Archive pour janvier, 2019

Inno alla carità

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Publié dans:immagini sacre |on 31 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) (03/02/2019)

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IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) (03/02/2019)

Niente barriere tra i figli di Dio
mons. Roberto Brunelli

Tra le letture di oggi spicca il giustamente celebre, fonte perenne di ispirazione per chiunque voglia dirsi cristiano, « Inno alla carità », cioè all’amore (Prima lettera ai Corinti 12,31-13,13): una pagina da imparare a memoria, o da stamparsi sul dorso della mano. Se si cominciasse a parlarne, non si finirebbe più; ma questa rubrica è fatta per presentare il vangelo: ed ecco allora (Luca 4,21-30) il passo odierno. La frase iniziale, “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato », riprende l’ultima della scorsa domenica: continua l’episodio di Gesù nella sinagoga di Nazaret, con l’annuncio-shock che il Messia atteso da secoli era finalmente arrivato, era lui. La reazione dei suoi compaesani, superato il primo stupore, fu di incredulità: come può essere il Messia, l’inviato da Dio a compiere grandi cose, quest’uomo vissuto sempre qui tra noi, senza mai dare segni di essere diverso da noi? Come può riscattare il nostro popolo, questo figlio di Giuseppe, falegname come suo padre? Si è sentito dire che abbia fatto miracoli a Cafarnao: ebbene, se vuole che gli crediamo li faccia anche qui, nel suo paese, davanti a noi!
Nessuno è un eroe, per il suo cameriere: questo celebre detto di Michel de Montaigne coglie bene il fatto che la familiarità, la consuetudine di vita con una persona dà solo l’illusione di conoscerla, facendo dimenticare che ogni persona è un mondo mai completamente esplorato; ognuno in realtà si porta dentro pensieri, sentimenti e risorse insospettabili, che se hanno occasione di manifestarsi lasciano gli altri quanto meno sconcertati. Tanto più se si manifestano fuori dal consueto ambito di vita, dove spesso sono bloccati proprio dai pregiudizi altrui.
Ai suoi compaesani increduli, in certo modo anticipando Montaigne, Gesù rispose con una frase lapidaria divenuta proverbiale: « Nessuno è profeta in patria », e a dimostrarlo citò due esempi tratti dalla storia d’Israele, non nuova a episodi di incomprensione e rifiuto dei profeti, proprio da parte del popolo cui Dio li aveva inviati. Elia, osteggiato e perseguitato in patria, compì prodigi a favore di una straniera, una povera vedova libanese che invece si era fidata di lui, così come un altro straniero, un generale siriano, aveva dato retta al profeta Eliseo (i due episodi sono narrati rispettivamente nel Primo libro dei Re 17,8-16 e nel Secondo libro dei Re 5,1-14). Ma il monito di Gesù non ebbe effetto: « All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù ».
Quella volta i connazionali di Gesù non riuscirono nel loro intento; ma il racconto dell’evangelista suona come un preannuncio di quanto sarebbe accaduto in seguito: rifiutato proprio dai suoi sino alla condanna a morte, egli trovò larga accoglienza ed elargì i suoi benefici di là dai confini del suo popolo, tra gli stranieri, cioè proprio tra coloro che Israele riteneva esclusi dalle amorose sollecitudini di Dio. Perciò l’episodio di Nazaret è anche un invito a considerare che nessuno, a qualunque popolo appartenga, è escluso dalla divina misericordia; si capisce allora quanto artificiose (e perciò ingiuste, e pericolose in quanto fonte di conflitti) siano le barriere che gli uomini si affannano ad erigere tra loro: i muri, i ghetti, i fili spinati, le reciproche esclusioni basate sulla razza, sulla religione, sul censo, sul grado d’istruzione e così via. E al confronto, quanto brilla la Chiesa voluta da Gesù, dove ai vertici, cioè alla santità, possono giungere lo scapestrato e il giusto, l’analfabeta e il sapiente, il re e il popolano, uomini e donne, giovani e vecchi; la Chiesa, che non conosce confini, e nel suo universalismo indica un sicuro cammino verso un mondo pacificato; la Chiesa, dove nessuno è straniero, perché tutti sono figli di Dio.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 31 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

Christ carries his cross, Popiashvili David

popiashvili-david_christ-carries-his-cross

Publié dans:STUDI DI VARIO TIPO |on 30 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 6. SALMO 115. LE FALSE SPERANZE NEGLI IDOLI

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PAPA FRANCESCO – LA SPERANZA CRISTIANA – 6. SALMO 115. LE FALSE SPERANZE NEGLI IDOLI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 11 gennaio 2017

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nello scorso mese di dicembre e nella prima parte di gennaio abbiamo celebrato il tempo di Avvento e poi quello di Natale: un periodo dell’anno liturgico che risveglia nel popolo di Dio la speranza. Sperare è un bisogno primario dell’uomo: sperare nel futuro, credere nella vita, il cosiddetto “pensare positivo”.
Ma è importante che tale speranza sia riposta in ciò che veramente può aiutare a vivere e a dare senso alla nostra esistenza. È per questo che la Sacra Scrittura ci mette in guardia contro le false speranze che il mondo ci presenta, smascherando la loro inutilità e mostrandone l’insensatezza. E lo fa in vari modi, ma soprattutto denunciando la falsità degli idoli in cui l’uomo è continuamente tentato di riporre la sua fiducia, facendone l’oggetto della sua speranza.
In particolare i profeti e sapienti insistono su questo, toccando un punto nevralgico del cammino di fede del credente. Perché fede è fidarsi di Dio – chi ha fede, si fida di Dio –, ma viene il momento in cui, scontrandosi con le difficoltà della vita, l’uomo sperimenta la fragilità di quella fiducia e sente il bisogno di certezze diverse, di sicurezze tangibili, concrete. Io mi affido a Dio, ma la situazione è un po’ brutta e io ho bisogno di una certezza un po’ più concreta. E lì è il pericolo! E allora siamo tentati di cercare consolazioni anche effimere, che sembrano riempire il vuoto della solitudine e lenire la fatica del credere. E pensiamo di poterle trovare nella sicurezza che può dare il denaro, nelle alleanze con i potenti, nella mondanità, nelle false ideologie. A volte le cerchiamo in un dio che possa piegarsi alle nostre richieste e magicamente intervenire per cambiare la realtà e renderla come noi la vogliamo; un idolo, appunto, che in quanto tale non può fare nulla, impotente e menzognero. Ma a noi piacciono gli idoli, ci piacciono tanto! Una volta, a Buenos Aires, dovevo andare da una chiesa ad un’altra, mille metri, più o meno. E l’ho fatto, camminando. E c’è un parco in mezzo, e nel parco c’erano piccoli tavolini, ma tanti, tanti, dove erano seduti i veggenti. Era pieno di gente, che faceva anche la coda. Tu, gli davi la mano e lui incominciava, ma, il discorso era sempre lo stesso: c’è una donna nella tua vita, c’è un’ombra che viene, ma tutto andrà bene … E poi, pagavi. E questo ti dà sicurezza? E’ la sicurezza di una – permettetemi la parola – di una stupidaggine. Andare dal veggente o dalla veggente che leggono le carte: questo è un idolo! Questo è l’idolo, e quando noi vi siamo tanto attaccati: compriamo false speranze. Mentre di quella che è la speranza della gratuità, che ci ha portato Gesù Cristo, gratuitamente dando la vita per noi, di quella a volte non ci fidiamo tanto.
Un Salmo pieno di sapienza ci dipinge in modo molto suggestivo la falsità di questi idoli che il mondo offre alla nostra speranza e a cui gli uomini di ogni tempo sono tentati di affidarsi. È il salmo 115, che così recita:

«I loro idoli sono argento e oro,
opera delle mani dell’uomo.
Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono,
hanno narici e non odorano.
Le loro mani non palpano,
i loro piedi non camminano;
dalla loro gola non escono suoni!
Diventi come loro chi li fabbrica
e chiunque in essi confida!» (vv. 4-8).

Il salmista ci presenta, in modo anche un po’ ironico, la realtà assolutamente effimera di questi idoli. E dobbiamo capire che non si tratta solo di raffigurazioni fatte di metallo o di altro materiale, ma anche di quelle costruite con la nostra mente, quando ci fidiamo di realtà limitate che trasformiamo in assolute, o quando riduciamo Dio ai nostri schemi e alle nostre idee di divinità; un dio che ci assomiglia, comprensibile, prevedibile, proprio come gli idoli di cui parla il Salmo. L’uomo, immagine di Dio, si fabbrica un dio a sua propria immagine, ed è anche un’immagine mal riuscita: non sente, non agisce, e soprattutto non può parlare. Ma, noi siamo più contenti di andare dagli idoli che andare dal Signore. Siamo tante volte più contenti dell’effimera speranza che ti dà questo falso idolo, che la grande speranza sicura che ci dà il Signore.
Alla speranza in un Signore della vita che con la sua Parola ha creato il mondo e conduce le nostre esistenze, si contrappone la fiducia in simulacri muti. Le ideologie con la loro pretesa di assoluto, le ricchezze – e questo è un grande idolo – , il potere e il successo, la vanità, con la loro illusione di eternità e di onnipotenza, valori come la bellezza fisica e la salute, quando diventano idoli a cui sacrificare ogni cosa, sono tutte realtà che confondono la mente e il cuore, e invece di favorire la vita conducono alla morte. E’ brutto sentire e fa dolore all’anima quello che una volta, anni fa, ho sentito, nella diocesi di Buenos Aires : una donna brava, molto bella, si vantava della bellezza, commentava, come se fosse naturale: “Eh sì, ho dovuto abortire perché la mia figura è molto importante”. Questi sono gli idoli, e ti portano sulla strada sbagliata e non ti danno felicità.
Il messaggio del Salmo è molto chiaro: se si ripone la speranza negli idoli, si diventa come loro: immagini vuote con mani che non toccano, piedi che non camminano, bocche che non possono parlare. Non si ha più nulla da dire, si diventa incapaci di aiutare, cambiare le cose, incapaci di sorridere, di donarsi, incapaci di amare. E anche noi, uomini di Chiesa, corriamo questo rischio quando ci “mondanizziamo”. Bisogna rimanere nel mondo ma difendersi dalle illusioni del mondo, che sono questi idoli che ho menzionato.
Come prosegue il Salmo, bisogna confidare e sperare in Dio, e Dio donerà benedizione.

Così dice il Salmo:
«Israele, confida nel Signore […]
Casa di Aronne, confida nel Signore […]
Voi che temete il Signore, confidate nel Signore […]
Il Signore si ricorda di noi, ci benedice» (vv. 9.10.11.12).

Sempre il Signore si ricorda. Anche nei momenti brutti lui si ricorda di noi. E questa è la nostra speranza. E la speranza non delude. Mai. Mai. Gli idoli deludono sempre: sono fantasie, non sono realtà.
Ecco la stupenda realtà della speranza: confidando nel Signore si diventa come Lui, la sua benedizione ci trasforma in suoi figli, che condividono la sua vita. La speranza in Dio ci fa entrare, per così dire, nel raggio d’azione del suo ricordo, della sua memoria che ci benedice e ci salva. E allora può sgorgare l’alleluia, la lode al Dio vivo e vero, che per noi è nato da Maria, è morto sulla croce ed è risorto nella gloria. E in questo Dio noi abbiamo speranza, e questo Dio – che non è un idolo – non delude mai.

 

Publié dans:PAPA FRANCESCO UDIENZE |on 30 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

Volto di Cristo – Basilica SS Annunziata, Ispica

paolo volto di cristo, bASILICA SS annunziata ispica

Publié dans:immagini sacre |on 29 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

BIBBIA E SOFFERENZA: QUANDO UNA CATTIVA TRADUZIONE ALIMENTA UNA SPIRITUALITÀ DEVIATA

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BIBBIA E SOFFERENZA: QUANDO UNA CATTIVA TRADUZIONE ALIMENTA UNA SPIRITUALITÀ DEVIATA

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura
In questo brano difficile, ma di fondamentale importanza dal punto di vista critico e filologico, Luciano Manicardi illustra alcuni esempi di come una traduzione scorretta o un’indebita estrapolazione possano stravolgere il significato di determinati passi biblici, alimentando idee e affermazioni aberranti sul significato del dolore, della malattia e della sofferenza agli occhi di Dio. In questo modo è possibile che certe frasi bibliche divengano «luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta», e acquisiscano così «quell’autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica».
E’ il caso, per esempio, della celebre frase di Paolo contenuta nella seconda lettera agli abitanti di Corinto: «Quando sono malato, allora sono forte». Questa affermazione non significa che, in sé, la malattia sia sorgente o espressione di forza, e che vada dunque vista come un fatto positivo della vita (come sostiene per esempio uno sconcertante testo medievale), ma che – assunte nella fede in Cristo – la malattia, la sofferenza, e persino una preghiera di guarigione inesaudita, non hanno l’ultima parola sulla speranza dell’uomo.
Esempio ancora più significativo dei pericoli di una traduzione affrettata è un passo della lettera di Paolo ai Colossesi, per molto tempo tradotta così: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa». Questa traduzione, avverte Manicardi, è aberrante ed eretica, perché «sembra implicare l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo». Il sacrificio di Gesù è invece pieno e sufficiente per la nostra salvezza (e comunque ricordiamo sempre non è la sua sofferenza che ci salva, ma il suo amore per noi nonostante la sofferenza); e la frase, secondo il testo greco, va invece tradotta così: «Io trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa». In altre parole: non è alla passione di Cristo che manca qualcosa; semmai è alla partecipazione dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca – e mancherà sempre – qualcosa.
Nella seconda parte dell’articolo, Manicardi sottolinea poi che, a rigor di termini, in questo passo di Paolo non è neppure di sofferenze fisiche, emotive e morali che si parla, ma delle “tribolazioni di Cristo”: ove tribolazione è termine tecnico per indicare la fatica dell’azione apostolica e missionaria, e l’espressione “di Cristo” non è complemento di specificazione, ma significa “per causa” e “in nome” di Cristo. Ciò che manca alle tribolazioni di Cristo, dunque, non ha nulla a che vedere con il sacrificio della croce, ma è correlato all’attività evangelizzatrice.
La riflessione di Manicardi ci invita a non fermarci mai al sentito dire, e ad esercitare un controllo attento ed esigente anche sulla qualità tecnica e letteraria dei testi che ci vengono proposti. La traduzione non è mai “neutrale” rispetto all’originale, ma almeno non deve produrre una percezione distorta del messaggio originario. Per chi si applica poi allo studio di un testo complesso come la Bibbia, l’ideale è confrontare sempre versioni differenti e per i punti dubbi, se si dispone della preparazione necessaria, risalire al testo originale: impegno arduo per l’Antico Testamento (trasmesso in ebraico e aramaico, con la sola eccezione dei libri deuterocanonici), ma non proibitivo per il Nuovo, scritto in un greco molto semplificato rispetto al modello classico, fatti salvi alcuni tecnicismi specifici. Per chi abbia avuto l’opportunità, in gioventù, di studiare queste lingue meravigliose, si tratta di rinfrescare le conoscenze della grammatica e della sintassi. Per gli altri, ricordiamo come diversi monasteri organizzino, d’estate, brevi corsi di ebraico e greco biblici. Quelli del Monastero di Bose, per esempio, sono articolati in tre livelli di difficoltà, e durano ciascuno una settimana: il loro obiettivo, naturalmente, non è quello di formare esperti traduttori, ma di fornire gli strumenti essenziali per muoversi con un minimo di autonomia all’interno di testi antichissimi che, al di là delle credenze di ciascuno, hanno fornito un contributo fondamentale all’elaborazione della nostra cultura.
______________________________-
E’ difficile portare uno sguardo spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mostra affermazioni e giudizi che rappresentano esempi di deviazioni in senso doloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito dell’evangelo, che non sono conformi a una visione autenticamente umana della malattia e della sofferenza, e che anche dal punto di vista teologico sono discutibili o addirittura aberranti. Eppure spesso simili affermazioni, che ispiravano atteggiamenti esistenziali e nutrivano ed esprimevano al tempo stesso una “spiritualità”, erano tratte da testi biblici. Certamente questi testi erano letti in modo maldestro, estrapolati dal loro contesto, assolutizzati, non bene interpretati, ma nulla toglie che fosse ad essi che ci si riferiva, trasferendo indebitamente l’autorità della parola di Dio, contenuta nella Scrittura, dal testo biblico alle affermazioni teologiche o spirituali che da esso si facevano derivare.
E questa storia non è solo di ieri, ma continua anche oggi: certe frasi bibliche o che echeggiano testi biblici divengono luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta, ed acquisiscono così, a basso prezzo, quell’autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica, a seguito di attenta riflessione e di confronto con la realtà.
Per esempio, il paradosso espresso da Paolo in 2Cor 12,10 con le parole: «Quando sono debole (o “malato”), allora sono forte» – estrapolato dal contesto in cui manifesta la maniera con cui Paolo integra nella propria fede pasquale, e nella propria personale sequela del Crocifisso, la preghiera insistente e non esaudita di essere liberato dalla misteriosa “spina nella carne” che lo affligge – è stato utilizzato per fondare affermazioni aberranti sulla malattia e sulla sofferenza.
Questo testo tardomedievale ne è eloquente espressione: «Se l’uomo sapesse come la malattia gli sarebbe oltremodo utile, non vorrebbe mai vivere senza malattia. Perché? Perché l’infermità del corpo è la salute dell’anima… Come? Grazie alla malattia del corpo, la sensualità viene spenta, la vanità distrutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l’orgoglio svuotato, l’invidia allontanata, la lussuria bandita… Facendo odiare il mondo essa dispone all’amore di Dio».
Altre volte è una cattiva traduzione del testo biblico che può ingenerare affermazioni teologicamente e spiritualmente erronee. È il caso di Col 1,24, spesso tradotto: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa».
Questa traduzione [1] sembra implicare l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo. In realtà, se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l’ordine sintattico della frase, la traduzione del versetto deve suonare così: «Io trovo la mia gioia nelle (mie) sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa».
Non la passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è ad essa che manchi qualcosa; non è neppure che questo qualcosa possa esservi portato da Paolo o dai credenti: ma è alla partecipazione dell’Apostolo e dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è “nella mia carne”, cioè alla povera persona umana dell’Apostolo che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribolazioni di Cristo: «Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama “tribolazioni di Cristo nella mia carne”, e che riproduce quello di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire per l’annuncio del Vangelo e a causa sua e per la Chiesa» [2].
Erveo di Bourg-Dieu (1075/1080 – 1149/1150), commentando la lettera ai Colossesi, si chiede “dove” manchi ciò che manca alle sofferenze di Cristo e risponde: «Nella mia carne. Infatti nella carne di Cristo, generata dalla Vergine, non manca alcuna sofferenza, ma tutte le sofferenze trovano la loro pienezza in essa (cioè, nella carne di Cristo). Tuttavia rimane ancora una parte delle sue sofferenze nella mia carne, che io ogni giorno sopporto a favore del suo corpo universale che è la chiesa» (PL 181,1325).
La tradizione cristiana fin dall’antichità ha spiegato che il valore salvifico della passione di Cristo è pieno e ad esso non vi è nulla da aggiungere. Tommaso d’Aquino, nel suo commento alla lettera ai Colossesi, metteva in guardia dal rischio di interpretare in modo inadeguato le parole dell’Apostolo: «Queste parole, intese in modo superficiale, possono essere comprese male, cioè nel senso che la passione (“passio”) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (“passiones”) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa affermazione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la redenzione, anche di molti mondi: “Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,2)».
Del resto, proprio la lettera ai Colossesi sottolinea la pienezza e completezza della persona e dell’agire di Cristo in ordine alla redenzione sicché nulla può essere aggiunto: «Piacque a Dio di fare abitare in lui (il Figlio) tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose, avendo rappacificato con il sangue della sua croce, per mezzo di lui, le cose della terra e quelle del cielo» (Col 1,19-20). Insomma: «Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, a cui non manca nulla, perché lo si possa dimenticare; Colossesi non dice nemmeno che Cristo non ha compiuto tutto ciò che doveva compiere o che non ha sofferto abbastanza perché l’Apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la Chiesa: allora, infatti, la mediazione di Cristo non sarebbe perfetta, e la lettera non cessa di dire il contrario» [3].
Per ben comprendere il passo bisogna inoltre notare che l’espressione tradotta con “patimenti di Cristo”, andrebbe più correttamente resa con “tribolazioni di Cristo”. Il termine greco “thlipsis” non indica mai le sofferenze redentrici di Cristo, ma sempre le tribolazioni, le fatiche, le angustie escatologiche dell’Apostolo o della chiesa: persecuzioni, opposizioni, violenze, privazioni. La passione e la morte redentrice di Cristo è sempre espressa da termini come “sangue”, “morte”, “croce”, “morte in croce”, ma mai tribolazione. Queste tribolazioni caratterizzano i tempi escatologici, quelli cioè inaugurati dall’evento pasquale di Cristo, e segnano in particolare l’attività apostolica ed evangelizzatrice che viene svolta nella fede in Cristo e sotto la guida del suo Spirito.
Questa attività è il compito che Paolo ha ricevuto da Dio, compito che lo rende “diákonos”, servo della chiesa, e che consiste nel portare a compimento l’annuncio e la predicazione della parola di Dio (Col 1,25). Compiendo questo servizio, Paolo conosce sofferenze (“pathémata”: «Trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi») e incontra tribolazioni (“thlípseis”: «completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne») che egli vive nella dedizione ai cristiani delle sue comunità, spendendo la vita per loro e per l’edificazione della chiesa. L’espressione “tribolazioni di Cristo” designa dunque le tribolazioni che l’Apostolo patisce a motivo di Cristo e vive in lui, nella fede cioè nel Figlio di Dio «che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20) e, al tempo stesso, indica le tribolazioni di cui, nella persona dell’Apostolo, è soggetto ancora Cristo: infatti il disegno salvifico che ancora deve compiersi nella storia (disegno che per destinatarie tutte le genti), ha in Cristo morto e risorto il protagonista centrale.
Ciò che “manca”, dunque, alle “tribolazioni” di Cristo, ha a che fare con l’attività missionaria, evangelizzatrice, con il compito di servo del vangelo e della chiesa che Paolo ha ricevuto da Dio: «Tale missione egli deve esercitare negli ultimi tempi, contrassegnati appunto dai travagli escatologici che preparano il compimento finale, e che, accolti, indubbiamente riempiono, secondo il piano di Dio, il tempo della Chiesa, e completano, nel senso che consentono a Cristo di estendere la sua salvezza ad ogni carne e fino ai confini del mondo» [4].
In questo modo il testo viene riconsegnato al suo contesto biblico e può essere compreso all’interno di corrette coordinate di teologia biblica.

Note
1) Mutata (e decisamente migliorata) nella più recente traduzione ufficiale della Bibbia italiana in: «Io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa».
2) Saint-Paul, Épitre aux Colossiens, a cura di J.-N. Aletti, Gabalda, Paris 1993, p. 155.
3) Saint Paul, Épitre aux Colossiens, op. cit., p. 135.
4) P. Jovino, Chiesa e tribolazione. Il tema della ??i??? nelle lettere di san Paolo, Edi Oftes, Palermo 1985, p. 154.

Luca 4, 17-19

Luca 4,17-19.

Publié dans:immagini sacre |on 24 janvier, 2019 |Pas de commentaires »
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