marcella Clara Reni.
Gli italiani, che come si sa tendono sempre a migliorare i progetti, non si sono accontentati di assistere i carcerati. Così dopo l’esperienza “Sicomoro” svolta nel carcere di Opera, hanno coinvolto nel progetto anche gli ex detenuti, le loro famiglie e le vittime.
Per raccontare l’esperienza di chi ha pensato di portare Gesù nelle carceri e ha scoperto che Cristo si trovava nei volti e nelle sofferenze di carcerati e vittime, Marcella Reni e Carlo Paris hanno scritto il libro “Tra le mura dell’anima” (edizioni Sabbiarossa).
Per saperne di più ZENIT ha intervistato Marcella Clara Reni. Una donna coraggiosa, sposata, madre di tre figli, di professione notaio, direttore Nazionale del Rinnovamento nello Spirito, Presidente di Prison Fellowsìhip Italia Onlus e di Victim Fellowship Italia Onlus.
Perché hai iniziato questo lavoro con i carcerati?
E’ successo in maniera del tutto casuale. Faccio di professione il notaio, e ho un papà maresciallo dei Carabinieri. Come si può immaginare ho una formazione e mentalità molto legalista. Un giorno viene da me un conterraneo e mi dice: ‘Caro Notaio mio fratello è un giovane medico, è recluso in attesa di giudizio, ma lui è innocente, non ha fatto niente. Bisognerebbe andare in carcere per ricevere una sua procura generale’. Sono andata a ricevere questa procura con grandi pregiudizi. Pensavo: ‘dicono tutti così, sono tutti innocenti, ma poi va a sapere…’
Ho incontrato questo giovane. In maniera fredda e distaccata gli ho letto la procura. Ho cercato di capire se capisse quanto stavo leggendo. Quando ho finito di leggere e l’ho invitato a firmare, mi sono resa conto che era come se fosse fisicamente ed emotivamente morto. Mi sono sentita a disagio. Ero già in un cammino spirituale e mi ha molto colpito vedere un giovane che non aveva più voglia di vivere. L’ho guardato negli occhi e gli ho detto: ‘coraggio, da oggi io pregherò per lei, ogni giorno reciterò un Padre nostro per lei’. Ho raccolto le mie carte, Me ne sono andata e ho cominciato a pregare davvero per quest’uomo. Ogni sera recitavo un Padre nostro.
E mi chiedevo, e se fosse vero che è innocente? Perché tanto dolore? Poi la vita frenetica mi ha distratto, non ho più pregato per lui. Dopo un paio di anni mi arriva in studio un uomo che non ho riconosciuto, e mi ha detto: ‘Buona sera notaio, sono quello del carcere. Volevo dirle grazie per avermi salvato la vita. In questi due anni per tre volte ho tentato il suicidio. Per tre volte ho sentito nel cuore una voce che diceva: ‘Fuori c’è qualcuno che prega per te’. E per tre volte mi sono fermato all’ultimo istante.
In verità io mi ero dimenticata di pregare per lui, però Dio non lo ha mai dimenticato e si era ricordato di lui. Da qui nasce il mio interesse per i detenuti. Successivamente a questo fatto ho avuto la possibilità di incontrare in Italia alcuni esponenti di Prison Fellowship International che non conoscevo. Si tratta di un associazione che è presente in cinque continenti ed erano venuti a chiedere di aprire una sezione in Italia.
Cercavano un gruppo di cattolici. Avevano chiesto in Vaticano a Giovanni Paolo II, li aveva indirizzati al Rinnovamento nello Spirito, perché “solo gente appassionata e entusiasta di Dio poteva svolgere un lavoro del genere”.
Così dopo vari incontri, nel 2009 nasce e comincia ad operare lai Prison Fellonwship Italia Onlus.
Per ragioni professionali e visto che sono laureata in giurisprudenza, quelli del RnS mi hanno proposto di dirigere l’associazione. Ho preso questo progetto con molta superbia, pensavo di andare nelle carceri per portare Gesù e la cosa che invece mi ha toccato il cuore e che mi ha convertito e che quando sono entrata nella carceri ho trovato lì Gesù Vivo che mi veniva incontro. Non ho portato niente se non la mia povertà.
(La seconda parte verrà pubblicata domani, martedì 30 aprile)
COMMENTI ALLA SCRITTURA – Atti 14,21b-27
http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Atti%2014,21-27
COMMENTI ALLA SCRITTURA
BRANO BIBLICO SCELTO – Atti 14,21b-27
In quel tempo, Paolo e Barnaba 21 ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, 22 rianimando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio.
23 Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.
24 Attraversata poi la Pisidia, raggiunsero la Panfilia 25 e dopo avere predicato la parola di Dio a Perge, scesero ad Attalia; 26 di qui fecero vela per Antiochia là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto.
27 Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede.
COMMENTO
Atti 14,21-27
Fine del primo viaggio missionario di Paolo
In questo testo liturgico è riportata la parte finale del primo viaggio missionario di Paolo (At 13-14), che rappresenta la conclusione di tutta la seconda parte degli Atti (8,5-14,28). Dopo la sosta ad Antiochia di Pisidia, dove Paolo ha fatto il suo primo grande discorso missionario in ambiente giudaico, i predicatori si erano recati a Iconio, che però hanno dovuto lasciare in fretta e furia a causa di nuove persecuzioni da parte dei giudei. Vanno allora a Listra dove, in seguito alla guarigione miracolosa di uno storpio, evitano a stento di essere adorati come dèi: è questa l’occasione di un breve discorso missionario ai gentili che prelude a quello dell’Areopago di Atene. Nuove ostilità insorgono anche qui da parte dei giudei e Paolo, dopo aver rischiato la morte per lapidazione, si reca a Derbe.
L’attività di Paolo e Barnaba a Derbe, ultima tappa del loro viaggio, viene così descritta: «Dopo aver evangelizzato quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia» (v. 21). Con i due verbi «evangelizzare» (euangelizomai) e «fare discepoli» (mathêteuô) Luca mette in luce una feconda attività fatta soprattutto di contatti personali, che ha come risultato l’aggregazione di un buon numero di persone. Quando la comunità dà garanzie di poter continuare da sola il suo cammino, Paolo e Barnaba ritornano a Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia. Essi dunque ripercorrono a ritroso il cammino fatto e incontrano le comunità precedentemente fondate. Ciò offre loro l’occasione di incoraggiare i discepoli e di esortarli a restare saldi nella fede, rendendoli consapevoli che potranno entrare nel regno di Dio solo a prezzo di molte tribolazioni (v. 22).
Luca aggiunge che in ogni comunità costituirono (cheirotoneô, imporre le mani) degli anziani (presbyterous) e, dopo aver pregato e digiunato, li affidarono al Signore in cui avevano creduto (v. 23). Solo a proposito della chiesa di Efeso Luca attesta la presenza di presbiteri che Paolo convocherà a Mileto mentre, al termine del suo secondo viaggio missionario, si recherà da Corinto a Gerusalemme (cfr. At 20,17). Si accenna invece più volte ai presbiteri della chiesa di Gerusalemme, i quali appariranno come membri, insieme agli apostoli, del consiglio che dovrà decidere a quali condizioni accettare i gentili nella chiesa (cfr. 15,2). È possibile che la struttura presbiterale sia stata introdotta nella comunità di Gerusalemme per influsso del sinedrio, che era composto di sacerdoti, scribi e anziani. Non è dimostrato però che tale struttura fosse accolta nelle comunità paoline, perché di essa non si parla mai nelle lettere sicuramente autentiche, mentre viene raccomandata verso la fine del sec. I nelle Pastorali (cfr. 1Tm 5,17; Tt 1,5). L’ipotesi più probabile è che sia stato Luca ad attribuire a Paolo l’introduzione di una struttura che in realtà si è affermata solo qualche decennio dopo la sua morte.
I missionari attraversano poi la Pisidia e raggiungono la Panfilia dove evangelizzano Perge, la città dove Marco si era separato da loro. Scendono poi ad Attalìa e di lì raggiungono via mare Antiochia di Siria, dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto (vv. 24-26). Ad Antiochia riuniscono la comunità e «riferiscono» (anangellô) tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai gentili la porta della fede (v. 27).
LINEE INTERPRETATIVE
Il primo viaggio di Paolo a Cipro e nelle regioni a sud dell’Anatolia presenta diverse difficoltà dal punto di vista storico. Secondo alcuni studiosi Paolo in realtà avrebbe affrontato già in questo periodo, prima della seconda visita a Gerusalemme, l’evangelizzazione della Galazia e poi della Grecia. Il racconto degli Atti sarebbe quindi una composizione di Luca, il quale si sarebbe servito di questo viaggio sia per descrivere l’emergere di Paolo come apostolo chiamato dal Risorto per portare il vangelo fino ai confini della terra, sia per delineare alcuni aspetti del suo metodo missionario.
Paolo, ancora con il suo nome ebraico di Saulo, assume per la prima volta un incarico comunitario ad Antiochia, sotto la diretta responsabilità di Barnaba, un inviato degli apostoli di Gerusalemme; questi è il primo del gruppo di profeti e dottori che guidano la comunità locale, mentre Saulo occupa l’ultimo posto del gruppo. Barnaba e Saulo vengono designati per un compito di evangelizzazione e lasciano la città diretti a Cipro. A Salamina Saulo, nel confronto con il mago Elimas, prende per primo la parola e in quello stesso momento comincia ad essere chiamato con il nome romano Paolo (13,9); subito dopo è presentato come il capo della spedizione (13,13) ed è lui a prendere la parola nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (13,16); da questo momento viene sempre nominato prima di Barnaba. È quindi nel contesto di questo viaggio che egli si assume il ruolo di guida del movimento di evangelizzazione dei gentili che si estenderà a macchia d’olio in tutta l’Anatolia e nella Grecia. Luca non poteva scegliere occasione più propizia per far assumere al suo personaggio quella fisionomia che lo caratterizzerà per tutto il resto della sua vita.
Ma Luca coglie l’occasione di questo viaggio anche per dare qualche ragguaglio interessante anche circa la strategia missionaria di Paolo. Il suo lavoro ha luogo nelle città, dove poteva servirsi della lingua greca. Egli sceglie come predellino di lancio la locale sinagoga giudaica, annunziando Cristo in un modo fortemente inculturato nel giudaismo. Nella sinagoga egli stabilisce un rapporto privilegiato con i gentili timorati di Dio (e proseliti), provocando così l’opposizione dei giudei, che lo spinge poi a rivolgersi sempre più decisamente alla popolazione non giudaica. La sua predicazione kerygmatica tende alla raccolta di un piccolo gruppo di credenti. La sua permanenza in una località è brevissima: ciò è dovuto spesso allo scatenarsi di opposizioni violente, ma forse anche a una scelta strategica. Per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo delle comunità appena fondate egli si preoccupa di formare una leadership comunitaria efficiente, anche se forse non nella forma istituzionale (i presbiteri) che prenderà piede alla fine del secolo. Infine si incarica di seguire le comunità con visite successive. Così poteva dar vita a molteplici comunità, alle quali poi lasciava il compito di una ulteriore inculturazione e dell’evangelizzazione di tutta la regione.