Archive pour la catégorie 'ROMA'

BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

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BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (21/3/2009)

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano. Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo: «Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!» Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano. Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo. Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella chiamata in greco tõn Sechenõn (termine di non univoca interpretazione). Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C. La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere. Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano). Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi. Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa. Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la Chiesa di S. Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni. Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri. È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis. Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35). Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi. Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

PAOLO A ROMA, COSCIENTE DI UN DEBITO

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PAOLO A ROMA, COSCIENTE DI UN DEBITO

di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti 26/9/2008

Sentirsi in debito. Meglio: essere in debito. Questo il motivo del desiderio di Paolo di giungere a Roma. Come di ogni suo altro viaggio dopo la conversione. «Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma» (Rm 1, 14-15). Annunciare il vangelo, per Paolo, non è un’eccedenza, non è volontariato, non è opera buona. È piuttosto ciò che “lega” chi ha incontrato per grazia il Signore. Se per pura grazia Paolo ha ricevuto la manifestazione del risorto sulla via di Damasco, da quel momento egli non può tenere per sé il dono ricevuto. «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato» (1 Cor 9, 16-17). Ricordo come fosse ieri don Tonino D’Ammando, uno dei parroci “romani” della vecchia generazione, che spiegava cosa fosse per lui la gratitudine. Era stato chiamato al sacerdozio da adulto mentre era ingegnere presso le acciaierie di Terni ed aveva beneficiato di una borsa di studio per poter studiare al Collegio Capranica e pagare le tasse universitarie. Aveva compreso che non si trattava di dire “grazie” a chi aveva offerto a lui il denaro per prepararsi al sacerdozio, ma che il debito di gratitudine sarebbe stato saldato solo quando una nuova persona avrebbe ricevuto in dono una borsa di studio offerta da lui, don Tonino. Egli era in debito e l’azione del rendimento di grazie non riguardava semplicemente i suoi benefattori; era lui stesso a dovere ora rendere possibile per una nuova generazione ciò che a lui era accaduto. La fede ricevuta e l’annuncio che ne deriva sono, per Paolo, un binomio indissolubile. Dove c’è l’una, l’altro non può mancare: «Animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo» (2 Cor 4, 13). Mons. Gianfranco Ravasi, con l’acutezza e l’affabilità che gli è consueta, dichiarava alcuni mesi fa in risposta ad una delle ricorrenti prese di posizione che vorrebbero etichettare come illegittimo l’annunzio cristiano: «Si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che “è sempre bello e legittimo augurare all’altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano”. Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l’altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita» Paolo avvertiva di non poter tenere per sé il tesoro prezioso che aveva ricevuto. A lui era stato affidato, perché anche altri potessero goderne. Se tutta la sua azione ha il suo senso in questo debito di cui era consapevole – «charitas Christi urget nos» – è ad Efeso che nacque in lui il desiderio specifico di raggiungere Roma, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli. È, infatti, dopo le dispute accesesi in quella città, che «Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: “Dopo essere stato là devo vedere anche Roma”» (At 19, 21). Un evento, però, giungerà a confermare Paolo in questo suo proposito. L’apostolo, infatti, recatosi a Gerusalemme fu rinchiuso nella Fortezza Antonia, della quale gli scavi archeologici hanno riportato alla luce il famoso Lithostrotos, il cortile pavimentato in marmo. Ciò avvenne per proteggerlo da alcuni che volevano ucciderlo, accusandolo di aver profanato il Tempio. Gli Atti raccontano che, mentre Paolo era tenuto prigioniero nella Fortezza Antonia, durante la notte «gli venne accanto il Signore e gli disse: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23, 11). È l’unico versetto del Nuovo Testamento nel quale è Gesù stesso, il Signore risorto, a pronunziare il nome dell’urbe, il nome di Roma. Luca, autore degli Atti, che accompagnò l’apostolo fin nella capitale dell’impero, dovette ascoltare dallo stesso Paolo questo racconto. In quella notte gli era stato rivelato che il progetto di raggiungere Roma non discendeva solo dal suo cuore di uomo, ma derivava come chiamata dalla esplicita volontà del Cristo. Proprio la lettera ai Romani esprime, ancora una volta, con una straordinaria progressione retorica che vede il susseguirsi di incalzanti domande, il nesso che lega la salvezza dei nuovi credenti alla vocazione di chi la trasmette loro: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!» (Rom 10, 13-15).

[Approfondimenti]

I LUOGHI DELLA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI DI ROMA.

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VICINO A NOI

I LUOGHI DELLA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI DI ROMA.

Mostra fotografica di Francesco Rosa e Luca Servo

(foto sul sito, il testo si legge bene)

La mostra fotografica Vicino a noi. I luoghi della deportazione degli ebrei di Roma, ripercorre la storia di questo evento avvenuto sotto gli occhi della città.
La rassegna, nata all’interno del Centro culturale Due Pini, continuata dalla Commissione per il dialogo con l’ebraismo della Diocesi di Roma e dal Centro culturale L’Areopago ed, infine, dal Centro culturale Gli scritti, presso il quale sono oggi depositati i materiali fotografici, presenta immagini odierne dei luoghi che hanno visto la deportazione degli ebrei di Roma. Le foto sono state scattate dai fotografi Francesco Rosa e Luca Servo. I testi che accompagnano le foto sono tratti dal volume di Fausto Coen, 16 ottobre 1943.La grande razzia degli ebrei di Roma, Giuntina, Firenze, 1993.
La targa del Collegio Militare sul Lungotevere che ricorda le due notti passate dagli ebrei romani in quel luogo prima della partenza per Auschwitz
Kappler prese in modo autonomo l’iniziativa della estorsione dei 50 chili d’oro agli ebrei romani.
Il progetto si rivela astuto e infame e agisce in varie direzioni. Prima di tutto Kappler farà credere agli ebrei romani che da loro non si vuole di più e lasciandoli in questa illusione tragica consentirà di fatto che si realizzi quel blitz di sorpresa che Himmler avrebbe voluto per il 1° ottobre ma che il rifiuto di un appoggio militare da parte di Kesselring aveva reso impossibile per quella data. In secondo luogo Kappler darà all’esecutore materiale del piano (che sarà Dannecker) tutto il tempo necessario per organizzare la grande retata con metodo e garanzie di riuscita… Domenica 26 settembre alle 10 del mattino il dottor Gennaro Cappa, Capo del Servizio Razza della Questura di Roma, informava il dottor Dante Almansi, Presidente della Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, e l’avvocato Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma, che alle ore 18 di quella stessa Domenica dovevano recarsi a Villa Volkonsky dove li aspettava nel suo Ufficio di “Sicurezza Politica” il tenente colonnello Herbert Kappler per importanti comunicazioni… Così Foà racconta l’incontro con Kappler : “Cambiando improvvisamente tono ed accento, mentre il suo sguardo diveniva tagliente e duro, fece ai suoi interlocutori il seguente discorso: Voi ed i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato, dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. E’ il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro Paese. Entro 36 ore dovrete versarmene 50 chilogrammi. Se lo verserete non vi verrà fatto alcun male. In caso diverso duecento fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti resi innocui…”
Trentasei ore: la consegna dunque doveva avvenire entro le 12 del 28 settembre.
Nella lunga fila che per 36 ore si snodò sul marciapiede che costeggia il Lungotevere Cenci, dove, accanto alla Sinagoga principale, si trovano gli uffici comunitari, c’erano ricchi e poveri, intellettuali e commercianti, artigiani e venditori ambulanti, gente colta e sprovveduta, ben vestita o dismessa. Alcuni recavano con sé pacchetti di una certa consistenza, altri involtini assai più piccoli. La rinuncia a un esile anello, a un paio di orecchini consunti, a una vecchia spilla o a un modesto braccialetto, esibiti al Tempio solo nelle feste solenni di Rosh Hashanà (il Capodanno) o di Kippur (il giorno dell’espiazione), è stata per i più poveri una ferita dolorosa. Erano oggetti che ricordavano miniàn, nozze, milot, nascite, persone scomparse. Quegli oggetti avevano scandito alcuni momenti felici. Quel mucchietto di oro era stato un muto testimone della propria storia di famiglia… In quella lunga fila non c’erano solo ebrei. C’erano persone alle quali Kappler non aveva chiesto nulla ma che avevano voluto esprimere la loro solidarietà a una minoranza offesa e in pericolo. Erano quegli stessi “uomini giusti” che cinque anni prima, nel 1938, avevano mostrato la loro solidarietà agli ebrei colpiti dalle inique leggi razziali e che la propaganda fascista aveva indicato al disprezzo generale come “pietisti”. E tra costoro non mancarono in quelle 36 ore nella lunga fila anche alcuni sacerdoti… La S. Sede faceva sapere in via ufficiosa al Presidente della Comunità che ove non fosse stato possibile raggiungere i 50 chili nel termine fissato avrebbe coperto la quantità mancante. La Comunità l’avrebbe restituita “quando – ricorda Foà – fosse stato in grado di farlo…”. Era un prestito, non un dono, al quale però non fu necessario ricorrere, perché col passare delle ore cresceva sorprendentemente il numero degli offerenti. In ogni caso la disponibilità vaticana sollevò la Comunità dall’incubo di non raggiungere la taglia imposta da Kappler.
Lungotevere Cenci, davanti la Sinagoga Maggiore Di Roma
La consegna dell’oro doveva avvenire non già a Villa Volkonsky ma a Via Tasso, nella palazzina n. 155 che non era ancora il luogo sinistro delle torture e del terrore, ma almeno formalmente “l’Ufficio di Collocamento dei Lavoratori italiani per la Germania”… Alle ore 16 in Via Tasso Kappler non si presentò. Non aveva voluto abbassarsi alla meschina formalità di ricevere quell’oro che aveva estorto. Si era fatto sostituire da un ufficiale di grado inferiore, il capitano Kurt Schutz, che rivelò subito modi arroganti e diffidenti. Lo Schutz si era fatto assistere da un orafo romano, di cui non si è mai saputo il nome, e da un altro ufficiale delle SS inviato da Berlino con un corriere speciale. La pesatura fu eseguita con una bilancia della portata di 5 chili. Ogni pesata veniva registrata contemporaneamente da Dante Almansi e da un ufficiale tedesco, che si trovavano alle due estremità del tavolo. Alla fine dell’operazione, mentre Almansi aveva segnato dieci pesate, il capitano Schutz dichiarava risentito che le pesate erano nove. Le proteste di tutti gli ebrei presenti irritarono ancor di più il capitano che si opponeva anche a quella che era la via più semplice per sciogliere ogni dubbio: cioè ripetere l’operazione. Finalmente, di fronte alle vive insistenze da parte ebraica, il capitano Schutz diede ordine di ripetere le pesate. Dovette arrendersi alla realtà: i chili erano proprio 50 e gli ebrei non erano imbroglioni.
La palazzina al n.155 di via Tasso, nei pressi di S.Giovanni in Laterano, carcere delle SS, con le caratteristiche finestre a bocca di lupo che impedivano di vedere dall’esterno. Oggi è sede del Museo della Resistenza Romana
(Alcuni giorni dopo) tutto il complesso degli edifici che comprendono il Tempio Maggiore e gli uffici comunitari fu circondato da un cordone di SS. Ogni uscita fu bloccata e agli impiegati fu intimato di non muoversi dai loro posti. Subito dopo un gruppo di ufficiali e sottoufficiali tedeschi dei quali alcuni esperti in lingua ebraica “… cominciarono una minuziosa perquisizione di tutto l’edificio dalla cupola della Sinagoga fino al sottostante Oratorio di rito spagnolo e alle cantine”… Nonostante la perquisizione non avesse portato alla scoperta di “documenti segreti”, una grande quantità di carte venne ugualmente prelevata forzando armadi e cassetti quando non venivano subito reperite le chiavi.
Tra le carte vennero prelevati anche i ruoli dei contribuenti che saranno, a guerra finita, al centro di discussioni e polemiche. Mentre gli schedari anagrafici di stato civile e i fogli di famiglia erano stati prudentemente messi al sicuro, quei ruoli considerati solo documenti tributari erano rimasti negli uffici senza tener conto che anch’essi recavano le generalità e gli indirizzi dei contribuenti… La mattina del 30 settembre, Capodanno secondo il calendario ebraico, due ufficiali tedeschi tornavano a Lungotevere Cenci questa volta per ispezionare le biblioteche del secondo e del terzo piano. Erano due orientalisti, uno dei quali col grado di capitano si era qualificato professore di lingua ebraica in un Istituto superiore di Berlino. Il giorno successivo, il 1° ottobre, i due tornavano per esaminare con più attenzione i volumi esprimendo spesso meraviglia e ammirazione e prendendo numerosi appunti.
Eichmann decideva allora di inviare a Roma per la “Judenrazzia” Theo Dannecker, un esperto di sua fiducia, relatore per gli affari ebraici “che aveva dato il via ai rastrellamenti di ebrei a Parigi…”. Dannecker, per non dare nell’occhio, fissava il suo quartier generale non in via Tasso ma in una modesta pensione in via Po. Dopo pochi giorni arrivava anche il suo reparto speciale, formato da quattordici ufficiali e sottoufficiali e trenta militi delle SS che in parte provenivano dalle formazione specializzate nella “bonifica antiebraica” sul fronte orientale, le famigerate “ Einsatzgruppen”.
Alle ore 23 di venerdì 15 i coniugi Sternberg – Monteldi, entrambi ebrei che provenivano da Trieste e avevano preso alloggio a Roma all’albergo Vittoria, pur essendo muniti di passaporto svizzero vennero arrestati dalle SS e sottoposti ad interrogatorio. Da nessun documento risultava che fossero ebrei, nè i loro nomi figuravano su nessuno degli elenchi di Dannecker. E’ impossibile stabilire come la loro presenza fosse stata segnalata alle SS… La grande razzia cominciò attorno alle 5,30. Vi presero parte un centinaio circa di quei 365 uomini (di cui 9 ufficiali e 30 sottoufficiali) che erano il totale delle forze impiegate per la “Judenoperation”… I tedeschi tentarono di dare alla brutale operazione il carattere di un “trasferimento”. Volevano un gregge inconsapevole e cercavano di evitare possibili gesti inconsulti, atteggiamenti ostili, disordini. Cercavano di evitare intoppi e contrattempi che potevano rallentare l’operazione. Volevano soprattutto fare presto.
A questo fine avevano consegnato a ciascuno un ordine bilingue:
Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti.
Bisogna portare con sè viveri per almeno 8 giorni, tessere annonarie, carta d’identità e bicchieri.
Si può portare via una valigetta con effetti e biancheria personali, coperte, eccetto., danaro e gioielli.
Chiudere a chiave l’appartamento e prendere la chiave con sè.
Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo.
Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza.
Si voleva far credere alle vittime ad una destinazione non definitiva. “Chiudere a chiave l’appartamento e prendere la chiave con sé” faceva supporre un possibile ritorno. “Tessere annonarie e di identità” implicavano una destinazione nella quale questi documenti avrebbero potuto servire. Ma perché allora “ammalati anche gravissimi non possono restare indietro”?
Via del Portico d’Ottavia, il cuore del quartiere ebraico, che fu circondato alle 5.30 del mattino
Le SS entrarono di casa in casa arrestando le intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno. Quando le porte non vennero subito aperte le abbatterono col calcio dei fucili o le forzarono con leve di ferro. Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco al di là dello storico Portico d’Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli. Non venne fatta nessuna eccezione né per persone malate o impedite, né per le donne in stato interessante, né per quelle che avevano ancora i bimbi al seno. Per nessuno.
Il prato davanti al teatro di Marcello, dove furono radunati gli ebrei, prima di essere condotti con i camion al Collegio Militare
Nessun quartiere della città fu risparmiato. In quelli di Trastevere, Monteverde e Testaccio, i più prossimi all’ex Ghetto, si ebbe il maggior numero di arresti.
Così come nelle dimesse case di Portico d’Ottavia anche in quelle borghesi e signorili di Roma si consumò la grande tragedia. Vennero versate lacrime, si diffuse la disperazione, si tentarono fughe disperate. In via Brescia al n.29 i tedeschi si erano avvicinati al letto dove giaceva la signora Sofia Soria vedova Tabet puntandole un’arma per sollecitarla ad alzarsi. La signora Sofia, che aveva 92 anni, morì per lo spavento. Era la suocera del prof. Vittorio Calò, generale medico. Le SS tornarono due giorni dopo al funerale della poveretta sperando di arrestare i famigliari. La mancanza di pietà verso i vegliardi, gli infermi, i bambini appariva incomprensibile per i testimoni di quella giornata. Giulio Anau ricorda che un parente, Beniamino Philipson, fu prelevato nella sua abitazione di via Flavia 84 sulla sedia a rotelle di invalido, perché da molti anni colpito da morbo di Parkinson, “tra la indignazione dei presenti impotenti tuttavia di fronte ai mitra spianati….”.
In via Adalberto, non lontano da piazza Bologna, le SS non trovarono nessuno: solo un bimbo di quattro anni – Ennio Lanternari – che dormiva nel letto dei nonni in quel momento assenti. Le SS lo presero, il bambino si svegliò spaventato e cominciò a piangere. Intanto rientrava la nonna che era scesa un momento per comprare qualcosa. Presero lei e il nipotino.
Un’altra immagine del Portico d’Ottavia oggi. La deportazione non si limitò alla zona del ghetto ebraico, ma abbracciò l’intera città
Settimio Calò si salvò. Anche lui era uscito di casa per fare la fila per le sigarette. ma quando tornò nella sua casa, non trovò più nessuno. Né la moglie né i dieci figli, il più grande dei quali aveva 21 anni e il più piccolo, Samuele, ancora lattante, 4 mesi. “Mi gettai contro le porte, volevo unirmi agli altri, non capivo più niente… poi mi sedetti a terra e cominciai a piangere. Ho vissuto solo perché ho sempre sperato di riaverne almeno uno, magari Samuele. Rimasi vivo io solo e vorrei essere morto“.
L’isola Tiberina, con l’ospedale Fatebenefratelli, dove molti ebrei furono salvati dalla popolazione. Furono travestiti da medici o da pazienti ed ebbero salva la vita
La Chiesa dell’Istituto Gesù e Maria, sulla via Flaminia alla collina Fleming. Qui, come in tante altre case religiose, trovarono rifugio ebrei, che scamparono alla cattura
Alle ore 14 la grande razzia era terminata. I catturati erano 1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini. Sia gli ebrei del vecchio quartiere sia gli altri furono tutti provvisoriamente sistemati nei locali del Collegio Militare, il vasto e massiccio edificio in Via della Lungara, dominato dal Gianicolo. Gli uomini furono separati dalle donne e dai bambini. Divisi in gruppi, furono distribuiti nelle aule, nei corridoi, nelle palestre e in altri locali di fortuna. Quando questi spazi furono riempiti, gli uomini più benportanti furono disposti sotto il porticato di ingresso. Tutte le imposte delle aule erano state sbarrate con assi di legno inchiodate.
Il pianto incessante delle donne e dei bambini, gli incomprensibili ordini urlati in continuazione dalle sentinelle, la semioscurità, l’inadeguatezza dei servizi igienici crearono molta tensione e grande confusione… All’alba di domenica, dopo un esame minuzioso delle carte di identità e di altri documenti, furono liberati i coniugi e i figli di matrimonio misto, i coinquilini e il personale di servizio non ebrei che al momento della retata si trovavano nelle case dei ricercati. In tutto 237 persone. A Wachsberger fu ordinato sul posto di assumere le funzioni di interprete e di tradurre l’ordine dell’ufficiale:
… coloro che non sono ebrei si mettano da una parte. Se trovo un ebreo che abbia dichiarato di non esserlo, appena la bugia sarà scoperta quello sarà fucilato immediatamente…
Nonostante la gravissima minaccia, sette ebrei riuscirono a inserirsi nel gruppo di coloro che vennero liberati. Sono Giuseppe Durghello con la moglie Bettina Perugia e il figlio Angelo ; Enrico Mariani, Angelo Dina, Bianca Ravenna Levi e la figlia Piera… Dei 1022 infelici, una sola persona non era ebrea. Era una donna cattolica che per non abbandonare un orfanello ebreo malfermo in salute affidato alle sue cure non aveva avuto l’animo di dichiararsi non ebrea e aveva voluto seguire la sua sorte. Nè il bimbo nè la sua generosa protettrice sono più tornati… Nella notte Marcella Perugia Di Veroli, al nono mese di gravidanza, cominciò ad avere le doglie. I tedeschi non permisero di trasferirla all’Ospedale, acconsentirono solo che venisse chiamato un medico. La partoriente fu isolata nel porticato del Collegio Militare e diede alla luce una bimba. Marcella Perugia aveva 23 anni e con lei erano stati arrestati anche i suoi due figli di 5 e 6 anni. Il marito Cesare Di Veroli era riuscito a sfuggire alla retata.
Il Collegio Militare, sul Lungotevere, vicino al carcere di Regina Coeli ed a S.Pietro, dove gli ebrei furono costretti a trascorrere le due notti fra la cattura e la partenza per Auschwitz
Nessun cenno della grande razzia è ovviamente reperibile nei giornali dell’epoca. Essa può essere desunta solo da una notiziola dall’apparenza innocente, quasi una “burocratica informazione di servizio”, sui giornali romani del 18 ottobre. I quali informavano i lettori che “la partenza degli ufficiali per il Nord, fissata oggi alle 9, non può effettuarsi dalla Stazione Tiburtina. Si parte domani da Termini”. La ragione era evidente. Un ben diverso convoglio sarebbe partito quella mattina dallo scalo periferico romano e nessun occhio indiscreto doveva essere testimone di quel crimine.
All’alba di lunedì 18 ottobre gli oltre mille prigionieri furono trasferiti su autocarri dal Collegio Militare allo scalo merci della stazione ferroviaria. Su un binario morto si trovava da alcuni giorni un convoglio composto da 18 carri bestiame. Gli arrestati furono tutti stipati nei vagoni: 50 o 60 su ogni carro, in uno spazio insufficiente. La penosa attesa degli arrestati durò sei ore… In fondo alla rampa su un binario morto rettilineo- scrive Elsa Morante – stazionava un treno che pareva a Ida di lunghezza sterminata. Il vocìo veniva di là dentro. Erano forse una ventina di carri bestiame… Non avevano nessuna finestra se non una minuscola apertura a grata in alto. A qualcuna di quelle grate si sporgevano due mani aggrappate o un paio d’occhi fissi.
La stazione Tiburtina, da cui gli ebrei romani partirono per Auschwitz
Su questa sosta (a Padova), l’ultima in terra italiana, c’è la annotazione sul suo diario giornaliero della ispettrice della Croce Rossa Lucia De Marchi, quel giorno di servizio.
… alle ore 12, non preannunciato, sosta alla nostra stazione centrale un treno di internati ebrei proveniente da Roma. Dopo lunghe discussioni ci viene dato il permesso di soccorso. Alle 13 si aprono i vagoni chiusi da 28 ore! In ogni vagone stanno ammassate una cinquantina di persone, bambini, donne, vecchi, uomini giovani e maturi. Mai spettacolo più raccapricciante s’è offerto ai nostri occhi. E’ la borghesia strappata alle case, senza bagaglio, senza assistenza, condannata alla promiscuità più offensiva, affamata e assetata. Ci sentiamo disarmate e insufficienti per tutti i loro bisogni, paralizzati da una pietà fremente di ribellione, da una specie di terrore che domina tutti, vittime, personale ferroviarie, spettatori, popolo…
Alle ore 23 di venerdì 22 ottobre, dopo un viaggio allucinante di 6 giorni e 6 notti, il treno arrivò ad Auschwitz-Birkenau. Nessuno fu fatto scendere fino al giorno successivo. Il convoglio rimase ancora sigillato e vigilato per tutta la notte… Formatosi, sotto gli ordini urlati dalle SS, un allineamento casuale, arrivò il dottor Josef Mengele, la cui fama sinistra è oggi consegnata alla storia ma allora era un personaggio del tutto ignoto ai nuovi arrivati. Sotto la sua direzione cominciò la selezione: i bambini, i vecchi, i vecchi, i malati e coloro che avevano un aspetto gracile o malaticcio (e anche uomini non vecchi ma coi capelli bianchi) vennero allineati alla destra di Mengele e dei suoi aiutanti. Erano circa cinquecento.
Alla sua sinistra gli uomini e le donne giudicati adatti al lavoro.
Intanto era giunto sul posto il Comandante del campo, Rudolf Hoess. Normalmente Hoess non assisteva alla selezione dei prigionieri ma nei giorni precedenti c’era stata una grande curiosità per l’annunciato arrivo degli ebrei italiani. Gli stessi dirigenti del campo ne erano stati contagiati e vollero assistervi. Era il primo convoglio di italiani che giungeva ad Auschwitz… Il Comandante Hoess ordinò a Wachsberger di tradurre l’annuncio che donne, bambini, ammalati sarebbero stati trasferiti sui camion nei campi “di permanenza” che distavano circa 10 chilometri. Però anche gli abili al lavoro, che si sentivano stanchi e volevano salire su quegli autocarri, potevano farlo.
Duecento uomini e cinquanta donne abbandonarono le file dei “validi” per unirsi agli altri che erano già sugli automezzi.
Il viaggio invece fu brevissimo, meno di un chilometro, percorso in pochi minuti.
Gli autocarri si fermarono davanti alle camere a gas. L’eliminazione fu immediata… Wachsberger racconta che stava per salire anche lui sul camion ma Mengele glielo impedì perché aveva ancora bisogno di un interprete. Più tardi Wachsberger chiese al “dottore” (Mengele amava spesso chiacchierare con lui e si mostrava curioso dell’Italia e soprattutto di Mussolini) perché avevano lasciato salire sui camion anche uomini e donne validi. “Chi non è in grado di fare a piedi dieci chilometri – fu la risposta – non è adatto a fare il lavoro che si deve fare in questo campo”. Ma i più erano saliti sui camion per altre ragioni. Sergio Pace, ad esempio, era stato messo nella fila di quelli destinati al lavoro. Volle salire sull’autocarro per stare assieme al padre e alla madre. Non lo tradì né la “pigrizia” né la stanchezza, ma un sentimento che non era stato mai così forte come in quel momento. E come lui fecero molti altri.
Ci si può chiedere perché i tedeschi comunque in questo modo rinunciavano ad una parte di uomini validi. La ragione vera è che in quei giorni imperversava ad Auschwitz una epidemia di tifo. La immissione di un numero eccessivo di prigionieri aumentava le probabilità che il contagio si estendesse. Questo spiega perché nel convoglio del 23 ottobre la percentuale di coloro che finirono subito nelle camere a gas fu dell’82% (839 su 1022), la più alta in assoluto di tutti i successivi trasporti di deportati dall’Italia.
Delle cinquanta donne destinate al lavoro una sola sopravvisse: Settimia Spizzichino. Allora aveva 22 anni ed era stata presa con la madre e due sorelle in via della Reginella. Solo il padre si era salvato dalla retata. Sulla sorte delle 49 compagne che non sono più tornate la Spizzichino pensa che “… la neve, i lavori pesanti, la cattiva alimentazione, tutto ha contribuito alla decimazione”. Settimia si è salvata perché era stata avviata ad un “blocco di esperimenti” e “… fu aiutata da una infermiera di buon cuore…”. Quando venne liberata aveva 24 anni e pesava 30 chili. E’ persuasa che quello che l’ha aiutata a resistere è stato soprattutto il pensiero che doveva tornare per raccontare…

 

Publié dans:EBRAISMO: SHOAH, ROMA, STUDI DI VARIO TIPO |on 15 octobre, 2014 |Pas de commentaires »

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