Piccole Chiese del silenzio nella terra di san Paolo
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TURCHIA
Piccole Chiese del silenzio nella terra di san Paolo
di Geries Othman
Per molti pellegrini in Turchia, l’Anno Paolino è l’occasione di trovare a Tarso, Antiochia, Efeso le pietre di un antico passato e il faticoso presente di comunità cristiane ridotte al lumicino ed emarginate dal laicismo e dall’Islam. Ma esse sono anche un piccolo seme dove scoprire la stessa missione di san Paolo, l’unità e la carità.
Ankara (AsiaNews) – Dal giugno scorso in terra di Turchia è un continuo susseguirsi di fedeli provenienti da diversi Paesi del mondo: Italia, Germania, Spagna e Francia e poi ancora America Latina, Corea e persino Giappone. I numerosi pellegrini vogliono ricalcare le “orme di san Paolo”, ripercorrere i luoghi dove l’Apostolo – del quale quest’anno si celebrano i 2000 anni dalla nascita – è nato, ha vissuto, ha lottato e sofferto per le comunità cristiane allora appena sorte. Non c’è giorno in cui gruppi di fedeli non passano da Tarso, Antiochia, Efeso. Ma troppo spesso agli occhi di questi pellegrini rimangono impresse solo pietre all’ombra dei numerosi minareti, tornando così a casa con un gran senso di sgomento se non con la convinzione che in Turchia non ci siano più cristiani, ma solo ed esclusivamente musulmani.
Nel novembre del 1939, Angelo Roncalli (divenuto poi papa Giovanni XXIII), era Delegato apostolico ad Istanbul. Nel suo “Giornale dell’anima” scriveva: “Del Regno del Signore Gesù Cristo resta qui in Turchia ben poca cosa. Reliquie e semi”. Nulla pare cambiato in questi 70 anni: agli occhi dei pellegrini si palesano solo pietre, seppure gloriose, di un passato che non c’è più; chiese trasformate in musei, moschee, scuole o biblioteche.
Una Chiesa ridotta al silenzio
Lo sgomento è ancora più profondo se si pensa che fino ad un secolo fa, in Turchia viveva la comunità più numerosa di cristiani in Medio Oriente. Oggi è la più ridotta. Dei circa 2 milioni di cristiani all’inizio del Novecento, infatti, ne sono rimasti solo 150 mila, quasi tutti concentrati nei grandi centri di Istanbul, Smirne e Mersin, il resto sparso in Anatolia in minuscole comunità. Quasi la metà sono fedeli della Chiesa apostolica armena, poi vengono le comunità cattoliche, circa 30mila in tutto, principalmente latini, ma anche armeni, siriaci e caldei. I protestanti delle varie denominazioni sono 20mila, seguiti dai siro-ortodossi, circa 10mila, solo un decimo del numero presente un secolo fa nella zona meridionale di Tur Abdin. I greco-ortodossi di Bartolomeo I si sono ridotti invece a soltanto circa 5mila. Tra i 70 milioni di abitanti, dunque, i cristiani rappresentano un numero piccolissimo, quasi ridicolo, che se fatti i calcoli, rappresenta lo zero virgola per cento. Una Chiesa che davvero è più piccola del più piccolo dei semi.
La scomparsa delle Chiese è andata di pari passo con la riduzione di tutte le istituzioni benefiche gestite dalla Chiesa (ospedali, ospizi, scuole), sia per il progressivo venir meno del personale sia per i gravami economici imposti dallo Stato. Numerosi sono gli ostacoli che rendono difficile la vita delle comunità cristiane in un Paese che, nonostante tutto, si definisce laico: l’assenza di personalità giuridica;le restrizioni al diritto di proprietà; le ingerenze nella gestione delle fondazioni; l’impossibilità di formare il clero; la sorveglianza poliziesca esercitata sui cristiani. La legislazione turca complica la vita alla Chiesa cattolica. Non è ancora stato trovato uno statuto che le permetta una esistenza legale e che quindi possa avere voce nella società. E per quanto riguarda la libertà religiosa, se è vero che una circolare turca del dicembre 2003 autorizza il cambio di identità religiosa, ossia il passaggio da una confessione a un’altra, sulla base di una semplice dichiarazione, la realtà dei fatti dimostra che la pressione sociale e mediatica ha ben altro potere.
Basti pensare ad Ankara. La capitale del Paese, dovrebbe essere la roccaforte della laicità della nazione, eppure le 250 famiglie cristiane presenti, sparpagliate tra i sei milioni di abitanti, si sentono costrette a dare un nome non cristiano ai propri figli, perché non vengano poi denigrati a scuola e non trovino in seguito discriminazioni sul posto di lavoro. Nascondono la propria fede persino nelle case, non esibendo alle pareti immagini e segni sacri che possano turbare la convivenza pacifica con i vicini di casa. Soffrono tutte le volte che si recano al cimitero nel vedere le tombe dei loro cari ripetutamente profanate, le croci divelte, le lapidi sfregiate. Si sentono squadrati da capo a piedi dalla polizia in borghese presente sul portone d’ingresso, quando vogliono anche solo andare ad accendere una candela in chiesa. Comunità cristiane ridotte al silenzio, dunque, come scriveva già allora, con estrema lucidità Roncalli: “Una modesta minoranza che vive alla superficie di un vasto mondo con cui abbiamo solo contatti di carattere esteriore”. Una Chiesa che arranca, che fatica, una chiesa impaurita.
Crescere nell’unità
Per chi si professa cristiano la vita in Turchia non è facile, ed è proprio a questi fedeli che, in occasione del bimillenario di san Paolo, la Cet (Conferenza Episcopale Turca) ha pubblicato una lettera pastorale con la finalità di risvegliare nei cristiani di Turchia la coscienza della propria identità e per ridare coraggio e franchezza. Mons. Luigi Padovese, vescovo dell’Anatolia e presidente della Cet, esprime le sue speranze: “Mi aspetto che i fedeli che vivono in Turchia, attraverso la lettura degli scritti e della vita di san Paolo, possano rafforzare e quindi amare di più la loro identità cristiana. Dalle lettere paoline emerge la grande fatica affrontata dal santo per portare il messaggio di Cristo nelle zone più impervie della Turchia. Se si pensa ai pericoli, all’enorme forza spirituale che ha animato l’apostolato di Paolo nel suo peregrinare da una regione all’altra, non si può non rimanere colpiti, subendo un vero e proprio cambiamento interiore. Il mio desiderio più grande è vedere nel pellegrino che si reca in Anatolia e nei cristiani qui presenti la presa di coscienza che il cristianesimo non è solo un fattore geografico o ereditario ma anche missione, impegno, difficoltà. Prendendo coscienza di ciò, matura un cristiano più forte”.
Ma come non sentirsi isolati, persi, sopraffatti, in un mondo che ti considera ingiustamente un corpo estraneo, fastidioso, ingombrante, minaccioso?
Fortunato è chi può appoggiarsi ad una comunità, fortunato chi trova una chiesa aperta a cui far riferimento e in cui vivere quel senso di appartenenza che lo aiuta ad andare avanti. Ecco perché lo sforzo dei pastori delle Chiese è quello di insistere sull’unità. Sempre nella lettera pastorale della Cet di quest’anno si dice: « Prima di essere cattolici, ortodossi, siriani, armeni, caldei, protestanti, siamo cristiani. Su questa base si fonda il nostro dovere di essere testimoni. Non lasciamo che le nostre differenze generino diffidenze e vadano a scapito dell’unità di fede; non permettiamo che chi non è cristiano s’allontani da Cristo a motivo delle nostre divisioni ».
Ed è proprio quello che cercano di vivere i cristiani in Turchia. Ad Antiochia, Mersin, Smirne, Trabzon, Istanbul o Ankara, lo sparuto gruppuscolo di fedeli la domenica si ritrova nell’unica chiesa presente in città e insieme, non importa se ortodossi, armeni, cattolici o caldei, pregano, cantano, si stringono attorno all’Eucarestia dove attingere la forza di essere cristiani e poi, al termine della celebrazione eucaristica bevono insieme un tè, scambiano quattro battute, riflettono sulla propria fede e sulla propria esistenza. Sono piccoli semi destinati a crescere.
E ora che si avvicina il Natale, vissuto senza grandi segni esteriori, si organizzano per addobbare la chiesa, costruire il presepe, preparare una recita, vivacizzare la liturgia della notte con un coro, offrire un cenone ai più poveri, dopo il digiuno tenuto durante tutto l’avvento, secondo la tradizione ortodossa. Un dialogo delle opere, una fraternità quotidiana, fatta di gesti semplici, piccoli, forse anche banali, ma che aiutano a credere, a continuare a sperare contro ogni speranza.